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Centro Toscano Edizioni ISSN 1973-3658

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771973 365809

20164

Anno XVIII n. 4/2016 Trimestrale € 10,00


Rag. Alessandro Susini Agente procuratore Promotore finanziario

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EDITORIALE

Arriva il Natale

È

nuovamente l’inverno. Risiamo al freddo e al gelo notturno e mattutino. La neve non si è fatta vedere, ma forse almeno una spruzzata arriverà anche da noi, come negli ultimi anni succede sempre più spesso. In questi giorni me ne sto al calduccio del mio ufficio a preparare il numero di Reality conclusivo dell’anno e a scrivere l’editoriale che leggerete nelle prossime festività, che penso di scegliere come argomento. Però le dita che battono le parole sulla tastiera del computer un poco mi pesano. Una voce da dentro insinua che forse, visti i tempi e le gravi questioni aperte anche in Italia, dovrei imboccare altre vie, trattare altre faccende, entrare in uno dei tanti problemi che ci assediano. Ma ripenso al Natale e alla fine trovo che sia giusto, anche se non è facile rimuovere la pesantezza della cronaca, avere un pensiero dolce di festa, di pace, di felicità, di allegria, accreditando l’immagine di un tutto che si trasforma sotto le luci del Natale: gli addobbi nelle nostre abitazioni, gli alberi di Natale, i presepi con le capannucce della natività, le lampadine bianche o colorate che fanno risplendere le case e i giardini creando dappertutto effetti luminosi anche in versione led; la bellezza dei paesi, delle città, dei borghi tutti illuminati, delle piazzette invase da banchetti di artigianato vario, di prodotti locali caratteristici, ma anche prelibatezze provenienti da tutta l’Italia, il tutto naturalmente corredato da un fiume di persone che girano per questi luoghi semplicemente curiosando, o per fare acquisti. Ed ecco l’eterno interrogativo: “cosa regalo a tizio, cosa a caio?” È meglio un regalo personale o per la casa, un oggetto di moda o alimentare, una cosa futile o utile? Se ci pensate bene, anche il piccolo mondo e il modo del fare regali non sono più quelli di una volta: il consumismo ha cambiato anche queste tradizioni. A me piace il ritorno alle tradizioni, al tempo nel quale le famiglie si ritrovavano, si riunivano, si scambiavano il dono degli affetti ancor prima che degli oggetti, magari anche in mezzo a molti problemi, però con un sincero sentimento di unione e d’amore. C’erano meno regali e non sempre d’un certo valore materiale. Allora, come del resto oggi, molte famiglie certi desideri, certe attese non potevano esaudirle, ma appunto compensavano i sentimenti che rendevano pregevoli anche i regali modesti, e in definitiva rivelavano un altro modo di intendere la vita e il significato del dono. Ecco, per queste feste facciamo per noi e per i nostri cari qualcosa di diverso: non pensiamo ai soliti regali, rinnoviamoci! Per quanto mi riguarda, mi sono già organizzata. Ora tocca a voi. Buone feste a tutti.

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Centro Toscano Edizioni srl Sede legale Largo Pietro Lotti, 9/L 56029 Santa Croce sull’Arno (PI) Redazione via P. Nenni, 32 50054 Fucecchio (FI) Cell. 338 4235017 info@ctedizioni.it - www.ctedizioni.it Direttore responsabile Margherita Casazza direzione@ctedizioni.it Direttore artistico Nicola Micieli Redazione redazione@ctedizioni.it Abbonamenti abbonamenti@ctedizioni.it Text Paola Baggiani, Giorgio Banchi, Elena Battaglia, Patrizia Bonistalli, Margherita Casazza, Carla Cavicchini, Andrea Cianferoni, Costanza Cino, Carlo Ciappina, Costanza Contu, Massimo De Francesco, Carmelo De Luca, Vania Di Stefano, Angelo Errera, Luca Fabiani, Federica Farini, Eleonora Garufi, Luciano Gianfranceschi, Roberto Giovanelli, Saverio Lastrucci, Lucard, Matthew Licht, Roberto Mascagni, Paola Ircani Menichini, Nicola Micieli, Marco Moretti, Ada Neri, Piergiorgio Pesci, Silvia Pierini, Fernando Pratichizzo, Giampaolo Russo, Domenico Savini, Alberto Severi, Leonardo Taddei.

Photo Archivio CTE Stampa Bandecchi & Vivaldi s.r.l. - Pontedera (PI) ISSN 1973-3658

In copertina: Cinzia Ghelardini, L’uccello bianco, 2016 collage cm 46x40

Reality numero 82 - dicembre 2016 Reg. Trl. Pisa n. 21 del 25.10.1998 Responsabile: Margherita Casazza dal 19.11.2007

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SOMMARIO

ARTE MOSTRE letteratura territorio storia 10 20 22 24 26 28

In viaggio con Ghelardini Soffici agli Uffizi Mani di genio Il borgo che vorrei Il sonno e il sogno del vino Tra organico e razionale

31 32 35 38 40 42

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An american woman in Florence Pistoia Buon Natale dai monti Borghi toscani Passo passo Il rètto ovvero l’ordìto

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L’arte della pazzia Un pittore lucchese a Roma L’arte in Italia I gioielli dei Medici La cavalcata della rosa d’oro Nell’orto degli scienziati

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SOMMARIO

SpETTAcOLO EVENTI EcONOMIA SOcIETà cOSTuME 56 58 60 62 64 66

60° London Film Festival Una lacrima sul viso Erik & Rudolf A lovely place Cartier meraviglioso mondo Le ultime parole famose

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79 80 82 84 85 86

Amici per la pelle C’è concia e concia Legumi Un regalo per la terra Mal di meningi Come sarà il 2017

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La pubblicità Moda italiana 1954 Fucecchio cambia nome Giornalismo 2.0 Sostenere l’integrazione La renna regina dei ghiacci

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artista

in

viaggio Ghelardini con

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Nicola Micieli

Nei miei lavori utilizzo legno, carta velina, acquerello: materie semplici e “vive” che si possono toccare, che si usurano, sbiadiscono, si crepano, invecchiano. Materie che diventano strumenti per far emergere le emozioni ed i mondi nascosti dentro di noi. Il fascino della tecnologia, la meraviglia di ciò che l’uomo può fare, immaginare e creare è enorme, ma tanto più grande per me è il legame con la natura: le sfumature delicate o violente dell’alba e del tramonto, l’odore del vento di scirocco, il mare. Viviamo in un’epoca caratterizzata dalla perdita della dimensione umana, siamo circondati da tragedie infinite eppure tutto questo sembra non incidere più di tanto nel corso del nostro vivere quotidiano. La mia ricerca vuole essere espressione del legame profondo ed indissolubile dell’uomo con l’ambiente, perché la consapevolezza di essere un tutt’uno con la natura può renderci esseri umani migliori.

ono di materia sottile gli ideali “paesaggi” e parziali o sezioni cartografiche di paesaggi raccolte in queste pagine che si sfogliano, per così dire, sull’ala della leggerezza. Che non è solo una metafora. Nel caso delle ricognizioni che Cinzia Ghelardini sembra compiere su un territorio di confine tra la terra e il cielo, quando si parla di paesaggi occorre intendere che si tratti di luoghi d’un atlante visionario, d’una geografia terracquea indefinitamente estesa nella dimensione dell’immaginario. Luoghi evocati, dunque, più che visti o intravisti, o anche solo intuiti dietro lo schermo d’un qualche prospetto o scorcio godibile della dispiegata natura. Non è da escludere, beninteso, che lo spunto primo di questa o quella visione risalga a inserti di natura di particolare suggestione da Ghelardini realmente incrociati. Quali non mancano lungocosta e nell’entroterra della

Cinzia Ghelardini 10


Nell’Atmosfera di Cinzia Ghelardini Il suo lavoro consiste nell’applicazione, su di una superficie definita, di una serie di “strati d’atmosfera” dai colori molto delicati. La prima atmosfera copre tutta la superficie, le altre a colori leggermente diversi ma sempre mantenendo una certa semitrasparenza, si sovrappongono all’atmosfera di fondo, senza coprire tutto il fondo ma solo una parte, con forme diverse, con effetti di sovrapposizione che addensano e sommano più colori. In queste sovrapposizioni di fogli d’atmosfera, si creano altre forme per addensamento, alcune forme sono in parte definite, altre nascono da sole. L’atmosfera è ulteriormente evidenziata, oltre al colore, da centomila piccolissime pieghe che fanno vibrare tutta la composizione. Forse questo lavoro potrebbe essere considerato come una serie di “progetti di paesaggi” dettati dall’intuizione, favoriti dal caso, definiti da una tecnica tutta da inventare. L’abilità dell’artista consiste nel sapersi fermare al momento giusto. Una antica regola cinese dice: “quando l’immagine è presente non occorre che il pennello la finisca”. L’atmosfera in fogli si compra dal cartolaio e si chiama carta velina. Il colore lo si aggiunge a sensibilità. La sensibilità non si trova dal cartolaio. La colla sì. Non è la colla che fa il collage, come disse Max Ernst in un giorno di pioggia. Bruno Munari, gennaio 1991

Strada maestra o via di fuga, 2014 collage su legno - foglia oro/rame cm 40,5x48

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La foresta dei monoliti, 2014 collage su compensato marino - foglia oro/rame tot. cm 240x120

Maremma etrusca e mediterranea che le sono familiari, perché luoghi della sua vita. Ritengo però che l’impressione d’après nature eventualmente divenuta motivo ispiratore, si sia verificata e sia stata ritenuta nella memoria, che vuol dire filtrata e decantata e smaterializzata, soprattutto per aver suscitato nel suo animo un’emozione non labile. Solo in quanto veicolo emozionale, dunque, Ghelardini poteva recuperarne dalla teca

della memoria non già l’immagine da assumere a modello visivo, bensì una vaga impronta capace di suscitare un analogo pittorico. Che sarà formalmente autonomo, e in quanto trasposizione evocativa d’un paesaggio interiorizzato, avrà carattere visionario. Dicevo che queste pagine si sfogliano sull’ala della leggerezza. Fuor di metafora, in effetti una poetica idea di leggerezza governa nella pratica il laboratorio pittorico di Ghelardini, pervade negli esiti estetici e poetici

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le aeree visioni qui raccolte all’insegna delle Atmosfere. Alle quali l’artista perviene mediante un linguaggio pittorico tanto semplice quanto raffinato, che esclude ogni tecnicismo di scuola sia figurativa che astratta, per non dire accademica. Un linguaggio intrinsecamente leggero, nel senso che richiede interventi assai calibrati e una sensibilità avvertita a cogliere il punto d’equilibrio, il limen sul quale fermarsi tra l’intenzionale e il casuale, tra le finissime tessiture della materia, le macule e nouances del colore, le


forme cercate nella partitura aperta che va componendosi sovrapponendo i materiali pittoricamente trattati, e quelle trovate per rivelazione del caso, appunto, il cui riconoscimento richiede certo una sensibilità educata dello sguardo. Ricordo che quello delle atmosfere è un termine chiave nel vocabolario minimo necessario, e sufficiente, istituito da Bruno Munari con una nota critica del 1991, per intendere e restituire la credibile temperatura squisitamente sensoriale ed emo-

zionale, quindi poetica delle visioni di Ghelardini, anziché l’improbabile fenomenologia climatica da laboratorio impressionista. La giovane artista toscana aveva avuto il privilegio di esporre con Munari nel 1989, in una scelta mostra di gruppo alla galleria L’Atrio di Como, dove comparivano inoltre opere di Silvana Levi Orban, Mario Radice, Angelo Tenchio e Mario Zerbone. Munari era allora nella sua piena maturità, maestro ineguagliabile nell’uso creativo dei materiali più

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comuni ed esili con i quali costruiva opere-oggetto mirate alla massima stimolazione sensoriale e che diremmo aperte, nel senso di agibili e ricombinabili dall’esterno. Da qui, peraltro, la possibile fruizione anche ludica delle opere, la cui ideazione e ingegnosa esecuzione, del resto, non aveva mancato di divertire. Tra le altre, soprattutto le “macchine inutili”, agili congegni cui bastava un alito di vento, un tocco di mano per mettersi in moto. La nota critica nella quale enunciava i dati tecnici, lingui-


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Semplicemente... mare, 2014 collage su legno cm 50x50 Il canto della sorgente, 2013 collage su legno - carta velina acquerello foglia argento cm 60,5x53 Pagina a fronte Le Porte della Trascendenza. Seguendo acque limpide che scorrono tra calde rocce, 2013 collage su forex cm 49,5x62,5

stici e poetici essenziali della pittura sui generis di Cinzia Ghelardini, mi pare un implicito attestato di simpatia per il suo mondo levitante, nel cui processo formatore Munari doveva riconoscere, giocati su altri registri formali ed espressivi, non pochi elementi costitutivi del suo stesso laboratorio creativo. E lo ricordo, con le poche altre osservazioni sulla specificità del linguaggio di Munari, perché quelle esperienze sono state in effetti la base formativa e l’area di appartenenza della prima e persistente ricerca di Cinzia Ghelardini in ambito più squisitamente pittorico, nella continuità della linea d’astrazione lirica italiana che si può far risalire alle pagine astratte più luminose ed effusive di Afro Basaldella e Giuseppe Santomaso. Per la sua esemplarità, la nota breve, pertinente e compiuta di Munari si legge come una vera e propria illuminazione critica. Ha un quarto di secolo, ma rispecchia alla perfezione lo stato attuale della pittura dell’artista toscana. Della quale con chiarezza di concetti e semplicità di linguaggio, individuava allora il processo di formazione dell’immagine e i caratteri stilistici e poetici fondamentali. Ai quali Ghelardini è rimasta sostanzialmente fedele nel proseguo della propria ricerca, avendo peraltro arricchito – per taglio, inquadratura, relazione spaziale figura/sfondo – il proprio repertorio visivo e affinato il linguaggio sino ad attingere, sui grandi e piccoli formati, una concertazione armonica della forma e del colore e una preziosità della tessitura che rammemorano in astratto le partiture murali e le icone bizantine. Sembra proprio, insomma che la nota di Munari sia stata scritta per l’occasione di queste pagine, in apertura delle quali ho voluto collocarla come fosse in esergo e a mo’ di

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falsariga dell’itinerario che sto compiendo attraverso le visioni trasognate in cui consistono le “atmosfere” di Ghelardini. Per tornare all’idea della leggerezza, Munari riconosceva con un buon anticipo la peculiare vocazione di Ghelardini a trascendere la pesantezPasso di danza, 2014 za della materia non già fingendola collage su forex - fondo a cera inserto foglia oro/rame rarefatta, su una griglia spaziale tutcm 23x23 tavia definita come struttura che la contiene e la articola, poniamo sotto Pagina a fronte Le Porte della Trascendenza. specie di paesaggio rupestre, bensì Attraverso il deserto, 2013 svelandone per trasparenza gli strati collage su legno cm 47,5x80 o i depositi che dir si voglia, talché

lo spazio pare compenetrarla, l’aria circolare nelle sue vene sommerse. In verità, quanto mai leggeri sono già i pochi materiali con i quali Ghelardini compone i suoi “paesaggi”. Si fa presto a enumerarli: in primis e più diffusamente, le carte veline, che incollate a strati e trattate, costituiscono per buona parte il corpo fisico dell’opera senza far massa; quindi il metallo laminato a foglia argento, oro, oro ramato, che per la sua qualità astraente, contribuisce a far levitare la forma pittorica, anziché aggiungere peso; infine i colori raramente

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coprenti, scorrevoli per la diluizione dell’acquerello che favorisce gli aloni e le screziature dell’assorbimento delle carte veline, strato dopo strato. E sarà a questo punto chiaro che Ghelardini tratta i propri materiali da collagista i cui interventi sono discrete manipolazioni e giochi dei pennelli, non già lavorio di forbici e altri attrezzi per ritagliarli e assemblarli. Leggera è dunque la materia pittorica nella quale traduce le sue lamine, tanto sottili da involarsi a un alito d’aria, e le sue trasparenti carte impregnate di colore che Munari chiama-


va “strati d’atmosfera”, appunto, e potremmo anche chiamarle velature di materia/colore, le une e le altre minutamente aggrinzite per ottenere quelle delicate vibrazioni che rendono ineffabili modulazioni dell’anima le sue visioni. Nella leggerezza della forma che configura aspetti del paesaggio all’apparenza inclusi o in via di assorbimento nell’illimitato spaziale, o se vogliamo che dalla profondità dello spazio sembrano emergere come fossero terre che si dischiudono al navigatore con il graduale diradarsi delle nebbie, si riconosce infine l’identità poetica dello stile tanto raffinato quanto privo di appariscenza della nostra artista, che mira, come si diceva, a trascendere la gravità della materia e, in un certo senso, lo stesso schermo che il reale fenomenico costituisce alla penetrazione dello sguardo nell’oltre. Non ho introdotto a caso la figura del navigatore in viaggio tra le nebbie; e non a caso sono numerosissimi i dipinti di esplicita ambientazione marina, o che il mare – e in senso più generale la liquidità – lo citano sotto specie di brano impaginato con altri che stanno per la terra o per il cielo. Con questi inserti Ghelardini sembra comporre pure partiture astratte, ma nemmeno poi tanto sottotraccia, assegna loro una funzione simbolica, se chiama Porte della Trascendenza codeste conformazioni che come isole misteriose si profilano all’orizzonte, e invitano agli approdi e agli attraversamenti. Cosa che può avvenire anche laddove la visione paesistica configura luoghi terresti e situazioni della natura naturans sulle quali con assoluta spontaneità si proietta il vissuto umano. Le ansie e i bisogni dell’umano: le manifestazioni vitali, le pulsioni liberatorie, il desiderio della scoperta e l’anelito alla trascendenza appunto. Ghelardini li affida all’incontro della luce e della tenebra sulla scena del mondo, al sorriso d’una falce di luce che si schiude sul nero cielo, il volo d’una farfalla e il passo di danza suggerito da una figura puntuta, il senso della solitudine e la ricerca d’una via di fuga attraverso un solco di luce marcato sulla bruna terra.

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Nata nel 1958 a Livorno, Cinzia Ghelardini è diplomata in Pittura all’Accademia delle Belle Arti di Firenze. Dal 1979 espone in mostre personali e collettive, ricevendo apprezzamenti da pubblico e critica. Nel 1981 fonda lo Studio Cinzia Ghelardini Pittura e Grafica, nel quale esprime la sua creatività in ambito artistico e progettuale, passando dalla pittura alla scenografia, al design e decor artigianale, dalla grafica pubblicitaria all’ideazione e gestione di laboratori artistici di educazione ambientale nelle scuole primarie e laboratori di arteterapia per enti pubblici e strutture private. 1979 Mostra personale a Campiglia Marittima (LI); 1980 Mostra personale alla Galleria Il Filtro - Savona; 1983 Mostra collettiva al Castello di Piombino (LI);

1984 Mostra personale alla Biblioteca di Piombino; 1985 Mostra collettiva alla Galleria Elefante - Livorno; Mostra personale al Centro Donna (LI); 1986 Mostra personale a Populonia Alta (LI) ; 1987 Mostra personale alla Dolce Vita - Firenze; 1988 Mostra personale al Chiesino San Iacopo - Prato; Mostra personale alla Galleria La Meridiana - Verona; 1988 Collettiva al Centro Culturale Asilo Notturno - Livorno; (Gabriella Bizzarri, Massimo Cinelli, Leandro Ciurli, Cinzia Ghelardini); 1989 Mostra collettiva ai Bottini Dell’Olio - Livorno; Mostra personale alla Galleria L’Atrio Como; Mostra collettiva alla Galleria L’Atrio - Como; (Silvana Levi Orban, Angelo Tenchio, Bruno Munari, Cinzia Ghelardini, Mario Zerboni, Mario Radice); 1990 Mostra personale allo Studio Righello - Brescia; Mostra personale alla Galleria Linea 70 - Verona; 1991 Mostra personale pres-

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so Agriturismo Chiara di Prumiano; Barberino Val D’Elsa (FI); 1992 Mostra personale alla Galleria Fumagalli - Bergamo; 1995 Mostra collettiva alla Galleria Noa - Milano; (Pilino Donati, Cinzia Ghelardini); 1999 Mostra collettiva Centro Interculturale Tavolino Rovesciato; Campiglia Marittima (LI); (Monica Borca ceramista, Daniele Menichini architetto, Cinzia Ghelardini); Mostra personale Galleria d’Arte Pazzaglia - Venturina (LI); 2003 Mostra personale alla Galleria Blu Horse - Firenze; 2012 Menzione Speciale al Concorso; Primal Energy - Radici Contemporanee - Orbetello (GR); 2014 Mostra personale Showroom Fidia - Grosseto; 2014 Mostra Collettiva Tenuta Agricola dell’Uccellina; Collecchio - Magliano in Toscana; (Flavio Renzetti scultore, Andrea Cresti regista, Cinzia Ghelardini); 2015 Mostra personale Volta Rossa - Brugherio (MI)

Pagina a fronte Le Porte della Trascendenza. Attraverso il deserto, 2013 collage su legno cm 47,5x80

Emerge lentamente... isola o creatura, 2015 collage su legno cm 140x140


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mostra

Soffici agli Uffizi

Marco Moretti

A. Soffici, Mele e calice di vino, 1919 Paul Cézanne, Campagnes de Bellevue (Paesaggio), 18851887 A. Soffici, Autoritratto, 1949

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rdengo Soffici in mostra agli Uffizi. Un evento che segna l’apice di un’attenzione da tempo in atto attraverso studi ed eventi espositivi, nonché la realizzazione nelle Scuderie della Villa Medicea di Poggio a Caiano di un museo a lui dedicato. Benché nato a Rignano sull’Arno (1879), l’artista aveva vissuto dal 1907, dopo il ritorno da Parigi, nella casa campagnola del Poggio che era stata della zia e poi di sua madre, morendo nel ‘64 nell’abitazione estiva di Vittoria Apuana. Ora, la donazione da parte degli eredi di un Autoritratto alla collezione degli Uffizi, ha ispirato un progetto espositivo che, attraverso l’allora direttore Antonio Natali, si è concretizzato in una grande mostra curata da Vincenzo Farinella e Nadia Marchioni incentrata sui primi due decenni del trascorso secolo, durante i quali, nella doppia veste di artista e di critico, Soffici fu protagonista di spicco nella mediazione culturale fra l’Italia e le avanguardie d’Oltralpe. Determinante per lo sviluppo della sua eterogenea personalità furono

i sette anni vissuti a Parigi: un’esperienza ricca di scoperte, di riflessioni e d’incontri che continuerà dopo il 1907 con vari ritorni fino alla vigilia della prima guerra mondiale, in un moltiplicarsi d’intese col milieu culturale dei Picasso, Braque, Derain, Apollinaire, Rosso e Rousseau, le cui opere vennero fatte conoscere agli italiani attraverso le pagine de “La Voce”, così come egli aveva divulgato per la prima volta in Italia la pittura di Cézanne e la poesia di Rimbaud. La conoscenza dei più noti galleristi parigini, Durand-Ruel e Vollard, fu determinante per arricchire con importanti prestiti la prima mostra in Italia sull’impressionismo, che si aprirà nella primavera del ‘10 al Lyceum fiorentino e comprenderà anche opere di Medardo Rosso, scultore piemontese operante con successo a Parigi ma ignorato in Italia. Nel 1919, smobilitato dal fronte, Soffici raccolse in volume gran parte degli articoli pubblicati tra il 1908 e il 1913, i cui giudizi volle lasciare intatti poiché, come scrisse nella prefazione,«se volessi «aggiornare» il mio pensiero sugli argomenti trattati, dovrei troppo rimaneggiare la materia, lo stile». Semmai, «sarei portato a ridurre di molto la parte polemica, ed in essa la violenza delle invettive; non già perché la mia opinione sia divenuta più favorevole verso le persone prese di mira e le loro opere, ma perché le une e le altre mi sembrano ormai tanto insignificanti e fuori dal campo dell’arte, che ogni risentimento contro di esse mi pare privo di qualunque ragione». Così dunque, la mostra Scoperte e massacri / Ardengo Soffici e le avanguardie a Firenze, si snoda attraverso opere degli autori “scoperti” o

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“massacrati”, presentati nel catalogo Giunti da saggi e schede dei due curatori, e un’antologia di opere sofficiane criticamente redatte dallo scrivente. Tra le “scoperte” figurano Courbet, in mostra con un dipinto, visto da Soffici come “il più tracotante avversario dell’idealismo”, e Cézanne, inteso come “volontà unificatrice della pittura moderna” rappresentato qui da quattro opere, due delle quali provenienti da Budapest e da Washington, già esposte nella mostra impressionista del 1910. Poi Renoir, e ancora il doganiere Rousseau dal quale Soffici acquistò due dipinti e sedici disegni; e ancora l’amabile Fattori, frequentato alla Scuola Libera del Nudo. Ultimo ma non ultimo, Medardo Rosso, al quale la mostra dedica una sala arricchita dal confronto con un’opera di Rodin, suo diretto rivale a Parigi. L’opera innovativa di Rosso forniva a Soffici il destro per denunciare la staticità ottocentesca dei Canonica, Bistolfi


eTrentacoste, da lui massacrati in incipit con una citazione del Forteguerri: “L’uno valea poco, l’altro nulla, e il terzo stava tra’ due”. Massacri che si moltiplicavano nelle recensioni delle Esposizioni di Venezia del 1909 e del 1910, dove un Soffici senza remore colava a picco i protagonisti dell’arte italiana e non solo, ostentando riserve anche su precedenti amori come Segantini (in mostra con due opere) Denis (presente con una grande tela), e lo stesso Puvis de Chavannes i cui modi avevano influenzato la pittura sofficiana, come si evince nel grande pannello de Il bagno,1905, superstite unico degli undici formanti il fregio del salone delle terme di Roncegno andati distrutti nella prima guerra. Mutamenti di rotta dovuti a un caratteriale entusiasmo, per il quale l’acquisizione di nuovi linguaggi tendeva a scalzare precedenti valori, come ad esempio la forza primitiva delle Demoiselles d’Avignon faceva scadere nel decorativo tanta “bella pittura”. L’esempio del primitivismo picassiano portò Soffici a meditare analoghi indirizzi formali. Sintesi che in senso naturalistico aveva espresso nel 1907 in 63 fogli di un album di studi schizzati nel plein air della sua campagna, eseguiti con freschezza di segno e vivezza cromatica tra nabis e fauve, otto dei quali figurano in mostra. Sintesi che affrontate quattro anni dopo con ben altra meditazione verso un retaggio primitivo da ricollegare alla modernità osservato in Picasso, ma che doveva differenziarsi da questi per scelte autoctone, senza imprestiti da altre civiltà, come appunto quella negra che nelle Demoiselles aveva ispirato il collega spagnolo. Soffici avvertiva profondamente il richiamo dei primi-

tivi toscani, e attraverso un sintetismo aggiornato ai moduli picassiani sperimentò figure di donne alla toilette e bagnanti, raggiungendo l’apice di tale stilema nella grande composizione dei Mendicanti. Una fase che terminata nel 1911, precedette le ricerche cubiste e poi l’accettazione – dopo averne osteggiati i principi su “La Voce” – dell’estetica futurista, ottenendo dalla compenetrazione dei due stili scomposizioni che egli chiamò “cubofuturiste”, delle quali presenti in mostra vi sono Linee e volumi di una persona, Piani e volumi di una zuccheriera, Scomposizione di piani di un lume. A sottolineare certe comunioni di linguaggi, v’è il collage di Picasso Pipa, bicchiere bottiglia e Lacerba,1914, proveniente dalla Fondazione Guggenheim di New York, sottinteso omaggio al collega italiano fondatore assieme a Papini della rivista. Tra i punti focali della mostra è l’inedita ricomposizione delle pitture murali eseguite da Soffici nel ‘14, da tempo staccate, che decoravano il salotto di Papini a Bulciano. Si avvicinava intanto la guerra, combattuta dall’artista come ufficiale volontario. Poi, nel ‘19, l’uscita presso Vallecchi di Scoperte e massacri, ove non troveranno posto gli articoli su Picasso e Braque. I tempi erano mutati, e le avanguardie, viste come esperienze necessarie ma ormai da archiviare, avevano ceduto il passo alla riconsiderazione di valori fondamentali meditati nella tragedia del fronte. Riflessioni che tradotte in arte guardavano alla concretezza dei valori plastici, nel cui richiamo, attraverso tre solide nature morte e un paesaggio si conclude la mostra, visitabile – lunedì esclusi – fino all’8 gennaio.

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A. Soffici, Il bagno, 1905 Pablo Picasso, Pipa, bicchiere, bottiglia di Vieux Marc (e “Lacerba”) 1914 A. Soffici, Decorazioni di Bulciano 1914


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MOSTRA

mani di genio Leonardo “scultore” per la prima volta in Italia Federica Farini

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ra la pittura e la scultura non trovo altra differenza, senonché lo scultore conduce le sue opere con maggior fatica di corpo che il pittore, ed il pittore conduce le opere sue con maggior fatica di mente.” (Trattato della Pittura, Leonardo da Vinci). Su queste parole prende vita la mostra Horse and Rider (Cavallo e Cavaliere), testimonianza di un inedito e intimo Leonardo, autore della scultura-modellino in cera d’api di circa 30 centimetri, realizzata fra il 1508 e il 1511 e raffigurante Charles d’Amboise, all’epoca Governatore francese di Milano.

Il pezzo è parte di una collezione privata statunitense, esposto a Milano per la prima volta al pubblico italiano, da fine novembre a fine dicembre 2016, nella cornice del Palazzo delle Stelline - presso la sede dell’Institut Francais - proprio accanto alla Casa degli Atellani (la famosa “Vigna” di Leonardo), nel cui giardino il maestro usava passeggiare tra i filari di viti alla ricerca di ispirazione. Lo storico Franco Cardini è intervenuto in occasione della conferenza stampa per l’approfondimento su Charles d’Amboise, al quale si ispira Horse and Rider, definendo il futuro scopritore dell’opera - Carlo

Testicciola di terra, 1500 (terracotta 18,5x24),collezione privata Foglio di Windsor Collezione della Regina

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Pedretti - “un anziano romantico”, come già indicato dall’amico Vittorio Sgarbi, per la sua attenzione e sensibilità che hanno permesso all’opera di venire tramandata fino ai giorni nostri. Infinita è la storia della scultura, in viaggio da ben cinquecento anni. Dopo la realizzazione di Leonardo di una sontuosa villa a Milano per lo stesso d’Amboise, l’artista decide di riprodurlo a cavallo, in un pezzo d’impatto, naturale, anche grazie alle sue conoscenze anatomiche, umane e naturalistiche, sull’onda entusiastica che lo vede pensare a un monumento a Francesco Sforza, in fusione di bronzo come risultato finale. Il progetto non vede la sua fine, prima a causa della guerra contro gli Aragonesi del Regno di Napoli, successivamente, per la morte del d’Amboise nel 1511, fino alla scomparsa dello stesso Leonardo nel 1519, che porta l’affidamento della messa in opera al diretto protetto di Leonardo, Francesco Melzi. È presso la sua famiglia che Horse and Rider resta, tra mille successioni, quando ai tempi della Seconda Guerra Mondiale la cera viene inviata in Svizzera per salvaguardarla da eventuali saccheggi. Nel 1985 il capolavoro viene attribuito a Leonardo dal suo più grande studioso, il Professor Carlo Pedretti, impegnato all’epoca nello studio di disegni leonardeschi, tanto da notare la somiglianza della testa del cavallo con quella disegnata da Leonardo sul foglio RL 12328v della Royal Library di Windsor, e grazie alle incisioni riportate (una L maiuscola e una V rovesciata, sigla da lui stesso ideata e presente proprio in uno dei Codici di sua appartenenza). Pedretti suggerisce quindi a David Nickerson, direttore della Mallet di Bourdon House di Londra, di acquistare la cera e farne uno stampo


in bronzo, per preservarla dalla distruzione; seppur incompleto e mancante di alcune parti (zampa del cavallo e arti del cavaliere), dopo svariate peripezie esso giunge nel 2015 ai collezionisti americani Jim Petty e Rod Maly, felici e onorati di poter presentare l’opera a Milano, proprio nella terra di Leonardo e nella città dove la scultura fu concepita e dove è giusto che torni: a casa. Lo stesso concetto è stato espresso anche dal Professor Ernesto Solari, intervenuto alla conferenza stampa e autore di un libro dedicato alla seconda opera scultorea del talento vinciano esposta a Milano: la “Testicciola di terra”, già presentata alla vigilia di Expo 2015, raffigurante il giovane Sala, allievo e compagno di Leonardo, nei panni di un giovanissimo Giudeo o volto di Cristo ragazzo (1497-99), come vuole proprio la varietà espressiva del “Puer et Senex”, caratteristica predominante delle opere di Leonardo. Per stabilire se l’opera appartenesse realmente al Maestro, è stata sottoposta all’esame dei cinque requisiti suggeriti dallo studioso Edoardo Villata, rispondendo positivamente. Il disegno, in carbone su carta tipica utilizzata da Leonardo tra fine 1400 e inizi 1500, ricorda proprio l’espressione del dipinto originale del Louvre. E se il Vasari ci ricorda che “non sappiamo se il Vinciano era stato veramente scultore o plasticatore”, proprio la scultura viene riconosciuta come una delle attività principali svolte da Leonardo, il quale “operò nella scultura facendo nella sua giovanezza di terra alcune teste di femine che ridono, che vanno formate per l’arte di gesso, e parimenti teste di putti che parevano usciti di mano d’un maestro”. Per lo stesso Vasari il più bel getto e

di perfezione che modernamente si fosse (mai) visto. Giovanni Nicodamo, proprietario della Testicciola, ha spiegato durante la conferenza stampa della mostra che gli elementi che l’hanno fatta ricondurre a Leonardo sono inequivocabili “la testicciola con gli occhi bassi, come indicato dal

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Vasari, così come Lomazzo, pittore milanese cieco che descrisse la testa matura e giovanile al tempo stesso, un Antinori rinascimentale”: tratti inequivocabili, come l’emozione che essa suscita, quasi calamitante, riconducibile solo alla indelebile impronta di un genio senza spazio né tempo.

Horse and Rider, stampi per il modello in cera e la fusione Horse and Rider, 1508-11 (bronzo 19x25), collezione privata


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il borgo che vorrei

mostrA

Elena Battaglia

Parco archeologico La Rocca di Santa Maria a Monte dove sono esposte le sculture di ceramica e legno di Giuseppe Gavazzi oltre agli scatti fotografici di Paolo Garzella

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rentadue scatti per raccontare “Il borgo che vorrei”, con il suo bagaglio di eccellenze. Trentadue frammenti di storia e tradizione totalmente santamariammontesi, immortalati con attenzione al dettaglio dalla macchina fotografica di Paolo Garzella, per sottrarre al trascorrere del tempo la vera linfa vitale del paese: gli artigiani, i “bottegai”, le attività produttive e gli esercizi commerciali che contraddistinguono i centri storici del territorio. È con questo intento che è nata la mostra fotografica sulle attività produttive, allestita nel Parco archeologico La Rocca di Santa Maria a Monte. Un’esposizione in cui viene ripercorsa, nella spontaneità delle loro occupazioni tipiche, la vita quotidiana dei commercianti, degli imprenditori e degli artigiani del borgo. Quelli che si tramandano il mestiere di genera-

zione in generazione, da decenni, e che ancora oggi, nonostante i cambiamenti economici, continuano ad animare e impreziosire il paese. Una realtà importante da tutelare e valorizzare per il Comune di Santa Maria a Monte, che il 9 ottobre ha inaugurato l’allestimento fotografico in cui si possono ammirare gli scatti del fotografo pisano professionista Paolo Garzella, da sempre molto legato al territorio toscano e alle realtà rurali e artigianali. La tematica della mostra – che si inserisce in una serie di iniziative destinate a riqualificare i centri storici del paese dal nome Smam. Il borgo che vorrei – è quella della vita di Santa Maria a Monte e dei “bottegai” che ogni giorno portano avanti con amore e dedizione il proprio lavoro. Una realtà che, se non tutelata e “ricordata a dovere”, rischia di scomparire sotto i colpi del progresso e

della routine sempre più frenetica. Sono tantissimi i volti diventati storici per il borgo che trovano posto all’interno della mostra fotografica: fornai, gioiellieri, macellai, cuochi, fabbri, baristi, farmacisti. Tutti immortalati nella semplice spontaneità che li contraddistingue, all’interno della propria bottega, mossi dalla stessa grande passione, il proprio lavoro, e dalla voglia di mettersi in gioco continuamente per non far estinguere una parte fondamentale del tessuto produttivo del paese in cui vivono. Le foto, esposte su tela, calano dall’alto ed è come se abbracciassero letteralmente il visitatore il quale, in questo modo, si trova immerso in un percorso visivo all’interno delle realtà produttive santamariammontesi. Ad emergere, dunque, è l’esperienza storica, il passato e il presente del borgo, da proteggere con cura


in modo da far rifiorire i centri storici, custodi di memoria e tradizione ma anche di odori, sapori e colori sempre vivi. La mostra curata dal pubblicitario Italo Altamura, resta aperta al pubblico fino a fine dicembre nei giorni: martedì, dalle ore 15 alle 18, giovedì, dalle ore 9 alle 13, e sabato, dalle ore 9 alle 13. A fare da cornice agli scatti realizzati con grande sensibilità da Paolo Garzella, inoltre, ci sono le sculture in ceramica impreziosite dalle texture pittoriche e in legno di Giuseppe Gavazzi. L’artista pistoiese è noto anche come restauratore di opere dal 1200 al 1400, per l’intaglio di figure in legno e per le opere in terracotta che rimandano alla tradizione contadina dell’Appennino pistoiese. Il “fil rouge” della mostra, infatti, è proprio questo: la storia, la tradizione del territorio, i vecchi mestieri. Una realtà da valorizzare nella forma delle botteghe artigiane che ancora oggi, nonostante il cambiamento degli stili di vita e delle esigenze del mercato, continuano ad essere un punto di riferimento per tante persone.

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ARTE

il sonno e il sogno del vino in barricaia come in una sala di museo Angelo Errera

La barricaia, Azienda La Regola Stefano Tonelli al lavoro nella barricaia

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a realizzazione d’una cantina può essere un’operazione culturale, un’opportunità d’incontro fra il territorio e la cultura. Sull’idea dell’incontro culturale si è basata l’azienda La Regola per il progetto della nuova cantina realizzata con un linguaggio architettonico idoneo a rappresentarne funzionalmente e simbolicamente le diverse attività: la produzione, l’accoglienza, la comunicazione, la promozione e la formazione, tenendo doverosamente conto che il complesso mondo del vino, in questo caso investe un territorio per molti versi storicamente segnato dalla tradizione culturale sia enologica sia artistica. Un territorio indubbiamente suggestivo, quello di Riparbella. Prossimo a sfociare in mare, da sempre il fiume Cecina è stato là ritenuto ideale per la vite. Lo dicono le numerose anfore

vinarie d’epoca etrusca, rinvenute nella zona, meglio conosciuta come necropoli di Belora. Quei reperti archeologici risalenti al VII sec a.C., sono la preziosa testimonianza che lega indissolubilmente la coltivazione della vite a questi paesaggi.

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La nuova cantina eco-sostenibile, alimentata con energia pulita, è solo l’ultimo degli investimenti che l’azienda ha messo in atto per trasmettere quella filosofia tesa a preservare e valorizzare una terra unica e incontaminata dove il rispetto dell’equilibrio


ambientale resta uno degli obiettivi primari. La particolare conformazione della zona, attraversata dal Cecina e protetta ai lati da una fascia collinare boschiva con una diffusa presenza di querce da sughero, crea un microclima temperato, con escursioni termiche notturne tali da ottenere uve di particolare espressione aromatica. Il mix vincente dei vini de la Regola è sfruttare al meglio il clima temperato ed il terroir costituito principalmente da sabbie plioceniche ricche di fossili, con una percentuale di argilla e minerali ferrosi che conferiscono ai vini grande personalità e persistente bouquet. Il 15 ottobre scorso ha segnato un punto di arrivo, ma anche di partenza per la famiglia Nuti. L’arte di Stefano Tonelli ha trasformato l’ampia “barriccaia” che vuole la penombra, in un ambiente museale nel quale il visitatore è invitato a immergersi e a

viaggiare come sospeso nel sonno e nel sogno. Un sogno animato dalle maestose e misteriose danzatrici lunari alle quali Tonelli ha dato vita sullo schermo visionario di quel sacrario ove si compie, nel sonno, il segreto processo di maturazione e mutazione del vino. Riemerge una memoria etrusca – e ancor prima egizia e di sconfinamento nell’estremo oriente – in quelle creature danzanti come inebriate e trasfigurate dall’esalazione del vino assopito nelle botticelle. Creature che fluttuano sui registri filmici delle pareti, e con esse trascorre un corteggio di ircocervi animali e meccanici, comunque astrali al pari dei simboli disseminati nelle due estese scene parietali che convergono a cannocchiale sulla parete di fondo, dove si affaccia, in proiezione cosmica globulare, l’universo formicolante d’un migliaio, forse, di volti che stanno per l’umanità. E vien da

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pensare che la coltivazione della vite, e l’invenzione del vino che doveva diventare il sangue mistico del Redentore, lo si deve alla mitica figura del “viaggiatore” Noè, salvatore dell’umanità e di ogni specie animale nella natura, quando approdò alla terra finalmente asciutta l’arca che aveva navigato nel diluvio. Tonelli ha fatto sì che la “barriccaia” si trasformasse in un luogo da contemplare e da vivere come un viaggio silenzioso, attraverso una dimensione nella quale l’uomo ritrova il senso della propria appartenenza alla totalità del mondo e del cosmo, creatura tra le piccole creature che abitano la terra ma si specchiano nell’infinito. E per aderire al ciclo completo dalla germinazione al sonno fervido del vino, che fa da iniziazione al mistero dell’infinito, Tonelli ha avviato il proprio lavoro a maggio, quando la vite si manifesta nella sua verde bellezza, e lo ha concluso a settembre con la vendemmia, quando il frutto della vite si trasforma in mosto prima, in nettare di-vino dopo il fervore del sonno nella penombra della “barricaia”.

Stefano Tonelli al lavoro nella barricaia La barricaia, Azienda La Regola Esterno dell’Azienda Momento dell’inaugurazione


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Arte

organico Trarazionale e

genesi della scultura di Mario Fruendi Nicola Micieli

Tensione, 1982, marmo Evasione, 2016, marmo Solidi all’interno, 2014, marmo

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on da ieri, si sa, alle pendici delle Alpi Apuane, le cui cave già fornivano marmi a Roma e, nel seguito dei secoli, al divino Michelangelo e alla schiera di scultori le cui opere hanno valicato gli oceani, Carrara è capitale e laboratorio totale della scultura in marmo. Dalla scelta del materiale principe in cava alle diverse fasi della sua traduzione in opera plastica finita, a Carrara e nelle adiacenze versiliesi, si è sedimentata una cultura materiale, si sono formate maestranze specializzate, si è sviluppata una tecnologia del marmo che non hanno eguali nel mondo. Buona parte della scultura in marmo del Novecento, e dei tre lustri d’esordio del nuovo millennio, semplicemente non ci sarebbe stata in assenza dei laboratori di Carrara e dei sapienti maestri esecutori, spes-

so esclusivi, che hanno affiancato gli artisti creatori delle opere. Ora è proprio sull’opacità della figura del maestro esecutore che, innominato, si eclissa a scultura compiuta, ed è perfetto conoscitore della natura del marmo, capace di trovare, in virtù della sua consumata abilità, le soluzioni tecniche più idonee a tradurvi la più varia morfologia scultoria, mi ha fatto riflettere la mostra personale – la prima in assoluto, dopo quasi mezzo secolo di scultura – tenuta da Mario Fruendi la scorsa estate nel laboratorio SGS di Torano, la frazione a monte di Carrara per la quale Dominique Stroobant, nel catalogo della mostra, parla come di una vera e propria “scuola”, per dire che i maestri scalpellini di quel paese, e a un tempo scultori in proprio come nella tradizione delle botteghe, non hanno “mai smesso di sperimentare” soluzioni nuove tecniche e di linguaggio, sia al servizio degli artisti che chiedevano la loro collaborazione operativa, sia per sciogliere i nodi morfologici delle proprie opere. E Fruendi è un esempio della portata creativa, sovente ignorata, che può esprimere uno scultore del quale si conosce solo la capacità esecutiva. Si dirà che la nostra segnalazione della bella personale di Fruendi giunge con un ampio e ormai irrecuperabile ritardo, perché la si possa visitare. Nient’affatto! Le sculture esposte, quelle che chiamerei ibridazione tra organico e meccanico e le altre a struttura lamellare di design scultorio elegante e razionale, sono sempre visibili presso la SGS dove sono state presentate. Le sculture in marmo di Fruendi, difatti, sono nate e sono sempre state là dove un velo

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di polvere bianca riveste ogni cosa, tra le altre opere in gestazione degli artisti internazionali che si affidano a quel prestigioso laboratorio, e quelle di Silvio Santini, lo scultore esecutore e artista autonomo che con lo stesso Mario Fruendi e lo scomparso Paolo Grassi, nell’ormai lontano 1971 creava la SGF (Santini Grassi Fruendi) Scultura a Torano. Fruendi non ha mancato, nel corso del suo lungo impegno creativo, di partecipare con soddisfazione a simposi o meeting di scultura, e di collocare proprie opere presso collezioni pubbliche o private, ma non si è mai, ripeto, proposto al pubblico con una sequenza articolata e compiuta del proprio percorso, e meraviglia il suo riserbo considerando la qualità formale e la profondità concettuale dell’opera sua. Segnatamente quella incen-


trata sul tema delle metamorfosi organiche vegetali e animali, sotto specie di turgidi insinuanti cordoni e viluppi e ipertrofie anatomiche che, portatrici di una forte carica vitale intrinsecamente erotica, germinano dalla materia informe e defluiscono evolvendo nello spazio, per talora ritornare, come chiudendo un ciclo, al luogo della loro origine. A quelle opere che direi genericamente ispirate a una sorta di filogenesi della forma organica fissata in un momento del suo divenire, magari ibridando l’organico e il meccanico per significare la potenza espansiva della vita, Fruendi ha alternato sculture che rimandano ad aspetti emblematici dell’organico antropomorfo. Lo si vede nella Nascita simulata sotto specie di sintesi figurale in mutazione: alla base è una madre/ terra pluripopputa, che trapassa nell’ampio ventre d’una gestante, che infine diviene un utero dilatato alla cui bocca già si profila il viso del nascituro.

Su un altro versante linguistico, di riduzione minimalista della struttura geometrica composta da piani marmorei intercalati da vuoti, si colloca la serie recente delle opere che Fruendi chiama Luci nelle ombre, Faro, Colonna magica, Nascita del suono, Solidi all’interno e altri titoli allusivi a un processo di rivelazione della forma inclusa nella struttura geometrica lamellare, che grazie alla diversa profondità delle intercapedini vuote tra strato e strato, si manifesta in virtù della luce che la investe, determinandosi un effetto optical la cui frequenza induce anche sensazioni sonore, ed è una sinestesia giustamente detta musicale. C’è una complementarietà tra questi due aspetti che sembrerebbero formalmente e stilisticamente opposti, ed è precisamente la genesi dal profondo che verificata anche nelle opere organiche, determina una forma figurale astratta profilata dalla luce in una struttura di impianto razionale.

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Occhio, 2002, marmo Ipertensione, 2003, marmo Luce nelle ombre, 2016, marmo



INTERVISTA

la r t e ’

della

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ra arte, critica, conduzioni televisive e stuzzicanti articoli, spunta sempre, ma proprio sempre il farfallino legato al collo di Philippe Daverio che, praticamente sembra quel pezzo di legnaccio crudo ed insolente, che, magicamente prese vita e corpo dando vita al mitico Pinocchio. Eccolo arrivare il buon Philippe, sarcastico, ironico, tondetto , tagliente come pochi e pure calvinista. Senz’altro quando leggerà tutto questo nei suoi “tocchi” elegant-francesi: Beh... e’ un problema esserlo... c’era proprio bisogno di scriverlo?” Beh... io l’ho detto, adesso se la veda lui. Quel lui che magistralmente conduceva “Passepartout” ed altro ancora con quei suoi modi affabili ma anche altamente dissacratori incollando le persone al video. Non si definisce un uomo colto, bensì un ottimo bleffatore, adora la carta vecchia, le notizie antiche, muovendosi sapientemente nel disordine casalingo sino a trovare testi magistrali. “Internet non mi appassiona, preferisco interrogare la Sibilla per avere le risposte, inoltre nelle biblioteche “cozzo” contro le righe e loro mi raccontano. E quanto mi raccontano...! Cos’altro devo dire, la politica? Un po’ mi prese, la feci per quattro anni ma dopo mi ritrovai poverissimo e quindi decisi di fare le conferenze.” Non contenta d’esser finita sotto le sue grinfie... Siamo qua in questo convegno dove vengono tirate in ballo le persone pazze – francamente lo siamo un po tutte – e la loro vena artistica: esiste un filo conduttore in merito? Mi squadra, si prende una pausa – occhio che è sadico ! – ride, anzi sogghigna con quegli occhialetti tondi napoleonici e, mentre dà un colpo di frusta alle adorate bretelle... ”Cara signora,

pazzia deve sapere che tutta la cultura saturnina e tutta la storia dell’artista sotto il segno di Saturno, è la chiave stessa per accettare il percorso di follia sin dall’inizio della presa di coscienza. Si parla d’un momento ben preciso, gli ultimi del ‘400 ed il primo ventennio del ‘500; prima ancora l’artista era considerato un artigiano. Diventa stabile ma non era proprio necessario... Non è che uno se non è matto non funziona e viceversa... insomma, non è indispensabile essere su di giri però, non si esclude la fervida creatività. Nella modernità il concetto saturnino è cresciuto parecchio, l’attenzione, l’i-

dea maledetta! Però il maledetto col moderno lega poco, il maledettissimo forse in parte esisteva già in epoca romana, Catullo può essere un prodotto maledetto. Insomma, la pulsione creativa viene da tante cose, prendi Giotto: finisce quel campanile che è quel che è... più ordinato di lui non c’è nessuno! Trova?” Trovo, trovo, anche se spesso si sente dire che la depressione scatena manie suicide ma anche fervida creatività. “Mah... non è detto! De Chirico sosteneva di soffrire di depressone buona metà dell’anno e nell’altra parte di stagione di soffrire di diarrea, dipingen-

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do di conseguenza nel periodo autunnale quando era più in forma. Poi ci sono altri che stanno male e quindi si applicano alle attività che lei mi sta argomentando. Ma quando uno sta malissimo non nascono buoni risultati, ci vuole un momento di fermo. In sostanza l’artista in fase patologico-esistenziale, usa la creatività per fermare la patologia tornando alla norma che, attenzione!, non è la norma, bensì la normalità come ad esempio una rotaia in cui deve muoversi. L’arte come pura pulsione primordiale non è mai esistita, può essere anche una forma di riscatto.” Questo è d’un logorroico incredibile, però averne d’insegnanti come lui! Proseguo, ho capito che è un tipo instancabile. Dal momento che siamo ad un convegno di medicina, se lei avesse problemi di salute sceglierebbe quella tradizionale oppure alternativa? “Quando ho avuto bisogno per un cancro allo stomaco sono andato dal miglior chirurgo esistente: per fortuna poiché sono ancora qua.” Bene, cambiamo genere, lei scrive anche su “La Nazione”. “Sì, mi piace perchè mi danno mano libera sui commenti politici. Scrivo anche per il gruppo, Il Resto del Carlino ed il Giorno. Deve sapere che i giornali sono della città quando dentro ci sono gli annunci funebri e questo lo ritrovo nelle mie collaborazioni per quanto riguarda Firenze e Bologna. Città che amo molto anche se preferisco la prima. Casanova a Bologna trovava piaceri e rogna, mentre la città gigliata attira maggiormente poiché viene definita antipatica e quindi è fantastica.” Francamente... arcigni come Dante non è che ve ne siano molti!

Carla Cavicchini

Philippe Daverio

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visibile Parlare

Un pittore lucchese a Roma Bernardino Nocchi e la Gloria di Santa Pudenziana Roberto Giovannelli

Bernardino Nocchi, Il pianto di Ulisse (modelletto), 1794, olio su tela, cm 48,5x39, Museo Civico di Modena, foto di Marco Ravenna Bernardino Nocchi, Il transito di San Giuseppe (modelletto), 1795 ca., olio su tela, cm 64x43, collezione privata

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el marzo 1803 Bernardino Nocchi, sessantaduenne pittore lucchese attivo a Roma dal 1769, uomo «religioso senza bigotteria, onestissimo e delicatissimo, generoso, discreto nei prezzi, impetuoso di carattere», si trasferisce con la famiglia e con tutta «la robba» appartenente al suo studio, compresa una scelta collezione di gessi, di stampe, di libri di architettura e «una raccolta quasi completa di Poeti Romanzieri»,1 dal «Babbuino ai Greci» in un’altra abitazione in «Strada felice Incontro agli Avignonesi». Nel nuovo atelier troviamo i quadri raffiguranti

Il pianto di Ulisse e Ulisse ritornato in Itaca realizzati anni prima per lo scomparso suo concittadino Carlo Conti. In cantiere vi sono nuovi progetti, tra questi un’Immacolata da collocare nella chiesa di Santa Maria della Concezione a Macerata. L’applicazione è intensa, Bernardino a settembre lavora al Transito di Sant’Anna per la cappella Buonvisi in San Frediano di Lucca e sta per terminare la maestosa Gloria di Santa Pudenziana, la «più ambiziosa pala degli inizi di secolo», commissionata dal Cardinale Lorenzo Litta per l’altare maggiore della omonima basilica ai piedi dell’Esquilino. Tra i modelletti in tela raccolti nello studio, dipinti con fervida padronanza tecnica per la realizzazione in grande delle sue opere, si nota il Transito di Sant’Anna (ove, in quei drammatici giorni, l’artista rappresenta nella Santa la moglie morente, la figlia Lucia nella donna chinata sul letto e il figlio Edoardo nell’angelo sul fondo). Potremmo inoltre cercarvi i modelli per la Concezione di Macerata, per la Gloria di Santa Pudenziana e per le sontuose figure dei fratelli della giovane martire, santi Timoteo e Novato, da collocare a lato della stessa pala. Tra i lavori di maggior dimensione in corso d’opera forse vi era anche un’aggiornata variante del Pianto di Ulisse, commissionato dal conte G. B. Collio di San Severino Marche, quadro che Bernardino avrebbe considerato «superiore anche alla S. Anna in effetto e rilievo» e perché «gli ornamenti del campo e la sua macchia lo rendono brillantissimo e ci si gira dentro». Per l’assegnazione al Nostro della Santa Pudenziana doveva aver spesa una saggia parola Antonio Canova, dal 1802 Ispettore Generale delle Belle Arti e Antichità dello Stato

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Pontificio, che stimava Bernardino d’«ingegno superiore a Batoni, e più a Mengs», così almeno si diceva in casa Nocchi. Per altro, nel decennio precedente l’artista aveva dato prova del suo talento realizzando memorabili lavori, come il Transito di San Giuseppe e San Agostino che confonde gli eretici, per la chiesa di S. Secondo a Gubbio, San Euplio martire, per la chiesa di S. Nicolò l’arena a Catania, e la Morte di Sant’Andrea Avellino,2 tela con la quale, per invenzione e sostanza pittorica, nel duomo di Spoleto aveva spiazzato Corvi, Unterperger e Cavallucci. Un diverso «pensiero in disegno» e «due variati bozzetti dipinti in carta» anticipavano la soluzione definitiva del modello per l’Apoteosi di Santa Pudenziana,3 concepito in silente ritiro segnato da «quella malinconia di cui io sommamente abbondo», come l’artista scriveva in quel tumultuoso volgere dei tempi.


L’impalcatura neobarocca del modello e della conseguente pala è generata da una sequenza prodigiosa di traiettorie ellittiche ispiranti l’andamento delle figure. L’insieme pittorico è denso di stratificazioni formali come passate al vaglio del “vero stile” pur mantenedo saldo il legame con la tradizione classica secentesca. Nella memoria di Bernardino era ben radicata l’immagine dell’Assunta di Guido Reni (Alte Pinakothek, Monaco di Baviera), della quale egli aveva realizzato una copia, poi incisa da Bettelini. Consonanze di tradizione classica, dicevo, coltivate dal pittore quale sigillo di una solitaria “avanguardia”, crogiolo di sulfurei bagliori, di percorsi emotivi non battuti da artisti più giovani come Landi, o emergenti come Benvenuti, o come l’«invidioso» Camuccini, che presto al Nocchi avverserà la strada. Al Guattani, che nel 1806 descrisse la tela da poco alzata sull’altare, non sfuggì «l’immaginosa poetica idea» con cui Bernardino rappresentò l’angelo che squarcia come fosse un serico velo, il cielo trapunto di stelle, oltre il quale appare luminosa la Santissima Trinità (ove il volto dell’Eterno par tratto dal Giove di Otricoli). Egli pure ammirò l’invenzione della figura di San Pietro seduto su una nuvola, con un piede posto «bizzarramente» sulle spalle di un angelo a corona di Pudenziana, la cui figura è avvolta in una candida tunica e in un «aureo manto»: poesia di vestimenti, plastiche panneggiature che richiamano la maniera del Guercino o, in chiave più attuale, l’andamento delle pieghe e la dolcezza d’ombre di Marco Benefial. Dalla contrastata nube sbucano trasversalmente a mezz’aria le gambe di un angelo che sostiene un lembo del manto della martire: brillante soluzione introdotta nell’andamento compositivo di quel modelletto, che però non ritroveremo nella versione in grande dell’opera. Come in precedenti lavori, anche nella testa “Guidesca” di Pudenziana e nei volti delle creature volanti, compreso il bambino in primo piano che mostra la virginale

ghirlanda, riconosciamo i sembianti di una tenera domestica iconografia. Invece gli angeli sapientemente scorciati al sommo della tela si direbbero trasmigrati dai cieli dei due tondi nella volta della Sala Scrittoria della Libreria Vaticana, dipinti dal lucchese nel corso del 1787, come a lasciare una traccia del suo fecondo percorso stilistico a fianco di Niccolò Lapiccola. Rileva ancora il Guattani come il quadro rappresenti due soggetti in uno (come nella Trasfigurazione di Raffaello e nella Petronilla del Guercino). Infatti, nella parte inferiore della tela «la ridente scena si vede cangiata in cimitero di Priscilla». Qui al lume di una lucerna, posata sul bordo del pozzo che fu sepolcro dei santi martiri, vediamo santa Prassede, sorella di Pudenziana, che in compagnia di san Pastore (la cui attitudine e fisionomia ritroveremo in un ritratto in disegno del Beato Giuseppe Oriol), «raccoglie con la spugna il sangue grondante dal corpo di un martire decapitato». Balenanti in lontananza, come tratte da un cammeo antico, tre figure portano il corpo riverso di un’altra vittima alla volta del pozzo. Codesto raggruppamento – quale piccolo quadro nel quadro – ricorda il bassorilievo marmoreo con il Trasporto di Meleagro dei Musei Capitolini, con riprese dalla Deposizione Borghese di Raffaello.4 Ma la «drammatizzazione narrativa» di quella lugubre e taciturna ambientazione, pare ancor più trarre spunto dalle notturne rappresentazioni funerarie a lume di torcia incise nell’antiporta secentesca di Roma sotterranea di Antonio Bosio: evocazione dagli abissi della morte, esplorazione del mondo misterioso delle catacombe dove – come in una scenografia da romanzo gotico – ritroviamo i protagonisti e i luoghi narrati nel dipinto del Nocchi. NOTE 1 Fra questi forse pure «Avino, Avolio, Ottone, e Berlinghieri» di Pietro De’ Bardi, volume che nel settembre 1794 Bernardino aveva cercato di procurarsi a Lucca tramite il cugino pittore Jacopo Antonio Citti. 2 Dipinto creduto di A. Concioli (così ancora nel

“Dizionario biografico degli artisti”, La Pittura in italia. Il Settecento, II, Milano, 1990, pp. 676-677), la cui paternità fu restituita al legittimo autore da chi scrive, in Nuovi contributi per Bernardino Nocchi, “Labyrinthos”, 7/8, 1985, pp. 135-136, fig. 18. 3 La presente nota riprende con alcune modifiche quella pubblicata in Prima idea. Études et esquisses du XVII au XIX siècle, a cura di C. Stefani, ediz. italiana e francese, Galleria Carlo Virgilio, Roma, Edizioni del Borghetto, 2013, (con bibliografia) pp. 20-23 e 61-62. 4 Tra le opere contemporanee si potrebbe trovare qualche affinità con il Trasporto della salma dell’ammiraglio Nelson, rappresentato nel monumento di Canova, che Nocchi disegnerà per la corrispondente incisione realizzata da Fontana.

Bernardino Nocchi, studio per un ritratto del Beato Giuseppe Oriol, 1803-1806, matita nera su carta tinta cinerina, cm 19x26, collezione privata. Il disegno della testa del Beato e la mano disegnata in alto a destra, hanno similitudine con la testa di San Pastore e con la mano che egli pone sul cuore nel dipinto con la Gloria di Santa Pudenziana Bernardino Nocchi, Gloria di Santa Pudenziana (modelletto), 1803, Olio su tela, cm 70x40,5 (foto courtesy Galleria Carlo Virgilio, Roma) Roberto Giovannelli, 2013, Poesia delle tenebre, studio per le figure che portano il cadavere di un santo martire al pozzo di Priscilla, interpretate dal modelletto con la Gloria di Santa Pudenziana di Bernardino Nocchi, disegno in matita rossa su carta giallina, cm 30x33

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L’arte in italia

STORIA DEL PROFUMO. PROFUMO DELLA STORIA

LIBERTY IN ITALIA

FOTOGRAFI IN TRINCEA

17 settembre 2016 26 febbraio 2017

5 novembre 2016 14 febbraio 2017

29 ottobre 2106 gennaio 2017

Fratta Polesine (RO)

Reggio Emilia

Siena

Museo Archeologico Nazionale

Palazzo Magnani

Santa Maria della Scala

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na storia tutta profumata aleggia nelle sale espositive, che raccontano ambienti e corpi inebriati da ricercati olezzi, riti propiziatori, seduzione nell’arte profumiera attraverso contenitori, libri, farmacopee, formulari, oggetti vari, esperienze sensoriali, supporti multimediali. Provenienti da prestigiose realtà specializzate italiane, reperti e documenti rari raccontano l’evoluzione di oniriche creazioni olfattive, basti menzionare i preziosi vasetti aryballoi, alabastra e lekythoi in ceramica decorata, alabastro, pasta vitrea di matrice greca, romana, contemporanea. La mostra permette al pubblico di cimentarsi per diventare nasi provetti, scoprendo essenze madri nella composizione di importanti profumi del passato, rappresentati dalla antichissima produzione veneziana, e odierna: basti menzionare la Rosa Centofilia dell’arcinoto Chanel n.5!

a mostra di Palazzo Magnani rappresenta un omaggio al bel liberty italico, raccontato attraverso selezionate sculture, dipinti, ceramiche, incisioni, manifesti, illustrazioni, progetti architettonici e provenienti da istituzioni pubbliche e private. Armoniosi universi da cui trarre innovativa creazione estetica, le forme naturali assurgono a muse ispiratrici dalla linea flessuosa per il prolifico movimento nostrano sin dall’età evolutiva. L’impronta preraffaellita dal contorno curvilineo anima numerose opere presenti nelle sale espositive, tributo al dialogo tra arti diverse, messa a confronto con la sua fase matura, caratterizzata da un’essenziale ed inquieta stilizzazione creativa. In effetti, il dialogo tra processo creativo ed opera plasma le artistiche sezioni presenti in mostra, esternato attraverso una raffinata ricerca della bellezza applicata alla quotidianità.

The time is out of joint

11 ottobre 2016 - 15 aprile 2018

ROMA

a Grande Guerra a Siena raccontata attraverso foto, cartoline, diari, uno struggente spaccato di vissuto raccontato attraverso occhi smarriti dei soldati, vita quotidiana, attivismo studentesco, supporto socio-sanitario in terra senese, gravata da questa immane catastrofe umana. La mostra rappresenta valido strumento interpretativo nella comprensione di un’epoca così ostile alla popolazione locale, un lavoro coraggioso, spesso, realizzato presso le pericolose linee del fronte oppure nelle vie cittadine plasmate da smarrimento, paura, incertezza, ma anche dovere patriottico e sospirato desiderio di un “cessate il fuoco”. L’esposizione trova altresì supporto nei dipinti di Giulio Aristide Sartorio, ideati sul fronte con estrema perizia in particolari e nel prezioso catalogo, edito da Polistampa, ricco di validi saggi e corredo fotografico dal disarmante realismo.

Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea

C

on l’apertura della grande mostra Time is Out of Joint, la Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea scrive un nuovo capitolo della sua storia, portando a compimento l’ampio processo di trasformazione, riorganizzazione, riallestimento, proponendosi come luogo aperto alla ricerca e alla contemplazione e spazio di riflessione sui linguaggi, sulle pratiche espositive, sul ruolo del museo contemporaneo. Fortemente voluta da Cristiana Collu, Saretto Cincinelli e il Collegio Tecnico Scientifico della prestigiosa istituzione capitolina, la mostra vanta circa 500 opere provenienti dalla stessa Galleria, musei pubblici, collezioni private e vanta 170 artisti.

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Carmelo De Luca

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a pittura italica, tra trecento e ottocento, trova degno lustro nelle sale espositive della celebre galleria antiquaria bolognese arredate con opere squisite dalla fattura finissima. La maestosa Madonna dell’umiltà, opera delicata del fer-

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orgiatosi alla maniera di Orazio Giovanelli, l’artista veneto si nutre della lezione tizianesca, studia sagacemente il contemporaneo naturalismo barocco locale sviluppandone una originale cultura figurativa, acquisisce otti-

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rarese Antonio Orsini, ed un medievale trittico, creato da Simone dei Crocifissi, fanno da apripista al prolifico cinquecento degnamente rappresentato dai fautori del raffaellismo locale, basti menzionare il suadente Matrimonio mistico di Santa Caterina di Girolamo Marchesi da Cotignola e Giovanni Battista Ramenghi. La lezione barocca sviluppatasi in ambiente felsineo si difende egregiamente con Guido Reni e la vissuta Lucrezia, il tenero San Giuseppe col Bambino amorevolmente dipinto dal Guercino, Genio delle Arti di Carlo Bonomi. Il XVIII secolo trova supporto in artisti eccelsi, basti menzionare l’autorevole Giuseppe Maria Crespi con San Giovanni Evangelista a Patmos, creazione plasmata da riuscito virtuosismo cromatico, una splendida Flora festeggiata da rubicondi putti di Francesco Stringa e tantissimi nomi delle illustri scuole disseminate in terra emiliana. Il neoclassicismo ottocentesco si identifica egregiamente nel ritratto di dama con un copricapo alla turca, celebre dipinto “di figura” creato da Giuseppe Molteni.

me competenze progettuali nella prolifica Roma papalina, dove aggiorna anche il proprio linguaggio espressivo e impara con successo l’aulica tecnica dell’affresco, insomma un maestro delicatissimo dalla mano eterogenea. L’amata Trento rappresenta tappa obbligata per conoscere a fondo Giovanelli, grazie alla monumentale Cappella del Crocifisso in Duomo, Giunta Albertina presso il Castello del Buonconsiglio, edifici sacri realizzati nel circondario. A trecento anni dalla morte, il maniero tridentino omaggia degnamente il maestro attraverso la bellissima mostra ripercorrente la sua poliedrica attività artistica in città e nel territorio circostante. I restauri promossi negli anni dalla Soprintendenza restituiscono il mirabile creatore di delicati affreschi e movimentate tele esternanti uno stile inconfondibile forgiato intorno alle scuole stilistiche a lui contemporanee, basti menzionare il periodo veneziano con Pietro e Marco Liberi oppure Bernardo Strozzi, ma anche il trionfo scenografico della lezione romana appresa studiando Pietro da Cortona.


POP IN ITALIA 26 NOVEMBRE 2016 26 GENNAIO 2017 LIVORNO Galleria Guastalla Centro Arte di Silvia Pierini

È

visitabile fino al 26 gennaio la mostra “Pop in Italia”. La Galleria Guastalla Centro Arte a Livorno, presenta infatti una selezione di opere di artisti che hanno partecipato alla nascita del movimento Pop in Italia. L’innegabile importanza storica di questi artisti deriva dal fatto che ognuno di loro ha rappresentato appieno ed in grande stile la risposta italiana alla crisi dell’arte informale, interpretando in modo autonomo ed originale gli stilemi che arrivavano dagli artisti Pop inglesi e americani. In mostra si alternano opere di Franco Angeli, Enrico Baj, Paolo Baratella, Tano Festa, Piero Gilardi, Concetto Pozzati, Mimmo Rotella, Mario Schifano, Emilio Tadini. Gli artisti che partecipano alla pop art italiana sia che facciano parte del gruppo romano così detto di Piazza del Popolo, come Tano Festa, Franco Angeli, Mario Schifano, o che si siano espressi nell’area milanese-torinese, come Emilio Tadini, Enrico Baj, Mimmo Rotella, Piero Gilardi, Paolo Baratella elaborano un linguaggio che della pop art assume le valenze più umanistiche e

letterarie, rispecchiando così le varie autonomie e sensibilità di ogni singolo, non rinunciando mai alla ricerca della qualità pittorica e soprattutto al valore specifico dell’opera d’arte. È così che Schifano assumerà come proprie icone del linguaggio di massa l’immagine della Coca Cola, della Esso e non solo. Questa esposizione, vuole anche rappresentare un omaggio a molti di questi artisti che sono transitati dalla galleria Guastalla-Graphis Arte sin dagli anni ’70. Di Enrico Baj, che insieme a Mimmo Rotella, può essere considerato fra i precursori di questa esperienza artistica, sono visibili alcune opere fra cui Piccolo militare del 1971 dove, oltre all’uso della pittura su uno sfondo di stoffa arabescata, l’artista utilizza stemmi, decorazioni e medaglie dando vita ad una divertente composizione dal richiamo dadaista; Omaggio a Modigliani, una pittura e decollage su tela di Mimmo Rotella, appositamente eseguito per la Casa Natale Modigliani di Livorno, rappresenta un omaggio ai grandi artisti italiani, anche quelli moderni.

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gIOIELLI

i gioielli dei

Medici gusto e moda alla corte di Cosimo I Costanza Contu

Saliera di Francesco I Benvenuto Cellini, 1540 Vienna, Kunsthistorisches Museum Giovanna d’Austria, Alessandro Allori e bottega, 1565-1570 ca Firenze, Palazzo Pitti, Museo degli Argenti Isabella de’ Medici, duchessa di Bracciano di Cosimo I, Agnolo Bronzino (bottega) 1560 ca. Firenze, Galleria Palatina

“O

ra cominceremo a ragionare del gioiellare, e di quello che s’appartiene alla diversità delle gioie: le qual gioie non sono altro che quattro, le quali son fatte per li quattro elementi, cioè il rubino è fatto per il fuoco, il zaffiro essere veramente fatto per l’aria, lo smeraldo per la terra, e il diamante per l acqua. […] Noi riserveremo all’ultimo il ragionare dei diamanti, perché sono questa sorte di gioie la più difficile che sia in fra tutte”1. Così Benvenuto Cellini, uno dei più grandi orafi “di tutti i tempi“, scrive nel suo trattato sull’oreficeria menzionando le pietre più preziose utilizzate al suo tem-

po e alla corte dei Medici. Delle sue opere purtroppo come dell’immenso patrimonio di preziosi gioielli sfoggiato nei ritratti delle signore della casata medicea non rimane che poco o nulla. “I gioielli sono il genere artistico più vulnerabile, più deperibile. A decretarne il destino è la loro stessa natura di oggetti preziosi, il loro valore venale. Accade così che l’oro venga fuso per farne moneta, le pietre rimosse per essere vendute o rimontate altrove. […] “2. Così Antonio Paolucci con brevi concetti e concise parole illustra il destino di questo mondo meraviglioso fatto di oggetti ornati di gemme straordinarie, di manufatti creati da orafi eccellenti italiani ma anche stranieri. Per fortuna sono sopravvissuti fino ad oggi i ritratti e le pitture che ci offrono la testimonianza iconografica dei preziosi che non esistono più e che sopravvivono nei documenti d’archivio descritti con impeccabile minuzia. Andiamo dunque a scoprire quali erano gli oggetti più utilizzati nella moda femminile e come cambia la moda negli anni alla corte di Cosimo I (1519-1574) Granduca di Toscana. Nel 1545, trascorso il periodo alla corte francese di Francesco I per il quale aveva realizzato la Saliera in oro e smalti, Benvenuto Cellini cominciò a lavorare alla corte dei Medici ed è lui stesso che nella Vita descrive più volte la sua attività di gioielliere e ideatore di alcuni preziosi anche per Eleonora di Toledo (1519-1562) moglie di Cosimo e in seguito Granduchessa di Toscana. Sono forse suoi i gioielli indossati da Eleonora nel ritratto di Agnolo Bronzino in cui è insieme al figlio Giovanni. La signora spagnola, così come voleva la moda del tempo, sfoggia una splendida cintura d’oro,

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gemme e smalti terminante con una nappa di perline. La cintura cinquecentesca poteva essere realizzata nelle fogge più disparate a seconda della fantasia degli orafi e delle esigenze dei committenti; poteva essere montata con rubini, diamanti, smeraldi e perle come questa di Eleonora ma anche con bottoni e pendente lavorati a traforo e riempiti di “pasta odorifera” ovvero con muschio e ambra: il primo una sostanza secreta dalle ghiandole di alcuni mammiferi, la seconda prodotta nell’intestino dei capodogli; sia il muschio che l’ambra sono tutt’oggi utilizzati per la produzione di alcuni profumi. La cintura poteva essere utilizzata come collare e indossata fra i capelli come una grillanda. Giovanna d‘Austria (1547-1578), moglie di Francesco I de’ Medici, nel ritratto dell’Allori sfoggia fra i capelli ricci un collare che nell’inventario delle gioie di Cosimo I è legato al nome di Hans Domes, l’orafo di corte del Granduca. Il collare era stato donato a Giovanna


nell’aprile del 1567 da Cosimo I ed era realizzato con “smeraldi e perle in sedici compassi intagliati a fogliami e compartimenti smaltati in tutti i colori”. Il collare troppo lungo per fungere da semplice grillanda sulla testa della Granduchessa viene addoppiato sulla parte destra vicino l orecchio. Le gemme di colore intenso o senza imperfezioni quali ad esempio lo smeraldo o il rubino potevano essere tagliate a ‘ciottolo’ o ‘cogolo’ oppure a tavola; il taglio a tavola veniva utilizzato anche per il diamante che solo nel XVII secolo, grazie all’invenzione di nuove tecniche di lavorazione, venne tagliato a ‘brillante’. Cinture, collari d’oro, diamanti, rubini e smeraldi...e le perle? Le perle trionfano nelle doti e nei patrimoni delle Granduchesse e delle principesse che gravitavano a corte: la perla aveva il suo valore simbolico, legato al mondo femminile ed era molto apprezzata per la sua rara perfezione data dalla forma e dal colore. Il valore economico delle perle era riconosciuto dalle Leggi Suntuarie come quella del 1562, che consentiva alle donne, esclusa la Duchessa, di indossare un solo giro di perle del valore massimo di 500 scudi. E proprio causa della fine dei rapporti di amicizia fra la Granduchessa Eleonora di Toledo e Benvenuto Cellini fu “un vezzo di perle grosse”, ottanta per l’esattezza. Eleonora voleva a tutti costi quelle perle nonostante il prezzo eccessivo per la loro qualità: “queste perle non sono né tonde né equali e ce n’è assai delle vecchie […] le perle non sono gioie”, continuava il Cellini per tentare di dissuadere Eleonora; e ancora: ”le perle sono uno osso di pescie e in ispazio di tempo le vengono manco; ma i diamanti e i rubini e gli smeraldi non invecchiano, e i zaffiri: queste quattro sono gioie e di queste si vuol comperare”3. Eleonora ottenne comunque le perle da Cosimo suo marito e il Cellini l’inimicizia della Duchessa! Come le altre gemme anche le perle venivano variamente combinate e riutilizzate in gioielli di svariate fogge. L’ inventario delle gioie di Cosimo I redatto fra il 1566 e il 1572 elenca centinaia di perle di varie forme e grandezze spesso legate in fili come vediamo nei ritratti ufficiali. La lettura del documento conferma in modo inoppugnabile il riutilizzo non solo delle perle per nuovi oggetti sempre più alla moda, ma anche il riutilizzo di materiali preziosi; esemplare è la vicenda della catena descritta al n. 446 che

successivamente verrà “data in fonderia a Giuliano Chiavacci per fonderla con argento per fare mistura per fare piatti”. Singolare anche la descrizione di una cintura realizzata da Domes con rubini e altre gemme provenienti da un altro gioiello mediceo. La singolarità di questo manufatto è anche la sua destinazione: il 19 ottobre 1567 Cosimo I dava ordine che la cintura fosse tirata fuori dalle casse per essere donata a Dianora degli Albizi, ‘donna’ di Carlo Panciatichi. La giovane omaggiata con il gioiello era sicuramente quella Eleonora o Dianora amata da Cosimo già alla fine del 1565; da lei il Duca aveva avuto un figlio, Giovanni, nato nel 1567. La donna aveva ricevuto una cospicua dote ed era stata maritata con l’intervento decisivo di Cosimo a Carlo Panciatichi. Dopo di lei il duca fiorentino si era invaghito della giovane Camilla Martelli (1545-1590) dalla quale aveva avuto una bambina Virginia (1568-1615). Malgrado la determinazione con la quale si erano opposti al matrimonio morganatico i figli del Granduca e in particolare Francesco che aveva ratificato il suo dissenso con un atto notarile stipulato il 20 febbraio 1573 in cui si opponeva a qualsiasi donazione fatta da Cosimo a Camilla o alla loro figlia Virginia, sappiamo con certezza che Cosimo aveva donato alcuni suoi gioielli alla giovane moglie e lo aveva fatto fin quasi alla fine dei suoi giorni. Camilla ricevette dal Granduca perle, grillande e gemme preziosissime fra le quali non può non essere ricordato un rubino grande “ciottolo colmo et alto in forma di una mezzaciriegia, di bellissimo colore e tirante al chermisi di k 24 di colore, quasi del tutto netto, legato a giorno in uno anello d ‘oro smaltato con una croce rossa nel fondo”. Il 21 aprile 1574 Cosimo morì lasciando al figlio Francesco il governo della Toscana; appena due mesi dopo tutti i gioielli del Tesoro dei Medici anche quelli donati o ceduti venivano descritti nei documenti come proprietà del nuovo Granduca cosi che anche la povera Martelli dovette riconsegnare il bel rubino che ritornò con grande felicità del nuovo governante nelle casse delle gioie granducali. Tale procedura testimoniava certo la determinazione con cui Francesco cercava di recuperare la totalità del tesoro di famiglia ma ci illustra anche una prassi assai singolare seguita a corte: le donne entrate a far parte della famiglia potevano usufruire dei gioielli più importanti, anche delle Gioie della Corona, che però dovevano rientrare nelle casse della famiglia

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ed essere tramandate per via maschile di padre in figlio. Veri e propri gioielli erano considerati anche gli Ornamenti per le vesti. Il materiale più usato nel corso del XVI secolo era la perla applicata sulle stoffe nelle maniere più disparate; nell’inventario di Cosimo più volte menzionato sono descritte tantissime piccole perle bucate che dovevano essere cucite sui tessuti. Perle simili sono sulla veste di Isabella di Cosimo I (1542-1561). Ornamenti di questo tipo erano realizzati anche con gemme preziose mentre alla fine del cinquecento cominciano ad apparire bottoni da veste con pasta odorifera, foggiati a rosetta o a stella. Non mancano nel guardaroba delle signore gli anelli, gli orecchini a forma di vasetto contenente pasta profumata e i pendenti sempre più elaborati da appendere ai grandi collari. Meravigliose creazioni, straordinarie pietre lavorate e montate in gioielli preziosissimi, un mondo scintillante solo in apparenza scomparso che rivive con grande forza attraverso i ritratti, le fonti d’archivio e i testi che ci documentano con impeccabile precisione l’eterna presenza di questi capolavori. NOTE 1 I trattati dell’Oreficeria e della Scultura di Benvenuto Cellini, a cura di Carlo Milanesi, Firenze, Le Monnier, 1857, p.37 2 I Gioielli dei Medici dal vero e in ritratto, a cura di Maria Sframeli, Firenze, 2003 3 Benvenuto Cellini La vita, Milano, 1985, p.583 Tutti i documenti citati sono pubblicati in I gioielli dei Medici dal vero e in ritratto a cura di Maria Sframeli, Firenze 2003, Appendice documentaria pp.178-218.

Eleonora di Toledo con il figlio Giovanni de’ Medici, Agnolo Bronzino,1545 Firenze, Galleria degli Uffizi


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storia

la cavalcata della rosa d’oro il dono del papa a Violante di Baviera (1727) Paola Ircani Menichini

I

l 20 aprile 1727, giorno in cui cadeva la domenica in “albis”, ebbe luogo a Firenze una solenne cavalcata alla quale partecipò la più scelta nobiltà cittadina e forestiera. Fu richiesta, come omaggio d’uso, dal marchese Ottavio Rinaldo del Bufalo, cameriere del papa Benedetto XIII, per onorare Violante di Baviera, vedova di Ferdinando dei Medici e cognata del granduca regnante Gian Gastone. L’occasione era il conferimento alla principessa di un dono importante, quello della rosa d’oro pontificia. La giornata di primavera si rivelò eccezionalmente serena e le strade furono affollate fin da presto da una moltitudine di gente che si sistemò in piedi sul selciato o nei palchi allestiti sul percorso. I balconi e le finestre mostravano fiori e tappezzerie pregiate e le donne indossavano i vestiti di gala. Ma tutti quanti, fiorentini e forestieri, presentendo uno spettacolo memorabile, trepidavano in attesa del pomeriggio. D’altronde ogni cosa era stata preparata in modo incredibilmente perfetto: innanzitutto il luogo di partenza che era in via Ghibellina davanti alla dimora del

nunzio apostolico mons. Lazzaro Pallavicino; poi i partecipanti: Del Bufalo, che era suo ospite, si presentava con indosso l’abito di cameriere d’onore del papa, cioè con la toga e il mantellone paonazzi e la cappa rossa circondata alle spalle da una pelliccia di ermellino. Teneva in mano la rosa d’oro benedetta da mostrare durante l’itinerario. Due canonici del Duomo, Marco Antonio dei Mozzi e Filippo Maria dei Medici, gli facevano da scorta ai lati, mentre altri tre, i monsignori Agostino Cerretani, Tommaso Del Maestro e Salvino Salvini, gli stavano dietro in segno di maggior onore. Erano tutti abbigliati secondo il loro rango e affiancati da camerieri e staffieri “in decorosa foggia”. Poi c’era il gruppo principale che avrebbe cavalcato davanti a Del Bufalo ed era formato da una cinquantina di nobili, parecchi dal titolo di conti o marchesi, con i bei cavalli ornati da finimenti bordati d’oro. Ne facevano parte gli Angelelli di Bologna, il conte Fergnani di Faenza e il marchese Adimari di Napoli. Infine erano presenti quattro nunzi pubblici, detti anche “trombetti”, che avrebbero aperto il percorso vestiti della consueta divisa del Comune. Preparato tutto accuratamente, alle 15, forse con una certa emozione, fu dato il segnale di partenza dagli ottoni dei nunzi. Nello stesso tempo Violante usciva in carrozza da Palazzo Pitti. Lentamente la cavalcata avanzò al passo tra gli applausi lungo la via del Palagio, raggiunse il canto dei Pazzi, l’Opera del Duomo e il canto dei Carnesecchi e si fermò alla chiesa di Santa Maria Novella. Questa era stata scelta dalla principessa perché dell’ordine dei domenicani, dal quale proveniva il papa. Sul piazzale l’or-

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dine si sciolse e tutti entrarono nelle navate illuminate da un discreto numero di fiaccole. Poi si sistemarono nei posti assegnati e assistettero alla “funzione del dono”. Celebrava in pontificale il vescovo di Fiesole mons. Luigi Strozzi e le musiche erano affidate a una scelta orchestra e ai coristi. Una folla di dame con gli abiti di gala era disposta sul presbiterio ai lati dell’altare, in due recinti adornati da dei preziosi arazzi del Guardaroba Reale. A funzione quasi terminata, prima della benedizione, Del Bufalo tenne un discorso sulla virtù cristiana di Violante, ammirata dal papa a Roma in occasione di una sua visita per l’Anno Santo 1725. Lei rispose dichiarando formalmente il suo servizio e l’ubbidienza alla Chiesa “coll’Evangelio in fronte, e colle mie eterne obbligazioni impresse nel cuore”. Ricevette quindi il breve papale del 23 marzo e la rosa d’oro che affidò alle mani del suo cappellano d’onore Ferdinando dei Bardi perché la portasse per lei a Palazzo Pitti. Dopo di che, per fare un atto di cortesia, il padre domenicano Salvatore Ascanio donò sette rose d’argento ad altrettante sue dame. Nella generale felicità giunse infine il tempo del ritorno e la cavalcata riprese la via e il passo: ma questa volta era il Bardi a tenere in mano la rosa d’oro, e dietro di lui seguivano le carrozze di Violante e delle dame e una folla di cavalieri sconosciuti in ordine sparso e chiassosi. All’uscita da Santa Maria Novella un forte boato fece sobbalzare la città: la fortezza san Giovanni Battista (oggi detta Da Basso) aveva sparato mortaretti e salve di artiglieria; lo stesso si ripeté al passaggio del corteo sul Ponte di Santa Trinita, da parte dell’artiglieria


del forte di Belvedere. La cavalcata quindi giunse alla reggia e la rosa fu collocata sull’altare nella cappella di Violante. La sera nei suoi appartamenti ebbe luogo una festa in musica con orchestra e coro a chiudere la memorabile giornata. La principessa poi contraccambiò il dono del papa e l’omaggio di Del Bufalo: il 22 aprile il marchese tornò a Roma con un bel servizio di porcellane di Sassonia dorate e diverse argenterie. Mance furono date anche alla sua “famiglia” (servitori e addetti) e a quelle del nunzio, del maggiordomo del papa e del vescovo di Fiesole.1 Fu un grande avvenimento per Firenze il conferimento della rosa d’oro pontificia a una sua principessa, tanto da essere ricordato in manoscritti e stampe del tempo. Ancora oggi, non tutti lo sanno, se ne continua la tradizione in Vaticano, in modo più discreto, ma seguendo sempre il rito che risale a prima del Mille. Avviene la IV domenica di Quaresima, detta in Laetare dall’inno liturgico Laetare Jerusalem – Rallegrati Gerusalemme. Al tempo di Violante il papa la solennizzava nella sala dei Paramenti o del Pappagallo, alla presenza di cardinali e ambasciatori vestiti in piviale o in abiti rosacei. Insieme alla rosa da consacrare benediva il balsamo e il muschio ricordando simbolicamente l’unione della divinità, del corpo e dell’anima. Dopo la cerimonia, il papa adempiva all’uso di donare la rosa a un principe o a chiese insigni o a chi volesse in segno di loro prosperità e di gioia per il gran numero dei figli della Chiesa e per la perfetta felicità della Gerusalemme celeste, culmine di tutte le speranze cristiane. La ebbero, tra gli altri, Enrico d’Inghilterra da Callisto III, la repubblica di Lucca da Pio IV, Cosimo I dei Medici da Pio V, la Santa Casa di Loreto da Gregorio XIII, il delfino di Francia da Clemente IX. Ultimamente papa Be-

nedetto XVI l’ha conferita ad alcuni santuari mariani, tra i quali quello di Fatima nel 2010. Anche la cavalcata che l’accompagnò a Firenze nel 1727 faceva parte di un’antica consuetudine legata alla rosa d’oro. Infatti la suddetta domenica IV di Quaresima i papi andavano a cavallo dal Laterano alla stazione di Santa Croce di Gerusalemme portando in mano il fiore prezioso. Durante la messa nella basilica lo benedivano e ne spiegavano il significato mistico al popolo 2. Se questa suggestiva tradizione pontificia oggi è poco nota, altrettanto si può dire della figura di Violante di Baviera (1673-1731), donna intelligente e di diplomazia tanto da essere nominata governatrice di Siena dal 1717 fino alla morte. I principi e il popolo ne apprezzarono anche le qualità morali; la sua generosità è testimoniata da quanto sopra ricordato riguardo ai doni fatti a Del Bufalo. Provò però una gran pena per non aver avuto figli dal principe Ferdinando, mancanza questa che decretò la fine della casa regnante dei Medici. Ne descrisse i modi e i sentimenti la scrittrice Anna Banti nel romanzo “La camicia bruciata”, che resta un bello e malinconico affresco sulla fine di questa gloriosa dinastia. I fiorentini del tempo ammirarono Violante anche per il suo animo compassionevole. Forse uno dei motivi fu il fatto che, al di là delle bellezze artistiche e di un certo dinamismo lavorativo, in città si soffriva il tormento di una quotidiana e dura criminalità. Erano all’ordine del giorno omicidi, furti, prostituzione e relative contromisure di torture, espulsioni e impiccagioni, come ricordano le cronache di allora. La principessa sentiva la pena di tale stato di cose, dovuto anche alla povertà di molti forestieri. A questo proposito, pochi mesi prima del conferimento della rosa d’o-

ro, era intervenuta per salvare la vita a un condannato a morte. Si trattava di un certo Giovanni Antonio dell’Uomo, chissà perché detto il “Bavero”, originario di Tossignano (Bologna) nello Stato della Chiesa ed estradato per avere ucciso due “sbirri” e altre persone. Il Diario delle cose notabili di Firenze ne ricorda la vicenda il 9 ottobre 1726, giorno in cui fu emanata la sentenza contro di lui. Il luogo dell’esecuzione era a Borgo La Croce, tra gli odierni Sant’Ambrogio e Piazza Beccaria, la data fissata il sabato d’uso. In quello stesso giorno però erano previste le Quarantore di adorazione eucaristica nella chiesa delle vicine monache di Santa Teresa dove Violante faceva gli esercizi spirituali. Saputa la cosa, la principessa andò oltre ogni protocollo e chiese ai ministri di giustizia l’eccezionale sospensione della pena dal sabato fino al mercoledì successivo. Le fu concesso per rispetto a lei e al Sacramento, la cui devozione era molto sentita a Firenze. Si trattava dello spazio di pochi giorni, ma fu sufficiente a Da Galasio, che era l’avvocato dei poveri, per fare ricorso al granduca e salvare la vita al condannato, facendo permutare la pena capitale nel servizio in mare “alla galea” 3.

Note 1. Distinta Relazione della solenne funzione seguita in Firenze il dì 20 del corrente mese di Aprile MDCCXXVII in occasione di essere presentata la Rosa d’oro mandata da Sua Santità all’Altezza Reale della Serenissima Violante Beatrice di Baviera…, Firenze 1727. 2. Carlo Cartari, La Rosa d’oro Pontificia: racconto istorico, Roma 1681; Stefano Sanchirico, La rosa d’oro del Papa, Osservatore Romano, 9 gennaio 2011. 3. Diario delle cose notabili seguite in Firenze dall’anno 1722 fino al presente giorno, manoscritto del secolo XVIII, Biblioteca Nazionale di Firenze, fondo Vincenzo Capponi 54, ff. 14r e ss.

1 – Balthasar Permoser, Medaglione con ritratto della principessa Violante di Baviera, 1689, Firenze, Museo degli Argenti di Palazzo Pitti. 2 – Una cavalcata famosa a Firenze, part. da: Benozzo Gozzoli, La cavalcata dei Magi, 1459, Firenze, cappella dei Magi, Palazzo Medici Riccardi. 3 – Papa Benedetto XVI e la Rosa d’oro conferita al santuario di “Nuestra Madre María Santíssima de la Cabeza”, Cordoba in Spagna, nel 2009. Foto tratta da http://stmavirgendelacabezaderute.blogspot. it/2013/02/renuncia-de-susantidad-el-papa.html 4 – Gaspar van Wittel († 1736), Veduta ideale di Palazzo Pitti, Roma, collezione privata.

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STORIA

nell’Orto degli scienziati

Galileo, Pier Antonio Micheli e Francesco Redi in quello di Pisa Saverio Lastrucci

Galileo Galilei (1564 - 1642), Firenze, piazzale degli Uffizi. La statua è dello scultore fiorentino Aristodemo Costoli (1803-1871) (Fotografia di Moreno Vassallo) Pier Antonio Micheli (16791737), Firenze, piazzale degli Uffizi. La statua del botanico fiorentino è dello scultore lucchese Vincenzo Consani (1818-1887). (Fotografia di Moreno Vassallo).

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opo la storia dell’Orto Botanico di Pisa pubblicata nel numero precedente di Reality, spieghiamo le definizioni e le caratteristiche di questa istituzione. L’origine di complessi simili agli attuali Orti botanici è discussa da diversi autori ma generalmente si fa risalire ai tempi antichi: dal “Giardino botanico di Karnak” del faraone egizio Tutmosi III, alle raccolte di piante medicinali di epoca ateniese (es. Teofrasto nel IV secolo a.C.) o romana (Hortus conclusus). Nel Medioevo prima e nel Rinascimento poi, si diffuse la coltivazione di piante medicinali negli Horti sanitatis situati presso i monasteri e le scuole di medicina e farmacia delle Università. Il primo Orto Botanico del mondo occidentale sorse probabilmente a

Salerno per iniziativa di Matteo Silvatico, insigne medico della Scuola medica salernitana fra il XIII secolo e il XIV e profondo conoscitore di piante per la produzione di medicamenti. Nel suo Giardino dei semplici, il Giardino della Minerva, vennero per la prima volta coltivate e classificate una grande quantità di piante ed erbe per studiare, a scopo scientifico, le loro proprietà terapeutiche e medicamentose. Tuttavia, nessuno dei giardini suddetti riguardano ancora un Orto Botanico la cui definizione è particolarmente complessa. La BGCI (Botanic Gardens Conservation International) ha dato la seguente classificazione: “Orti Botanici sono istituzioni che detengono collezioni documentate di piante viventi ai fini della ricerca scientifica, della conservazione, dell’esibizione e dell’educazione”. Agli inizi del 1500 lo studio delle piante riceveva un grande impulso dalla pubblicazione del Commento al De materia medica di Dioscoride dovuta al medico Pietro Andrea Mattioli (1500-1577) per mezzo della quale si poté fare una selezione accurata delle piante e del loro utilizzo, valida per il riconoscimento dei “semplici” e dare spiegazioni esaurienti in relazione alla preparazione dei medicamenti. Il collezionismo botanico acquista così una precisa finalità e di conseguenza avviene la metamorfosi del giardino in “Orti dei semplici” a carattere accademico e, successivamente, in Orto Botanico dedicato alla coltura disciplinata e allo studio delle diverse piante. (È necessario ricordare che allora la botanica era considerata una branca della medicina e che numerosi botanici dell’epoca erano valenti medici, come l’imolese Luca Ghini, al quale il granduca Cosimo I affidò, nel 1544, il

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compito di istituire, nell’Ateneo pisano, un Orto Botanico). L’Italia, che già nel Rinascimento con la nascita e la diffusione del giardino all’italiana aveva avuto un ruolo centrale nella storia dell’arte dei giardini, determinò, nel corso del XVI secolo, l’origine di un rinnovato interesse per l’osservazione naturalistica e per la classificazione delle piante. Le istituzioni consimili e le più antiche sono l’Orto Vaticano di Roma (1447) e l’Orto Echtiano di Colonia (1490); e per dare risposte di tipo didattico agli studenti delle Università, nacque l’Orto Botanico di Pisa (1544), quello di Padova (giugno 1545) e di Firenze (dicembre 1545), infine quello di Bologna (1567). Giunti alla fine del XVI secolo il fran-


cescano minorita Francesco Malocchi, chiamato a dirigere l’Orto di Pisa dopo la morte del Casabona nel 1595, allestì la “Fonderia”: un laboratorio di chimica dove venivano preparati i medicamenti usando i “semplici” coltivati nell’Orto. (“Semplici” era la definizione data a parti di piante, di animale e di minerali usati in medicina senza essere stati alterati nelle loro qualità specifiche originali e terapeutiche). L’importanza della “Fonderia” costituì un punto di riferimento per gli ospedali e le persone malate indigenti. Annessa all’Orto agiva una bottega d’arte impegnata a dipingere animali, piante e altri soggetti studiati dagli scienziati dell’epoca. (Fra gli artisti attivi in questa bottega ricordiamo Jacopo Ligozzi, pittore nato a Verona nel 1547, attivo a Firenze dal 1578, dove fu incaricato di ritrarre anche le piante rare e officinali conservate nell’Orto fiorentino). All’avvio, tra il XVI e il XVII secolo, delle esplorazioni anche transoceaniche, e degli inizi dei commerci internazionali, gli Orti botanici modificano le loro attività. Come il “Kew Garden” a Londra o il “Real Jardin Botànico” di Madrid, che si organizzano per coltivare le nuove specie giunte dalle esplorazioni nei Tropici, e questi Orti, oltre a promuovere e incoraggiare le esplorazioni, favoriscono la nascita degli Orti Botanici direttamente nei remòti Paesi d’origine per ricevere e coltivare le nuove specie scoperte: fra queste il tè, il pepe, il caffè, il cioccolato, la gomma Para. Galileo Galilei negli anni ’80 del sedi-

cesimo secolo era allievo di Cesalpino, per cui è molto probabile che fosse un frequentatore dell’Orto. È sempre in questo periodo che riceve l’incarico di Prefetto Pietro Nati da Bibbiena, compagno di studi del grande Francesco Redi, archiatra del Granduca Cosimo III. Durante il soggiorno pisano del Redi pare che fosse sua l’idea di utilizzare una cassa di patate ricevuta in dono dal Granduca nel 1667 per piantarle in tutti gli orti di Toscana; perciò è probabile che questo tubero, che avrebbe cambiato la vita sociale dell’Europa, sia stato coltivato fra i primi nell’Orto pisano. Durante i secoli XIX e XX vengono creati in Europa giardini pubblici con finalità ornamentali e sociali ma non scientifiche. Solo la Municipalità di St. Louis nel Missouri fa eccezione, realizzando, nel 1859, il primo Orto Botanico negli USA. In questa fase storica le uniche attività scientifiche degli Orti consistono nella corretta etichettatura delle collezioni e lo scambio di semi su base mondiale. Gli Orti Botanici italiani sono strutture extrascolastiche, nel cui interno si svolgono specifiche attività di educazione ambientale finalizzate alla conservazione delle biodiversità del nostro pianeta. Come sappiamo, il nostro “progresso” ha capovolto i naturali equilibri climatici. Nasce da questa drammatica realtà l’esigenza di ristabilire l’antico rapporto ambiente-uomosocietà, per mezzo di una efficace sensibilizzazione sociale. A cominciare dalle scuole.

Gli Orti Botanici divengono così i luoghi destinati alla conservazione del mondo vegetale e alla promozione di una nuova cultura ambientale, il cui esempio a noi più vicino, è rappresentato da quello pisano, che nel suo àmbito ospita l’ “Alboreto”, destinato alla didattica e alla conservazione, dove sono coltivati alberi: fra questi ne contiamo due di importanza storica. Sono i più vecchi dell’Orto: una Magnolia grandiflora e un Ginkgo Biloba piantati nel 1787 dal prefetto Giorgio Santi. Sempre nell’ambito della didattica e della divulgazione in questo Orto è conservata una “Collezione sistematica” di piante raggruppate per 39 “famiglie” con oltre 500 specie. L’impianto fu ideato e realizzato nella seconda metà dell’Ottocento dal botanico Teodoro Caruel. Infine la “Flora officinale” e le piante acquatiche. La prima, nel settore detto “Orto del Mirto”, conserva circa 140 specie di piante officinali, alcune utilizzate anche dalla farmacopea ufficiale italiana come il Ricino e la Digitale, mentre la collezione delle piante acquatiche è rappresentata da quelle che un tempo caratterizzavano ampiamente il territorio toscano. Alcune di queste non esistono più nei loro ambienti naturali, altre sono minacciate dall’inquinamento e rischiano di scomparire anche a causa delle ripetute bonifiche idrauliche. Tutte le collezioni dell’Orto pisano hanno come destinazione d’uso la ricerca, la didattica e la divulgazione scientifica.

L’Orto Botanico di Pisa

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PERSONAGGI

an american woman in Florence

“Qui sono giardini, qui sono pratelli, qui altri luoghi dilettevoli assai” Massimo De Francesco

Citazione di Giovanni Boccaccio, Decamerone, Prima Giornata: “Qui sono giardini, qui sono pratelli, qui altri luoghi dilettevoli assai”. La fiorentina villa “I Tatti”, in località Ponte a Mensola, fu per molti anni la residenza del famoso storico dell’arte Bernard Berenson. Edith Wharton

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dith Wharton (Edith Newbold Jones) nasce nel quartiere di Chelsea a New York il 13 gennaio del 1862 durante la guerra civile americana. La famiglia appartiene all’alta aristocrazia newyorkese, parente dei Rensselaer, una delle più prestigiose famiglie di latifondisti americani. Vanta numerose e influenti amicizie, fra cui quella con Theodore Roosevelt, il quale diventerà il ventiseiesimo presidente degli Stati Uniti. Nel 1866, terminata la guerra, i Jones si trasferiscono in Europa a causa delle difficili condizioni economiche di allora, dove vivono fino al loro ritorno nel 1872. Edith ha dieci anni ed è perfettamente fluente in francese, italiano e tedesco dopo aver soggiornato in Francia, Italia e Germania. La sua educazione culturale rappresenterà il biglietto di ritorno in Europa negli anni successivi, dato il suo amore per il Vecchio Continente. Edith viene educata da tutori privati, dando prova del suo innato talento

letterario quando nel 1878, a soli 16 anni, pubblica alcune poesie nell’«Atlantic Monthly» (rivista culturale fondata a Boston) dove sono lette da Henry Wadsworth Longfellow (il traduttore della Divina Commedia). Se da un lato Edith sente la soggezione della madre, Lucretia Rhinelander Stevens, donna estremamente snob e conformista, la futura scrittrice gode invece di un senso di serenità e protezione accanto al padre, George Frederic Jones, uomo sensibile, colto, fortemente legato all’arte, alla storia e, soprattutto, ai viaggi. Nel 1885 Edith sposa il ricco banchiere Edward Wharton (un nevrastenico aristocratico di Boston), con il quale viaggia in Europa per quattro mesi all’anno. La scrittrice, nella sua autobiografia, dice che «era allora che mi sentivo viva», reazione ai severi e restrittivi schemi dell’epoca che vedevano le donne come object

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du decor. Divorzia dal marito nel 1913, mantenendo il cognome del coniuge con il quale è ricordata. Numerose sono le opere che danno notorietà a Edith Wharton, fra queste La casa della Gioia (The House of Mirth) del 1905 ed Ethan Frome (1911), considerato il suo romanzo importante, e L’Età dell’Innocenza (The Age of Innocence), completato in Francia nel 1920, per il quale riceve il premio Pulitzer (è la prima donna a essere insignita di questo riconoscimento) da cui è tratto l’omonimo film del 1993 diretto da Martin Scorsese. Questi ultimi romanzi li scrive forse ispirata dagli scrittori Paul Bourget e Henry James, anche lui newyorkese, divenuto amico intimo della Wharton a Firenze, durante i suoi soggiorni presso Villa Il Palmerino, dimora di Vernon Lee (nom de plume di Violet Paget), scrittrice inglese e amica della romanziera americana.


Dopo il suo divorzio, Edith ritorna nel complesso e affascinante Vecchio Continente, fuggendo fondamentalmente dalla rigida e soffocante New York, facendo della Francia la sua nuova patria nonostante il suo sviscerato amore per l’Italia, paese da lei ritratto e narrato nei suoi libri. I suoi itinerari vanno da Venezia, Riviera del Brenta, Firenze, Roma e Napoli. Edith Wharton è un ”architetto letterario” del giardino italiano. Nel suo libro Ville e Giardini Italiani (publicato nel 1903 e dedicato all’amica Ver-

non Lee) l’autrice, nelle pagine illustrate dalle artistiche stampe dell’incisore fiorentino Giuseppe Zocchi, descrive doviziosamente il giardino italiano dichiarando che «… il giardino deve essere studiato in rapporto alla casa, e giardino e casa in rapporto al paesaggio» facendo anche riferimento alle similitudini climatiche fra il Nord-America in estate e l’Italia in autunno. Grazie ai suoi agi economici, la scrittrice viaggia per l’Italia in automobile. Il veicolo le permette di esplorare e documentare i paesaggi e i luoghi che animeranno la sua vita, definendo l’itinerario dal nord della penisola verso la Toscana «una galleria piena di capolavori». La carta è per la scritttrice come la tela per un pittore, in quanto su di essa ritrae i paesaggi italiani, come ci dimostra nel suo Italian Backgrounds (Paesaggi Italiani) del 1905, nel quale vediamo come questa instancabile esploratrice riesce ad ammirare e a descrivere gli sfondi del “Bel Paese” grazie alle risorse logistiche a sua disposizione. L’automobile non è il suo unico mezzo di trasporto, basti pensare ai suoi viaggi in landau (l’italiano landò) come quello fatto da Certaldo a Castelfiorentino. È a Firenze che Edith Wharton stringe amicizie con i più importanti

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esponenti della letteratura ottocentesca anglo-americana e con Bernard Berenson già allora considerato il più autorevole storico dell’arte. Con lui manterrà un considerevole contatto epistolare fino alla sua morte. La scrittrice è spesso ospite di Berenson nella villa I Tatti a Ponte a Mensola, l’odierna sede fiorentina della Harvard University; durante questo periodo conosce il pittore James Singer Sargent, nato a Firenze da genitori americani, al quale nel 1911 commissiona un ritratto di Henry James (si dice che di quest’ultimo ella fosse la confidente). Torna negli Stati Uniti un’ultima volta dopo la Prima Guerra Mondiale per accettare un dottorato onorario riconosciutole dalla Yale University nel 1923 a seguito dei suoi numerosi successi, dopodiché, ritorna in Francia, dove si spegne, a seguito di un ictus, l’11 agosto 1937 a SaintBrice-Sous-Foret (Val-d’Oise, Ile-deFrance), presso la sua residenza, Le Pavillion Colombe. È sepolta nel Cimitière des Gonards a Versailles, dipartimento dell’Yvelines, nell’Ile de France. Per lei la Francia fu sinonimo di civiltà e da questo Paese ottenne numerosi riconoscimenti ufficiali per i suoi servizi assistenziali resi durante la Prima Guerra mondiale.

Dall’omonimo romanzo della Wharton, L’Età dell’innocenza, diretto da Martin Scorsese (USA, 1993), fu interpretato da Michelle Pfeiffer, Daniel Day-Lewis, Winona Ryder e Geraldine Chaplin. Premio Oscar ai costumi di Gabriella Pescucci, al suo primo film americano. Villa La Petraia (Firenze). Incisione di Giuseppe Zocchi.


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itinerari

Pistoia

alla scoperta di una città punto di riferimento per la cultura Luca Fabiani

Un dettaglio del fregio robbiano restaurato Marino Marini e la moglie Marina a Washington 1950

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istoia è conosciuta in Italia e nel mondo per il florovivaismo. Ma Pistoia non è solo questo e soprattutto dal prossimo anno, come già noto da alcuni mesi, sarà capitale italiana della cultura. Un’occasione importante per una città, molto spesso messa in secondo piano rispetto alle mete predilette dai turisti come Firenze, Lucca e Pisa. Occasione che Pistoia non può mancare, viste le potenzialità che la città e tutto il territorio pistoiese tout court (dalla Montagna alla Valdinievole) possiedono. Ma andiamo per ordine. Pistoia è stata scelta come capitale italiana della cultura a gennaio di quest’anno battendo la concorrenza di altre otto città finaliste: Aquileia, Como, Ercolano, Parma, Pisa, Spoleto, Taranto e Terni. Questa la motivazione ufficiale, pronunciata dal Ministro dei Beni e delle Attività culturali e del Turismo Dario Franceschini: “La candidatura risulta decisamente ben sostenuta nei suoi diversi elementi, area centrale urbana, relazione con il territorio circostante, ampiezza dei settori, gestione del sistema bibliotecario, budget importante ma realistico, partenariato di sistema e internazionale.

Ampiamente apprezzate anche nel loro insieme, il progetto per qualità e completezza sa interpretare pienamente le risorse esistenti proiettandole in uno scenario anche internazionale avanzato di sviluppo del patrimonio culturale e della partecipazione associativa. Per queste ragioni la commissione a maggioranza propone come capitale italiana della cultura 2017: Pistoia”. Una vittoria importante per la città, che già si era candidata nel 2015 per l’anno della cultura 2016, quando a vincere era stata Mantova. La candidatura di Pistoia è stata promossa dal Comune insieme alla Regione Toscana, alla Provincia, alla Diocesi di Pistoia, alla Fondazione Cassa di Risparmio, alla Cassa di Risparmio di Pistoia e della Lucchesia e alla Camera di Commercio. Per la sua candidatura a capitale italiana della cultura 2016 e 2017, Pistoia ha investito su alcuni progetti culturali di qualità, accuratamente predisposti e gestiti dalle sue istituzioni culturali, in primis dalle sue biblioteche e dai suoi musei. Progetti, iniziative e obiettivi, evidenziati all’interno del dossier di documenti con il quale Pistoia ha battuto le città concorrenti, che raccontano il volto culturale della città in vista di questo prossimo grande appuntamento. Leggendo tale dossier si scopre come Pistoia abbia saputo ideare progetti molto interessanti, puntando sulle proprie potenzialità e caratteristiche. Tra queste peculiarità vi è senz’altro il fatto che Pistoia è una città d’arte che conserva tracce del proprio passato medievale, con archivi, biblioteche, centri culturali, collezioni, musei e teatri molto attivi. Sono infatti molte le

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istituzioni culturali della città che muovendosi in sinergia hanno contribuito alla vittoriosa candidatura di Pistoia, inserita dalla prestigiosa rivista Lonely Planet nella lista di luoghi da visitare assolutamente nel 2017. Tra queste istituzioni vi è certamente la Biblioteca San Giorgio, vero fiore all’occhiello della città. È una biblioteca di livello europeo che oggi fa rivivere, grazie al progetto di rigenerazione urbana della parte sud della città, uno spazio fortemente legato all’identità industriale di Pistoia: le officine San Giorgio, di cui ha conservato il nome. Nei suoi oltre 6.500 metri quadrati di spazio coperto, articolati su tre piani di servizio, la Biblioteca San Giorgio è luogo di studio, ma anche luogo in cui si passa il tempo libero, grazie ai tanti corsi proposti e all’innovativo YouLab. Un laboratorio tecnologico, quest’ultimo, nato nel 2013 dalla collaborazione con l’Ambasciata USA in Italia, con lo scopo di creare un centro di innovazione digitale aperto al pubblico, nel


quale in particolare i giovani possano utilizzare una ricca dotazione di strumentazione audio-video ed informatica per apprendere nuove competenze e maturarle fino ad arrivare alla piena padronanza dei diversi ambienti e alla realizzazione di prodotti digitali spendibili anche sul mercato. L’attività della Biblioteca San Giorgio, assieme alla Biblioteca Fabroniana, alla Biblioteca Forteguerriana e alle altre biblioteche ecclesiastiche, scolastiche e popolari della città, è inserita in un quadro più ampio costituito dalla rete di cooperazione interbibliotecaria (REDOP), operante a livello provinciale. Ma Pistoia è anche città di mostre, di artisti e personaggi unici. Un’altra iniziativa su cui si punterà molto per il 2017 è la mostra dedicata al grande artista pistoiese Marino Marini (Pistoia 1901- Viareggio 1980), promossa dalla Fondazione omonima. La rassegna si intitolerà “Marino Marini. Passioni visive” e sarà visibile da settembre 2017 a gennaio 2018 a Palazzo Fabroni, sede di un importante museo di arte contemporanea e oggetto di una vera e propria riqualificazione in vista dell’anno della cultura. Nell’ottica della valorizzazione dei grandi personaggi pistoiesi si inserisce anche quella della figura del gesuita Ippolito Desideri (Pistoia 1684-Roma 1733), antesignano del dialogo interreligioso. Fra 2016 e 2017 ricorre infatti un anniversario speciale nella storia delle esplorazioni geografiche: il terzo centenario del viaggio e dell’arrivo a Lhasa (capitale della regione autonoma del Tibet) di Desideri, che fu il primo a rivelare all’occidente il Tibet e il primo europeo a compiere l’intero percorso transhimalaiano fino a Lhasa, dopo aver attraversato Punjab, Kashmir, Baltistan e Ladakh. Definito “una delle più lucide e profonde menti che l’Asia abbia mai visto pervenire dall’Europa”, secondo Luciano Petech, eminente storico del Tibet, Desideri studiò con i monaci tibe-

tani, lasciò numerosi scritti e fu alfiere del dialogo religioso e dell’incontro rispettoso fra culture e tradizioni diverse. La città di Pistoia intende celebrare il suo missionario con una mostra, realizzata tramite l’esposizione di carte, pannelli fotografici, audiovisivi e strumenti forniti dall’Istituto Geografico Militare. A questo si aggiungeranno una seconda mostra dal titolo “Tibet: arte, cultura, religione, vita quotidiana” ed un convegno internazionale di studi sulla figura e sull’opera di Ippolito Desideri. Tra i progetti di più ampia portata va considerato, invece, il patto con Santiago de Compostela, la città spagnola, capoluogo della comunità autonoma della Galizia, che è stata nel 2000 capitale europea della cultura.1 Santiago de Compostela è da oltre un millennio, secondo la tradizione cristiana, la città sede delle spoglie mortali di Giacomo il Maggiore, apostolo di Gesù. San Iacopo, patrono di Pistoia fin dal XII secolo, non è altro che lo stesso apostolo Giacomo, il cui culto fu introdotto ufficialmente a Pistoia nel 1145, per volontà del monaco vallombrosano Atto, vescovo di Pistoia dal 1133 al 1153. Il patto tra le due città prelude ad una serie di eventi congiunti nel 2017 di grande rilievo europeo. Accanto a queste importanti iniziative, la città di Pistoia ha pensato poi ad una vera e propria riqualificazione delle sue bellezze e dell’arredo urbano. Pistoia è munita di circa 3 chilometri di mura cittadine cui si aggiungono varie fortezze angolari costruite sulla cinta trecentesca. Obiettivo dell’amministrazione è liberare tutte le aree a verde lungo le mura per riportarle alla loro fruizione pubblica, rendendole un polmone verde della città ed in aggiunta valorizzare la fortezza Santa Barbara, già teatro di eventi culturali, realizzando una nuova

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pista ciclabile di accesso.2 Nella stessa direzione si inserisce la rigenerazione dell’antico Ospedale del Ceppo in piazza Giovanni XXIII, dopo la costruzione del nuovo ospedale di San Jacopo inaugurato nel 2013. Si tratta di un enorme complesso fondato nel XIII secolo. Sulla facciata dell’antico Spedale è presente il famoso fregio robbiano, recentemente restaurato e aperto alle visite con grande successo di pubblico. Fu lo spedalingo fiorentino Leonardo Buonafede, figura di mecenate dalla straordinaria sensibilità artistica, a commissionare l’opera nel 1522 rivolgendosi a Santi Buglioni per le scene del fregio e a Giovanni Della Robbia per i cinque medaglioni sul fronte e i quattro mezzi medaglioni del portico. I lavori furono terminati solo 50 anni dopo dal pistoiese Filippo di Lorenzo Paladini. In un’antica corsia dell’ex Ospedale del Ceppo, inoltre, è già stato allestito il nuovo Museo della sanità pistoiese, che raccoglie una ricca collezione di ferri chirurgici appartenuti alla Scuola medica pistoiese. Ma sono ancora molte le sfide per la rigenerazione dell’area: nelle previsioni vi è la collocazione del Centro di documentazione Giovanni Michelucci, di spazi multifunzionali per esposizioni e incontri e di spazi per co-working.3 Questi sono dunque i principali progetti che evidentemente hanno convinto nella scelta di Pistoia: la città ha saputo lavorare di squadra e interpretare le proprie risorse proiettandole in un più ampio quadro di sviluppo del patrimonio culturale. NOTE 1 Pistoia città candidata Capitale Italiana della Cultura 2016/2017 Dossier II fase, pp. 3-4, www. comune.pistoia.it/media/DOSSIER_II.pdf. 2 Idem, pp. 16-17. 3 Idem, pp. 12-14 e 51.

Biblioteca Pistoia, Piazza del Duomo con il campanile di fronte, sulla sinistra il Museo civico, in fondo a destra il palazzo dei Vescovi


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ITINERARI

Buon Natale dai monti

Buon Natale dai monti

Buon Natale dai monti

Buon Natale dai monti

Buon Natale dai monti

Buon Natale dai monti

Buon Natale dai monti

Buon Natale dai monti Carlo Ciappina

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rotetta da arcinote valli, Merano ha nomea di essere dama blasonata per le salutari acque che, in pieno centro, sgorgano rigogliose nel moderno Centro Termale. Amata da Elisabetta d’Austria, la cittadina vanta passato illustre per essere stato luogo prediletto dalla nobiltà europea e dagli intellettuali Kafka, Morgenstern, Benn. L’impianto architettonico squisitamente liberty conferisce al luogo una magia unica, palpabile nello storico Kurhause, impreziosito da rigogliosa vegetazione grazie al gradevole microclima, basti menzionare la passeggiata Gilf colma di specie botaniche rarissime. Nei dintorni domina maestoso Castel Trauttmansdorff, ospitante il museo

provinciale del turismo, circondato da onirici giardini terrazzati dalla bellezza incomparabile. In periodo d’Avvento le sponde del torrente Passirio ospitano il rinomato mercatino stracolmo di giacche, pantofole, cappelli in feltro realizzati a mano, lampade, gastronomia eccellente fatta di zuppa al gulash, prosciutto speziato, vin brulé, brazen, biscotti Lebkuchen. Protetta dal monumentale Duomo cittadino, capolavoro di architettura gotico-romanica custodente la famosa Madonna allattante in marmo, Crocefisso Doloroso del XIV secolo, pulpito in pietra arenaria scolpito da Hans Lutz, anche Piazza Walter ostenta meritata opulenza grazie alle caratteristiche casine in legno ospitanti

Alpe Cimbra Merano Terme di Merano Alpe Cimbra La Paganella Bolzano La Paganella

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ogni ben di Dio ma signori, ricordate, siamo in quel di Bolzano per l’annuale mercato dedicato a Gesù. Decorato a puntino con luci colorate, sfavillanti addobbi, abeti, l’architettonico largo ospita visitatori concitati per cotanta ricchezza. E sì, i bolzanini amano far bella figura, potendo contare sull’artigianato fatto di inebriante profumo alla cannella, spezie, legni alpini, strudel, zelten con canditi, biscotti, loden in lana cotta, insomma una vera goduria per occhi e palato. Naturalmente agli amanti di fata neve consigliamo di sconfinare nella trentina Alpe Cimbra, ambiente unico dalle forti tradizione storiche, basti recarsi sull’altopiano di Folgaria, meta ideale per gli amanti delle fortificazioni au-


stro-ungariche: qui, ne troverete ben tre. Gli sport invernali sono poi un vero sollazzo! Grazie a 9 impianti di risalita, potrete praticare sci alpino, snowboard, sci nordico, telemark, sci escursionismo (da vivere anche sulle racchette da neve), slittino. La vicina Lavarone, trastullata dall’omonimo lago, riunisce un gran numero di romantici villaggi con i tipici masi, ma il fiore all’occhiello rimane il conosciuto Forte Belvedere Gschwent, sede del museo dedicato alla Grande Guerra. Nella stagione invernale le frazioni Bertoldi e Malga Laghetto tengono banco grazie allo sci di fondo e alla competizione internazionale Millegrobbe. E cosa dire di Luserna? Ricercato rifugio per la cultura cimbra, il borgo è un paradiso terrestre circondato da terrazzamenti naturali suggestivi. A proposito, i vacanzieri con prole, qui, troveranno piste su misura, maestri a prova di bambino, baby park e i family hotel rappresentano una eccellenza invidiabile. Stanchi ma non soddisfatti? Allora restate in zona: la Paganella vi aspetta a braccia aperte! Cullato dalle vanitose Dolomiti, l’altopiano ospita Molveno con lo splendido lago, cittadina super fornita di strutture sportive all’avanguardia. L’incantevole centro storico attende Natale omaggiandolo con il tradizionale mercatino plasmato d’arte e tradizione grazie all’artigianato locale, lanterne, candele, statue in legno, specialità enogastronomiche, allietato da canti ed artistici presepi allestiti nei luoghi suggestivi dell’abitato. Un comprensorio sciistico d’avanguardia offre impianti efficienti, neve programmata, piste per tutti i gusti, scuole di sci, parchi neve. Alle famiglie si consigliano le invitanti offerte contenute nei pacchetti Dolomiti Paganella Family Festival (divertimento assicurato a tutto tondo) e una capatina nel meraviglioso Parco Naturale Adamello Brenta.

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Romantico borgo risalente all’XI secolo, la sua caratteristica piazzetta custodisce architettonici palazzi medievali e rinascimentali oltre alla chiesetta dedicata ai Santi Cristoforo e Jacopo. Antichissimo monastero senese, la tenuta si trasforma in castello, residenza fuori porta della nobile famiglia Chigi, delizioso borgo toscano, insomma una movimentata storia secolare che ne ha forgiato la sua rinomata bellezza.

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Castel Monastero

PERNOTTAMENTO: L’agglomerato vanta dimore per tutte le tasche, sino al luxury extreme caratterizzante le suite della nobile dimora.

Pernottamento: Camere accessoriate, suite ed una splendida villa indipendente, tutte ricavate all’interno del borgo, renderanno il vostro soggiorno indimenticabile.

INIDIRIZZO: Borgo Pignano Loc. Pignano, 6 56048 Volterra (Pi)

BORGO SAN FELICE

INIDIRIZZO: Castel Monastero Loc. Monastero D’Ombrone 19 53019 Castelnuovo Berardenga (Si) Borgo San Felice

CASTELFALFI

Gioiello architettonico nel cuore del Chianti Classico, il delizioso agglomerato conserva intatto il fascino plasmato dalla storia plurisecolare. Sapientemente restaurati dalla blasonata Agricola S. Felice, i suoi secolari edifici vantano palazzotti medievali, caratteristiche casette in pietra ed una romantica cappella gentilizia collegati da caratteristiche viuzze e curatissimi giardini con statue, vasi e fontane. Insomma, un unicum urbanistico da non perdere. WINE&FOOD: Il ristorante Poggio Rosso vanta meritata nomea per i suoi piatti raffinatissimi e l’Osteria del Grigio sforna ottima carne alla griglia, zuppe, insalate, piatti tradizionali, accompagnati dalle 14 rinomate etichette Chianti Classico e Brunello di Montalcino prodotte nella tenuta.

Una invidiabile posizione collinare a raggiera caratterizza il longobardo agglomerato medievale, il cui arredo urbano vanta scenografici edifici, chiesa dedicata a S. Floriano, casali, il turrito castello. Nel XV secolo Francesco Gaetani e Costanza de’ Medici ristrutturano il maniero con l’aggiunta di una villa, così Castelfalfi acquista quella dimensione di sogno onirico toscano, oggi, tanto ammirato. WINE&FOOD: I ristoranti Rosmarino, Rocca di Castelfalfi, Club Hause, annesso al magnifico campo da golf, sfornano invitanti pietanze della migliore tradizione locale ed italica, conditi con ottimi oli, accompagnati da superbi vini IGT e Chianti prodotti nella tenuta.

Castelfalfi

PERNOTTAMENTO: Appartenente alla celebre catena Relais e Chateaux, il villaggio vanta camere e suite extralusso ricavate nelle sue nobili dimore.

PERNOTTAMENTO: La storica Tabaccaia ospita un elegante hotel in stile toscano, parquet d’olivo, arredamento moderno. La tenuta vanta bei casali ed appartamenti da vivere in libertà.

INDIRIZZO: Borgo San Felice Loc. San Felice 53019 Castelnuovo Berardenga (Si)

INDIRIZZO: Castelfalfi Loc. Castelfalfi 45, 50050 Montaione (Fi)

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passo passo initinere

da Canterbury a Roma

Angela Selvaggia testimone sulla via Francigena Elena Battaglia

Angela Selvaggia a Canterbury prima della partenza Indicazione via Francigena Paesaggi durante il cammino Roma al termine del cammino

P

asso dopo passo, con lo zaino in spalla e tanta forza di andare avanti lungo il percorso che parte da Canterbury per raggiungere la Città eterna, sulle orme di Sigerico. È la storia di Angela Selvaggia Pellegrina, come vuole farsi chiamare, 47 anni, di Prato, che questa estate ha deciso di avventurarsi lungo la via Francigena. Una sfida “non da poco”, ma che regala emozioni destinate a durare per tutta la vita. Angela è partita per Roma il 15 di giugno. Una risoluzione nata dalla voglia di non cadere nel baratro nero dell’insoddisfazione e dell’ab-

battimento in seguito ad un’esperienza lavorativa finita male. «Dopo tanti anni di lavoro ho voluto farmi un regalo – racconta – Così, ho pensato di dedicare due mesi e mezzo a questo cammino, iniziando dall’Inghilterra. Non tutti possono farlo. È un percorso molto difficile, soprattutto nel tratto francese, e poche donne lo compiono da sole». Le “insidie” che si possono incontrare, oltre alla fatica fisica, sono molte. «Si va dalla scarsità di strutture ricettive e di accoglienza alle intemperie. In Francia ho trascorso molti giorni di cammino sotto quello che è stato un vero e proprio diluvio – dice la donna. – Mi trovavo lì durante i giorni delle tanto temute alluvioni. Inoltre, in questo territorio, al contrario del tratto italiano, ci sono pochi punti di ristoro e la segnaletica è quasi inesistente». La sfida di ogni pellegrino che vuole raggiungere Roma a piedi è sempre la stessa: misurarsi con le difficoltà, procedere e resistere in nome di un percorso simbolo di forza interiore, determinazione e soddisfazione che si concretizza con il raggiungimento della meta agognata. E Angela non si è persa d’animo. «Ho fatto tutto da sola. Certo, ho incontrato altri camminanti lungo la Francigena ma non facevamo le medesime tappe e le nostre strade si sono divise. Timore? Certo, un po’ ne ho avuto. Quando ci si mette in cammino occorre fare molta attenzione, ma ciò non toglie che si tratti di un’esperienza fantastica. La solitudine ci fa trovare una dimensione diversa. Camminando da soli non si hanno distrazioni e di conseguenza riusciamo a conoscerci meglio e ad apprezzarci di più per come siamo veramente. I sensi si accentuano, si

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percepiscono meglio odori e suoni, come il canto degli uccelli. Allo stesso tempo si accresce anche la sensibilità emotiva e riusciamo a comprendere ogni aspetto della vita. Ho incontrato persone che parlavano altre lingue, eppure riuscivamo a comunicare con gli occhi». Il diritto a camminare da sola, di prendere in mano le redini della propria vita, è quello che Angela rivendica, sposando anche una causa contro la violenza sulle donne. Durante il percorso, precisamente a Massa, nella Tappa 25, incontra Gra-


zia Andriola, infermiera di 47 anni che si fa portavoce della campagna #steptostopviolence. Un ritrovo reso possibile dall’associazione “Massa Picta” e dalla tecnologia digitale, attraverso la quale si sono tenute in contatto. Anche il loro lungo abbraccio, carico di emozioni e lacrime di gioia, è un simbolo di forza: nessuna donna è mai veramente da sola e, per quanto le cose possano essere difficili, un modo per rialzarsi ci sarà sempre. La vita va avanti, nonostante le problematiche che si possono presentare. E cosa può esserci di più bello della contemplazione della natura che ci circonda, di una cattedrale o di uno scorcio paesaggistico? «Quando sono passata dalla Francia alla Svizzera e ho trovato di fronte ai miei occhi le Alpi mi sono messa a piangere» racconta Angela, la voce carica di commozione al solo ricordo. Sono state 79 le tappe che la donna ha percorso lungo la via Francigena, 86 giorni di cammino con una media di 25 chilometri al giorno, in base alla presenza delle strutture di accoglienza dove si è fermata a trascorrere la notte. L’aver raggiunto Roma, nel mese di settembre, non costituisce la fine del percorso di Angela, ma soltanto l’input per un nuovo inizio. Forse una rinascita, dopo tanti disagi. «La mia esperienza di viaggio non finisce qui – dice, fiera. – Spero di fare uno dei numerosi percorsi italiani che meritano di essere affrontati, nei prossimi anni. Esiste il cammino di Santiago, che resta “Il Cammino” per eccellenza e non escludo di farlo una seconda volta, ma ce ne sono altri». Ultima curiosità. Quanto conta la fede in un percorso del genere? «Tanto. Anche se non si è praticanti, nel corso del viaggio si trovano dei momenti di contatto con Dio. Entrando nei conventi dove si alloggia, si incontrano suore e parroci, con i quali si crea un rapporto umano. Di conseguenza si vive più intensamente anche la fede».

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racconto

il rètto ovvero

l’ordìto

una fiaba della vita moderna Matthew Licht

F

ilippo aveva ipertrofico il senso dell’ordine. Non sopportava il normale casino della vita quotidiana, il naturale disordine degli esseri umani. Lavorava presso un’agenzia pubblicitaria, il suo titolo ufficiale era Creative Director. Guadagnava montagne di soldi. I clienti l’adoravano. Appena entravano nel suo ufficio, furono convinti che il mondo fosse governato da salde regole per stabilire armonia. Grazie a questo dio del buon gusto, i loro prodotti, i loro servizi, avrebbero ottenuto il riscontro che meritavano. Filippo era inecceppibile anche nel vestire. Poteva permettersi di buttare via mutande, camicie e calzini portati una volta. Alla tintoria era venerato come un idolo. Clienti, colleghi e persino gli amici davano per scontato che Filippo fosse omosessuale. Le sue cravatte papillon erano sempre a tono e in sintonia con la carta da parati, con la tappezzeria dei mobili, con le copertine delle riviste di moda e di arredamento, che comprava solo in edicola, visto che per quelle edizioni le stamperie usavano carta più pesante e oltremodo patinata. Roba da matti, pensò Margherita, la

stagista addetta alle copie e dello smistamento della corrispondenza. Secondo lei, la maniacale ordinatezza di Filippo era segno di una persona infelice. Era una ragazza di buon cuore. Lo voleva aiutare. Un giorno, mentre Filippo era a un pranzo di lavoro, in un ristorante chic, con un cliente di particolare riguardo, uno stilista, Margherita entrò nel suo ufficio. Guardò furtivamente in giro. Non voleva praticare un trattamento d’urto. Doveva iniziare piano. Spostò di mezzo millimetro un fermacarte cromato rappresentante il grattacielo Pirelli. Alle 15,16 il quartier generale dell’azienda pubblicitaria Croaker & Sweeney International fu scosso da un urlo disperato, che echeggiò per il lungo viale. Filippo uscì dal suo ufficio. Tremava, sudava, era impallidito fino a sembrare un cadavere. Balbettò sottovoce, “Chi è stato?” Sospettava di avere un nemico, un rivale, nell’agenzia. Invece la timida Margherita si fece avanti. “Sono stata io,” disse, anche se le accuse non erano state specificate. “Perché?” “Mi sembrava tutto eccessivo, là dentro,” disse lei, e voleva scoppiare in lacrime. “Non mi sembrava l’ufficio di una persona felice. Forse avrei dovuto scriverti una nota, mettere un fiore nel tuo vaso Art Decò, ma non ti sarebbe piaciuto nemmeno così. Volevo farti uno scherzo, prenderti un po’ in giro, farti capire che, insomma, nella vita ci vuole anche del sano casino.” “Forse hai ragione,” disse lui, alfine. Margherita era sicura che sarebbe stata licenziata, ostracizzata, radiata dal settore pubblicitario, forse denunciata, ma non successe nulla. Filippo si presentò in ufficio il giorno

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dopo senza la cravatta papillon. Non si era lustrato le suole delle scarpe. Non si era nemmeno pettinato tanto bene. Quando Margherita entrò nel suo ufficio a fine giornata per fargli aggiungere una dedica al biglietto degli auguri per una collega, notò un lieve odore di ascella, di alito cattivo. Firmando con la stilografica la cartolina ricoperta di orsacchiotti e cuori svolazzanti come farfalle, Filippo sbrodolò inchiostro verde sulla rivista di donne nude che stava sfogliando. Non la ripulì. Non si presentò in ufficio il giorno dopo, né telefonò per dire che aveva bisogno di qualche giorno di ferie. Ogni tanto faceva così, fuori programma, e gli fu sempre concesso dagli dèi dell’agenzia, perché il famigerato Creative Director rendeva. Dopo una settimana di assenza, sorsero delle preoccupazioni. Forse ha l’Aids. Forse ha un nuovo fidanzato. Forse lo ritroveranno nel suo misterioso e lussuoso appartamento, legato, bendato, imbavagliato, e ammanettato al radiatore. Succede. Solo Margherita si diede da fare. Dopo tante futili telefonate, scoprì l’indirizzo del ipernitido collega, e ci andò. Nessuno rispondeva al campanello del loft a due piani. Non si illuminarono le finestre quando venne buio. Margherita tornò a casa sua, in periferia. Piangeva. Abbandonò lo stage per cercare Filippo. Si sentiva responsabile. Qualche tempo dopo lo ritrovò sotto un ponte, nel parco. Era in frak, ma tutto polveroso, strappato e pataccoso. Disegnava strane forme organiche nel fango con le dita. “Mi dispiace,” disse Margherita. “Non dovevo toccare le tue cose. Non lo farò mai più.” “Non importa,” le rispose lui, guardandola intensamente negli occhi. “Sono felice, ora.”


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CINEMA

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London ° Film Festival

Andrea Cianferoni

Sonam Kapoor Sigourney Weave

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ssegnati i premi della Sessantesima edizione del BFI London Film Festival nel corso di una cerimonia condotta da Michael Sheen alla Banqueting House a Londra. Un anno vivace per il cinema inglese, che ha visto la vittoria del lungometraggio di Kelly Reichardt Certain Women, racconto impeccabile della vita di tre donne molto diverse nello stato americano del Montana. Il premio è stato annunciato dal Presidente della Giuria del Concorso Ufficiale, Athina Rachel Tsangari, il cui film Chevalier ha vinto il primo premio del London Film Festival dello scorso anno. Gli altri vincitori sono stati Julia Ducournau, per Raw, che ha vinto il Premio Sutherland, per la sceneggiatura più originale e fantasiosa; Starless Dreams, diretto, prodotto e scritto da Mehrdad Oskouei, che ha ricevuto il Premio Grierson, che attribuisce riconoscimenti ai documentari per la loro integrità, originalità, eccel-

lenza tecnica e significato culturale; il premio per il miglior cortometraggio è andato a 9 giorni – dalla mia finestra in Aleppo, diretto da Issa Touma, Thomas Vroege e Floor Van de Muelen. Parlando del vincitore nella sezione competizione, la giuria ha riconosciuto Certain Woman come l’opera più stimolante, creativa e distintiva dell‘anno, e ha sottolineato come sia stata una storia umana e toccante che calibra, con sorprendente vulnerabilità ed eufemismo delicato, l’isolamento, le frustrazioni e la solitudine di vite vissute in un tranquillo angolo di America rurale. Julia Ducournau ha ricevuto il Premio Sutherland per Raw – storia horror che parla dell’insaziabile appetito di una giovane donna per la carne. La componente della giuria Sarah Gavron, ha dichiarato: “È un film che ci ha sconvolto e ci ha sorpreso in egual misura. Abbiamo ammirato il modo in cui il regista ha fatto qualcosa di completamente inaspet-

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tato con il genere horror. Abbiamo apprezzato la sfacciataggine della narrazione, e l’umorismo nero. Il linguaggio visivo veramente distintivo. E la recitazione carismatica, audace delle donne al centro di un film che è allo stesso tempo unico e inquietante e che determinerà probabilmente qualche svenimento. Starless dreams, ritratto complesso di giovani donne che delinquono ai margini estremi della società iraniana, del documentarista Mehrdad Oskouei, ha ricevuto il Premio Grierson: “È la storia di giovani donne in un centro di detenzione minorile in Iran. Nonostante si parli di vite spezzate, bambini di strada, ladri e figli di tossicodipendenti dell’Iran odierno – viene fuori il lato humour, la vita e lo spirito dei protagonisti. Mehrdad Oskouei ha colto appieno gli stati d’animo di questi adolescenti che racchiudono tanta umanità. L’ironia profondamente commovente del film è che in questo


centro di detenzione, con altri come loro, queste ragazze finalmente trovato il senso della famiglia e della casa; Il premio per il Miglior Cortometraggio è andato a 9 giorni – dalla mia finestra a Aleppo. Il presidente della giuria e premio Oscar, Mat Kirkby ha detto: “Quando il fotografo siriano Issa Touma ha deciso di riprendere con la sua cinepresa gli eventi della guerra dalla sua finestra ad Aleppo, non sapeva se sarebbe sopravvissuto fino alla fine per documentare i tragici eventi quotidiani. Non solo il suo documentario mostra ciò che una persona, una macchina fotografica e una visione ristretta di un vicolo possono fare per rivelare qualcosa di così complesso, confuso, e terrificante come una guerra civile, ma dimostra anche il potere del cinema per raggiungere il resto del mondo, e rivalutare la libertà che diamo troppo spesso per scontata.

Gugu Mbatha-Raw Valentino Garavani Amy Adams e Jeremy Renner Nicole Kidman Terry Pheto, Rosamund Pike, Amma Asante, Laura Carmichael and Jessica Oyelowo Leonardo di Caprio Marion Cotillard Harsh Kapoor, Saiyami Kher, Rakeysh Omprakesh Mehra and Art Malik

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musica

una lacrima sul viso JUNIOR EUROVISION SONG CONTEST 2016 Leonardo Taddei La bulgara Lidia Ganeva Il cipriota Giorge Michiailidis La vittoria finale della georgiana Mariam Mamadashvili Alexander Minenok ed i suoi ballerini Il cantante Dunja Jeličić della Serbia L’ucraina Sofia Rol Il trio Kisses dei Paesi Bass Sofia Fisenko ed il gruppo russo ‘’The water of life project’’

L

a quattordicesima edizione del Junior Eurovision Song Contest, presentata da Ben Camille e Valerie Vella, si è tenuta il 20 novembre 2016 presso il Mediterranean Conference Centre de La Valletta, permettendo così all’incantevole isola di Malta di divenire, insieme a Paesi Bassi ed Ucraina, l’unica nazione ad aver ospitato l’evento per ben due volte, dopo l’edizione del 2014. Come mai accadatuo in precedenza, la manifestazione è stata trasmessa in una nuova fascia oraria, quella della domenica pomeriggio, invece del con-

sueto appuntamento del sabato sera in prima serata. Il cambio di palinsesto è stato un esperimento volto a rendere la rassegna ancora più fruibile da parte dei ragazzi e ad aumentarne lo share. Il concorso è rivolto infatti a cantanti dai dieci ai quindici anni, che si esibiscono dal vivo, su base musicale, con brani della durata massima di tre minuti. La nuova collocazione è apparsa più consona alle esigenze di questa tipologia di pubblico anche agli occhi dei vertici RAI, che hanno favorevolmente accolto la novità. L’azienda di Viale Mazzini ha trasmesso lo show in diretta su Rai Gulp con il commento di Laura Carusino Vignera e Simone Lijoi, noto ai giovanissimi per la sua interpretazione del personaggio di Luca nella serie televisiva “Violetta”. Nonostante i ritiri dalla competizione da parte di San Marino, Slovenia e Montenegro, grazie al gradito ritorno di Cipro, Israele e Polonia, ed anche alla conferma dell’Australia dopo il debutto nell’edizione precedente, i paesi in gara erano diciassette, esattamente come l’anno scorso. Cambiamenti sostanziali sono stati però apportati al sistema di votazione. Il televoto, considerato non adatto a questa manifestazione, è stato sostituito interamente da giurie nazionali, una per ciascun paese, composte per metà da bambini e per metà da adulti appartenenti al settore della musica o della comunicazione in ambito musicale. La Kids jury, la giuria dei bimbi presenti in sala, è stata inoltre affiancata da una super giuria di esperti internazionali, formata quest’anno dal duo Jedward, rappresentanti dell’Irlanda alla versione senior dell’Eurovision Song Contest nel 2011 e nel 2012, dal danese Mads Grimstad, manager della casa

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discografica Universal Music, e dallo svedese Christer Björkman, che all’Eurovision Song Contest ha preso parte nella doppia veste di partecipante, nel 1992, e di produttore, nel 2016. Sulla base di quanto già sperimentato nell’ultima edizione senior del concorso, lasciare alla fine l’annuncio dei voti della Kids jury ha permesso agli organizzatori di mantenere alta la suspense dell’evento fino alla sua conclusione, creando un emozionante testa a testa per la vittoria. L’Italia ha ben figurato con il terzo posto della canzone “Cara mamma” cantata dalla fiorentina Fiamma Boccia, già seconda classificata allo Zecchino d’Oro nel 2013. Sul secondo gradino del podio si è invece piazzata l’Armenia con l’energico duo formato da Anahit e Mary ed il brano “Tarber” (Diversa), distaccato di pochissimi punti dalla prima classificata, Mariam Madmashvili e la sua “Mzeo” (Sole). Grazie a questa vittoria la Georgia raggiunge il traguardo record di tre successi nella competizione, dopo le precedenti affermazioni del 2008 e del 2011. Da sottolineare, inoltre, le splendide esibizioni di Destiny Chukunyere, vincitrice del Junior Eurovision Song Contest 2015, di Poli Genova, presentatrice dell’edizione dello scorso anno, e del duo Jedward. Come sottolineato dalla dichiarazione rilasciata dall’amministratore delegato di PBS Public Broadcasting Services Ltd., l’editore maltese di radiodiffusione pubblica: “Siamo una piccola nazione, ma abbiamo dimostrato oggi che possiamo fare grandi cose”. l’intero stato–isola del Mediterraneo è rimasto particolarmente soddisfatto della riuscita della manifestazione. La collaborazione tra PBS ed EBU, l’U-


nione Europea di Radiodiffusione, si è infatti rivelata ancora una volta quanto mai proficua, dando vita ad uno show forse senza tanti fronzoli, ma sicuramente solido e concreto, e che candida Malta, di diritto, tra i paesi in grado di gestire anche la più complessa preparazione della versione senior del concorso. Nell’edizione del 1964 del Festival di Sanremo, la stessa che avrebbe poi incoronato vincitrice “Non ho l’età” di Gigliola Cinquetti, fornendole, tra l’altro, il lasciapassare per il successo all’Eurovision Song Contest di Copenhagen nello stesso anno, un esordiente diciannovenne, tal Roberto Satti detto “Bobby, solo Bobby”, cantava la scoperta dei sentimenti di una ragazza

bis di fine programma. Bobby Solo interpretava, ovviamente, un testo d’amore, scritto a quattro mani con Mogol, mentre invece in questo caso stiamo parlando di una bambina di soli undici anni, che quell’amore avrà tempo e modo di scoprirlo più avanti nel corso della sua esistenza. Eppure salta all’occhio una sorta di parallelismo, quasi un’analogia. Non è forse una forma d’amore anche quello della piccola Mariam? Una forma d’amore puro, incondizionato ed estremamente potente. L’amore a cui si è affezionata sin da piccola, a cui ha deciso di dedicare il suo tempo, le sue energie, la sua vita. L’amore per cui ha lasciato, giovanissima, il suo paese natale e la sua famiglia

dallo scorrere di una goccia di pianto sul suo volto. “Una lacrima sul viso”, proprio come quella della rappresentante georgiana, prima classificata, quando si è resa conto di aver realizzato il suo sogno. Emozionatissima ed incredula, è scoppiata in un pianto liberatorio alla conclusione dello show, circostanza che le ha quasi impedito di esibirsi nuovamente nel consueto

per trasferirsi in un altro continente. L’amore per la musica, per il canto. “Da una lacrima sul viso ho capito molte cose... Una lacrima e un sorriso m’han svelato il tuo segreto... Quella lacrima sul viso è un miracolo... che si avvera in questo istante per me”.

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&

danza

Erik Rudolf

una storia di danza, passione e amore Piergiorgio Pesci

Erik Bruhn e Rudolf Nureyev Rudolf Nureyev

I

l secondo Novecento ha visto in scena due interpreti di grandissimo spessore artistico e tecnico come Rudolf Nureyev ed Erik Bruhn. Spesso associati per la loro intensa storia d’amore ma anche per gli indiscutibili meriti del palcoscenico. Avviata la propria formazione in Danimarca, alla scuola del Royal Danish Ballet, Belton Evers (il vero nome di Erik Brunh) trovò subito la sua strada all’estero, cominciando con il London Ballet e poi in giro per il mondo. Guest artist da subito, Erik Bruhn padroneggiò l’intero repertorio di balletto classico esaltandosi nei principi dei titoli più noti, soprattutto nell’Albrecht di Giselle interpretato con Alicia Markova al Metropolitan di New York nel 1955 e con Carla Fracci più volte in ogni dove. Fino al 1961, l’anno in cui il suo destino e la sua carriera si incrociò con Rudolf Nu-

reyev che lo spinse ai limiti, ben oltre la regolare vita di uomo introverso e danseur noble delle scene. Rudolf Nureyev era nato il 17 marzo 1938 nei pressi di Irkutsk, ai confini con la lontana Mongolia, e quasi preannuncio di una vita girovaga, tutta genio e sregolatezza, era nato su un treno alla volta di Vladivostok. Figlio di contadini tartari che avevano trovato un relativo benessere dopo la rivoluzione russa e poi patito tutte le difficoltà della guerra, si era trasferito ancor bimbo ad Ufa, nella Repubblica Bakhsira, sugli Urali. Freddo e fame furono all’ordine del giorno, ma il ragazzo si forgiò alla fatica, rivelando un amore per la musica e una predisposizione per la danza ed esibendosi in spettacoli improvvisati per i soldati russi reduci dal fronte. Ma fu verso gli otto anni che decise di intraprendere profes-

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sionalmente la carriera di ballerino e ad undici cominciò a prendere le prime lezioni di danza. Entrò cosi a far parte del balletto del Teatro di Ufa e prese conoscenza del grande repertorio russo-sovietico. Nonostante l’ostilità della famiglia, lasciata la scuola, Nureyev volò a Leningrado per seguire i corsi della prestigiosa Accademia di danza fondata da Agrippina Vaganova; che già aveva formato e laureato «stelle» di prima grandezza come la Pavlova, Nijinski e la Ulanova. Ammessovi nel 1955, già tre anni dopo Rudy si metteva in luce a Mosca in un concorso internazionale, finendo con l’essere richiestissimo dai più importanti teatri sovietici. Nureyev scelse il Kirov, col quale si esibì inizialmente accanto alla più anziana Dudinskaja, suscitando grandi consensi. Ma il gran salto Rudy lo compì durante una «tournée» in Occidente. Ad accoglierlo furono l’International Ballet del Marchese di Cuevas, dove lavorò con Rossella Hightower, e il Balletto Reale Danese di Erik Bruhn. Ma fu col Royal Ballet di Londra e accanto alla straordinaria Margot


Fonteyn che Nureyev trovò un’intesa produttiva continuativa. E accanto a lei che nel 1962 comincia ad apparire anche in Italia (Festival di Nervi in Lago dei cigni). Da allora le sue apparizioni in Europa si moltiplicarono. Negli ultimi vent’anni era apparso più volte in Italia, specialmente alla Scala ma talvolta anche a Roma con sue interpretazioni e sue coreografie di base rigorosamente accademica. Ultimamente, chiamato a ruoli di responsabilità all’Opera di Parigi, Nureyev non aveva praticamente mai abbandonato il palcoscenico, sin oltre la fatidica soglia dei cinquant’anni. Anche nell’età del declino fisico, la danza era per lui un bisogno innato, una necessità del corpo e dello spirito. Come uomo e come artista Nureyev era una persona riservata, magari diffidente, sensibile ma riservato, dotato di senso dell’umorismo, ma soprattutto orgoglioso. Pregevole è stato il lavoro di Nureyev come coreografo. Indubbiamente non ebbe certo la statura dei grandi autori di balletto del nostro tempo, tuttavia la sua straordinaria esperienza di interprete gli consentì sia di riprodurre grandi balletti di repertorio che di aggiornarli con piccoli tocchi per renderli più vicini al gusto ed alla sensibilità d’oggi. Così accadde per Il lago dei cigni, Don Chisciotte, La bella addormentata, Raymonda, Schiaccianoci, Romeo e Giulietta.

Senza tradire le trame originali, Nureyev spesso vi apportava quel tanto che bastava a rendere meno anacronistiche le fiabe dei nostri bisnonni. Sapeva infatti, prima come interprete e poi come coreografo, infondere nuova vita negli eroi talvolta poco credibili del balletto romantico. Diverso dall’elegante Erik Bruhn “Danseurnoble” per eccellenza, cosi come da Vassiliev, danzatore eroico per antonomasia, Nureyev rifuggì da prestabilite etichette di ruolo, spaziando dalla danza narrativa a quella concertante e astratta, desideroso di affrontare ogni sfida artistica. Per lui la danza era la vita stessa, l’unico, primo mezzo essenziale per comunicare col mondo circostante. Fiumi d’inchiostro sono stati versati su di loro. Rudolf Nureyev era il passionario e l’irascibile, il re del gossip e dei salotti europei e statunitensi; Erik Bruhn era invece il bellissimo ed algido danseur noble di Copenaghen, che nella sua amata capitale nel 1961 aveva conosciuto il più maturo e famoso Rudy di cui non poteva che innamorarsi perdutamente. Da lì cominciò il peregrinare dei due talenti, in un rincorrersi di città in città, continente in continente. Comprarono casa insieme a Copenaghen e poi a Londra ma la danza non li poteva tenere uniti, così diversi tra loro e sempre più rivali in amore e sul palco. Aumentarono a dismisura le liti ed i tradimenti di Rudolf Nureyev, allontanando i due protagonisti del

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balletto fino a perdersi. Poi nel 1986 a Toronto Erik Bruhn pose fine alle sue sofferenze morendo in compagnia del suo Rudolf, corso al capezzale per l’ultima notte insieme a sussurrargli i ricordi dei meravigliosi giorni passati insieme parecchi anni prima.

Erik Bruhn e Rudolf Nureyev Erik Bruhn


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EVENTO

Margherita Casazza

Santa Croce sull’Arno, piazza Beini spazio urbano Giuseppe Masoni Fabrizio Masoni con il figlio Giuseppe Federica Martini e Fabrizio Masoni titolari della Masoni spa Pagina a fronte vari momenti dello spettacolo

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e aziende possono fare molto per un territorio e le iniziative come questa favoriscono aggregazioni e integrazioni tra i cittadini. È senza dubbio inusuale, e perciò risulta creativo, utilizzare uno spazio urbano della zona industriale per tenervi un grande concerto con artisti di fama internazionale. In quel luogo votato al lavoro, per una memorabile sera, la protagonista musica Rap ha rappresentato il comune denominatore per le oltre diecimila persone che dalle 18 fino alla mezzanotte del 24 settembre, hanno gremito la rinnovata piazza Beini il cui ambito è stato denominato Spazio Urbano “Giuseppe Masoni”, nonno di Fabrizio Masoni fondatore dell’omonima industria conciaria. I lavori di riqualificazione della piazza sono stati infatti finanziati dalla Masoni Industria Conciaria di Federica e Fabrizio Masoni. I coniugi Masoni hanno voluto fare un altro regalo alla collettività, un segno di vicinanza alla vita pubblica organizzando un concerto gratuito, al quale

hanno partecipato i due famosissimi rapper J-Ax e Fedez, i più seguiti dai giovani, e i dj Merk & Kremont e Albertino, produttori del tormentone estivo “Andiamo a comandare” di Fabio Rovazzi. Ha presentato la serata il noto comico e attore Francesco Mandelli. La scenografia, i colori e gli effetti sono stati opera dello staff Targamy, che nel giro di pochi anni è riuscito ad esportare il proprio inconfondibile party in tutto il mondo, garantendo sempre coreografie incredibili e divertenti. Telefonini alzati, telecamere accese: tutti a condividere sui social il ricordo della serata che ha visto ballare e cantare migliaia di ragazzini e adulti, oltre a tanti ospiti. Abbiamo domandato a Fabrizio Masoni cosa ha rappresentato questa serata. «Credo sia giusto fare cose di cui può usufruire tutta la cittadinanza. Santa Croce è il comune dove la mia famiglia vive da generazioni e che mi ha permesso di crescere grazie al suo polo industriale, conosciuto e apprezzato in tutto il mondo. La nostra azienda ha sostenuto il rifacimento della piazza e dell’area verde adiacente proprio davanti allo stabilimento in via Fermi, anch’esso riqualificato con un giardino verticale, e ha voluto regalare un concerto gratuito con grandi nomi della musica. Le aziende possono dare una grande mano in questa direzione, spero infatti che quel che abbiamo fatto noi possa essere di esempio anche per altri imprenditori della zona. Resteranno indimenticabili nei miei ricordi questa serata meravigliosa, l’emozione che si leggeva negli occhi dei ragazzi presenti e la magia che la musica ha saputo creare. Vorrei ringraziare anche tutti coloro

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che con il loro contributo hanno permesso che tutto ciò fosse possibile, dalle associazioni di volontariato agli uffici comunali. Santa Croce merita il nostro coinvolgimento affinché si possa davvero riscoprirla come luogo d’arte, cultura, creatività e condivisione, oltre che di lavoro».


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EVENTO

meraviglioso mondo

Giampaolo Russo Princessa Haya bent Al Hussein David Dai e Banafsheh Kalantari David Singleton e Annie Hoy Mohammed Al Habtoor, patron del Habtoor Polo team e Alessandra Ambrosio

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on il patrocinio di Sua Altezza Reale la Principessa Haya Bint Al Hussein, moglie dello Sceicco Mohammed Bin Rashid Al Maktoum, Primo Ministro degli Emirati Arabi Uniti e governatore di Dubai, la 12° edizione del prestigioso Cartier International Dubai Polo si è concluso con la vittoria per il team di Zedan Polo.

I loro valorosi avversari in questa finale sono stati Habtoor Polo, guidata da Mohammed Al Habtoor. SAR la Principessa Haya ha consegnato l’imponente trofeo Cartier alla squadra vincitrice. Ospite vip di Cartier la top model Alessandra Ambrosio che in precedenza aveva presentato il trofeo La Martina consegnando la coppa di miglior giocatore a Santiago Gomez Romero. Circa 600 ospiti hanno partecipato a questa emozionante partita a quattro, con la Principessa Haya a guardare la partita dal palco reale, accompagnata dalla Principessa Azemah del Brunei, la top model Alessandra Ambrosio, Jerome Metzger, Direttore Cartier Medio Oriente e India e Ali Albwardy, fondatore della Desert Palm Resort e Polo Club. I partecipanti hanno avuto anche la possibilità di ammirare l’ultima collezione di Cartier, denominata “Cactus de Cartier”. Una splendida creazione di anelli d’oro giallo, bracciali, orecchini e collane, tempestate

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da lapislazzuli, corniole, smeraldi e diamanti. Un evento esclusivo organizzato da Cartier con giocatori provenienti da Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita, Inghilterra, Brunei, Scozia, Argentina e Spagna.


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ricorrenze

le ultime parole famose «Guarda che piena c’è stamani in Arno»

Domenico Savini

Firenze, piazza Santa Croce (fotografia di Moreno Vassallo) Santa Croce sull’Arno, Viale Buozzi Firenze, i livelli dell’alluvione del 1547 e del 1844 raggiunti nel quartiere di Santa Croce. Il livello del 1844 si trova a 1 metro e 80 cm. dal piano stradale. Imparagonabile agli oltre 6 metri raggiunti nel 1966 nella vicina piazza di Santa Croce. (Fotografia di Moreno Vassallo).

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’alluvione del 4 novembre 1966, della quale si ricorda in questi giorni il cinquantesimo anniversario, interruppe una lunga tregua, che per oltre un secolo non aveva più sconvolto Firenze e altre località della Toscana percorse dall’Arno. L’ultima esondazione risale infatti al 1864, e da questa data i fiorentini si erano illusi che la minaccia dell’Arno fosse stata scongiurata grazie alla sistemazione degli argini nei punti ritenuti più vulnerabili, che a tutti parve sufficiente per difendersi dalle secolari minacce del fiume: oltre cinquanta, a decorrere dal 1177, anno in cui si verificò la prima alluvione, storicamente ricordata. Le successive sessanta, nove di queste definite “gravi” (cioè disastrose), le elenchiamo: 1 ottobre 1269, 4 novembre 1333, 13 agosto 1547, 13 settembre 1557, 31 ottobre 1589, 31 ottobre 1589, 3 dicembre 1740, 1 dicembre 1758, 3 novembre 1844, 4 novembre 1966. Fra queste, si nota la fatale coincidenza di tre date: 3 e 4 novembre.

Oltre alle vere e proprie inondazioni, bisogna considerare anche le cosiddette “piene”, cioè i momentanei, ma pur sempre minacciosi rigonfiamenti del fiume. Nel suo autorevole saggio pubblicato nel catalogo della mostra dedicata all’evento (Edizioni Polistampa), aperta nell’Archivio di Stato di Firenze fino al 4 febbraio 2017, Francesco Salvestrini scrive: «I fiorentini impararono, dunque, a dover fronteggiare sia le vere e proprie inondazioni, sia le cosiddette piene, cioè i momentanei ma spesso massicci rigonfiamenti del fiume. Questi ultimi, anche se non determinavano la tracimazione degli argini, provocavano, comunque, danni importanti (abbattimento di ponti e macchine idrauliche, distruzione di approdi e pontili, sventramento di argini e dighe, dispersione delle imbarcazioni). Essi furono destinati a farsi progressivamente più gravi dopo la realizzazione delle due grandi pescaie che serravano, in continuità con la cinta muraria, l’intero spazio urbano distribuito sulle due sponde».

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Un’altra concausa dell’aggravamento dell’equilibrio ambientale ben lo spiega, continuando, Francesco Salvestrini: «In piena età comunale (XIII-XIV secolo) i massicci disboscamenti che interessarono l’Appennino e le vicine alture del Pratomagno sia allo scopo di estendere pascoli e spazi coltivati, sia per far affluire il legname da opera, causarono l’espoliazione di molti soprassuoli e il conseguente dilavamento delle acque meteoriche». Questi gli storici antefatti variamente perpetuatisi nei secoli precedenti, ai quali bisogna congiungere le straordinarie condizioni atmosferiche che a cominciare dalla tarda primavera 1966 culminarono con precipitazioni persistenti su gran parte delle regioni settentrionali italiane e in particolare in Toscana, provocando infine l’alluvione a Firenze, e gravissimi danni anche nel territorio pisano: a Pontedera, a Pisa e la sua provincia, sommergendo anche vaste zone del Grossetano. In quella stessa tarda primavera del 1966, alcuni tecnici della Re-


gione notarono, una sera, un muro enorme di nuvole sulla Gorgona. Si scatenò la tempesta: un segno che qualcosa si preparava nelle vicende del clima, poi confermate dai meteoròlogi. Nella stessa estate, dopo quelle piogge precoci anche le sorgenti più alte degli Appennini erano abbondanti di acqua in modo insolito. Poi, alle soglie dell’autunno, una nevicata coprì le cime dell’Appennino, seguìta da un’ondata di calda pioggia atlantica. Queste furono le cause e i loro effetti.

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Castelfranco di Sotto (PI) Firenze, Ponte Vecchio Pisa, lungarno Santa Croce sull’Arno, lungarno Tripoli Pontedera (PI), Corso Matteotti Firenze, via Strozzi


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comunicazione

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Vania Di Stefano

Gorgone su antefissa (foto di Simona Antolini) Lucerna con slogan L’illustrazione Italiana, 27 febbraio 1910

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dal mondo antico a oggi

hi scriverà su Informatica e metamorfosi dovrà attraversare l’intera foresta degli stravolgimenti figurativi offerti oggi al mondo come reali e godibili, subdoli concorrenti dell’insostituibile immaginazione cerebrale. Di questa selva m’affascina, quando non m’induce alla fuga, l’universo pubblicitario, ossessivo per natura, indispensabile per funzione, variabile per qualità e credibilità. Gli autori studiano composizione, luci, ombre, cromatismi, sonorità, sempre a caccia di soluzioni inedite, artistiche, ora da fermare su lucida pelle cartacea, ora da animare sulla fronte d’uno schermo. S’inventano storie veloci, si costruiscono mosaici evocativi capaci di descrivere, tessera per tessera, attività e risultati che ambiscono a presentarsi come migliori in quanto creativi, funzionali, socialmente utili. Tutto frutto della contemporaneità? Solo la frenesia tecnologica. L’assediante religiosità convertitrice c’è già nella “celestiale” copertina dell’Illustrazione italiana del 27 febbraio 1910, partorita da un

Ottocento più diabolico che angelico; ma se vogliamo spiegare antropologicamente i meccanismi della persuasione, occorre tornare indietro di molti secoli. Dopo il baratto muto - fatto esponendo qualcosa che poi era valutata, presa e ʻpagataʼ con altra cosa ritenuta equivalente e messa al posto di quella prelevata - nel Mediterraneo antico nacque la promozione scritta sul prodotto stesso. Poche ma sorprendenti le testimonianze. Nella città romana di Tipasa in Mauritania (odierna Algeria), verso il IV secolo - in piena crisi economica, sociale, politica, istituzionale - un ammirevole e tenacissimo fabbricante di lucerne, Assen (totalmente ignoto), non si arrende e dà vita a una personale campagna pubblicitaria componendo cinque firme-slogan di progressiva, studiata efficacia comunicativa (foto di Jean Bussière, specialista senza pari) con cui: 1) si presenta come venditore diretto senza onerose intermediazioni: ab Assene luc/ernas venales!, “da Assen, lucerne in vendita, (compratele)!”. 2) segnala la qualità speciale del manufatto realizzato nella propria fabbrica: lucernas colatas / de oficina Asseni/s, “(comprate le) lucerne in argilla depurata dell’officina di Assen”. 3) si proclama unico produttore e fornitore: lucernas colatas! / Adicente Asene!, “(comprate le) lucerne in argilla depurata! Assen ve le aggiudica!”. 4) esalta con enfasi la bellezza delle lucerne: èmite lucernas / colatas! Icones!, “comprate lucerne in argilla depurata! Modelli unici!”. Si discute sul senso del grecismo icones, che a me sembra anticipare l’odierno impiego qualificativo di “eccellenza”.

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5) per concludere abbina la qualità a un prezzo simbolicamente indicato come irrisorio (ignoriamo quello reale): èmite lucernas / colatas, ab Asse(ne)!, “comprate lucerne in argilla depurata, da Assen!”, e “da un asse!”. Notare il sapiente gioco di parole costruito sul nome del fabbricante che, scritto e pronunziato senza la sillaba finale -ne (volutamente

omessa), magnifica il prezzo pari alla moneta di un asse; oggi noi vecchi diremmo che costa una lira (praticamente gratis).Un monopolio a Tipasa? Vediamo. Quando c’è il libero mercato un prodotto di successo trova sempre imitatori che fanno concorrenza copiando sfacciatamente anche gli slogan: 6) lucernas colatas, / de oficina Donati!, “(comprate le) lucerne in argilla depurata, dall’officina di Donatus!”. Stando ai numeri degli esemplari schedati da Bussière, Assen superò la sfida, probabilmente in virtù del fatto che la qualità, se autentica,


ab assene luc/ernas venales! lucernas colatas / de oficina asseni/s lucernas colatas! / adicente asene! èmite lucernas / colatas, ab asse(ne) qui fecerit vivat! / et qui emerit! ùtere felix / inde emas! unus illis deus nummus est

vince sempre. La fregatura si può dare solo una volta.Il verbo èmere (“comprare”) ritorna nei più diversi manufatti di terracotta, graffito prima della cottura: “compra-mi” eme me, leggibile anche al contrario (lucerna); eme me / bono tuo! “comprami per il tuo bene!” (dolio). Il caso che più colpisce lo troviamo sopra un’antefissa col volto d’una mortifera Gorgone la quale, invece di pietrificarti con lo sguardo, dice simpaticamente all’emptor (“acquirente”): eme ita valeas! “compra(mi) così da stare in buona salute!”; il testo erroneamente destrorso nella matrice appare sinistrorso nell’esemplare della figura (Cupra Marittima, fine I secolo a. C.). Il miglior sodalizio pubblicitario fra produttore e consumatore è sintetizzato in una matrice di lucerna dove

si augura: “chi l’avrà fabbricata viva! Anche chi l’avrà comprata!” qui fecerit vivat! / Et qui emerit!. Ancora in Algeria un’insegna epigrafica incisa sulla soglia d’una porta recitava: ùtere felix / inde emas!, “serviti con gioia (di questo negozio), quindi compra!”. Prodotti eccellenti d’ogni tipo (che chiamo DOCIL: di origine citata in letteratura) sono spesso segnalati dagli autori antichi: Marziale per i pueri (“figli” ma anche “schiavetti”) raccomanda il dono di un latticino squisito: caseus Etruscae signatus imagine Lunae / praestabit pueris prandia mille tuis, “il formaggio marcato con l’immagine dell’etrusca (città di) Luni assicurerà mille pranzi per i tuoi pueri”. Il consumismo alimentare di massa ce lo definisce il poeta Orazio: nos numerus sumus et fruges consume-

re nati “noi siamo un numero e nati per consumare frutti”. Quale divinità ci fosse dietro la frenesia produttiva lo stigmatizza il biografo siracusano Flavio Vopisco che rinfaccia agli egiziani una caratteristica diffusa in tutto l’Impero: “per loro un solo Dio c’è: il denaro”, unus illis deus nummus est. Il lucrum “guadagno” è un chiodo fisso che si proclama come “gaudio” (lucrum gaudium) persino nei mosaici pavimentali di Pompei. Potrei continuare, ma credo basti per capire che - ieri a Tipasa oggi in Italia - è sempre la mente il principale strumento di una seduzione capace di esaltare l’artigianato industriale di qualità, decorandolo con una veste pubblicitaria di conio artistico al fine di vendere ricchezza, non sogni.

Lucerna con slogan Fotografie tratte dalla mostra Pubbli-città Dialoghi rivelati di Livia Di Stefano, Roma, 2005

ab assene luc/ernas venales! lucernas colatas / de oficina asseni/s lucernas colatas! / adicente asene! èmite lucernas / colatas, ab asse(ne) qui fecerit vivat! / et qui emerit! ùtere felix / inde emas! unus illis deus nummus est 69


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moda

Moda italiana 1954 maglia e velluto carte vincenti per l’autunno-inverno Roberto Mascagni

Tailleur a un petto e Paletot con collo sciallato (1952)

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’appuntamento con l’Alta Moda italiana, proposta per l’autunno-inverno, è fissato dal 20 al 25 luglio 1954, mentre il termometro dell’Estate fiorentina segna +35 gradi e nella Sala Bianca di Palazzo Pitti l’aria condizionata mitiga appena la calura estiva che avvolge il numeroso pubblico, in costante ascesa.

Quindici industrie tessili, che rappresentano i nomi più importanti nel campo laniero, cotoniero e serico, si sono affiancate alle Case di Alta Moda per presentare le ultime novità della loro produzione. I nuovi tessuti sono panni di lana satinati, lane mohair, lane miste a seta e poi sete (stampate a fiori) e altri materiali, comunque pesanti, da portare sotto cappotti e pellicce. La “Eight Italian Fashion Show” inizia nel pomeriggio del 21 luglio, alle 16. La inaugura una sfilata di numerose boutiques: Avolio, Bertoli, Glans, Myricae, Spagnoli. Valditevere, pioniera delle sfilate a Firenze, ha perfezionato le belle lane tessute a mano. Vito ripropone la gonna ampia a ruota che si presta a varie guarnizioni, e in alternativa propone maglie intere che ricordano quelle indossate dai “topi d’albergo”. Anna Tosco convince che con la maglia ci si può vestire dalla mattina alla sera. La romana Myricae (Teresa Massetti) ha presentato alcune giacche da montagna di lana pesante, una serie di gonne di tweed, mantelli di cuoio, di loden, di gomma. Elza Volpe propone la giacca sportiva di morbida lana a nido d’api che scende a sacco sul pantalone stretto ed eleganti camicette di lana leggera. Le creazioni del fiorentino Emilio sono ormai famose e richieste perché sinonimo di eleganza tanto in America come in Europa. (Intanto, mentre Dior prepara la sorpresa delle nuova linea che avrebbe poi rivelato donne con seno nascosto, quasi abolito, la Moda Italiana ha messo in apprezzata evidenza linee e curve). Nata quasi esclusivamente per lo sport, la moda boutique ha coniu-

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gato ogni genere di confezione, presentando a Firenze una nuova serie di modelli sportivi e molti “piccoli abiti”: le gonne di Glans; il pantalone di maglia bianca, per il prossimo inverno, di Spagnoli. Le “pennellate” di Spagnoli ravvivano i golfini spruzzati di rosa sopra tute bianche; o le gonne plissé, sempre bianche e giovanili (ispirate al


1925?), con blusine bianche ricamate ad anelli, a foglie, a coralli, a cerchietti. Gli scialletti sono conclusi con delle candide nappe. La lana sembra seta. Sulla pedana continuano ad al-

ternarsi abiti giovanili, pantaloni di varie lunghezze, gonne, alcuni mantelli e maglierie di ogni tipo. Le gonne sono ampie, la vita stretta al suo punto naturale, le spalle discendenti. Molto interesse suscitano una serie di impermeabili. Una boutique milanese presenta un nuovo materiale: il “peluche” appropriato solo per la gonna da casa e per i costumi “dopo sci”. Un’altra boutique coniuga la moda maschile a quella femminile. Come indossatori gli uomini non si sono dimostrati del tutto disinvolti rispetto alle donne, tuttavia i loro modelli sono stati giudicati più estrosi di quelli esibiti dalle loro colleghe: uno smoking cangiante, con camicia plissé, cioè pieghettata, ha lasciato perplesso il pubblico maschile. «Le gonne - riferiscono le cronache - sono sempre ampie, vaporose: non più amplissime a partire dalla vita, ma aderenti ai fianchi per poi ritrovare la loro ampiezza dai fianchi in giù». Serviranno per l’autunno-inverno, perciò create usando lana, feltri, tweed e il velluto liscio o a coste che trionfa nella giornata del 24. Se ne fabbricano di incredibilmente leggeri e morbidi: a coste sottilissime, altri a costole larghe anche mezzo centimetro, con cui si realizzano mantelli di linea sportiva ed elegantissimi. L’Alta Moda è rappresentata dal fiorentino Cesare Guidi, apprezzato per i suoi impeccabili tailleurs. Il giovanissimo romano Roberto Capucci è giudicato “non privo di genialità”. Maria Antonelli di Roma (ma senese di nascita) presenta una linea “spi-

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ritosa” tuttavia sorretta da una tecnica e da un taglio ben controllato. Germana Marucelli («l’intellettuale dell’ago») è ritenuta la più “rivoluzionaria”. Carosa (principessa Giovanna Caracciolo) “dimostra di avere una percezione raffinata dei colori”. Le sue creazioni valorizzano speciali tessuti di lana, tweed, fantasie-jacquard: cioè tessuti operati, per ottenere disegni geometrici variamente colorati. I suoi modelli esaltano la femminilità, ma sono pratici da portare. Ecco gli abiti di Alberto Fabiani, la cui fama è internazionale. Fabiani è marito di Simonetta Colonna di Cesarò, ma le due sartorie, “Fabiani” e “Simonetta”, si presentano separate. Fabiani abbellisce gli abiti con sciarpe di visone bianco, gilè di candido breitschwanz (pelliccia pregiata di agnello persiano) e alti colletti di ermellino, sopra tailleurs lisci. I tailleurs di Simonetta sono piccoli capolavori di gusto e di abilità: la sua linea è netta, avvitata: ideata per assecondare la sinuosità del corpo che la indossa. I suoi mantelli per lo più neri, sono profilati di grosgrain (cioè a trama grossa) o di raso, il collo chiuso con un nodino, la linea è liscia. L’anno scorso quest’ultime due Case di moda figuravano fra i sarti romani “dissidenti”, ma sono tornate a Firenze. Tuttavia Roma non rinuncia alle sua iniziativa, nonostante il primato della stampa internazionale rivolto alle sfilate nella Sala Bianca. L’auspicio corale è che non ci siano più doppie sfilate di Moda in Italia. Jole Veneziani presenta la linea a “V”: che si individua nell’incrocio dei colletti, negli scialli, nell’attaccatura degli strascichi dei vestiti per il ballo e nei sinuosi motivi dei ricami. (La Veneziani ha realizzato i suoi modelli con i tessuti di Rivetti). Il primato di Firenze lo aveva riba-

Pagina a fronte: Trousse in lucite e bachelite, composta da portacipria, portapettine, con pettine originale, porta piumino/ fazzoletto, scomparto per rossetto con rossetto originale, e altri due comparti per cipria e fard, con specchio molato doppio semovibile nella parte superiore. Chiusura in bachelite gialla, altezza cm. 10,5, larghezza cm. 17, profondità cm. 2,5. Metà anni Cinquanta. (Dono Liliana Tori). (Collezione Cristina Giorgetti). (Fotografia di Moreno Vassallo). Borsetta da passeggio, tipo sacà-main, lavorata a mezzo punto su canovaccio, con chiusura d’argento titolo 800, a trionfi di rose e amorini. La borsa prende spessore mediante un soffietto in suede (pelle scamosciata leggera conciata all’olio), fodera in seta marezzata nera. Altezza cm. 21, larghezza alla base cm. 24, profondità cm. 4. Prima metà anni Cinquanta. (Collezione Cristina Giorgetti. Fotografia di Moreno Vassallo). Abito da mattino/pomeriggio pied-de-poule bianco/nero con motivi a pieghe diagonali nel busto e pieghe che formano linea ad anfora nella forma. E’ chiuso sul mezzo davanti ed ha collo sciallato. Metà anni Ciquanta. (Collezione “Can Can” di Barbara Farina, Firenze). (Fotografia di Moreno Vassallo). Borsetta elegante in lucite bianca opaca, rivestita sui quattro lati da strass, nei toni del rosa, cuori in pasta di vetro, riproduzioni di monete antiche dorate, il tutto inframezzato sul fondo formato da piccolissimi veri gusci di conchiglie. La borsetta è accompagnata da un cappello in fibra vegetale lavorata a trecce cucite e rifinito nella testina dagli stessi autentici gusci di conchiglie e paillettes, bordato alla base e alla sommità da una passamaneria in seta rosa con decorazione argentata. Il tutto è rifinito da fiocco a doppia cocca in grós-grain rosa pallido, posto sul centro dietro della testina. Altezza del corpo della borsa cm. 9,3, larghezza 21,5, altezza compreso il manico cm. 24. All’interno etichetta su fodera in grós matellassé con scritto “An Original by Midas of Miami”. Età anni 50. (Collezione Cristina Giorgetti). (Fotografia di Moreno Vassallo).


dito Fay Hammond (dal 1943 redattore per la Moda dell’autorevole «Los Angeles Times») scrivendo che le Case di Moda romane «si sono ubriacate di un successo troppo presto ottenuto a Firenze», aggiungendo che Giovanni Battista Giorgini, il geniale ideatore e organizzatore delle sfilate fiorentine, «è l’unico in Italia che sa quello che fa». Opinione condivisa dalla nostra Irene Brin, che non esita a riconoscerlo «sempre entusiasta e cortese, sempre capace di trasformare in vittorie proprie le apparenti vittorie degli avversari». (Un altro merito di Giorgini è quello di avere portato in passerella, oltre alla maglia, la moda per l’infanzia). A giudizio di Irene Brin «l’ottavo Fashion Show sarà probabilmente ricordato come il migliore, il più atteso, il più raffinato». Sabato 24, è il turno delle boutiques di gran lusso, che riassumono pullover e prendisole, mantelli e sciarpe di Mirsa, gonne e farsetti di Bertoli. E gioielli e scarpe. I 540 arrivi annunciati alla vigilia

dell’apertura sono stati largamente superati. Alberghi e pensioni risultano tutti prenotati. Al completo anche i fotografi e i cineoperatori. A ranghi serrati anche i rappresentanti della stampa internazionale e delle riviste specializzate di Moda. Una vera folla nel cui àmbito si distinguono per incontestabile autorità le “sacerdotesse” della Moda internazionale: Carmel Snow inviata da «Harper’s Bazaar», Bettina Ballard dirige «Vogue America» (ma si veste in Italia) e Sally Kirkland di «Life». La Moda Italiana deve molto a queste firme del giornalismo internazionale; e altrettanto alle italiane Irene Brin, Elsa Robiola ed Elisa Massai. In cifre, i buyers risultano essere 34 quelli provenienti dagli Stati Uniti, 10 da Londra, 4 dalla Svezia, 13 dalla Germania Ovest, 3 i francesi (due sono parigini), 13 gli svizzeri, 2 i belgi, 2 dall’Olanda: un raduno che ha superato, in numero e prestigio, ogni aspettativa. I dati salienti dell’Alta Moda italiana, si riscontrano nei colori, nelle stoffe e nelle linee. La gamma dei

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colori è sobria: prevalgono il beige, il grigio nelle varie sfumature, il blu “carta da zucchero” o “aviazione”, il verde bronzeo e il marrone. Nelle stoffe spiccano i “ton sur ton” (due sfumature di colori una più chiara, una più scura) e i tweed. Le linee sono snelle, i mantelli diritti sono “a sacco”, le spalle spioventi; sempre morbide le attaccature delle spalle, i colli sempre grandi e sciallati. Molto curate le rifiniture e i dettagli, molte le guarnizioni in pelliccia. Negli abiti eleganti la linea morbida è modellata sul corpo fino ai fianchi, per poi espandersi in una gonna amplissima, anche increspata. Per il pomeriggio boleri aderenti e sotto abiti scollati. Gli abiti per la sera sono sempre sontuosi. I décolletés senza spalline sono scomparsi. La Moda Italiana, oltre che espressione di un innato buon gusto che deriva da una lunga tradizione, ha raggiunto il rango di industria nazionale, ed è questa la premessa del successo di questa VIII edizione ottenuta dall’infaticabile e ingegnoso Giovanni Battista Giorgini.


curiosità

Fucecchio

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erché un certo cavalier Ottorino Freschi aveva vinto la sua strana battaglia, quella di cambiare il nome al paese, ribattezzandolo Focenza. Aveva in due consigli comunali spaccato la maggioranza e l’opposizione, quando alla messa ai voti, 16 consiglieri risposero sì e 5 invece no – alla proposta di cambiare il nome, e 1 si astenne. L’ordine del giorno era approvato, il sindaco tolse la seduta. Io avevo 8 anni, seguivo con l’istinto del giornalista in erba, i giornali non ne parlavano quasi mai. Sentivo raccontarne da mio nonno Paolo Benvenuti, più volte assessore comunale. Non riuscivo a capire perché Fucecchio stava per diventare Focenza. Che differenza faceva per gli abitanti, un nome piuttosto che un altro? Nel raccontare la vicenda, l’avvocato Piero Malvolti ci si divertiva un po’, la coloriva. Ma c’era proprio bisogno di cambiare nome al paese, da Fucecchio a Focenza? Incomprensibilmente Ottorino, in due riunioni del Consiglio comunale aveva spaccato opposizione e maggioranza, cosa che non era accaduto mai dal 1944, ma poi era esploso con Focenza e Fucecchio. Così i socialisti e i comunisti, compatti contro il Patto Atlantico, allineati sugli aspetti politici della guerra in Corea, uniti nel riconoscimento della Repubblica popolare cinese, erano invece finiti per incrociarsi tra loro. A quel punto Ottorino uscì dalla stanza del sindaco, salutato dall’applauso dei consiglieri e del pubblico. I più gli si affollarono intorno per stringergli la mano. Era rosso in volto e aveva un leggero tremito al labbro inferiore. A qualcuno parve che Ottorino piangesse dalla soddisfazione. Si limitò a ringraziare tutti, e accompagnato da

cambiò nome

alcuni fedelissimi si avviò verso casa. Era stato in data 22 ottobre 1951 che il cavalier Freschi aveva proposto all’amministrazione comunale, in un esposto, il cambiamento della denominazione di Fucecchio in Fiorenza, corredato da un elenco di adesioni contenente circa 300 firme di cittadini fucecchiesi, di un elenco di varie firme di stimati oriundi, e di altre singole dichiarazioni di adesioni, e soprattutto di numerose pervenute per posta, col nome di Fucecchio deformato – come succedeva continuamente – in Fucevecchio, Fuscecchio, Fececchio, Fucecchi, Firucchio, Fuceschio, Fucicchio, Pucecchio, Furecchio, Fuccubrio e altri ancora. La mia nonna materna, Armida, da Forte dei Marmi ci scriveva le lettere con destinazione Fucecchio, così come viene parlato in Versilia. Ma soprattutto a far traboccare il vaso fu una carta automobilistica dell’Europa in cui era scritto Fusecchio anziché Fucecchio. Ottorino aggiungeva che il monumento all’illustre patriota Giuseppe Montanelli, sulla piazza principale era soprannominato sarcasticamente “Cacalibbri”. A causa del monumento che pendeva all’indietro, per evitare che potesse cadere gli avevano posto sul retro del sedere… una pila di libri monumentali. Insomma un po’ di presa in giro c’era anche per il quadrunviro del nostro Risorgimento. Il paese doveva avere un nome serio, Fucecchio non lo era, Focenza sì. Era stato a Viareggio che Ottorino aveva perso la pazienza, allorché in pineta alla pista dei trenini in pineta per ragazzi vide un gruppo di persone che ridevano nel leggere un grosso cartello Fucecchio-Sciangai e ritorno. E i ragazzi volevano andare a Fucecchio, ma pronunciavano il nome del

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paese storpiato. Il cavaliere Ottorino, Luciano Gianfranceschi di fronte a tanto strazio, s’impuntò di cambiare il nome e quasi ci era riusciSi ringrazia to, convincendo anche la maggioranla Fondazione Montanelli za dei consiglieri comunali. per la documentazione messa a disposizione. Senonché il diavolo ci mise lo zampino, in una maniera quasi incredibile, nei panni di Indro Montanelli che si trovava – da inviato del Corriere della Sera – a Calcutta, eppure venne a sapere quel che si tramava sul nome del nostro paese e scrisse sull’autorevole suo giornale nella pagina della cultura un articolo che intitolò alquanto sarcasticamente “Fu-Fucecchio”. E cosicché quella mattina del 4 giugno nella piazza Montanelli (Giuseppe) del mercato, ben presto la situazione si capovolse. Montanelli veniva a Fucecchio quasi di soppiatto, ricordo una volta che dal Poggio Salamartano scese in piazza Vittorio Veneto e poi salì a vedere le torri in Fattoria Corsini. “Non lo trovate un mecenate che salvi queste belle testimonianza del passato?” Le sue parole arrivarono all’orecchio (indovinate chi le aveva mormorate) al Fucecchio ministro Giovanni Spadolini, che mise ben più di una parola buona. Indro Montanelli

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COSTUME

giornalismo

2.0

il web e i social: amici o nemici? Giorgio Banchi

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egli ultimi anni il web, i social e tutto l’universo 2.0 hanno invaso la nostra vita e hanno condizionato abitudini e mestieri che si sono modificati e trasformati repentinamente nel tempo. Quindi sorge spontaneo domandarsi: com’è cambiato il lavoro dei giornalisti in un’epoca come la nostra dove siamo sommersi di informazioni, news e aggiornamenti continui? Come si adatta il giornalismo tradizionale alla realtà 2.0 ? Direi che l’analisi deve partire dal confronto con il giornalista tradizionale, quello che viene da una tradizione di redazione. Ieri i giornalisti di carta stampata nelle uscite in esterna (conferenze stampa, partite di calcio, incidenti e altro) dovevano avere sempre con sé un blocco per gli appunti, una penna e un registratore vocale e spesso erano accompagnati da un fotografo. Quello televisivo invece era seguito da un cameramen con tanto di videocamera, microfono e cavalletto. Ovviamente una volta in redazio-

ne il materiale andava trascritto al computer e i filmati scaricati e montati. Oggi lo sviluppo della tecnologia rende possibile accentrare in un unico strumento mobile come un tablet o uno smartphone molte delle funzioni che prima avvenivano con supporti tradizionali. Qualsiasi giornalista munito di un tablet o di uno smartphone può scattare foto e fare video senza più l’ausilio di un fotografo o di un cameramen, in questo modo si crea anche un risparmio cospicuo per gli editori visto che oggi una sola persona con un cellulare eguaglia quasi al cento per cento l’efficienza e la qualità del materiale che prima potavano raccogliere giornalista più fotografo. Il web, i social non sono i nuovi media, o almeno, sono mezzi di comunicazione aggiuntivi a quelli che già abbiamo, sono la prova dell’esistenza di un nuovo universo dove esistono leggi diverse da quelle che conosciamo, tra le quali troviamo l’assenza dei limiti di spazio

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e di tempo. Il giornalismo si fonda sul dove e sul quando. Nel mondo analogico del giornale esistono gli archivi ma in internet di per sé non esistono, si vive in un eterno presente. Ciò comporta dei problemi storico- documentaristici. Le testate giornalistiche cambiano di giorno in giorno e sul web possono scomparire completamente, e di fatto accade. Paradossalmente se faccio una ricerca in biblioteca posso ritrovare un numero della gazzetta di Mantova del 1600, ma non posso trovare il sito della CNN in italiano che agli inizi degli anni 2000 fece questo interessante esperimento, ma questo sito adesso è chiuso e non c’è più nulla in rete. La professione del giornalista non si può solo limitare al giorno d’oggi a riportare i fatti accaduti ma deve verificarli e approfondirli. Negli ultimi mesi sono stati molti i faccia a faccia che hanno visto come protagonisti Donald Trump e Hilary Clinton, seguiti live da milioni


di persone. I social e il web riportavano frasi e battute di entrambi i candidati in tempo reale. Questo ci fa capire che in pochi hanno avuto bisogno di leggere i quotidiani del giorno dopo per saper che cosa si fossero detti i due candidati. Il New York Times, infatti, non si limitò solo a riportare letteralmente ogni parola detta da Hilary o Donald ma accanto ad ogni affermazione, con le prove alla mano, il New York Times ha indicato se quello che avevano detto corrispondeva alla verità oppure no. Hanno quindi verificato le affermazioni di entrambi i candidati, e ciò prevede da parte del giornalista una grande preparazione e un lungo tempo di verifica, che è realmente utile al lettore che ha i mezzi per seguire il dibattito in tempo

reale, ma non per verificare ogni parole detta dai candidati come invece può fare un giornalista. Torniamo invece con la memoria ai fatti di cronaca italiani e pensiamo alla scomparsa del grande cantautore napoletano Pino Daniele. Ci verrà in mente che i primi a dare la notizia sono stati I Negramaro, Eros Ramazzotti e Laura Pausini sui rispettivi profili social. La notizia ufficiale dell’ANSA è arrivata con ben tre ore di ritardo, quando potremmo dire che già tutta l’Italia ne era al corrente. Questo ritardo a primo impatto inspiegabile ha una ragione molto precisa; quelle tre ore sono il tempo che le agenzie di informazione italiane, tra cui l’ANSA, hanno impiegato per verificare la notizia con l’agente e i familiari di

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Pino Daniele. Se ciò non fosse avvenuto sarebbe venuto meno un principio base del giornalismo, verificare la veridicità e l’attendibilità della notizia. I social sono molto diretti e immediati ma per questo rischiano di essere spesso imprecisi e troppo precipitosi. La tecnologia viene in aiuto al mondo del giornalismo, infatti esistono app (anche tra le più comuni che usiamo tutti i gironi) che, se usate intelligentemente, possono essere d’aiuto per i professionisti. Se torniamo con la memoria al golpe di questa estate ai danni del presidente turco Erdogan, troviamo un esempio di come le app e i social si siano resi indispensabili per il giornalismo. Infatti Erdogan ha potuto interloquire con i giornalisti e il popolo turco grazie all’uso di FaceTime, l’applicazione della Apple che ti permette di effettuare videochiamate. In questo caso se il mondo digitale che conosciamo non fosse esistito, non ci sarebbe stato modo di contattare il presidente. Il web e social non sono nati come nostri nemici ma lo diventano se ne facciamo un uso improprio e non ragionato.


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pSIcOLOgIA

SOSTENERE L’INTEGRAZIONE i valori del sostegno pscicologico ai migranti

Costanza Cino

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fine dicembre 2015, la Toscana contava la presenza di circa 7200 immigrati, numero che è aumentato nel corrente anno avvicinandosi a 9000. I rifugiati sbarcati in Italia nel 2016 provengono soprattutto da Nigeria, Gambia, Somalia, Eritrea, Guinea e Costa d’Avorio. A prescindere dal paese di provenienza, ad accumunare i migranti non è il lungo viaggio che li ha portati in Italia, ma quello percorso verso la speranza di una vita migliore, lontana dalla guerra, dalla completa povertà, dalle minacce di morte per motivi religiosi o politici, dalle torture subite per motivi razziali. Si tratta di persone che, molto spesso dopo aver visto morire la propria famiglia, hanno deciso di allontanarsi dalla propria casa per sopravvivere, attraversando diversi Stati in cerca di una “possibilità” per ricominciare. Va sottolineato che una buona parte di queste persone non ha nemmeno scelto volontariamente di imbarcarsi per l’Italia, anzi è stata obbligata, con minacce di morte e talvolta bendata, a salire su una barca senza sapere quale fosse la destinazione del viaggio. La maggior parte degli immigrati arriva così nel nostro Paese, dopo aver subito innumerevoli traumi sia fisici che psicologici, dopo essere stata derubata, incarcerata e costantemente maltrattata per motivi razziali. Per alcuni di quelli che hanno ancora dei familiari viventi nel paese d’origine, è difficile e talvolta impossibile mettersi in contatto con loro. Sono costretti quindi a vivere chiedendosi ogni giorno quale sia la condizione in cui si trovano i propri cari, senza sapere se mai rivedranno la propria moglie o i propri figli. Questo è ciò che ho potuto constatare

dall’inizio della mia collaborazione in affiancamento alla dott.ssa Silvia Negro, psicologa psicoterapeuta, presso l’Associazione Differenze Culturali e Nonviolenza Onlus di Firenze, i cui progetti sono coordinati e supervisionati dalla dott.ssa Maria Assunta Lucii. L’Associazione, nata come gruppo nel 1992 propone oggi servizi e percorsi destinati a persone in situazioni di disagio sociale e/o con disabilità psicofisiche attraverso progetti individuali e personalizzati. Da novembre 2015, nelle zone di Certaldo e San Gimignano, l’Associazione offre anche il servizio di accoglienza per migranti richiedenti asilo. Oltre alla prima “casa” messa a disposizione per tale servizio, nel giro di pochi mesi sono nate altre quattro strutture e a breve termineranno i lavori nella quinta, ospitando un totale di circa 100 rifugiati. Il servizio di accoglienza dell’Associazione si avvale di un’equipe multidisciplinare, unita dal comune allo scopo di lavorare per l’integrazione. È inoltre possibile per i rifugiati usufruire di uno sportello d’ascolto.

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Il sostegno psicologico nell’ambito dell’immigrazione ha molteplici valori, tra i quali il recupero della propria dignità come persona dopo le torture subite, il contenimento del disagio provocato dai traumi (ansia, depressione ecc.), il mantenimento di un legame emotivo con le proprie origini, il supporto nell’incontro con una nuova cultura. per info: dott.sa Costanza Cino www.psicostanza.it


CURIOSITà

la renna regina dei ghiacci L

a renna (Rangifer Tarandus), chiamata Caribù in America del Nord, è un mammifero appartenente alla famiglia dei Cervidi. Imponente e leggiadra, popola in numerosi branchi le gelide pianure della tundra, tipiche delle regioni boreali (Scandinavia, Russia, Mongolia, Cina, Canada e Alaska). Date le avversità climatiche, al sopraggiungere dell’inverno le renne sono obbligate a lunghe migrazioni verso latitudini più basse, sino a toccare le grandi foreste di conifere. Si tratta di animali abilissimi nel percorrere distanze enormi, ma altresì di eccellenti nuotatori, capaci di avanzare immersi nelle acque gelide dei fiordi fino al raggiungimento della terraferma. Le renne sono indubbiamente creature che ben tollerano i freddi più rigidi, grazie alla struttura del loro folto mantello isolante. Possiedono zoccoli fittamente ricoperti di pelo ed a superficie ampia e appena incavata, che agevolano l’equilibrio sul terreno innevato, oltre a isolare dalle basse temperature del suolo; in aggiunta, i cuscinetti delle zampe in estate acquisiscono un’entità spugnosa, che favorisce lo spostamento nella cedevole tundra, mentre in inverno si ritraggono esponendo il bordo dello zoccolo che risulta utile a scindere il ghiaccio. Due particolari curiosi riguardano il muso di questo cervide: il naso, in quanto ricchissimo di globuli rossi, pare espressamente concepito sia per riscaldare l’aria prima che penetri nei polmoni sia per difendere dal congelamento; gli occhi delle renne, inoltre, sono incredibilmente cangianti, dorati in estate poiché sottoposti a luminosità pressoché persistente, ma blu nel buio dell’inverno, momento in cui la retina riflette meno la luce. Tratto distintivo delle renne sono le loro corna, le quali si presentano ricoperte

da uno strato di lanugine molto simile al soffice velluto; a differenza degli altri cervidi, anche le femmine di renna possiedono le corna, benché le abbiano meno estese rispetto a quelle dei maschi; non esistono due palchi identici, ogni diramazione ha una sua forma unica esattamente come accade per le impronte digitali degli esseri umani. Le renne perdono le corna una volta l’anno, per poi vederle ricrescere in estate con una rapidità di circa due centimetri al giorno. Nella seconda metà di maggio, i branchi intraprendono la loro migrazione primaverile per portarsi in un’area, la tundra, che dopo il disgelo indossa una florida e nutriente vegetazione. In questo periodo avvengono le nascite dei piccoli: i cuccioli di renna si mostrano persino in grado di seguire le madri dopo pochissime ore dal parto; peculiari sono gli esiti di alcuni studi sul latte di renna, da cui risulta che esso sia un alimento enormemente ricco e nutriente, rispetto a quello di tutti gli altri mammiferi terrestri. Questo nobile ed

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energico esemplare dal manto felpato ha costituito, nel tempo, una risorsa primaria: apprendiamo, infatti, da fonti quali graffiti e pitture rupestri, quanto il legame uomo - renna sia intenso ed antico sotto il profilo del sostentamento; ancora oggi i Lapponi, popoli nomadi dell’estremo nord del nostro continente, sono congiunti per vari aspetti alla renna: di essa seguono le migrazioni e da essa dipendono quasi esclusivamente per il mantenimento e la nutrizione nonché come mezzo di traino. Nondimeno, la tradizione natalizia nordeuropea evidenzia splendidamente l’operosità delle renne nel trasportare animosamente la slitta: senza di loro sarebbe ardua impresa per Babbo Natale recapitare tutte le strenne in una sola notte. “Così le renne volarono sul tetto della casa, trainando la slitta piena di giocattoli” Clement Clarke Moore 1823

Patrizia Bonistalli

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NUOVI CORSI GRATUTI PER LA FORMAZIONE DI TECNICI E ADDETTI SETTORE CONCIARIO E CALZATURIERO

IFTS: corso gratuito ‘T.O.Pi.C. Corso per formare un tecnico Tecnico delle attività di ottimizzazione dei processi di produzione

Corso “CERTIFICA – PELLE: Competenze per la concia della pelle” - Formazione mirata all’inserimento lavorativo

Il corso IFTS, promosso PO.TE.CO. Scarl, capofila dell’ATS che vede partner l’Università di Pisa, Istituto IT C. Cattaneo, l’Agenzia Fo.Ri. Um., Scuola Superiore Sant’Anna, l’Associazione SMILE Toscana, Associazione Conciatori di S. Croce s/Arno, Consorzio Conciatori di Ponte a Egola e il Consorzio Calzaturieri della Provincia di Pisa, ha l’obiettivo di formare un Tecnico che conosce tutte le specifiche fasi del processo di progettazione delle materie prime e del prodotto pelle e calzatura. Ha il compito di ottimizzarne i processi di produzione, agendo su strumenti, tecnologie e materiali correnti all’interno del contesto tecnologico esistente, nel rispetto degli standard qualitativi, d’immagine e di costo del prodotto. Alla figura è altresì richiesto di affiancare il responsabile (industriale o tecnologie o produzione in relazione al tipo di organizzazione aziendale) nelle attività finalizzate all’innovazione tecnologica, qualora ciò sia richiesto dai nuovi progetti. Trova impiego in aziende calzaturiere e conciarie

Il corso promosso da PO.TE.CO. Scarl, e l’Agenzia Fo.Ri.Um., ha l’obiettivo generale di far acquisire conoscenze e competenze per facilitare l’inserimento lavorativo nel settore Conciario. Al termine del percorso l’allievo sarà in grado di operare nelle prime fasi del processo conciario, in particolare nella fase umido, avendo competenze per l’utilizzo delle macchine e dei prodotti chimici necessari per la concia. Trova impiego in aziende conciarie e conto-terzi del settore.

Il corso è interamente gratuito in quanto finanziato con le risorse del POR FSE TOSCANA 2014-2020 - Asse C (D.D. n. 1148 del 07/03/2016) e rientra nell’ambito di Giovanisì (www.giovanisi.it), il progetto della Regione Toscana per l’autonomia dei giovani. Destinatari Il corso è rivolto a 20 diplomati e si svolge a S.Croce S/Arno presso le sedi dei partners PO.TE.Co. e Fo.Ri.Um.sc. Attestazione finale Certificato nazionale di Specializzazione Tecnica livello 4 EQF di Tecnico delle attività di ottimizzazione dei processi di produzione Struttura del corso 800 ore tra lezioni teoriche, esercitazioni in laboratorio. Stage e orientamento. Frequenza obbligatoria. Il corso prevede un impegno giornaliero di circa 4/5 ore.

Corso interamente gratuito finanziato con Decreto Dirigenziale della RT 1370 del 24/03/2016 Destinatari Il corso è rivolto a 15 cittadini, che hanno adempiuto al diritto-dovere o esserne prosciolti, , con età compresa tra i 18 e i 29 anni e si svolge a S.Croce S/Arno presso le sedi dei partners PO.TE.Co. e Fo.Ri.Um.sc. Attestazione finale A coloro che supereranno con successo l’esame finale sarà rilasciato il certificato delle competenze per le ADA: UC 1989 Caricamento dei macchinari per l’avvio al processo di concia; UC 1990 Selezione e classificazione delle pelli grezze e wet-blue; UC 696 Avviamento alla produzione Struttura del corso 330 ore tra lezioni teoriche, esercitazioni in laboratorio. Stage e orientamento. Frequenza obbligatoria. Il corso prevede un impegno giornaliero di circa 4 ore.

PER ENTRAMBI I CORSI Scadenza iscrizioni 23 Dicembre 2016 Per Informazioni e Iscrizioni: PO.TE.CO. SCRL, dal Lunedì al Venerdì 08.30 - 18.00 Via San Tommaso n. 119/121/123 - 56029 Santa Croce sull’Arno (PI) Tel.: 0571 471318, 0571 360078 Fax 0571/486972 - www.polotecnologico.com FO.RI.UM. SC, dal Lunedì al Venerdì 9.00 - 18.00 Via Del Bosco n. 264/F - 56029 Santa Croce sull’Arno (PI) Tel.: 0571 360069 Fax 0571/367396 - www.forium.it


PROGETTI

amici per la pelle esempio concreto di alternanza scuola lavoro

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mozionati e incuriositi, protagonisti di un viaggio affascinante in un mondo di cui spesso sentono parlare, ma che ancora non conoscono del tutto: sono gli Amici per la Pelle, studenti delle scuole medie del Comprensorio del cuoio, alla scoperta dell’industria conciaria. Taccuino in mano, pronti a prendere appunti ad ogni spiegazione che gli viene fatta dagli imprenditori che li accompagnano in visita insieme agli insegnanti: per molti dei ragazzi è la prima volta che entrano in un’azienda. Un’esperienza in grado di sollecitare il loro interesse e la loro creatività, sullo sfondo della filiera-pelle. L’alternanza scuola lavoro, nel Comprensorio del cuoio, con Amici per la Pelle, è già una realtà, consolidata in ormai circa 10 anni: nato nel 2010 da un’idea del Gruppo giovani conciatori toscani, il progetto è oggi tra gli appuntamenti più attesi dagli studenti, ed una scommessa vinta, esempio del dialogo vincente tra imprenditori, che hanno ideato il progetto, scuola e pubblica amministrazione che ne sono state coinvolte. «Il successo di Amici per la Pelledice il vicepresidente Assoconciatori Roberto Giannoni, tra i suoi ideatori - è nell’entusiasmo dei ragazzi che vi

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partecipano e nel riscontro ottenuto: grazie al progetto molti di loro scoprono concretamente che cosa è il distretto conciario e quante opportunità può offrire anche in termini di studio e di lavoro». L’idea di riservare la partecipazione ad Amici per la Pelle a studenti che frequentano la seconda media è mirata proprio a dare uno spaccato concreto sulle future scelte di studio che i ragazzi potranno fare, con il risultato che molti studenti, grazie a quanto appreso con il progetto, scelgono studi legati all’industria conciaria, sia nelle scuole superiori del territorio, come l’Istituto Cattaneo di San Miniato, che all’Università. Dopo una fase d’aula, con spiegazioni sulla filiera della pelle fatte in classe

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direttamente dagli imprenditori conciari, fino a dicembre proseguiranno le visite in concerie e calzaturifici, che si concluderanno in primavera negli impianti industriali del distretto, dedicate al tema della depurazione. Contemporaneamente gli studenti parteciperanno ad una sfida, a colpi di creatività, realizzando lavori in pelle ispirati ad un tema specifico, che varia in ogni edizione del progetto e che quest’anno è il tema del gioco. Un’esperienza ricca e articolata, quella di Amici per la Pelle, che anche nell’edizione 2016\17 si sta confermando un vero e proprio esempio di alternanza scuola lavoro utile alle nuove generazioni di studenti, in grado di contribuire ad arricchirne il bagaglio di conoscenze.

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c STORIA

concia e ’è concia

Una gocciola di miele concia un mar di fiele*

Roberto Mascagni

Lo scorticatore di agnelli (incisione di Giuseppe Maria Mitelli, 1634-1718), in: Luciano Artusi, Firenze araldica, Polistampa, Firenze, 2009. (Per gentile concessione dell’editore Pagliai-Polistampa).

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er continuare il racconto sull’Arte della Conciatura delle pelli a Firenze, ci siamo rivolti nuovamente a Luciano Artusi. Nell’articolo precedente pubblicato in questa rivista, sono stati raccontati gli albori storici dell’attività svolta dai conciatori fiorentini, ma non abbiamo esaurito l’argomento. Che qui di seguito prosegue. «Infatti – spiega Luciano Artusi – bisogna aggiungere che i lavori del tutto marginali alla conciatura erano quelli del “minugiaio”, che conciava le budella degli animali per realizzare corde armoniche per gli strumenti musicali o cartapecora per rilegare i libri, e poter scrivere sopra le pelli ridotte a misura di pagina con l’inchiostro o i colori delle miniature. Affinché questi non venissero assorbiti, sopra le pergamene veniva spalmato l’amido di riso». Se l’Arte dei Conciatori, come sap-

piamo, era governata da un Collegio di soli tre Consoli, vuol dire che i suoi aderenti non erano numerosi. Nel territorio cittadino i cuoiai non erano molti, tuttavia la loro presenza aveva una certa rilevanza nel contesto dell’economia di Firenze, dove figuravano per mezzo dei loro libri contabili. Come tutti gli altri artigiani erano soggetti alle tassazioni del Comune. Gli altri adempimenti – continua Luciano Artusi – prevedevano la tenuta di un registro sul quale dovevano riportare il numero delle merci lavorate, i nomi dei compratori, la data e il prezzo di vendita. Da queste note particolari si capisce che anche i modesti artigiani sapevano leggere e far di conto. Sappiamo quanti fossero gli iscritti a quest’Arte? Nel 1276 i conciatori che esercitano il mestiere nel “popolo” della chiesa dei Santissimi Apostoli, vicina al Ponte Vecchio, risultano essere 22, in gran parte addetti alla produzione pregiata. Da un altro dato risulta che nel 1321 i maestri galigai erano 73, sparsi in città e nel contado di Firenze. Questi avevano la consuetudine di definirsi “mercanti e artefici”, perché anteponevano l’attività mercantile a quella manifatturiera. Questa distinzione discendeva da una ragione precisa? Sì, perché i conciatori rischiavano il proprio capitale comprando le pelli destinate alla concia, calcolando l’immobilizzo del capitale investito per almeno otto mesi interi, prevedendo norme d’ordine mercantili e speculative, quindi precedenti allo sbocco ultimo dell’attività che finalmente avrebbe svolto l’artigiano. Più tardi, la corporazione prese il nome di “Arte del Choiame”.

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Quali erano le specifiche lavorazioni dei cuoi? Questi erano tenuti immersi per mesi nell’acqua “cotta”, cioè nell’acqua bollita, con dentro una dose di concio; le pelli erano trattate anche con orina di animale fermentata e con la “canizza”, ossia con sterco di cane. Tuttavia vi erano altri tipi di concia, per lo più vegetale, usati a seconda dei cuoi o delle pelli che si dovevano lavare. Quali erano le conce vegetali più usate? Queste potevano essere polvere ricavata dalla scorza del leccio, del cerro o della sughera. Per quelle dette di “sommacco”, adatte alle pelli di capra e di pecora, erano impiegate le foglie macinate della piccola pianta mediterranea del Sommacco, perché ricca di tannino. Mentre la concia a “mortella” risultava dalla polverizzazione delle foglie e dei rami di questo arbusto sempreverde. Altre sostanze erano l’allume, il sale, le farine e l’olio di pesce. Le pelli pronte per la concia potevano essere fresche o secche: le prime dette “crude” o di “macello”, mentre quelle secche venivano trattate con l’allume o il sale, perché non si sciupassero. Numerose infatti provenivano da lontano, per esempio la Sicilia, la Sardegna, il Nord Africa, anche dalla Palestina. Private della pelliccia, delle lonze, cioè coda, labbri, orecchie, e delle residue impurità, le pelli venivano lavorate dai garzoni. I pellami – continua Artusi – dopo essere stati ben risciacquati, erano, per diversi giorni, immersi nel “calcinaio”, una buca piena d’acqua e calcina da imbianchino, e rimestate con un apposito arnese chiamato


“bollero”. Alla fine, dopo averle ben lavate e stese sopra un cavalletto a piano convesso, venivano raschiate e levigate. Così meticolosamente pulite passavano nella concia prescelta dove rimanevano per mesi. Erano operazioni variabili a seconda del tipo delle pelli e dei cuoi che potevano essere lavorati a vacchetta o a pellame e che, una volta divenuti “arrendevoli”, potevano essere venduti ai calzolai e ai correggiai. Erano praticati altri tipi di conciature? Si usava la concia all’ “uso italiano”, quella all’ “uso francese, detta in rammorto”, quella “a guado”, “a tomajo”, quella “dei suggatti” e quella “delle pelli pei sacchi militari”, i cui ingredienti potevano variare e in parte utilizzati con modalità diverse. Chi garantiva la bontà del prodotto finito? Il Comune - aggiunge Artusi - nominò un proprio Ufficiale con l’incarico di sorvegliare l’operato degli altri funzionari, a loro volta nominati dal Governo dell’Arte per seguire con esattezza e correttezza tutte le fasi della lavorazione delle pelli, perché solo un’ottima concia garantiva l’integrità del prodotto, conferendo ai cuoi morbidezza, pieghevolezza o durezza, a seconda dell’utilizzo. Dove svolgevano la loro attività i conciatori fiorentini? Fin verso la metà del Trecento i conciatori esercitavano l’attività prevalentemente vicino alle rive dell’Arno, a monte o a valle del Ponte Vecchio. A questi artigiani la presenza del fiume era indispensabile per immergere le pelli nel fiume e farle ben dissanguare, prima di sottoporle alla lavorazione. Inoltre, lo slargo del fiume garantiva una maggiore ventilazione. Oggi ci preoccupiamo molto della qualità dell’aria che possiamo controllare con gli strumenti, ma solo a partire dai nostri tempi. Il cattivo odore delle conce si diffondeva ovunque e costantemente, perciò il Comune, per quanto riguarda Firenze, impose il trasloco di questi laboratori artigiani in una zona decentralizzata, che fu individuata nel quartiere di Santa Croce: un dedalo di strette vie, prossime all’omonima basilica, delle quali la toponomastica ci ha tramandato il ricordo: via delle Conce, via dei Conciatori. Il problema dell’aria malsana lo si trova descritto in una memoria degli Statuti del Governo fiorentino dell’epoca: «Ne le bottighe [botteghe] dei

conciatori dei panni dell’arte, i detti conciatori tengano l’acqua fracida e puzzolente ne le loro bottighe, sì che i mercatanti ch’entrano ne le loro bottighe, è mestiere di turarsi el naso e fuggire de la bottiga quando dovrebbero vendere e comprare». Un’altra testimonianza - informa Luciano Artusi - ce la dà Bernardino Ramazzini, un medico vissuto nel ’600, noto autore del libro Le malattie dei lavoratori (De Morbis artificum diatriba, 1713): «I conciatori che fanno macerare le pelli degli animali nel tini con calce e galla, le pestano con i piedi, le lavano, le puliscono, le ungono di sego per i vari usi, nello stesso modo, dicevo, sono esposti alla puzza e alle fetide esalazioni. Appaiono cadaverici, gonfi, lividi, asmatici e quasi tutti splenici. Mi è capitato di vedere non pochi di questi lavoratori diventare idropici». E aggiunge: «Vivendo sempre in luogo umido e respirando l’aria inquinata da quelle orribili esalazioni delle pelli semi putrefatte, come è possibile che gli spiriti vitali ed animali ne siano avvelenate e non si sconvolge quindi l’equilibrio di tutto l’organismo?». Un aggravamento delle misere condizioni di lavoro di quegli antichi operai era infine rappresentato dalla illuminazione di quei fetidi bassifondi, ottenuta da lampade dove bruciava l’olio delle noci invece di quello di oliva, perché il primo costava molto meno e la coltivazione di questo frutto, in Italia, era allora più abbondante. Continua Ramazzini: «Quanto sia dannoso al capo il fumo che esala dall’olio di noci, lo sa per esperienza chi sta in una camera chiusa (…). Quando la stanza è piena di fumo si esce con un gran mal di testa, vertigini ed intontimento». Né di ciò ci mancano altri esempi. Questo che segue porta la data del 1796: «Quel luogo cosiddetto delle Conce dietro di San Giuseppe, ha una fogna che passa sotto la via denominata dei Conciatori la di cui costruzione e mantenimento spetta unicamente ad un numero determinato di questa specie di manufattura ai 24 conciatori. Accade spesso che detta fogna non in grado di ricevere né acque né materie avanzate dalla lavorazione delle pelli e cuoia era intasata tanto che le acque e materie si trattenevano sulla superficie delle strade, laonde si fatto ristagna e produce del fetido odore che poteva rendersi grandemente pregiudizievole alla sana respirazione di tutti gli abitanti e circonvicini». (Archivio

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Storico del Comune di Firenze, CA 1033 C.587). Fra quel che si legge e ciò che si può immaginare, ce n’è abbastanza per comprendere quelle terribili condizioni ambientali che facevano ribollire intorno a sé malattie, vizi, abbrutimenti, sfruttamento e corruzioni. * Dell’arte della conciatura sviluppatasi a Firenze, qui perfezionata e raffinata nel corso dei secoli, ricordiamoci di attribuirne il successo agli umili e sconosciuti artefici di allora, il cui ingegno non ebbe altro in comune che una miserevole esistenza e la disperata necessità di vivere, comunque riuscissero a farlo. -------------------------------------------* L’antico proverbio toscano intende “Una parola d’affetto è un grande compenso e rimedio”.

Prossime alla basilica di Santa Croce, la via dei Conciatori e via delle Conce ricordano ancora, nei nomi, le attività dei loro antichi abitanti. (Fotografia di Moreno Vassallo). La fiorentina Arte dei Cuoiai aveva eletto suo protettore Sant’Agostino, mentre quelli francesi si appellavano a San Crispino, che vediamo qui rappresentato.


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ALIMENTAzIONE

LEGUmI riscoprire la bontà Paola Baggiani

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l 2016 con lo slogan: ”semi nutrienti per un futuro sostenibile” è stato proclamato dall’ONU l’anno internazionale dei legumi!. Lo scopo è sensibilizzare ed aumentare la consapevolezza dei molti vantaggi dei legumi, incoraggiarne la produzione, il commercio e l’utilizzo. I legumi sono una fonte di proteine e di micronutrienti che può essere di grande beneficio per la salute e la sussistenza delle persone sopratutto nei paesi in via di sviluppo, e possono contribuire in modo significativo ad affrontare la fame e la malnutrizione. Sono una valida alternativa alle più costose proteine di origine animale e questo li rende ideali per migliorare la dieta nei paesi più poveri. Secondo il direttore generale della FAO l’obiettivo è che per l’anno 2020 i legumi rappresentino il 20% del totale delle proteine consumate a livello

mondiale. La coltivazione dei legumi può essere utile a migliorare anche le condizioni degli animali poiché i residui delle leguminose possono essere utilizzate come foraggio; può migliorare la fertilità del suolo per la proprietà dei legumi stessi di fissare l’azoto, eliminando la dipendenza dai fertilizzanti chimici con conseguente minor impatto ambientale. Contribuiscono inoltre al contenimento del cambiamento climatico grazie alla riduzione delle emissioni di anidride carbonica nell’atmosfera. I legumi sono semi delle piante appartenenti alla famiglia delle leguminose, la loro coltivazione è molto antica e hanno origini da diverse aree del pianeta: ceci, piselli, fave, lenticchie, lupino derivano dai paesi che si affacciano sul bacino del Mediterraneo e dall’Oriente; la soia è originaria dell’estremo Oriente; i fagioli e gli arachidi dall’America. I

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legumi sono ricchi di proteine, dal 20% al 40 %, quantità simile a quella degli alimenti di origine animale e molto superiore a quella contenuta nei cereali; le proteine contenute sono di buon valore biologico ma carenti di alcuni aminoacidi essenziali sopratutto di lisina. Per completare il profilo nutrizionale di un pasto con i legumi in modo ottimale, è sufficiente abbinare ad essi i cereali per consentire la cosiddetta “complementazione proteica”, l’esempio è l’abbinamento di pasta con fagioli piatto tipico della dieta mediterranea. Il contenuto di grassi è molto basso, e sono sopratutto di tipo insaturo; sono inoltre una valida fonte energetica per il loro contenuto di carboidrati. Hanno un alto contenuto di fibra sia solubile, utile nel controllo della glicemia e del colesterolo ematico, che insolubile importante nella regolarizzazione della motilità intestinale. Tutti i legumi sono un’ottima fonte di sali minerali: ferro, zinco,calcio, potassio, di vitamina B1 e PP. Queste caratteristiche si riferiscono ai legumi secchi; nel caso dei legumi freschi non vale la stessa regola, poiché essi hanno un elevato contenuto di acqua e i valori nutrizionali in termini di proteine, grassi e carboidrati sono simili alle verdure. Il Legume più coltivato e diffuso al mondo è la soia, i principali produttori sono Stati Uniti, Brasile e Argentina. In Italia il suo utilizzo si è notevolmente ampliato grazie al diffondersi della cultura vegetariana e vegana. La soia ha la più alta presenza di proteine rispetto agli altri legumi: il 35%, con il 23% di carboidrati; in tutti gli altri legumi(fagioli, ceci, lenticchie, fave, piselli il contenuto di proteine è in


media il 22% del peso e quello dei carboidrati del 45% circa. Esistono tre diverse varietà: la soia gialla dalla quale si ricava anche la farina; la soia rossa o Azuki ad azione disintossicante e la soia verde, adatta per la produzione di germogli che rappresentano un’importante fonte di minerali e vitamine. I fagioli sono i legumi più ricchi di fibra, la presenza della lecitina li rende utili alla riduzione del colesterolo. Esistono numerose varietà, circa 300, tra i quali cannellini, borlotti , il bianco di Spagna, il galiziano, il messicano, il fagiolo dall’occhio, i fagioli di Lima. La coltura di alcune qualità in Italia ha assunto particolare importanza grazie al riconoscimento del loro valore con i marchi DOP e IGP assegnati fra le altre al fagiolo di Sorana in Toscana. I ceci anch’essi in diverse varietà come il cece piccolo del Valdarno di colore chiaro, il cece di Cicerale di colore più scuro, ecc., hanno un ottima digeribilità e trovano impiego nella preparazione di svariati piatti come”la farinata” in Liguria, in Oriente l’”hummus”, in Tunisia il “falafel”. Le lenticchie sono particolarmente energetiche per la ricchezza in amido e dotate di un buon contenuto in ferro. Le varietà più note sono la lenticchia di Ustica, la verde di Altamura, la lenticchia di Villalba. Infine le fave, i piselli e le cicerchie, queste ultime poco conosciute perchè la loro coltivazione era stata abbandonata, ma ripresa negli ultimi anni, hanno tutte un basso contenuto di grassi e forniscono un buon apporto di proteine, ferro e fosforo. La tolleranza dei legumi può risulta-

re per alcuni a volte difficile, perché possono provocare meteorismo e gonfiore intestinale per la presenza di zuccheri indigeribili (raffinosio, stachioso) che giungono inalterati fino all’intestino crasso dove vengono fermentati dalla flora batterica locale. Si può imparare a cucinarli per favorire l’assimilazione, e anche alcuni semplici accorgimenti come mettere a mollo i legumi cambiando spesso l’acqua, buttare la prima acqua di ebollizione, possono essere di aiuto. Il consumo dei legumi in Italia in precedenza quasi scomparsi dalla nostra alimentazione negli ultimi anni ha registrato un aumento. Negli dopo la seconda guerra mondiale e in quelli del boom economico grazie all’aumentato tenore di vita della popolazione, la tendenza era al consumo sempre più di carni, latticini e formaggi che venivano considerati prodotti con più elevate qualità nutrizionali, a scapito dei legumi considerati la “carne dei poveri”. In epoca più recente, dopo averne riscoperte le numerose proprietà, aver constatato i pericoli di un eccessivo consumo di carne e latticini,e con l’adozione di nuovi stili di vita vegetariani e vegani, i legumi sono stati rivalutati. I legumi per le loro proprietà, per la ricchezza di proteine e micronutrienti, per il basso contenuto di grassi e per la loro versatilità nell’uso, non possono mancare in una dieta sana ed equilibrata. www.baggianinutrizione.it

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costume

Terra un regalo per la

Di Caprio. Per ribaltare il “punto di non ritorno” Eleonora Garufi

Leonardo Di Caprio

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ccoci come ogni anno alle porte del Natale. Con Reality cerchiamo sempre di darvi qualche spunto divertente per le feste, qualche dritta sul regalo migliore, la colonna sonora più adatta, le immancabili tradizioni. Quest’anno per una serie di strane coincidenze mi sono trovata di fronte a un tema molto delicato. Stavo aspettando l’uscita in TV di Revenant-Redivivo, il film che ha, finalmente, regalato l’Oscar come miglior attore a Leonardo Di Caprio, e mi sono invece imbattuta in un interessante documentario, trasmesso in esclusiva su National Geographic il 31 di ottobre. Before the Flood (Punto di non ritorno) è il titolo di questo interessante lungometraggio che tratta un delicato, contemporaneo e struggente argomento: il surriscaldamento ambientale, quali siano le cause e cosa possiamo fare per contenere questa degenerazione terrestre. Dopo un preambolo che ci mostra l’intimità dell’attore, la sua storia, si capisce subito, dalle sue stesse parole, il suo attento interesse per il tema

in questione e come sia cresciuto nel tempo, di pari passo alla sua fama, per cercare di trovare una soluzione. “È un’ossessione, il mio interesse per l’ambiente. Mi consuma – ha detto a Stephen Rodrick su Rolling Stone – Non passa un giorno senza che ci pensi. È come un fuoco lento.” Partendo dalla certezza di non avere poteri pratici ma di avere il grande vantaggio di essere ascoltato e seguito dalle persone, Di Caprio sfrutta la sua figura comunicativa affrontando con serietà e con una dedizione lunga due anni, la costruzione di questo documentario, in concomitanza al suo incarico di ambasciatore Onu contro i cambiamenti climatici. “Ce la metterò tutta per capire ogni aspetto di questo argomento, la gravità del fenomeno e le possibili soluzioni” Scienziati, personaggi politici, capi di stato, dal presidente degli Stati Uniti Barack Obama a Papa Francesco: interviste e immagini si succedono con ritmo da produzione hollywoodiana. E lui è lì, a ipnotizzare, a trasmettere informazioni, a mostrare le foreste incenerite dell’Indonesia o le strade inquinate di Pechino, le coltivazioni allagate dell’India e l’innalzamento delle maree in California. Di Caprio gira il mondo in lungo e in largo a sue spese per lasciare insieme a questo progetto il suo concreto contributo affinché iniziamo, tutti, a renderci conto del peso che ogni singolo gesto, ogni scelta che il mondo fa al momento, accorci il tempo di vita della Terra. il premio Oscar mostra inferni reali, non risparmia attacchi alle lobby e occhiate critiche al suo stesso Paese, consapevole di come Stati Uniti e Cina siano responsabili della mag-

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gior parte dell’inquinamento da carbon fossile del pianeta. Sono loro che devono cambiare rotta, che devono permettere in primis una rinuncia alla ricchezza, all’occupazione, alla produzione scellerata, per far sì che i metodi di produzione energetica rinnovabile, che esistono e sono realmente possibili, possano piano piano arrivare al passo con le attuali forme di estrazione combustibile, attraverso l’investimento e la rinuncia. Sì, la rinuncia a una ricchezza avida e cieca ma che oggi non può più essere giustificata. Oggi sappiamo cosa facciamo, siamo consapevoli di cosa comporti a livello ambientale e sociale ogni azione che compiamo. Before the Flood, è un invito a riflettere. O come dice lo stesso Leonardo Di Caprio, una “chiamata alle armi”. E allora facciamo piccoli gesti, iniziamo dalle nostre abitudini, per regalare ai nostri figli la possibilità di conoscere un Pianeta meraviglioso, eterogeneo e variopinto, con posti e essere unici che devono sopravvivere all’Uomo stesso. 1. Risparmia energia: spegni le luci nelle stanze, non lasciare dispositivi in stand by e nemmeno sotto carica, usa lampade a risparmio energetico. 2. Non sprecare l’acqua: chiudila mentre ti lavi i denti! 3. Cammina e vai in bicicletta più che puoi: muoviamo queste gambe! 4. Impara ad usare prodotti alimentari sani e a km 0 5. Educa i tuoi figli al rispetto e alla conoscenza del nostro pianeta perché anche se non sembra, quel che facciamo oggi, sarà quel che lasceremo loro domani.


medicina

mal dimeningi Infettivologia “infernale” e meningite in Toscana

I

l thriller Inferno del celebre Dan Brown, pubblicato nel 2013, ha come filo conduttore il tema infettivologico delle armi biologiche, che da potenziali distruttori di massa diventano speranza per contenere l’esplosione demografica del pianeta Terra. Per larghissima parte del romanzo le vicende si svolgono a Firenze, rievocando fatti, personaggi e luoghi, legati all’immortale Divina Commedia di Dante Alighieri. Enfasi particolare riveste nell’opera la medievale maschera della peste con il suo lungo becco da uccello e il concetto che la peste nera, sfoltendo il gregge umano, abbia preparato la strada del Rinascimento. Per una ancora inspiegata ragione e coincidenza nella valle dell’Arno fiorentino è scoppiata ultimamente un’allarmante epidemia di meningite da meningococco. In Italia nel 2015 su 21 casi di meningite da meningococco di tipo C nella fascia d’età 18-34 anni, ben 17 casi sono stati registrati in Toscana. Dal gennaio 2015 al febbraio 2016 in Toscana e per tutte le età sono stati segnalati 43 casi di malattia invasiva da meningococco, che hanno condotto al decesso di 10 persone, mentre c’erano stati soltanto 2 casi nel 2014 e 3 casi nel 2013. La gran parte dei casi

ha riguardato cittadini residenti nella valle dell’Arno. Le autorità sanitarie hanno lanciato una campagna di vaccinazione di massa, che stenta a produrre i suoi frutti. Il primo aspetto da considerare è che i batteri vanno incontro ad un’evoluzione, come tutte le specie. Nel fondamentale lavoro The origin of species by means of natural selection del 1859 Charles Darwin poneva in campo biologico la pressione selettiva negativa alla base della “speciazione”, che può a volte esitare nella “estinzione”. Di recente è stato lanciato l’allarme per l’intestino, in cui i batteri benefici sono considerati a rischio di estinzione per l’alimentazione povera di fibre, che comporta una grave perdita di biodiversità. Il deprecato abuso di antibiotici ha condotto al preoccupante fenomeno dell’antibioticoresistenza, cui la Regione Toscana pensa di far fronte mediante protocolli di “stewardship” antimicrobica, che implicano un controllo da parte degli infettivologi sulle prescrizioni mediche. Verosimilmente più importante è, però, il ruolo che giocano le resistenze immunitarie alle infezioni. Per l’ampia diffusione di terapie immunosoppressive e per la lunga sopravvivenza di soggetti molto defedati sono di-

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Fernando Prattichizzo

ventate patogene numerose specie batteriche, che precedentemente erano considerate saprofite. Di recente, ad esempio, ho riscontrato un’endocardite batterica da “Rothia mucilaginosa” in un soggetto con grave insufficienza valvolare mitralica. Si tratta di un cocco Gram positivo, componente della normale flora del cavo orale, che occasionalmente diventa patogeno nei soggetti con patologie debilitanti. Pertanto, non è pensabile che in futuro potranno essere intraprese campagne vaccinali per i tantissimi batteri, che sempre più e sempre più gravemente colpiscono il genere umano…

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OROScOpO

fEdErICA fArINI

come sarà

2017

I disegni astrali del 2017 sono generosi, altruisti, graffianti. Con Giove in Bilancia a lottare fino al 10 ottobre contro i numerosi pianeti in Ariete (Urano, Marte nei primi mesi freddi, venere e Mercurio in primavera), e gli stessi in fase di trasformazione con Plutone, l’intero zodiaco verrà letteralmente travolto da energia, voglia di scoprire e crescere. Non mancheranno attriti e lotte collettive del bene universale versus quello individuale, ma, alla fine, il bene avrà la meglio. Attenzione alle gesta dei più impudenti e poco lungimiranti. le stelle fanno sognare, con Nettuno sempre stazionario negli idealisti Pesci, ricordandoci che per arrivare alla felicità a volte bisogna rischiare, con la giustizia sempre a fare da guida, aggiungendo una buona dose di leggerezza, fantasia e affetto (saturno in sagittario versus Nettuno in Pesci). la retrogradazione di venere tra Ariete e Pesci ci presenterà un dilemma: ragione o sentimento? Avere o essere? dall’autunno con l’ingresso di Giove nel segno dello scorpione, solo chi avrà lavorato tenacemente e moralmente vedrà il successo e l’affermazione personale. Per gli altri? rimandati a settembre.

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ARIETE. PAROLA D’ORDINE DEL 2017: SbOCCIARE. Il successo degli Ariete nel nuovo anno sarà legato alla volontà nel cambiamento, con Urano e saturno in quinta, che vi spingono all’azione, mentre Giove dalla parte opposta chiede di restringere, riportando a galla problemi passati. Marte nei mesi freddi, venere da febbraio a giugno, Urano, Mercurio sempre alle porte dell’estate tutti a darsi appuntamento per una festa celestiale nel vostro segno, renderanno la prima parte dell’anno calda come un’isola tropicale. Procedete lenti come i germogli che da fiori si fanno frutti ed evitate di correre: potreste farvi male, a questo giro, o incorrere in progetti e scelte che bruceranno nella loro stessa passione. Agite con il sale in zucca, con un paracadute e lasciando a terra l’arroganza (che fa danni). Giove fino al 10 ottobre insieme a Plutone ostico, metteranno dei paletti qua e là, sparsi come tranelli e interferenze, che cadranno dopo tale data, con l’avvento di Giove nel più amico segno dello scorpione. E la barca andrà anche senza timone.

TORO. PAROLA D’ORDINE DEL 2017: PROTEGGERE. Prima parte del 2017 favorevole al mantenimento di tutto ciò che i nati sotto il segno del toro hanno seminato nel 2016 in modo pratico e tenace, tra un sostegno di Plutone in Capricorno e un piacevole cullarsi tra i sogni di Nettuno in Pesci: fino all’inizio dell’autunno il procedere lento e ben curato nei dettagli sarà il vostro pane e darà ottimi risultati nella carriera, con Giove in sesto campo, che sostiene il vostro amato tran-tran e l’impegno in ogni cosa che fate. dal 10 ottobre sempre Giove si opporrà dopo 12 anni dal segno dello scorpione: problemi e ritardi nei progetti? Pessimismo? freno a mano? stanchezza per le coppie? Problemi di denaro e legali? Non drammatizzate eccessivamente. dovrete solo tenere a bada l’autunno, con Marte a dare manforte sempre dallo scorpione, tramutandovi a tratti in tori scatenati e… da corrida. Indossate un’armatura di ferro, i conflitti si risolveranno grazie alle vostre note qualità: costanza e perseveranza, senza dovervi muovere di un centimetro, perché a fine anno saturno in Capricorno salverà capre e cavoli.

GEmELLI. PAROLA D’ORDINE DEL 2017: SCEGLIERE. se è pur vero che ancora per tutto il 2017 saturno rimarrà opposto nel segno del sagittario, andando a chiedere impegno e duro lavoro sia in coppia che nella professione (diciamolo: da uno a dieci mettere in riga un Gemelli diventa produttivo per loro un bell’undici), sono i pianeti amici Giove in Bilancia, in transito nella quinta casa (amore, eros e figli) e l’inarrestabile Urano in Ariete, dal campo degli amici, a rallegrare il clima del cuore e dell’anima. la vera lezione, tra un bacio e un compito, sarà quella di liberarsi delle cose inutili, che hanno fatto il loro tempo, e prepararsi per un costruttivo anche se rocambolesco cambio armadi: quali gli in e gli out del guardaroba 2017? di certo con questi assetti l’amore potrebbe portarvi nelle braccia di un partner nuovo di zecca e straniero, magari più grande, che ispiri fiducia e sicurezza, fuori dalla solita cerchia, soprattutto in primavera, quando i venti dell’appassionato Ariete potrebbero travolgervi come un insolito destino. Attenzione in autunno alle vostre epiche mani bucate: al massimo chiederete la paghetta al vostro amore, ricompensandolo/a meglio di una geisha navigata.

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CANCRO. PAROLA D’ORDINE DEL 2017: PIANO b. 2017 diviso a metà per i nati sotto il segno del Cancro. Nella prima parte dovrete indossare uno scafando per arginare le mazzate congiunte di Giove in Bilancia, Plutone contro e Urano guerriero, che peseranno sul clima famigliare (quarta casa) con problemi e conflitti tra le mura domestiche, seguite da vostre prese di posizione e desiderio di fuga-evasione. Il pericolo è sempre in agguato anche nel lavoro, dominato da screzi improvvisi, obbligandovi a reinventarvi come abili prestigiatori, soprattutto in primavera, quando vedrete nero pece. Passata la tempesta, il sereno torna dal 10 ottobre in poi, quando Giove entra nel segno amico dello scorpione, in quinta casa, quella dell’eros, a braccetto con venere, sempre nello scorpione, che supportati dal felice Nettuno in Pesci, vi aiuteranno a credere ancora in voi stessi e a vedere più in rosa. rinasce la creatività per il lavoro, fioriscono le storie d’amore, fiduciose e aperte su progetti importanti. dal 21 dicembre saturno vi obbligherà ad altre scelte e responsabilità ma, giunti a questo punto, avrete di certo pronto il piano b: il bigino raccomanda di non aggrapparsi a illusioni, ma di dare retta a solide realtà.

LEONE. PAROLA D’ORDINE DEL 2017: CONSOLIDAmENTO. Un anno importante il 2017 per i nati sotto il segno del leone: avete lavorato sodo e continuerete a farlo, sospinti da un favoloso aspetto di Urano, saturno, Giove, che come magici talismani vi aiuteranno a rendere possibile tutto ciò che vi passa per la mente senza particolari sforzi. simile a un terno al lotto, Giove nella vostra terza casa sosterrà empatia, comunicazione, pubbliche relazioni, che potranno portarvi più di un vantaggio, sia sul lavoro che nel privato. Più di un amore potrebbe ammassarsi in questo quadro già ricco (esplosivo in primavera): sarete voi a scegliere anche nei progetti importanti… matrimoni, figli e convivenze. l’amore sarà un tassello importante nel 2017, fino a portarvi, dal 10 ottobre in poi, ad essere più sul pezzo proprio in casa e in famiglia, con Giove in scorpione che riporterà a galla questioni in merito a dissapori e affari pratici tra i vostri parenti, di sempre o acquisiti. Il piccolo fermo vi vedrà ridimensionare anche le attività lavorative, a favore di obiettivi più legati all’anima e agli affetti. fermatevi e godete delle piccole cose: lì si annida la vostra futura felicità.

VERGINE. PAROLA D’ORDINE DEL 2017: DINAmISmO. se da una parte saturno prosegue con la sua inesauribile lista di impegni, soprattutto per quanto riguarda le responsabilità famigliari, portando questioni pratiche da sbrogliare (dove per fortuna siete maestri), Nettuno in disarmonia preme sul vostro cuore provocando uno stato interiore di pessimismo e malessere esistenziale. Malinconia? Nostalgia canaglia? I colpi di testa non sono da voi, ma nei mesi freddi potreste perderla, proprio per flirt stravaganti e fuori dai soliti canoni; caspita, anche voi siete umani e non cyborg? è il dovere a riacciuffarvi sempre nel suo retino, con effetti produttivi per esempio tra agosto e settembre, con Mercurio nel vostro segno in trigono a Plutone: l’autostima sale e le ricompense anche, se dovete investire potere farlo senza strafare, concentrandovi sul miglior impiego del vostro brillante intuito mercuriale, sempre capace di sviluppare brillantemente progetti (in questo caso professionali). dal 10 di ottobre è Giove in scorpione a farvi uscire dal guscio (terza casa): relazioni e conoscenze, vita più mondana (non si vive di soli crucci). Giove, in unione a venere e Marte positivi, porterà un incontro d’amore importante in autunno, forse dal passato più che dal presente, un legame che non era mai stato dimenticato? l’importante è non commettere gli stessi errori, che dal 21 dicembre, con saturno a favore, si tramuteranno come per magia in quegli attesi risultati frutto della fatica che avete messo in questi anni di alacre costruzione in ogni ambito della vostra vita.

bILANCIA. PAROLA D’ORDINE DEL 2017: OTTImISmO. Per i nati in Bilancia prima parte dell’anno da veri robin hood: calati nelle vesti del ladro più nobile, sarete belli e sfrontati nel pretendere ciò che vi spetta. Giove nel vostro segno fino al 10 ottobre, sorretto da saturno in sagittario, ma osteggiato dai numerosi pianeti che tra marzo e aprile sosteranno in opposizione, altro non farà se non rendere impulsive le scelte, soprattutto in amore/relazioni, che non ammetteranno più rami secchi da annaffiare (separazioni per le coppie tentennanti). Costruttivi invece i rapporti di lunga data dove entrambi i partner avranno desiderio di progettare in grande. In generale avvertirete un inarrestabile richiamo alla ribellione, a causa di Urano e Plutone sempre dissonanti: per non fare la fine della gatta che andava al lardo, lasciandoci lo zampino, le stelle suggeriscono di liberarsi dagli impedimenti e di abbandonarsi al nuovo, senza però dimenticare un piano di riserva in caso di picche. via libera all’emancipazione, cambiate lavoro o traslocate se una buona occasione passa (e passerà a giugno, ottobre e nei primi mesi dell’anno). volate, respirate e siate felici, dopo aver contato almeno fino a cinque e riposto la paura nel cassetto.

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SCORPIONE. PAROLA D’ORDINE DEL 2017: GRINTA. Nel 2017 i nati sotto il segno dello scorpione sperimenteranno tutto tranne che la noia. Per fortuna per la vostra famiglia sarà come avere in casa un potente talismano, perfetto per proteggere tutto e tutti. la vostra apertura all’ambiente esterno sarà totale e inarrestabile, un po’ come animali della tundra, bramosi di avventure e sfide, merito dell’azione combinata di Marte tra il segno dei Pesci e il vostro, in particolare tra fine gennaio e la prima metà di marzo. Poche sono le raccomandazioni delle stelle, se non quella di non sfoderare lingua eccessivamente biforcuta, soprattutto in luglio e maggio, quando Mercurio potrebbe farvi qualche pernacchia. dal 10 ottobre Giove passerà nel segno dello scorpione, apportando successo a quei progetti che ancora non avevano visto il giusto riconoscimento. trasgressione sarà il vostro cavallo di battaglia, a novembre con la congiunzione di venere e Marte (a dicembre), per una fine d’anno da girone dantesco dei lussuriosi, assaporando ogni attimo di questa conquistata e meritata leggerezza. Carosello, con saturno in Capricorno dal 21 di dicembre in poi. Cosa volete di più nella vostra vita? scegliete pure. SAGITTARIO. PAROLA D’ORDINE DEL 2017: CUORE. Nel 2017 i nati sotto il segno del sagittario vedranno numerose energie celesti festeggiare trionfalmente il loro impegno, ma anche la devozione e il coraggio che è rimasto alto anche nei momenti più duri. Grazie a Giove nel campo undicesimo (delle relazioni e degli amici) e Urano favorevole, in bell’assist con saturno, sarete definitivamente liberi da condizionamenti famigliari e da rotture last minute, pronti a spiccare il volo a 360 gradi, quando Urano nella vostra casa quinta (quella dell’eros), Marte, Mercurio e venere in Ariete, accenderanno a bomba la primavera: il motto sarà solo uno, “dammi tre parole, sole, cuore e amore!”. Gli unici sentimenti di pessimismo e qualche mal di pancia faranno capolino qua e là, tra luglio e agosto, con i pianeti ostici in passaggio in vergine a scornare con Nettuno in Pesci. Amici e sentimenti la faranno da padrone per il cambiamento: non sono ammessi fardelli e relazioni irrisolte, via libera al ping-pong d’amore. Passione come il frutto con il transito di Marte in Ariete (febbraio e marzo), e tra fine agosto e fine settembre con venere nell’amico leone, a base di pepe straniero o batticuori da viaggio. vi sembrerà di giocare in borsa in settembre e ottobre, sulla scia di venere in vergine rancorosa con Nettuno: prese, lasciate, cambi di nido? Più lineare l’autunno. Il (vostro) cuore è proprio uno zingaro. CAPRICORNO. PAROLA D’ORDINE DEL 2017: DISPONIbILITà. Per i nati sotto il segno del Capricorno il 2017 si annuncia ricco di impegni e assestamenti: tutto, tranne che la sosta. Con pianeti cruciali a sollecitarvi (Urano in Ariete, Giove in Bilancia, Plutone in Capricorno), il quotidiano diventa imprevedibile e inaspettato, gioco forza di vari pianeti retrogradi che vi porteranno a dover risolvere molti cambiamenti legati alla famiglia (quarta casa coinvolta), che più che a un focolare, assomiglierà a un albergo senza orari né regole. Anche la carriera vedrà una profonda revisione fino ad ottobre, nervosa insieme al privato nei mesi di marzo e aprile, giugno e luglio e novembre-dicembre, quando anche Marte ci metterà peperoncino. tra settembre e ottobre, per mano di Mercurio amico, ma soprattutto di Giove, in planata nel segno dello scorpione e nella vostra undicesima casa, la morsa della tensione allenterà a favore di una rinata apertura ai contatti umani, fino a farsi amore e interesse per la sfera spirituale, con Nettuno e venere che sapranno toccarvi l’anima. finale di anno con riconoscimenti e premi degni di nota, anche sentimentali: saturno entra nel vostro segno dal 21 dicembre. E da lì si riparte con la rimbombante rivincita. ACQUARIO. PAROLA D’ORDINE DEL 2017: STRATEGIA. 2017 interessante per i nati sotto il segno dell’Acquario. quasi tutti i pianeti giocheranno in assetto favorevole per il cambiamento in ogni settore nella prima parte dell’anno, tiepida e rassicurante con Marte, saturno e Urano bendisposti. vi sentirete in armonia con il prossimo e con la vostra energia più creativa: entusiasmo ma anche buonsenso, forte dei dazi già pagati al karma negli anni precedenti. Brillanti in amore tra aprile e giugno, quando i pianeti in Ariete vi regaleranno emozioni e incontri fuori dalle solite mura. duri ma non ruvidi, tenaci ma non consumati: fino al 10 ottobre Giove nel segno amico della Bilancia dalla nona casa sostiene viaggi e incontri culturali, apertura mentale e avventure: venere e Marte vulcanici non lasceranno single nemmeno l’Acquario più solitario del pianeta. Possibili trasferimenti, d’amore o di lavoro. dal 10 ottobre in poi, con Giove, Marte e venere imbronciati dalla decima casa in scorpione, la professione sarà forse da smontare, ripulire, ricostruire. Evitate scontri personali frontali a settembre, con venere opposta, e riposate in autunno: qualche alzata di cresta potrebbe costarvi cara. Antiche paure o questioni legali irrisolte potrebbero bussare a fine anno. Non fatevi trovare o blindatevi: anche se bussano, chi ha detto che dobbiate aprire? PESCI. PAROLA D’ORDINE DEL 2017: SOLUzIONI. Per i nati sotto il segno dei Pesci il 2017 si presenta al gusto di caramella zuccherosa: non sarà un’abbuffata da portate complete, ma il suo sapore vi lascerà piacevolmente appagati, stuzzicando fantasia, immaginazione e creatività, note proverbiali dei colori che compongono la vostra eclettica personalità. Con Nettuno sempre nel vostro segno, a sostenere i vostri sogni, siete e sarete oramai avvezzi a fronteggiare saturno esigente in sagittario, ostile nella decima casa, relativa soprattutto alla professione. I cambi non vi dovranno più spaventare: un po’ forgiati e un po’ aiutati nell’umore e nell’energia dai passaggi di Marte tra il vostro segno e quello dello scorpione, le occasioni di lasciare situazioni scomode a favore di nuovi ambienti di lavoro non mancheranno, e dovranno essere prese al volo, pena punizioni se non agirete con volontà, coraggio e responsabilità. dovrete scegliere ciò che è giusto per voi e non ciò che è comodo o percorribile attraverso la strada più breve e facile. Con l’obbligo di doversi impegnare molto e non mollare la presa (sia in amore che per il nuovo impiego che arriverà), sarà dal 10 ottobre in poi che Giove dall’amico scorpione vi darà successo, perle di meritata leggerezza, armonia in un rapporto a due (vecchio o nuovo: a voi la scelta) e buonumore. Magici i mesi tra ottobre e dicembre, quando anche venere sarà complice con Mercurio: ora di rivincita. Colpo di coda a fine anno con Mercurio in sagittario a dare noia alla vostra pace: ma dal 21 dicembre sarete liberi, con saturno in uscita e in ingresso in Capricorno. ora di festeggiare il guerriero che è giunto alla fine della sua battaglia.

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Rag. Alessandro Susini Agente procuratore Promotore finanziario

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Anno XVIII n. 4/2016 Trimestrale € 10,00


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