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Editoriale

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Il tempo scorre, passano le ore, i giorni, i mesi, ma non dimentichiamo i nostri valori, la nostra tradizione. Vero è che in certe imprevedibili congiunzioni - o forse cortocircuiti - astrali basta poco, appena un attimo e il mondo si stravolge. Dobbiamo assolutamente fermarci, dedicare un pensiero, riflettere allo sconvolgimento globale che è cronaca dei nostri giorni: terremoti, tsunami, guerre. I nostri cardini non reggono, le nostre certezze si infrangono. Madre natura alza la voce, diventa matrigna ed è tremenda: è lei che comanda. Come entità superiore, essa accetta la tua sfida, ti lascia costruire la tua ”fabbrica”, sopporta che tu la usi e anche, entro certi limiti, che tu ne abusi. Così’ ti illudi di poter fare quel che vuoi. C’è però un limite, oltre al quale la natura s’indigna e, inferocita, con una zampata ti butta giù, ti distrugge, ti annulla. La stiamo sottovalutando. In quanto esseri intelligenti, pensiamo di reggere il timone del mondo. Siamo superbi ed è forse per questo che nel secolo XXI dell’era di Cristo, ci troviamo come sempre di fronte alle guerre e alle distruzioni. Forse più devastanti di sempre. I luoghi che ieri erano mete di turismo mondiale, sono oggi scenari di paura e di terrore, luoghi di morte. Gli amici diventano nemici! È necessario ed urgente invertire la rotta. L’Italia ha appena festeggiato i suoi 150 anni d’Unità. Sono state molte le iniziative per degnamente celebrare la ricorrenza. Lo sventolare della nostra bandiera ci ha portati indietro nei ricordi; insieme abbiamo cantato il nostro inno. Siamo Italiani accomunati dall’identità di un popolo, di una nazione che ha lottato, anche al prezzo di molte generose vite, per l’unificazione. ... Ragazzi, stiamo uniti!

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Reality

MAGAZINE D’INFORMAZIONE

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eality59 ARTE & MOSTRE

Sommario

Franco Fortunato La nave del Vagabondo

8 19 20 22 24 26 28 30 32 35 36 38 40 42

In viaggio con Fortunato Da Ercole a Matisse Le monete dei Savoia Scenari Inattesi Relax a regola d’arte Il volto e l’anima Pietre d’animo Le Arti del XX secolo Un uomo che guarda Se non sei un pezzo da museo... La forma della leggerezza Pianeta dell’immaginario Natura e verità Sculture a Villa Pacchiani STORIA & TERRITORIO

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Una città una grazia La Sagrada Famìlia Sant’Anna. Il Conservatorio Label. Etichette attraverso i secoli POESIA & LETTERATURA

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Poesia della Patria Il Risorgimento

MUSICA & SPETTACOLO

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Dubai International Magliano. Le libere donne La scoperta dei suoni antichi Viaggi per musicisti Sanremo è Sanremo Danza con il Festival Ballet

EVENTI & SOCIETÀ

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Architettura e Contemporaneità Semplicità Finale Coppa Italia A2 Il Rugby Il torneo delle rivelazioni Polo on the beach Fortemente Yab Il caffè è una medicina Il peso e la salute Tre foto per una poesia Le signore delle camelie ECONOMIA & AMBIENTE

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Per chi è in cerca d’impiego Intervista a Alessandro Francioni Intervista a Adolfo Matteucci CRM. Provare per credere 5 SENSI

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Dove le stelle brillano davvero A passeggio per Bordeaux Pennellate di Toscana Tra suocera e nuora Maratonina di Carnevale 2011 Carnevale d’Autore 2011 Il frutto del paradiso Miti e Leggende. Le sirene

Arte Libri Film Dischi


Parliamo di...

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viaggio con

Fortunato di Nicola Micieli

Non è un poeta, ma uno scampolo di poesia. Non un sognatore, ma una briciola di sogno. Non un pensatore, ma un brandello di pensiero. Non un solitario ma la solitudine. Non un personaggio, ma uno scarabocchio. Non un esibizionista, ma una esibizione senza misura. Non ama dormire nel cartone, ma col cartone costruisce castelli. Non si guarda attorno per non vedere fantasmi. Non ha bisogno di pareti solide: pareti sono il suo cappotto e la sua pelle e, là dentro, le poche suppellettili che contano. Non vede le stelle, di notte, quando veglia, perché lontane ed inutili a lui come lui è per il mondo. Non chiede compassione, per non doverne essere debitore. Non conosce lo scorrere delle stagioni perché egli è una stagione. Il grande caldo non lo raggiunge, dentro le sue pareti; solo – qualche volta – il freddo, ma lui non se ne avvede… Non parte e non arriva, nelle sue peregrinazioni, perché non vive in uno spazio: egli è una migrazione intorno a se stesso. Così come la sua mente ruota intorno ad un solo punto, un solo momento. La sua vita non è una linea, ma un cerchio. Là dentro sono andato a cercarlo.

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uella del Vagabondo è senz’altro la presenza centrale nella non affollata scaena picta di Franco Fortunato. Protagonista e motore della narrazione, il Vagabondo compare e agisce, in pratica, senza competitori, salvo eventuali comprimari dietro le cui mentite spoglie, del resto, si ripropone egli medesimo. Scrivo Vagabondo con la maiuscola per significare la personificazione di un’entità astratta. Dico in termini propriamente allegorici, da emblematica medievale che assegna un corpo e una veste, e un corredo simbolico, ai vizi e alle virtù umane, ai valori e agli istituti terreni e divini. Non già, dunque, una qualche figura errabonda identificabile alle nostre latitudini culturali e nel nostro tempo: di randagio girovago da strada, anche in versione on the road modello beat generation; di pellegrino in marcia sulla via dei moderni santuari consacrati al consumo e allo svago di massa; di forzato semovente dei percorsi metropolitani. Una presenza diffusa, affidata tanto alla specie metaforica, diciamolo pure spirito dell’erranza che alimenta e governa il terzo occhio dell’artista, per sua natura incline allo sconfinamento e alla trasversalità dello sguardo, quanto alla longilinea e affusolata effige del viaggiatore incontrato di persona. Lo vediamo, difatti, transitare silenzioso sulla scena o soffermarsi in sosta meditativa, assorto: osserva un oggetto, un punto, un indeterminato quid per certo collocato oltre il velario del visibile. È contemplazione che sa di raccoglimento dietro la siepe leopardiana, e di naufragio nell’infinito. Parlo di scena e annetto a questa figura dello schermo visivo la funzione proiettiva di latenze del profondo ed emergenze dell’immaginario. Dunque un ruolo attivo in chiave psicologica oltre che mitopoietica. Si potrebbe forse meglio usare la metafora dello specchio, luogo per eccellenza della virtualità visiva e diaframma oltre il quale si schiudono i mondi paralleli. Ce lo dice l’intrigo sottile cui sono sottoposti i nostri sensi insidiati dalla virtù ipnotica di una partitura che Fortunato conduce con mano leggera e precisione esecutiva da prestigiatore, capace di simulare miraggi e incantamenti, al fine dello strania-

Delicato



mento dell’immagine che ne consegue, come dire l’inganno della mente. Attraverso lo specchio Lewis Carroll avviava il viaggio di Alice nella dimensione sommersa e labirintica del sogno, che sospende le leggi fisiche, in primis la gravità e la dislocazione spaziale dei corpi, e sovverte e infine annulla il tempo. Fortunato ha dipinto monumentali orologi che non hanno lancette. Manca la scansione metrica, la battuta che segna il prima e il poi e determina l’intervallo, la durata del vuoto che differenzia e carica di senso il pieno. Sono orologi senza meccanismo, motori immobili di un tempo sospeso, di una durata virtuale. Eretti su pedane e tralicci o sorgenti direttamente da terra, sembrano piuttosto specchi o porte del cielo: arcobaleni, osservatori celesti che dentro e sullo sfondo di un paesaggio chiaramente abitato dall’uomo, fanno scattare poeticamente l’immagine introducendo un’attesa, una premonizione, un memento. In senso propriamente scenico Fortunato apparecchia con consumato mestiere la propria ribalta. Usa sovente esplicite attrezzature e oggetti di scena, che lascia a vista. Ad esempio, complesse impalcature montate per sostenere navi in cantiere o mirabolanti città turrite e merlate. Fortunato conosce a menadito palcoscenico e retropalco, e annessi servizi, strutture e marchingegni, depositi delle scene smontate e laboratori, i luoghi dove si elaborano i materiali e si muovono i fili della macchina della finzione, nel teatro attiva fino a che restano accese le luci della ribalta. A lumi spenti egli si aggira in quel labirinto abitato da fantasmi, lo visita come sfogliando le pagine di un libro e si ferma a immaginare una scena o un momento dell’azione. A quel punto si accendono le luci della pittura. A proposito di libri e del mondo cartaceo, occorre dire che per Fortunato essi sono da sempre luoghi e materiali del viaggio. Quando da adolescente e giovinetto non sospettava per sé un futuro di pittore, dipingeva e soprattutto disegnava con naturale talento storie a sequenza di quadri, esemplificati sulle strisce dei fumetti. Saranno più tardi le predelle dei polittici del Tre e Quattrocento i suoi maggiori referenti visivi, assieme alle tavole dei grandi illustratori – i Topor i Folon i Pericoli, per restare ai contemporanei – il cui lavoro Fortunato seguiva, e segue, con la medesima attenzione con cui si accosta agli antichi. Nel suo repertorio non mancano le “strisce” dipinte e quelle sui generis. Per esempio gli scaffali, le teche, le bacheche a celle regolari, in ognuna delle quali trova posto un oggetto, una testa, un volto occhiuto. Si compone così una scacchiera abitata, e ogni pedina è una suggestione, l’incipit di una storia, che il pittore ci consegna dandoci facoltà di elaborare la strategia per darle seguito narrativo. La scena è il “paesaggio” della pittura di Fortunato. Quando intitola Paesaggio italiano o Paesaggio inatteso un suo dipinto o disegno o incisione, Fortunato ci presenta sguardi al solito obliqui e radiografici su luoghi ed evidenze della natura da intendersi come insieme visualizzato, contesto e soggetto. Compresi dunque innesti e appropriazioni antropiche, invadenze e manipolazioni umane. Ricorrono le vastità dei prospetti marini, talvolta introdotti dalla spiaggia ove sorge La casa del marinaio, le modulate distese collinari raramente ammantate di alberi e, aperti sui

Foto ricordo del Capitano



NOTIZIA

Nato a Roma nel 1946, Franco Fortunato si forma artisticamente da autodidatta, seguendo fin da giovanissimo il proprio spirito creativo e la propria innata passione per il disegno e per la pittura. Dopo aver compiuto studi scientifici, volge il suo sguardo al mondo della letteratura e della storia da cui trae gli stimoli e le suggestioni per dare vita al suo originalissimo linguaggio. Sono in particolare i pittori trecenteschi ad affascinarlo e da essi recupera il gusto per la semplicità figurativa, la sintesi ed il rigore geometrico in un contesto di fantastica surrealtà e di trasfigurazione della realtà. Negli anni Settanta inizia ad esporre con il “Gruppo Figurale il Babuino”, partecipando tra l’altro alla grande mostra dedicata a Pier Paolo Pasolini nel 1976, gruppo dal quale si è poi distaccato alla ricerca di un proprio linguaggio e di una completa autonomia di azione. È in questo momento che nasce il suo particolare metodo di lavoro per “cicli”: dalle Storie del parco ai Barboni che dipinge tra l’80 e l’85, ai Racconti per l’Europa del 1992, dedicato alla nascente Unione Europea e ai dodici Paesi che la fondavano. Nel 1994 affronta il tema di Pinocchio, primo ciclo ispirato ad un romanzo, che riprenderà poi nel 2004. Non è però un caso se scene tratte dal Pinocchio appaiono già nel ciclo dei Racconti per l’Europa dove viene raffigurata l’Italia. Per l’artista, infatti, il romanzo di Collodi è soprattutto un grande affresco del nostro paese, con la sua povertà, la sua corruzione, le sue malefatte e Pinocchio incarna quindi non solo una favola per bambini, utile tuttavia anche agli adulti, ma soprattutto un preciso spaccato della nostra società. Prosegue, sempre negli anni Novanta, con l’Inventario e le Città invisibili, ciclo quest’ultimo chiaramente ispirato a Italo Calvino, e poi con i Ritrovamenti e le Città ritrovate. Sottesa temporalmente e tematicamente rimane sempre la figura del “Vagabondo”, che rappresenta per Fortunato una dominante di poetica che affiora e riaffiora autonomamente e nelle altre tematiche. Un personaggio che compare già a partire dagli anni Ottanta e viene riproposto fino ai giorni nostri, ogni volta con aggiunte e mutamenti che registrano il cambiamento stesso e l’evoluzione di tutto il suo lavoro. Nel 2000 torna sui temi letterari affrontando il ciclo dedicato al Piccolo Principe, il capolavoro di Antoine de Saint Exupéry, mentre nel 2003 sono ancora le architetture ad attrarlo con il ciclo Architetture fantastiche. Nel 2005 realizza l’importante ciclo su Moby Dick presentato nella significativa mostra allestita a Piancastagnaio (Siena) e successivamente realizza le Storie di Mari. Cicli accompagnati da altrettante mostre in Italia ed all’Estero: Svizzera, Francia, Belgio, Spagna, Argentina, Olanda, Stati Uniti, Germania, Canada. Ha realizzato varie pitture murali su edifici pubblici e privati. Fra queste va ricordato Vita Matris Gloriosae nella chiesa di Santa Maria Maggiore di Caramanico Terme. Il suo lavoro si sviluppa anche nel campo della grafica, della scultura e della ceramica. Mare di Carte

Vol de Nuit


Angelo del Lipomar. Nella pagina successiva Fuga da Alcatraz


bassi orizzonti, gli ampi cieli con nubi compatte. Richiamata o allusa per figure ed emblemi, la natura rifluisce come da una finestra aperta sugli interni, se tali possono definirsi gli spazi edificati de Le stanze nelle quali, come nella caverna di Platone, si proietta illusoria e sta per la realtà, l’ombra lunga d’un albero sul cui fusto cammina da sonnambulo o da immagato equilibrista, il nostro Vagabondo. Un albero che magari reca, incastonata tra le fronde, una delle Città invisibili già visitate da Calvino, lo scrittore fonte di suggestioni e di chiavi di accesso agli ultramondi, per Fortunato lector mirabilis; mentre pavimenti e pareti, in virtù della luce che celebra le proprie metamorfosi e di alcuni, pochi oggetti o forme collocati strategicamente a simulare gli astri, assumono le peculiari atmosfere degli occasi e delle opposte albedini, meravigliosi fenomeni altrove restituiti, specie i tramonti, nella plenitudine del loro sfarzo cromatico. Quello di Fortunato è dunque un paesaggio di distillazione mentale che tutto include, non di rado parato all’onirico e, in aggiunta, per più versi apparentato “per li rami” nobili a una iconoteca d’arte antica e moderna quanto mai ricca di tipi. Segnatamente l’arte occidentale è territorio di scorribande corsare, pur se il pittore non manchi di imbarcare esotismi che rimandano ad altre civiltà, aperto come è agli incontri più imprevedibili e bizzarri e all’ascolto delle voci più sottili e insidiose. Persino quelle ingannevoli delle sirene, dal cui canto suadente si lascia catturare senza temere l’agguato degli scogli e il pericolo del naufragio. Fortunato attinge gli impianti spaziali e i materiali costitutivi dell’immagine, per disporli quali tessere della sua tarsia, a un repertorio visivo quanto mai vario ed esteso. Si va dai codici miniati, polittici, pareti medievali, i primitivi ai quali riconosce il magistero della semplicità del linguaggio e la chiarezza della partitura, alle stanze e piazze e piscine e recinti metafisici di De Chirico. Con il seguito delle derivazioni mirate vuoi al surreale, vuoi al realismo magico. Il tutto, beninteso, decisamente e senza equivoci suo, ossia metabolizzato e acquisito al proprio repertorio espressivo, e rilanciato a una nuova e originale circolazione pittorica. Come succede per le parole e le immagini elette e connotate da scrittori e poeti. Consegnate al deposito della memoria culturale, si rigenerano in altre e diverse forme e figure quando le assuma una autentica personalità creativa. È una pratica, questa della frequentazione retrospettiva di Fortunato, che non discende dalla pittura colta, dal revival delle maniere iconiche, delle rivisitazioni museali e dei virtuosismi accademici che in Italia hanno avuto corso negli anni Ottanta. Per quanti inserti da riconoscibili testi siano reperibili nella sua iconoteca, egli ne fa un uso che vorrei dire da laboratorio poetico. Chiamiamolo pure meccanico di precisione, maestro concertatore, prestigiatore illusionista del congegno dell’immaginario, per come assembla i pezzi disponibili nel banco della sua officina. In ogni caso si tratta di attitudini e competenze che richiedono sensibilità e vigilanza, e una sicurezza esecutiva di non poco momento. Fortunato è artista di formazione autonoma, appassionato

La Luna dei Poeti

La spiaggia



viaggiatore nel mondo e nel tempo per interposta immagine dell’arte e della letteratura. Egli ha una certa confidenza con i mondi paralleli, che abitano la biblioteca labirintica di Borges e il palazzo della memoria del gesuita padre Matteo Ricci. Conosce bene gabinetti stanze armadi teche iconoteche, le antiche e nuove versioni – oggimai elettroniche – delle wunderkammern ove approdavano curiosità e stravaganze, mostri, aberrazioni, naturalia e artificialia, collezioni non a caso venute alla moda con l’epoca barocca, quando i poeti affermavano essere il fine dell’arte la meraviglia. Da Vagabondo/Vagamondo/Vagamondi Fortunato ha sviluppato una forma di pensiero a funzionamento eminentemente visivo. I morfemi e gli stilemi, ma anche gli elementi figurali prelevati dai contesti artistici e letterari sono i lemmi del suo linguaggio, gli elementi costitutivi del suo mondo di visione che egli usa in originali combinazioni, a segnare la mappa e le diversioni dei propri percorsi nel teatro di figure della pittura. Che sia un vero e proprio “cubo” scenico palesemente edificato in forma di ambiente a diversa destinazione e funzione d’uso, o sia altrimenti e in vario modo simulato e composto quale ribalta attrezzata, si tratta comunque, esclusa ogni intenzione mimetica di evidenza naturalistica, di un teatro il cui spazio simbolico, diremmo con Panofsky, rimanda ad altre dimensioni oltre il reale. Dove Fortunato abita da pittore e poeta dell’immaginario.


Il Cercatore di tramonti

Le acque inquietanti

Franco Fortunato ha stabilito con Siena un rapporto privilegiato, che va al di là della consuetudine con la città e la sua gente, poiché alla sua civiltà pittorica - le predelle e gli affreschi, persino il profilo mediovale della sua immagine urbana - ha attinto nel tempo molti materiali del proprio repertorio visivo. Suo è stato lo scorso anno il palio dell’Assunta, apprezzatissimo dai severissimi contradaioli, che lo hanno festeggiato tra i più belli e rappresentativi in assoluto nella storia del Palio. A Siena Fortunato è oggi presente con una rappresentazione di opere recenti nei Magazzini del Sale del prestigioso Palazzo Pubblico, raccolti sotto il titolo L’altra faccia della Luna. La mostra, curata dal critico Floriano De Santi, rimarrà aperta fino al 22 maggio, occasione da non perdere per conoscere il mondo pittorico del Maestro romano, viaggiatore dell’immaginario attraverso i luoghi della storia e della letteratura, quanto della vita che in quelle pagine si rispecchia.



Ercole Matisse

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edotto dalla armonica perfezione dei corpi michelangioleschi, Matisse ne studia la produzione che influenza molti suoi capolavori; così alcuni calchi, il disegno originale delle due Veneri, pregevoli dipinti, esposti in mostra, si confrontano con la ricerca semplificativa della forma raggiunta dall’artista francese grazie all’osservazione della pro-

La dinamicità corporea della produzione matissiana a confronto con la forza dell’Eroe greco, simbolo della Città duzione buonarrotiana, magistralmente risolta mediante un processo di linearizzazione e uno stile di tipo sculturale. Del genio toscano, Matisse condivide il tormento interiore esplicitato nelle sue opere ricche di un dinamismo e una tensione al limite della distorsione corporale,

facilmente riconoscibile nella statuetta del Nudo Disteso o nella scultura del Nudo Seduto che fungeranno da muse ispiratrici in tanti dipinti contemporanei. Queste creazioni sono forgiate mediante lo sviluppo di una materia che rende possenti le assottigliate membra, creando una sorta di equilibrio limite tra linearità e forza, una forza di chiara impronta michelangiolesca come dimostra la celebre serie delle odalische. L’elemento scultoreo pervade l’intero pensiero artistico di Henry presente anche nelle creazioni pittoriche dai colori vivissimi delle gouaches découpées, dove il senso della profondità o dello spazio assumono connotazioni quasi trionfali. Le 120 opere esposte presso il celebre museo bresciano ripercorrono questo aspetto nell’arte di Matisse, disegnato, dipinto, scolpito secondo i canoni della lavorazione lapidea. La visita del S. Giulia prosegue con un’altra mostra dedicata alla figura di Ercole, leggendario fondatore della Città. Il percorso espositivo analizza l’importanza del mito erculeo nella civiltà classica, la rivalutazione medievale in qualità di vero simbolo della forza vincente, l’affermazione rinascimentale dettata dal pensiero umanistico di affermazione dell’io soggettivo. La fronte del sarcofago di Palazzo Altemps , la coppa d’argento del Museo Nazionale di Napoli, , il bronzo ritrovato nel Santuario di Sulmona, il cofa-

Mostre

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Brescia da

TEXT Carmelo De Luca

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netto duecentesco con le storie dell’Eroe proveniente dal Duomo di Anagni, Ercole e Idra di Antonio del Pollaiolo, i tondi in bronzo di Jacopo Alari Bonacolsi rappresentano alcuni eccezionali prestiti, presenti nelle sale espositive, confrontati con il prezioso materiale proveniente dal Capitolium romano e dai monumenti medievali di Brescia. Brescia, Museo di Santa Giulia 11 febbraio 2011 – 12 giugno 2011 1. Antonio del Pollaiolo, Ercole e l’Idra 2. Anfora di Psiax 3. Henri Matisse, Busto in gesso 4. Henri Matisse, Il lanciatore di coltelli

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monete dei Savoia

Mostre

le

TEXT Maurizio De Santis

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numismatica

a Cassa di Risparmio di San Miniato Spa in ambito del progetto Carismi per l’Arte ha organizzato nelle sale di Palazzo Portigiani, in collaborazione con la Soprintendenza ai Beni Architettonici della Toscana, il Museo Archeologico Nazionale di Firenze ed il Circolo Numismatico Mediceo, una mostra di monete che ripercorre la storia di Casa Savoia dal “nido savoiardo” nell’XI° secolo al Regno di Vittorio Emanuele III dal 21 febbraio al 4 marzo. Le monete provengono dal Monetiere del Museo Archeologico Nazionale di Firenze, l’erede diretto del Medagliere Granducale. Tra le monete esposte alcune provengono dalla collezione della Contessina Margherita Nugent, donata al Museo Archeologico di Firenze all’inizio degli anni ‘50. La contessina era figlia del Conte Laval Nugent e nipote diretta del generale Johan Graf Nugent che aveva combattuto dalla parte degli Austriaci ed era caduto a Brescia, nel 1849, duran-

Nella foto: il Direttore Generale della Carismi Piergiorgio Giuliani

te le famose Dieci Giornate della Leonessa d’Italia. La collezione della Contessina Margherita Nugent si compone esclusivamente di monete di Casa Savoia. Tra le monete esposte nella mostra c’è anche il famoso

“61 Firenze”, uno scudo in argento del valore di 5 lire coniato nel marzo del 1861. È la prima grossa moneta del Regno d’Italia e tra le ultime coniate dalla gloriosa Zecca di Firenze.

Il famoso “61” di Firenze Moneta in argento 900/000 diametro 37 mm gr 25 chiamato scudo valore 5 lire. Al diritto: porta l’effige di Vittorio Emanuele II re d’Italia. Al rovescio: stemma coronato con Collare dell’Annunziata, tra rami di lauro sotto Firenze - fascio marzo 1961 Prima grossa moneta del nuovo regno, ultima, insieme alle 2 lire ed 1 lira 50 e 20 centesimi in argento della Zecca di Firenze.

Inizia con il 17 marzo 1961 il regno di Italia e vorrei far conoscere uno dei pezzi numismatici più interessanti della gloriosa Zecca fiorentina che aveva dato al mondo, e alla storia dell’arte, alcune monete che hanno fatto la fortuna economica della città, cominciata nel 1180 con la battitura di una nuova moneta d’argento chiamata “Fiorino di grosso”, da lì partì

l’avventura del fiorino, prima in argento e, nel 1252 in oro. Basti pensare al fiorino d’oro, detto “il dollaro del medioevo” oppure ai testoni e alle piastre di casa Medici, con la firma in primis di Benvenuto Cellini per il Duca Alessandro. Correva l’anno 1535 ed i meravigliosi conii della dinastia “Lorena” affermavano la bravura dell’arte incisoria toscana.

Con il 1961, la grande speranza dell’ideale risorgimentale dei nostri bisnonni ha fatto sì, che con l’Unità d’Italia valesse la pena di rinunciare anche ad una delle zecche più famose, in quanto la Zecca di Firenze battè l’ultima (come tradizione) moneta d’argento, si badi bene e non di rame, degna chiusura di una grande storia.

di Wilder Pellegrini

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Mostre

Scenar nattesi TEXT Daniela Pronesti

U

n artista può dirsi creatore quando riveste di un manto di bellezza le cose che prima, ai nostri occhi, ne erano prive. Tutto ciò che esiste in natura è suscettibile di tale trasfigurazione, ma sono pochi gli artisti che sanno rendersi

CARISMI per l’Arte una personale di Jacqueline Joseph a San Miniato artefici di questo miracolo. Ecco perché spesso la conoscenza dell’opera di un grande artista spalanca ai nostri occhi scenari inattesi, e ci regala una gioia dei sensi e dell’intelletto che non ha eguali. Considerando la vasta e preziosa produzione pittorica di Jacqueline Joseph, in mostra dall’8 marzo al 27 maggio 2011 nelle sale di Palazzo Inquilini, sede della Carismi di San Miniato, comprendiamo, fin da subito, di trovarci di fronte ad un’artista d’eccezione, che è capace di trasfigurare, sublimandolo, anche il più minuto dato di realtà, e di offrire allo spettatore un’esperienza visiva ed emotiva di rara intensità. La mostra, curata da Margherita Casazza e Valeria Caldelli, rappresenta un’occasione per tentare un discorso complessivo sui diversi temi che permeano le opere della pittrice haitiana, ricorrendo ad una suddivisione dell’iter espositivo in dieci sezioni che coincidono con le principali fasi cronologiche e

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stilistiche del suo percorso artistico. Per penetrare fino in fondo l’esclusiva originalità di quest’artista, attraverso cui si compie una singolare fusione tra le radici della civiltà caraibica e quelle della cultura artistica europea, occorre tenere conto della sua profonda capacità assimilativa e dell’instancabile potere di rielaborazione degli stimoli formali e contenutistici derivati sia dalla frequentazione del milieu artistico parigino, a cavallo tra la fine degli anni Quaranta e la prima metà degli anni Cinquanta del Novecento, che dai successivi contatti con il grande pittore messicano Diego Rivera, che nel 1955 l’accolse per sei mesi nel suo atelier. Se dal periodo di formazione in Francia Jacqueline Joseph ottiene il senso del colore e della linea, e la possibilità di

pervenire ad una visione pittorica pura e totale nonostante l’economia dei mezzi impiegati, dalla pittura riveriana attinge non già la struttura epica e grandiosa, quanto piuttosto la necessità, anche per un’artista cosmopolita come lei, di approfondire il rapporto con la propria terra d’origine, e non per fermare il cammino della storia attraverso una mitica rivisitazione del passato, né per offrire una descrizione folkloristica o pittoresca del presente, com’è accaduto in molti casi nella tradizione artistica dell’esotismo, ma per valorizzare il tessuto culturale di un popolo e convogliarlo nella formulazione di un rinnovato sentimento d’appartenenza. E‘ stata, quindi, la sensibilità dell’uomo e del pittore Rivera, e certamente la sua orgogliosa “messica-


nità”, ad ispirare alla giovane Jacqueline opere come Recuerdo de Mexico, e a guidarla lungo un percorso che la porterà, nel giro di pochi anni, ad affezionarsi ad un tema che rimarrà una costante nel suo repertorio iconografico, i mercati di Haiti. Il ritorno all’amata isola, dopo l’esperienza in Europa e in Messico, le fa sentire il sapore di un luogo quasi magico, che si rivela carico di grandi suggestioni e richiami. E’ in questa fase che manifesta, in maniera nettissima e incontrovertibile, la peculiarità della sua vocazione artistica che, sebbene aperta ad influenze esterne, rimane sempre autentica, indipendente, difficilmente classificabile. Nelle tele che ritraggono i mercati popolari, le figure e gli oggetti definiscono un universo pittorico che non si sottomette ad una prospettiva tradizionale. Il punto di vista è serrato, non conta l‘ampiezza della visione, quanto una definizione delle forme che conservi integra la vitalità del segno. Centro della composizione, soprattutto nelle prime opere con questo tema, è l’immagine della donna, presenza concreta, con la pienezza accogliente della sua rotondità, ed elemento astratto, in quanto simbolo dell’essenza della vita. Mentre i gesti e i costumi raccontano di una civiltà che ha per norme l’operosità e il rifiuto di ogni ostentazione, i volti, pur semplificati nei tratti, colpiscono per la vivacità dell’espressione che illumina tutto lo spazio dipinto. Le figure sono libere tuttavia da qualsiasi costruzione retorica del significato: è il colore, essenziale, puro, intriso di luce, la nota che fa squillare il quadro e che esalta l’armonia totalizzante dell’insieme. Su tutto domina

un’impressione di freschezza, di gioia incontenibile, come se l’artista volesse fedelmente restituirci l’emozione che nasce dalla contemplazione del creato, che tutto abbraccia e comprende, uomini e cose. Per questo motivo anche quando lo sguardo di Jacqueline si sposta, seppure non in maniera definitiva, dalla figura agli oggetti, che diventano protagonisti delle sue tele (Nature morte aux aubergines, Le marché d’agrumes), l’attitudine che la guida rimane invariata: i frutti non sono più una merce, ma un emblema della fertilità e della continuità della vita. La natura, con le sue multiformi manifestazioni, rappresenta dunque lo spazio privilegiato in cui la pittrice ama muoversi per raccontare ora la vita semplice e dignitosa delle donne di Haiti (La scampagnata, Les soirées de Madame Attiè), che si consumano nel silenzio dell’attesa, ora le incantevoli bellezze della vegetazione e degli scorci del paesaggio haitiano (Jardin exotique, Bougainvillea), veri e propri angoli di paradiso. Il ritorno in Europa negli anni Sessanta, cui seguì l’incontro con il suo futuro marito, il pittore di origini italiane Victor Nesti, favorisce un arricchimento del suo ventaglio tematico e un’apertura verso nuove sperimentazioni formali. Come per molti altri artisti stranieri prima di lei, il viaggio in Italia, sua seconda patria, si rivela foriero di grandi stimoli, e le offre l’occasione per attingere dall’alterità culturale dell’ambiente italiano, i presupposti di una rinnovata strategia della funzione pittorica. E’ in questo periodo che si dedica a ritrarre il paesaggio toscano (Campagna fiorentina) e i soggetti sacri ispirati dalla profonda reli-

giosità del marito (La Santa Impronta), senza però dimenticare il richiamo irresistibile della sua isola, che nella memoria si colora di sfumature ed impressioni fino a quel momento rimaste inespresse. Sedimentata nell’anima come una traccia indelebile, l’immagine di Haiti riaffiora nelle creazioni di Jacqueline, senza averla mai abbandonata. Questa volta però il ricordo è animato da nuovi accenti e nuove necessità: le scene con i mercati (Marchands d’avocats, Marchand d’agrumes) evidenziano una marcata capacità sintetica del segno e una dimensione costruttiva del colore, come se trovare il giusto rapporto tra colore e linea, come forze dal cui equilibrio ha origine la chiarezza e l’intensità della composizione, fosse stato uno degli obiettivi da lei più lungamente perseguiti. L’inaugurazione della mostra è coincisa con la presentazione del secondo volume Carismi per l’Arte, della Banca Cassa Risparmio di San Miniato al cui interno si raccontano gli eventi espositivi del 2010 i cui testi critici sono stati curati da Nicola Micieli. La mostra di Jacqueline Joseph rimarrà aperta al pubblico: dal lunedì al venerdì (9.00 – 19.00) il sabato e la domenica (17.00 – 19.00). PROSSIMI APPUNTAMENTI • 15 aprile - 22 maggio Gianfranco Giannoni agenzia 1 Carismi di Empoli - Firenze • Giugno - Festeggiamenti giugno pisano Franco Adami agenzia Carismi Palazzo Alliata - Pisa

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al “Louvre” di Cortona

Relax regola d’arte

Mostre

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TEXT Marco Massetani

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ortona torna ad essere capitale dell’Etruria moderna. L’antica e fiorente “dodecapoli” affacciata sul Lago Trasimeno, la misteriosa Curtun del celebre Lampadario, della Tabula Cortonensis, che con ogni probabilità fu anche la sede della principale scuola di scrittura etrusca, riacquisterà nuovo splendore nella prossima primavera, quando le eleganti sale del Maec ospiteranno una mostra di grande effetto realizzata nientemeno che in collaborazione con il prestigioso Louvre di Parigi. Le Collezioni del Louvre a Cortona: gli Etruschi dall’Arno al Tevere: è questo il titolo dell’esposizione fino al 3 luglio sarà di scena al Museo dell’Accademia Etrusca e della Città di Cortona, all’inter-

Tra la Toscana e l’Umbria oltre 40 reperti etruschi del celebre Museo di Parigi fino al 3 luglio a Cortona no di Palazzo Casali, nel cuore della cittàgioiello che la leggenda vuole fondata da Dardano ma che la storia eleva sin da epoca etrusca a centro nevralgico delle questioni economiche, sociali e politiche della gens italica. A due anni dalla collaborazione che vide alcuni reperti etruschi dell’Ermitage di San Pietroburgo sbarcare a Cortona, e a distanza di pochi mesi dai sorprendenti ritrovamenti archeologici rinvenuti nell’area del Melone II del Sodo, ecco un altro evento di grande attrazione sia turistica che culturale: oltre 40 opere finora sconosciute al pubblico italiano, reperti forse non ‘d’eccellenza’ ma che testimoniano alla perfezione la qualità e l’originalità della produzione artistica che si insediò nell’area geografica tra l’Arno e il Tevere, coinvolgendo centri quali Fiesole, Chiusi, Orvieto, Bomarzo, Perugia e Falerii (l’attuale Civita Castellana). Se l’Italia mai potrà rinnegare le proprie origini etrusche – anche il toponimo Roma sembra derivare dall’etrusco ruma, inteso come mammella, a significare l’insenatura

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che il Tevere operava di fronte all’isola Tiberina – l’Etruria non potrà mai dimenticare il ruolo che la sua Curtun rivestì negli ultimi secoli del I millennio a.C. Ed è così che la scelta di ospitare al Maec i reperti del Louvre appare un omaggio dovuto a questa cittadina toscana che trasuda storia ed arte dalle millenarie mura e dai suoi vicoli in pietra, ma anche dai tesori custoditi nel Museo Diocesano, dalle bellissime chiese, forse anch’esse un retaggio vivo di quell’immensa devozione religiosa dei suoi primi e raffinati abitanti. Curata da Paolo Bruschetti, Françoise Gaultier, Paolo Giulierini, e Laurent Haumesser, con organizzazione generale del Dipartimento delle Antichità greche, etrusche e romane, la mostra Le collezioni del Louvre a Cortona: gli Etruschi dall’Arno al Tevere sarà l’occasione per ammirare da vicino ‘pezzi’ inediti quali l’Arianna da Falerii, pervenuta al Museo del Louvre nel 1863 insieme a una consistente parte della celebre collezione Campana, l’opera “simbolo” dell’esposizione, datata III secolo a.C, un capolavoro di coroplastica etrusca di età ellenistica. Ma anche la Testa da Fiesole – bronzo che fu parte di una statua onorifica raffigurante un giovane aristocratico etrusco –, i quattro importantissimi bronzi del Falterona (statuette appartenenti a un eccezionale deposito votivo), ed ancora pezzi d’oreficeria e di artigianato artistico, come la pisside in avorio proveniente della collezione Castellani (scoperta nella necropoli di Fonte Rotella presso Chiusi), il mirabile Vaso conformato a testa femminile, recipiente bronzeo databile tra la fine del III e l’inizio del II secolo a.C., forse prodotto da un atelier orvietano, ed ancora l’elegante statuetta di Menerva in bronzo, proveniente dalle vicinanze di Perugia e connessa al culto di Minerva combattente, molto diffuso nell’Etruria centrale. Sono molte anche le iniziative collaterali all’evento: visite interattive alla mostra, laboratori sperimentali di archeologia e approfondimenti specifici per gli studenti, una Notte al Museo (14 maggio) con dj-set e musica dal vivo nelle sale del Maec, ed inoltre le “Arch-eno visite” (da marzo a giugno), degustazioni di vini da non perdere presso la vicina tenuta La Braccesca di proprietà dell’impresa Marchesi Antinori 1385, dalla quale escono etichette pregiatissime. Insomma, la storia siamo noi, la storia è qui, direbbero i francesi Voltaire e Montesquieu, che guarda caso furono soci dell’Accademia Etrusca di Cortona fondata nel lontano 1727, e che oggi approverebbero tutto. E appieno.

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ultura e relax in una delle località più affascinanti della Toscana. In occasione della mostra Le Collezioni del Louvre a Cortona: gli Etruschi dall’Arno al Tevere, l’Hotel Portole presenta l’offerta “Relax a regola d’Arte”: a partire dal 1 maggio e per tutta la stagione (fino al 4 novembre) è possibile usufruire di un soggiorno di 2 giorni per 2 persone in camera doppia a mezza pensione al prezzo totale di € 220 (con in omaggio il biglietto di ingresso per il Maec). L’Hotel Portole, situato in posizione panoramica con vista sul Lago Trasimeno a 750 metri s.l.m., è un accogliente e caratteristico hotel a 3 stelle ricavato da una tipica casa padronale dell’800 in pietra serena, dove la bellezza del panorama si sposa con il benessere di mente e corpo. A pochi chilometri dall’etrusca Cortona, immerso nella macchia mediterranea, l’Hotel Portole è un’oasi di pace dove trascorrere una soggiorno nel segno di un salutare relax e dei sapori della cucina toscana, cullati dalle premure di un’attenta gestione familiare. La vicinanza con “città gioiello” quale Cortona, Arezzo e Perugia permette agli ospiti di programmare escursioni giornaliere alla scoperta dei numerosi tesori culturali della Toscana. www.portole.it. - info@portole.it (tel: 0575 691008)

Le collezioni del Louvre a Cortona: Gli Etruschi dall’Arno al Tevere Fino al 3 luglio 2011 Palazzo Casali Piazza Signorelli - Cortona Tel: 0575 637235 www.cortonamaec.it

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il

volto anima

Mostre

e l’

TEXT Daniela Pronesti

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n pittura il criterio della verosimiglianza caratterizza la riproduzione di ciò che è vivente, perché dipingere la realtà è molto più che creare l’illusione della vita. Quando vediamo ritratta una figura che assomiglia fedelmente ad una forma umana siamo spinti ad investirla di sentimenti familiari, come se non si trattasse di un mero artificio visivo ma di una mate-

Anna di Volo. La dissolvenza del volto, la persistenza dell’anima ria viva che ci restituisce, oltre alle sembianze, anche l’anima dell’individuo. In questa sfida tra la realtà effettiva e la sua rappresentazione figurata, l’artista, investito di uno status demiurgico, esercita un pieno controllo sulle proprie creazioni, al punto da poter scegliere di sovvertire, talvolta con effetti imprevedibili, i meccanismi che regolano la vitalità stessa delle immagini. E’ proprio dal rovesciamento delle formule di analogia e di somiglianza che hanno origine gli individui senza volto della pittrice Anna di Volo, che dell’assenza di riferimenti somatici ha scelto di fare non soltanto una sigla stilistica, ma una vera e propria presa di posizione nei riguardi dello statuto pittorico della figura umana. Dopo il successo della recente personale al Museo Archeologico Nazionale di Firenze, l’artista fiorentina presenta una parte importante della sua attività più recente nella mostra Le Primavere, i colori dell’anima, in corso dal 10 aprile al 10 maggio presso il ristorante Il Battibecco all’Impruneta. Nate da una profonda riflessione sui rapporti tra l’evidenza del segno e la negazione dell’individualità a vantaggio di un’alterità enigmatica, le opere esposte coinvolgono lo spettatore in un’esperienza di disorientamento, come se alla dissolvenza dei tratti del volto e particolarmente degli occhi, cui comunemente è affidata la testimonianza più diretta della vita negli esseri viventi, corrispondesse un sentimento di perdita, un vacillamento del limite tra realtà materiale e realtà interiore. Tuttavia, osservandole bene, comprendiamo che le sue creature non appartengono alla frenesia dei nostri tempi, non ne condividono l’inquietudine, ma sono visioni che cavalcano i secoli e in cui rivivono suggestioni formali che, partendo dalla raffigurazione del sacro nell’arte primitiva, si estendono fino a comprendere il rigore iconoclasta dell’arte islamica, la tendenza sintetica dell’arte bizantina, e ancora, percorrendo velocemente la parabola del tempo, i visages vides di Henri Matisse. Rispetto ai modelli fin qui evocati, e ai quali diversi altri si potrebbero aggiungere poiché la meditazione sul potere di verità delle immagini accompagna gli artisti di ogni tempo, Anna di Volo elabora un proprio codice espressivo, in cui il volto non è l’ombra di un’identità dispersa nel vuoto, ma è una presenza concreta che abita uno spazio prospetticamente costruito, oltre cui si avverte l’ordine immutabile della natura. Le figure silenziose che popolano il suo immagina-

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rio artistico sono architetture perfette e composizioni cristalline che la sua mano di abile disegnatrice non rinuncia ad interrogare, con paziente minuzia e accorti chiaroscuri, per svelarne i movimenti, il volume, le posizioni, senza mai tradirne il segreto che rimane di fatto inviolato. Non occorre domandarsi chi siano questi esseri messi in scena, cosa accada fra loro o potrebbe accadere, né a cosa mirino i loro gesti ampi e solenni di madonne mistiche e deità pagane. Ben più emozionante è lasciarsi rapire e felicemente turbare dal mistero di un’atmosfera che si estende al di là del tempo e della vita, dimensione lontana e imperscrutabile, in cui ogni distinzione tra uomini e cose svanisce perché

entrambi diventano forme purificate e imperiture, come reliquie di una divinità immanente. Niente è più difficile e insieme affascinante che calarsi nelle radici dell’esistenza dove tutto è generato per ritrovare il fondamento originario, quell’essenziale che abbiamo dimenticato o mai conosciuto, il luogo più vicino all’anima, in cui cadono maschere e finzioni. Oltre il corso inarrestabile della vita, che muta i cieli e le stagioni come muta l’uomo e i suoi tanti volti, si cela, quindi, una sublime bellezza, la stessa che illumina gli ovali perfetti dei suoi quadri, rendendoli ipnotici e irresistibili. Una bellezza che, mentre disvela agli occhi l’inganno delle apparenze, accende nell’anima un desiderio di eternità.


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Mostre

IETRe D’animo EVOLUZIONI SIMBOLICHE

TEXT Enrica Frediani

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l 16 aprile alle ore 18,00 s’inaugura presso lo spazio espositivo MXM Arte Contemporanea, Pietrasanta (LU) la personale di Miguel Ausili.

L’evoluzione dell’uomo raccontata da Miguel Ausili attraverso un processo narrativo/creativo fondato su sottili citazioni rivolte al pensiero primitivo In mostra le sue creazioni più recenti, sculture in marmo e grandi disegni, dal 2007 ad oggi. Il tema è l’evoluzione dell’uomo: dalle origini al presente, dal simbolismo primitivo alla moderna tecnologia. Le sculture sono realizzate in varie qualità di lapideo che l’artista recupera durante le sue meditative escursioni nelle adiacenti cave di marmo poste a monte della città. Sono rocce calcaree, in gergo “boccioni”, esternamente grezzi, ricoperti di vari elementi e minerali solitamente appartenenti alla sfera cromatica delle terre ma, all’interno, una volta aperta, la pietra racchiusa si manifesta in tutta la sua bellezza. E Ausili osa infrangerne la purezza. Con delicatezza e precisione seziona il “sasso”, realizza delle convessità nel cui nucleo sviluppa il suo processo narrativo/creativo fondato su sottili citazioni al pensiero primitivo, all’arte propiziatoria, al mito della dea madre e della fertilità. Trapassa la scultura da parte a parte creando una simbolica porta che dal mondo moderno conduce verso l’arcaico, la riveste di marmi pregiati e di colore connotando l’opera di una profonda ricerca basata sull’armonia compositiva e su un raffinato senso estetico. La luce dei raggi solari gioca con le sculture, ne ridisegna i volumi, appiana le lucide superfici marmoree mentre illumina la ruvida scabrosità della pie-

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tra naturale. Emergono pareti rocciose, che paiono spazzate ed erose da venti millenari, dove picchi luminosi e ombre profonde simili ad antiche caverne conducono la memoria dell’osservatore ad ataviche suggestioni. E quando il fascio di luce attraversa le simboliche incisioni, configura nuovi scenari, dà vita o spegne i colori che vivificano la scultura oltrepassando il cuore e l’anima della pietra, cui l’artista, scavando, ha affidato tutto il valore e la potenza di un messaggio che attinge al primitivo simbolismo dei totem, degli idoli arcaici e sulla magia dei loro significati come in Totem maschera, 2006; Totem, 2002-2007; Tre luci, 2007; Tempietto dell’acqua, 2007; Uno e trino, 2008; Maschera, 2008; Habitat, 2008; Il Habitat, 2008; Altarino rupestre, 2009; Croce interiore, 2010. Nel ciclo dedicato all’Habitat realizzato dal 2004 al 2008, Ausili realizza sezioni di scale a mezza forma piramidale che simboleggiano l’evoluzione. Evoluzione della vita colta all’alba delle sue manifestazioni intellettive che si sviluppa all’interno di un contesto materico millenario – come il marmo – di cui permangono, nel grezzo involucro esterno dell’elaborato, tracce ferrose e terrose in contrasto con la politezza delle superfici che costituiscono il nucleo centrale, anima di una sintesi narrativa che esprime, nella labirintica disposizione della scala piramidale, evoluzione ed involuzione, quale metafora dello sviluppo dell’uomo e del suo possibile ritorno alle origini. Evoluzione è anche sinonimo di una costante mutazione che l’artista interpreta utilizzando il simbolo della maternità espressa nella ferita al centro della materia, quale costante rinnovo del cambiamento culturale e generazionale: Lama nera, 2006. La sua arte manifesta dunque la sintesi della storia della civiltà dai primordi delle esigenze espressive dell’uomo, dove si riconoscono pregnanze di memorie che costituiscono il substrato magico di allusioni e riferimenti che appartengono alle origini culturali dell’umanità, per giungere ad un assunto linguistico estremamente moderno per concetti, spiritualità e materiali utilizzati. Egli opera in una continua connessione tra ere e culture appartenenti a epoche diverse tessendo una fitta trama di traslati allegorici dove ogni opera è espressa in una risoluzione formale orientata verso una creatività innovativa esprimendosi, l’artista, con un linguaggio che guarda alla contemporaneità, ma, nello stesso tempo, non dimentica di evidenziare contenuti evocativi rivolti al passato. Ecco che le migliaia di anni trascorse dalla formazione della consapevolezza intellettiva a oggi sono compendiate

in un concetto virtuale che annulla le distanze temporali proiettando direttamente il pensiero nella dimensione spazio/tempo di un viaggio verso le origini affinché l’uomo non dimentichi le proprie. Personale di Miguel Ausili al MXM Arte Contemporanea Pietrasanta dal 16 al 30 aprile 2011

1. Tempietto dell’ acqua 2. Maschera 3. Croce interiore 4. Altarino rupestre 5. Uno e trino

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Palazzo Lanfranchi

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rti Axx secolo

TEXT Valeria Barboni

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del

talia anni Sessanta. Il Museo della Grafica propone in mostra qualcosa di diverso dal riflesso degli anni spensierati della Vespa, della Dolce Vita di Fellini, dei pantaloni “capri”, icone alle quali si fa comunemente riferimento in un immaginario collettivo, opportunamente sedimentato dalla comunicazione unilaterale dell’ultimo decennio. Sono altri anni Sessanta: quelli dell’impegno politico, della militanza attiva e della convinzione che l’istruzione e la cultura possano veicolare valori conoscitivi in grado di arricchire l’esistenza di ogni singolo individuo. L’esposizione è dedicata infatti a Carlo Ludovico Ragghianti nel centenario della nascita, uno studioso la cui levatura morale e l’impegno politico sono stati parte integrante del suo profilo di critico d’arte. Dopo la Fondazione Ragghianti di Lucca è il Museo della Grafica a rendere omaggio allo studioso che può essere considerato, a ragione, uno dei suoi padri fondatori. Un nucleo delle collezioni del museo nasce infatti dall’appello di Ragghianti, rivolto agli artisti contemporanei, perché donassero opere di grafica all’allora Istituto di storia delle arti, di cui all’epoca era direttore. Un’adesione entusiastica rese possibile la costituzione di un Gabinetto dei disegni e delle stampe legato all’Università di Pisa dove era confluita anche la donazione della collezione di grafica di Sebastiano Timpanato da parte degli eredi, sancita nel 1957. Si era venuta così a configurare un’importante raccolta pubblica che permetteva il costituirsi di un centro attivo per lo studio della grafica contemporanea. Anche la critica d’arte si identificava in quegli anni con una partecipazione alla vita poli-

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tica e culturale del territorio. Laboratori sperimentali come quello del CIAC, Comitato per le iniziative artistiche e culturali, nato all’interno dell’Istituto di

Carlo Ludovico Ragghianti e i segni della modernità Storia dell’arte dell’Università di Pisa con l’obiettivo di coordinare e veicolare mostre d’arte sul territorio, in collaborazione con Enti pubblici e privati, avevano un doppio scopo: da un lato l’organizzazione di queste esposizioni di arte con-

temporanea, era affidata alle giovani leve dell’Istituto, assistenti e neo laureati, che così avevano l’opportunità di mettere in pratica gli insegnamenti teorici acquisiti; dall’altro i visitatori potevano usufruire di manifestazioni espositive interessanti e scientificamente valide, avvalendosi di un percorso conoscitivo idoneo. L’approccio all’arte contemporanea era ancora genuino e non sofisticato dalle odierne strategie comunicative in grado di attirare alti numeri di visitatori inconsapevoli e di lasciarli, alla fine del percorso espositivo, altrettanto disorientati. Questo era il clima culturale che si respirava a Pisa nei primi anni Sessanta e che la mostra 1 ha inteso ripercorrere attraverso tre momenti specifici della riflessione di Ragghianti sulla contemporaneità. Il punto focale dell’esposizione resta senza dubbio l’interesse per la grafica, che rappresenta il segno inciso della modernità. Con alcune litografie in apertura del percorso espositivo, appartenenti alla mostra Litografie di artisti contemporanei del 1962, è possibile soffermarsi su alcune opere dei maestri del Novecento come Carlo Carrà, Mino Maccari, Giò Pomodoro, Arturo Carmassi e Nobuya Abe, e in particolare sullo straordinario volto di donna di Pablo Picasso, unica opera del maestro spagnolo stampata in Italia. Un volto nato dalla sintesi di poche linee ma in grado di raggiungere l’essenza universale della femminilità. Questo come gli altri fogli erano usciti dai torchi del Bisonte, stamperia fiorentina creata da Maria Luigia Guaita, legata a Carlo Ludovico Ragghianti, da un’amicizia che risaliva ai tempi della resistenza toscana. Il legame con la Guaita ritorna


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1. Picasso 2. Mino Maccari 3. Carlo Ludovico Ragghianti 4. Ardengo Soffici

con l’impresa, unica nel suo genere, della cartella Galleria Grafica Contemporanea, che raccoglie cinquanta incisioni di maestri italiani contemporanei stampata nel 1964, promossa dalla sezione fiorentina dell’Associazione Nazionale per l’assistenza agli Spastici. Gli artisti, nati tra il 1876 3

e il 1913, erano stati coinvolti dallo studioso secondo un preciso impianto storiografico. La tecnica suggerita era quella dell’acquaforte, un medium che per molti di loro risulta essere una novità assoluta. In mostra sono state esposte anche alcune rare lastre di proprietà della Fondazione Il Bisonte che testimoniano il processo creativo di artisti come Gino Severini, Carlo Levi e Tono Zancanaro. Nell’allestimento le opere sono accompagnate dai commenti poetici, altamente suggestivi, scritti da Ragghianti accanto ai nomi degli artisti inseriti nel portfolio. Questa peculiarità offre l’opportunità di soffermarsi anche su Ragghianti scrittore, autore di una prosa evocativa e sintetica al tempo stesso, che risulta essere più moderna rispetto alla complessità di quella longhiana. Il dialogo tra le arti prosegue con la documentazione dell’interesse per l’architettura attraverso la ricostruzione, a cura di Susanna Caccia, della prima mostra dedicata a Le Corbusier, organizzata a Palazzo Strozzi, nel 1963. Un altro momento saliente del percorso espositivo è la possibilità di vedere nella sala multimediale del museo alcuni critofilm (prestito del Centro Documentario del cinema d’Impresa di Ivrea), letture storico critiche realizzate da Ragghianti nel linguaggio cinematografico a testimonianza della sua lungimiranza nel comprendere

le possibilità divulgative del cinema. Seguendo quindi il filo dell’interdisciplinarietà delle arti e della riflessione sul contemporaneo, la mostra riesce a trasmettere ai visitatori i valori fondanti di una critica d’arte che rimane un punto di riferimento per molti studiosi. 4


Palazzo Blu

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Arte

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TEXT&PHOTO Pierluigi Carofano

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na mostra particolare, costituita da un’unica, singola opera si è appena chiusa a Pisa presso Palazzo Blu (26 febbraio – 27 marzo 2011), sede espositiva e museale delle collezioni della Fondazione Cassa di Risparmio di Pisa. L’evento, emblematicamente intitolato, Un uomo che guarda, era dedicato ad uno dei dipinti più intriganti dell’intero corpus del caravaggesco pisano Orazio Riminaldi (1593 – 1630), il Ritratto di Curzio Ceuli (olio su tela, cm. 54x43), Operaio della Primaziale di Pisa dal 1616 al 1634. Questo ritratto, ricordato dalle fonti antiche, fu pubblicato da Mina Gregori (1985), facendo leva sull’iscrizione posta a tergo della tela, risolutiva ai fini attribuzionistici e dell’identificazione dell’effigiato: “Curzio di Domenico Ceuli eletto [O]peraio del Duomo d[i] [Pis] a nel 1617 di moto p[roprio] [di][C]osimo 2° Medici Gr[an Duca] di Toscana, fatto [da] [Oraz]io Riminaldi pittor[e]”. Finito nella collezione milanese di Luigi Koelliker, lo avevo recuperato agli studi, esponendolo a Pontedera all’interno della mostra Luce e ombra. Caravaggismo e naturalismo nella Toscana del Seicento (2005), nella speranza che una qualche istituzione museale cittadina si attivasse per acquisirlo. In seguito alla recente parziale dispersione della collezione Koelliker, l’opera è tornata sul mercato nel 2008, esposta all’interno

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guarda

dello stand Robilant+Voena durante l’ultima Biennale dell’antiquariato di Palazzo Corsini a Firenze. Grazie alla tenacia di Franco Paliaga, storico dell’arte particolarmente attento alle vestigia pisane, a Stefano Renzoni ed alla lungimiranza del dott. Bracci Torsi, presidente della suddetta Fondazione, finalmente, il Ritratto

di Curzio Ceuli è tornato nella sua città. Si tratta in verità di un recupero fondamentale per la conoscenza dell’attività ritrattistica del maestro pisano, oggi nota soltanto attraverso questo numero e l’Autoritratto degli Uffizi. Nonostante le decurtazioni

del margine inferiore e di quelli laterali (che impediscono di apprezzare la tipologia della medaglia e di verificarne lo status di possibile onoreficenza), il dipinto conserva tutta la sua unità potenziale, ponendosi sullo stesso livello, per intensità ed attenzione al dato naturale, del Ritratto di Raffaele Menicucci di Valentin de Boulogne conservato a Indianapolis, capolavoro della ritrattistica caravaggesca, un’opera che diresti gemella di quella qui in discussione. In effetti l’adesione al caravaggismo da parte di Riminaldi è autentica nell’uso della luce direzionata a scrutare le carni dell’effigiato e la leggera pinguedine, i capelli brizzolati, l’accentuata stempiatura e le rughe intorno agli occhi dalle palpebre un po’ bolse, con indosso il ferraiolo e imprigionato nella gorgiera inamidata eseguita con maniacale precisione tattile degna di uno stretto seguace del Caravaggio. La risposta ai rx e alla riflettografia all’infrarosso conferma la stesura soda e compatta della materia apprezzabile anche a livello superficiale, ma anche un 1 pentimento nella gorgiera, pensata dapprima di dimensioni ridotte ed ampliata in un secondo momento. Curzio Ceuli fu figura cardine del rinnovamento del Duomo pisano durante la prima metà del Seicento, nonché vero e proprio sponsor di Riminaldi. Grazie a


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1. Orazio Riminaldi. Ritratto di Curzio Ceuli - Pisa - Fondazione Cassa di Risparmio di Pisa 2. Riflettografia all’infrarosso del dipinto 3. Fluorescenza ai RX del dipinto lui l’artista ottenne dapprima, mentre si trovava a Roma, l’incarico di dipingere il Sansone e il Mosè per la Tribuna, poi la cupola sempre per il duomo, senza contare i buoni uffici spesi presso amici e parenti. Inoltre Orazio eseguì per il Ceuli almeno due dipinti raffiguranti “un San Sebastiano scorcio quando le due Sante Matrone lo medichano” e un “Davitt mezza figura” oggi dispersi, ma esplicita testimonianza del familiarità tra i due. L’immagine che Orazio ci consegna in questo ritratto è quella di un uomo sulla cinquantina, sicuro di sé, dallo sguardo piuttosto altezzoso. Per l’età del protagonista e per le vicende personali di Riminaldi, tornato in pianta stabile a Pisa nel 1627, non è improbabile fissarne la data d’esecuzione in quegli anni, periodo in cui i rapporti tra lui e Ceuli sono molto stretti, verisimilmente quotidiani a causa dell’intensa attività del pittore all’interno dell’Opera che ha il suo momento di massima visibilità nella decorazione della cupola, ma che passa anche per piccole incombenze come la manutenzione dei dipinti della cattedrale tra cui merita ricordare gli interventi sul Trionfo di san Tomaso d’Aquino di Benozzo Gozzoli (Parigi, Musée du Louvre) e sul Polittico di sant’Agnese di Andrea del Sarto tuttora in duomo.

Da accantonare è quindi l’ipotesi di pensarne l’esecuzione in occasione della nomina del Ceuli ad Operaio (1616), data che non collima, non tanto con le capacità artistiche del non ancora ventenne Riminaldi (basti pensare che la commissione del Sansone è del ‘20), quanto proprio con l’età dell’effigiato, il quale rimarrà in carica almeno sino al 2 giugno 1634. Purtroppo le notizie su Curzio Ceuli non sono molte. Sappiamo che proveniva da una casata del contado pisano che a Roma in quegli anni gestiva un Banco importante

A Palazzo Blu un nuovo Ritratto di Orazio Riminaldi in rapporto con le famiglie più in vista quali i Mattei e i Barberini e che annoverava tra le sue fila alti prelati come Tiberio, vescovo di Avignone. Non a caso Riminaldi a Roma riscuoteva le somme relative ai dipinti commissionatogli da Curzio per la Tribuna proprio tramite il Banco di famiglia, a confermare un legame assai stretto, quasi una sorta di mecenatismo non convenzionale. Sin dal momento della sua nomina il Ceuli si impegnò in un’intensa operazione di

ammodernamento della cattedrale pisana dopo il disastroso incendio avvenuto nella notte tra il 24 e il 25 ottobre 1595, coadiuvato da eruditi e prelati locali tra i quali spicca il canonico Paolo Tronci, anch’esso peraltro collezionista di dipinti di Riminaldi. Ma il suo ruolo non fu soltanto quello di coordinare, nominare e controllare maestranze, relazionare al granduca sull’andamento dei lavori, verificare modi e tempi degli interventi. Basta sfogliare il quadernuccio dei Ricordi da lui stilato per intuire il carisma con cui egli assegna gli incarichi e la piena soddisfazione con cui constata il consenso degli addetti ai lavori. Non si trattava soltanto di commissionare tele in massima parte destinate al completamento della Tribuna iniziato quasi cent’anni prima, ma anche di ripristinare e reintegrare, fin dove era possibile, tutti quei manufatti danneggiati nel tentativo di restituire gli oggetti di culto alla loro piena funzionalità, salvandoli dal loro definitivo abbandono, assumendo i contorni di una precoce quanto significativa operazione di tutela e conservazione. A lui va inoltre il merito del trasferimento del Polittico di sant’Agnese di Andrea del Sarto dalla pisana chiesa eponima alla cattedrale e del restauro del pulpito di Giovanni Pisano.

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Š Filippo Maffei


musei

Se non sei un pezzo da museo puoi essere un pezzo di museo

Arte

Peccioli

TEXT Irene Barbensi

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na tessera unica che consente di creare una solida rete di collaborazioni e promozioni del nostro territorio, alla scoperta dei tesori locali e regionali, nazionali e internazionali. È la Card Amici del Polo Museale di Peccioli pensata dalla Fondazione Peccioliper che riunisce in una sola offerta una serie di servizi e agevolazioni per i possessori. Non è solo un pass che racchiude tante iniziative, ma è essa stessa la vera iniziativa del futuro che concilia la ricerca di un meccanismo di fidelizzazione con l’inizio di un percorso di sconti e benefici. La Card Amici del Polo Museale di Peccioli riunisce in un’unica offerta una serie di servizi fra i quali l’accesso gratuito o con riduzione ai musei del territorio nonché la possibilità di numerose agevolazioni presso le più prestigiose istituzioni culturali e di intrattenimento, esercizi commerciali e strutture ricettive.

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- Ingresso gratuito al Polo Museale di Peccioli e a tutte le mostre organizzate dalla Fondazione Peccioliper - 1 copia omaggio delle pubblicazioni e dei cataloghi editi dalla Fondazione Peccioliper - Anteprime di spettacoli, inviti a prove aperte e a iniziative riservate - Mailing informative sugli aggiornamenti dei benefici della Card

Foto: in alto museo Arte Sacra, museo Merlini a destra museo Archeologico, museo Icone

della Card r i possessori Prima uscita pe a primavera) alla scoperta prossim hio”, Firenze (prevista per la in Palazzo Vecc i at el sv i gh dei “Luo

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forma leggerezza

Mostre

la

della

TEXT D.P.

A

bbandonare il repertorio tradizionale della scultura in favore di composizioni variabili che rispondono alla poetica della precarietà e dell’effimero, è uno degli orientamenti della produzione scultorea contemporanea, rappresentata in maniera significativa dalle opere di sedici artisti italiani e stranieri - Alexandra Bircken, Beth Campbell, Daniela De Lorenzo, Claire Morgan, Franco Menicagli, Ernesto Neto, Jorge Pardo, Cornelia Parker, Tobias Putrih, Tobias Rehberger, Tomas Saraceno, Bojan Sarcevic, Hans Schabus, Luca Trevisani, Pae White, Hector Zamora presenti all’EX3 di Firenze, fino all’8 maggio, con la mostra collettiva Suspense - Sculture Sospese, a cura di Lorenzo Giusti e Arabella Natalini. Diversi per generazione e provenienza, gli artisti chiamati ad esporre propongono alcune delle opere realizzate nell’ultimo decennio, offrendo così uno spaccato sui recenti sviluppi della scultura internazionale, caratterizzata dal rifiuto di ogni forma stabile e dalla pratica della “sospensione”, come formula di estrema libertà compositiva ed espressione dell’anelito della società odierna alla leggerezza e alla sobrietà. Esplorato in maniera episodica da alcuni movimenti d’avanguardia del secolo scorso e soprattutto da Alexander Calder con le sculture mobiles, il concetto di sospensione raccoglie e sintetizza delle importanti riflessioni in materia di movimento, performance e casualità, e si traduce nella creazione di opere che, sospese nell’aria, rinunciano ad ogni saldo legame con il suolo. Non si tratta soltanto di un superamento dei valori tradizionali della scultura, quanto piuttosto del tentativo di “dilatare” le possibilità espressive del linguaggio scultoreo, rinunciando al criterio della monumentalità in favore di rinnovate caratteristiche di levità e dinamismo. Le opere esposte non occupano semplicemente uno spazio, ma lo conformano mediante una serrata dialettica tra coppie di opposti - morbido e rigido, pesante e leggero, statico e mobile, pieno e vuoto - che

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instillano in chi guarda lo stesso sentimento di attesa e di precarietà che nasce di fronte ad un evento imprevedibile. Un aspetto che le accomuna è l’attenzione ai valori tattili e alle potenzialità metamorfiche di oggetti quotidiani e materiali abusati, che opportunamente manipolati e decontestualizzati, acquistano un nuovo significato ed una diversa identità. Gli interventi di trasformazione e di ricombinazione di materie elementari traggono ispirazione anzitutto dai processi organici che si svolgono in natura, e si risolvono nella creazione di iconici vegetali proposti come elementi di un misterioso paesaggio immaginario. Così avviene, ad esempio, nell’opera di Claire Morgan, Garden, una suggestiva composizione di foglie e forme animali che, oltre a suggerisce un’idea di ordine ed armonia, emana tutto il pathos drammatico della provvisorietà, oppure nelle composite strutture astratte di Bojan Sarcevic, appartenenti alla serie Presence at Night, in cui l’insolita combinazione di rami di varie specie e di capelli umani mette in evidenza la dimensione dell’estinzione nell’evoluzione, della precarietà del tempo nella continuità della vita, e ancora nel microcosmo di Tomas Saraceno, Biosphere 06, piccolo giardino in sospensione costituito da una sola cellula, che rimanda all’utilità delle moderne tecnologie come strumento che offre all’uomo nuovi territori di sopravvivenza. La forza vitale della sostanza organica si fa poesia nelle Cloud Clusters di Pae White, che si serve di ossature metalliche, colorate e sospese ad un’altezza significativa, per richiamare la presenza del cielo e “intrappolare” simbolicamente l’essenza effimera delle nuvole, mentre nelle sculture mobiles di Beth Campbell (You’ve really fucked up this time), un raffinato intreccio di fili ci guida nel cuore dell’immaginario artistico alla ricerca di un’estensione infinita. Con l’opera Lapses di Alexandra Bircken, il punto di vista si sposta dallo spazio naturale a quello antropizzato. Le sue stoffe, cucite con la stessa cura di una preziosa tappezzeria, si alternano come a voler

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testimoniare la presenza del tempo e il passaggio dell’uomo, riuscendo in tal modo a coniugare un senso d’intimità e un’inquietante impressione di estraneità. Nelle gabbie umane di Jorge Pablo (Untitled), architettura, scultura e installazione s’intersecano in un’unica formula espressiva: il corpo, trasformato dall’artista in una complessa trama di linee con al centro una fonte luminosa, diventa il punto energetico in cui la prospettiva individuale si fonde a quella cosmologica. I calchi in feltro di Daniela De Lorenzo, Falsetto/Escamotage, si basano sul recupero di un materiale povero che la creatività dell’artista fa rivivere nel presente. Il feltro, accartocciato o sovrapposto in più strati a creare lo spessore di una figura che emerge dal fondo, preserva la memoria dell’intervento artistico e assume una vera e propria valenza scultorea. Le creazioni di Luca Trevisani (Soap Bubble Skin) e di Franco Menicagli (Clues) mettono in luce le tante possibilità offerte dal riuso


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del legno, in virtù soprattutto della sua straordinaria flessibilità. Mentre Trevisani assembla e ripiega su se stesse delle lamine di legno di colore differente creando un sottile gioco di rimandi e suggestioni tese al coinvolgimento del fruitore, Menicagli disegna lo spazio con un’ariosa installazione, che mette insieme assi di legno e oggetti d’uso quotidiano, dando vita ad associazioni visive e metaforiche di grande effetto. Nell’opera di Hans Schabus, Tomorrow will be like today, la semplicità dei mezzi utilizzati non impedisce una pluralità di significati e di letture. Si tratta di uno sgabello artigianale ricoperto da diversi strati di stoffa logorati dall’uso e abilmente sospeso nell’aria: se l’aspetto consunto dei tessuti racconta la storia di chi quest’oggetto l’ha realmente posseduto e utilizzato, la distanza da terra indica invece la necessità di recuperare il controllo del tempo, e con esso il piacere della pausa e della lentezza. Sulla partecipazione emotiva e sensoriale del pubblico insistono le realizzazioni di Ernesto Neto (While Nothing Happens Baby) e Cornelia Parker (No Man’s Land), il primo mediante un’imponente scultura in lycra che incombe dall’alto e che stimola tanto la sfera visiva dello spettatore quanto quella olfattiva, grazie alle sabbie e alle spezie profumate che riempiono alcune parti dell’opera, la seconda realizzando una struttura che richiama la dinamica tra interno ed esterno, tra forze contrastanti che si reggono sulla tensione degli opposti. Hector Zamora, con Synclastic Anticlastic, affronta il tema della relazione tra opera e ambiente, tra sensazione e materialità, e concepisce i suoi lavori come forme dinamiche che rivelano le tensioni latenti nello spazio. Tobias Rehberger (The Great Disarray Swindle) e Tobias Putrih (Soap Film Models), propongono, infine, dei simbolici intrecci di fili e dispositivi elettrici, volti a fissare la

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trama di una rete che leghi i differenti stati della materia e dell’esperienza individuale. La mostra si protrarrà fino all’8 di maggio, con orari d’apertura dal mercoledì alla domenica, dalle 11.00 alle 19.00, il venerdì fino alle 22. Chiuso il lunedì e il martedì. Per info: EX3 - Centro per l’Arte Contemporanea, Viale Giannotti 81/83/85, Firenze, info@ex3.it 1. Franco Menicagli - Clues 2. Opere di: Alexandra Bircken (a sinistra) Luca Trevisani (centrale) Hans Schabus (fondo) 3. Ernesto Neto - While Nothing Happens Baby 4. Daniela De Lorenzo - Falsetto - Escamotage 5. Tobias Putrih - Soap Film Models (After Frei Otto) 6. Beth Campbell - You’ve really fucked up this time 7. Jorge Pardo - Untitled 8. Hans Schabus - Tomorrow Will Be Like Today

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Mostre

Livorno

Pianeta dell’ mmaginario TEXT Nicola Micieli

A

ppartengono al variegato pianeta dell’immaginario, hanno un taglio visivo e uno stile diversi ma agiscono entrambi sui versanti strettamente correlati della pittura e dell’incisione, i due artisti di scena fino al 7 maggio alla galleria Athena di Livorno. Si tratta del livornese Stefano Ciaponi, che all’esercizio dell’arte alterna l’insegnamento alla cattedra di inci-

In tandem alla galleria Athena dipinti e incisioni di Stefano Ciaponi e Renzo Galardini sione dell’Accademia di Carrara, e di Renzo Galardini, un pisano stabilmente insediato tra Montescudaio e Cecina, a suo tempo migrante per ragioni di scuola che da alcuni anni non sussistono, essendosi il suo impegno concentrato esclusivamente sulla pittura. C’è da dire che Ciaponi e Galardini hanno in comune anche la formazione primaria nella medesima scuola, l’Istituto d’Arte di Lucca, allievi di un maestro stra-

ordinario: lo scultore e grafico Vitaliano De Angelis, fiorentino per nascita e formazione al Magistero artistico di Porta Romana, lui pure livornese di adozione. Si mostrano dunque nella compiutezza e nella duplice valenza dell’espressione pittorica e grafica un artista “indigeno”, che incide all’acquaforte le lastre con segno netto e vigoroso e dipinge con una materia di sedimentazione paramuraria, e un “oriundo”, transfuga divenuto e riconosciuto almeno per metà livornese, che incide alla vernice molle e dipinge con finezza d’impasto e definizione da miniatore, per quanto, in verità, nell’uno come nell’altro caso non ci sarebbe ragione di evocare appartenenze territoriali o stracittadine portatrici di eventuali “rivalità” da campanile. Non si può dire, difatti, che nei due artisti siano riconoscibili ascendenti locali, quanto a genesi e modalità d’uso dei rispettivi linguaggi. In definitiva, la loro forma pittorica e grafica rimanda ad altri climi: un intricante novecentismo postmetafisico e intimista nelle metafore visive di Ciaponi, una sorta di realismo magico a vocazione emblematica nei fastosi “teatri” di Galardini. Nel caso di Ciaponi siamo chiamati ad assistere a suggestive manifestazioni o apparizioni che chiedono la complicità dello sguardo e investono la sensibilità. Sono figure sulle quali si concentrano e si esprimono dilatazioni mentali, memorie, sogni, affetti, persino turbamenti vissuti nella discrezione degli spazi intimi. Sono animali, fiori e altri momenti della natura, oggetti e attrezzature sceniche che l’artista ambiguamente gioca tra credibilità e invenzione dell’immagine poeticamente straniata. Per la consistenza tattile della materia pittorica e il registro basso del colore (soprattutto terre rosse e bruciate a riverberi gialli e qua è la screziate da timbri pungenti), si ha l’impessione che la ribalta di quegli accadimenti sia un interno anche quando la scena è di ambientazioni esterna. Si tratta di un luogo comunque avvolgente, nel quale l’effusione emotiva sommuove l’equilibrio compositivo della scena, talora abitata da presenze persino sovrabbondanti. Il clima che vi respira è caldo per la qualità

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In alto: Aspettare il blu del cielo A fianco: Veglia notturna


poeticamente evocativa della materia, del colore, dello spazio simulato che sollecita i sensi e induce emozioni con il flusso proiettivo dei depositi psichici pesonali e dei loro portati simbolici. Renzo Galardini apparecchia una scena di diversa natura, tutta mentalmente filtrata, funzionale alla simulazioni d’un vero otticamente focalizzato e sottile, per quanto di appartenenza non iperreale né fotografica. Tutto è dato nella virtualità della spoglia corporale, nella riduzione delle effigi in simulacri, dei paramenti in emblemi offerti quali trionfi o trofei di una festa dello sguardo che scopre il meraviglioso nel fasto visivo insospettato di presenze e oggetti marginali, persino desueti della quotidianità. Per non dire delle espressioni più qualificate della creatività umana consegnateci dalla storia e da Galardini rivisitate sin dai tempi giovanili, quando attingeva al molteplice e altissimo deposito della civiltà pisana i materiali privilegiati del proprio repertorio. La materia e il colore sono in Galardini di estrema purificazione formale, usati con mano ferma e occhio educato, da virtuoso che fonda sulla probità e la puntualità del disegno analitico la qualificazione visiva dell’immagine. La medesima mano governa anche il “disegno” dell’incisore. I segni giocati dentro il recinto ovvero lo schermo ristretto della lastra determinano, se possibile, una definizione della forma ancor più rigorosa e nitida, al limite dell’assoluto metafisico. A fianco: Pulcinella e la Sirena In basso: Raccogliere l’erba del viaggio

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Arte

Enzo Faraoni

Natura e verità

narrazione in forma di versi

TEXT Valerio Vallini

G

iù per le scale dalla station e alte le cuspidi e le grandi vetrate, fra nebbia e traffici e poi a sbucare di tralice sui rapidi cerchi e le volute dell’Alberti: i soffici marmi aerei. Santa Maria Novella.

come una mattina nei Sessanta. Ovunque sono edicole, stemmi invadenti del potere. Sbuco in Santo Spirito, la facciata in riccioli di rosa. Ancora passi e passi e infine, da uno scorcio di viucciola, schegge di marrone bugnato e salendo, ecco, l’allargarsi dell’ampia veduta dei Pitti. Natura e verità nella pittura di Enzo Faraoni dispiega un alto stendardo, su fondo rosso calato a fianco dell’ampio portale. Sosto affacciato, un respiro, prima dell’inoltro Nel fondo cortile e su per le otto rampe di marmo.

Indietro nello svolgersi degli anni le ripercorro, strapazzato studente, quelle vie, le mie domande e i sensi e il suono ardente sul selciato. E le strate e come in via Fossi, la vetrina che fionda una luce di verdi e aranci

In cima, dentro, nelle sale, una voce, di Enzo, mi rapisce e lo vedo nel bianco di uno schermo, passeggiare per orti e sentieri fra foglie di autunno inoltrato, e fitte di sole occiduo. Narra con calma, con pacatezza. Narra nel film l’asprezza degli oggetti, gli strumenti del suo lavoro, la grassa stesura dei colori: le biacche, le carnose sassifraghe, le case fitte nel paesaggio, la sua Carmignano, la sera tempestosa di fuoco, le ferite, svela l’incendio delle polveri, le esplosioni, 1 il padre in divisa di ferroviere. Inizio il percorso: “opericciole piccole in cui il colore ritorna intatto/ e primordiale come alla prima luce”. 2 In una tela ritrovo l’amico Paolo 3 visto in molte guise: ora spavaldo, ora istrione e malinconico. Vedo lui stesso, Enzo, in maturità e vecchiaia, segno iconico e colore, le sue morte nature, chiare e cupe. 4 “Gli oggetti avvolti nel proprio mistero di solitudine” di malinconia anche, nei ritratti di Ario e Leonetto, e di nuovo lui stesso in rosso e in vaporoso celeste. E le donne poi, addormentate, assorte, solari. E “certe ragazzine pensose con qualcosa 5 di romantico e classico, derelitte o traviate…” Mi soffermo alle sue grafiche, i disegni ora secchi e nervosi, ora grassi di carboni, ora vaporosi d’aria.

1. Il riferimento è all’attentato fatto da partigiani, al quale partecipò E. Faraoni, contro vagoni ferroviari nella stazione di Carmignano l’11 giugno 1944. 2. Le parole sono di Dilvo Lotti scritte nel 1939; le cesure sono mie. 3. Si tratta di Paolo Marini, direttore insieme a P.Santi della Galleria L’Indiano in Firenze. 4. E’ Piero Santi che lo scrisse. 5. Il virgolettato è un pensiero di Luigi Baldacci 6.Da Carlo Betocchi,1971

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Sento di esserne parte di averlo incontrato in qualche chiasso della Firenze antica nella sua varia umanità. Ora, giunto al commiato, i suoi luoghi: Carmignano, la cupa massiva delle rocce, la Gonfolina, Livorno, Empoli, Porta Romana; le sue cose: una tela imbiancata, la sedia in ferro, il basco, la conchiglia scabra, la pansé per Dianora, mi seguono all’Arno con la luce, nell’ora “che ha memoria dell’ombra” 6

NOTIZIA

Enzo Faraoni nasce a Santo Stefano Magra, il 29 dicembre 1920. Cresciuto in mezzo al paesaggio di Montelupo, undicenne frequenta la scuola d’arte di Porta Romana. Viaggiò in treno con Dilvo Lotti e Renato Alessandrini. Nel ‘36 vide con il padre, una mostra di Viani al Kursaal di Viareggio. Partecipò ai Littoriali, alla mostra della città di Empoli nel ‘38 e nel ’39 di San Miniato. Frequentò la cerchia di Rivoluzione, periodico del GUF fiorentino, dove scrivevano anche Luzi e Parronchi. Nel ‘42 fu la prima personale al Fiore, presentata da Piero Santi. Le sue nature morte furono viste con interesse da Longhi. Nel ‘45 scopre la pittura di Cézanne e Van Gogh in mostra a Firenze. Nel ‘47 dopo un periodo di crisi, entra nella cerchia della Fiamma Vigo e negli anni ‘50 espone alle Biennali di Venezia. Nel ‘53 sposa Dianora Marandino, si rafforzava l’interiorità rigorosa delle sue incisioni, con una feconda stagione di ritratti. Cominciarono a fioccare premi. Nel ‘61 gli fu assegnato il premio Fiorino della “Città di Firenze” per il dipinto: Ragazza addormentata. Gli anni ‘70 lo videro presentare importanti personali alla Pananti e all’Indiano. Dagli anni ’90 al 2004, Faraoni si abbandona alla vena espressionistica.

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Arte

nel 150° dell’Unità

Sculture a Villa Pacchiani TEXT Romano Masoni PHOTO Jonathan Retico

Giovedì 17 marzo, festa del 150° dell’Unità d’Italia, nel giardinetto di Piazza Pasolini, antistante il Centro di Attività Espressive Villa Pacchiani, sono state collocate le sculture di Franco Franchi, Luciano Massari, Roberto Rocchi, acquisite dal comune di Santa Croce sull’Arno nell’ambito del progetto “Pelle Santa” inteso a inserire opere d’arte nel centro urbano. Una quarta scultura, quella di Enzo Sciavolino, è stata collocata all’interno della Villa. L’inaugurazione è stata presieduta dal sindaco di Santa Croce Osvaldo Ciaponi e dall’assessore alla cultura Mariangela Bucci, che hanno indirizzato agli artisti presenti e al numeroso pubblico un saluto augurale sottolineando il particolare significato della manifestazione nella felice ricorrenza risorgimentale. Ha poi preso la parola il pittore Romano Masoni, l’ideatore del progetto e all’epoca direttore di Villa Pacchiani. Pubblichiamo il suo intervento.

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U

n ringraziamento, anche se tardivo, lo devo fare agli artisti e ai poeti di questa nostra terra, sognatori resistenti di tutte le stagioni. In questi tempi maledetti ce n’è bisogno come il pane. Una premessa. Nell’estate del 1995 nasceva un progetto che aveva l’ambizione di riqualificare il centro storico con iniziative ed eventi culturali. Il progetto si chiamava “Pelle Santa” e voleva raccontare la storia del nostro paese. Esso partiva da una riflessione: qui da noi, il gesto quotidiano del conciatore, pur nella fatica, diventa magico e creativo. Ciò che l’artista fa con la materia, l’operaio lo fa con la pelle: la muta, la trasforma. Il progetto comprendeva affreschi, murali e sculture lungo il paese, lungo la via maestra di corso Mazzini. La pelle come metafora della vita: era il tema che ispirava gli artisti e dettava loro i tempi. Pelle come brivido: ho la pelle d’oca, ho i nervi a fior di pelle, salviamo la pelle. Pelle che si spella, che s’accarezza, che si eccita, che si scalda. Pelle santa del mondo. E quindi pelle della pittura e della scultura. Quel progetto, ahimè, morì in culla e non fu mai realizzato nella sua interezza. Rimangono alcune tracce, alcune testimonianze appese ai muri di corso Mazzini: sono le opere di Tista Meschi, Serafino Beconi, Giuseppe Lambertucci, Antonio Bobò, Ivo Lombardi, Gianfalco Masini, Mauro Corbani, Dilvo Lotti. Le sculture no. Esse presero subito un altro percorso, chissà per quale misterioso accidente. Ma ora dimentichiamo l’idea originaria e parliamo di questa nuova collocazione e dello spirito che l’ha animata. Dunque, perchè qui, in piazza Pier Paolo Pasolini, in questo parco/giardino, dove stanno già posizionate altre sculture (quelle di Dolfo, di Massimo Villani, di Valerio Comparini, di Fabio Nocenti) e dove piante di foglia caduca danno il senso delle stagioni. Appunto, perchè qui e non altrove. Perchè le sculture di Roberto Rocchi, di Franco Franchi, di Enzo Sciavolino, di Lu-

ciano Massari non nacquero per stare in grandi spazi, isolate, senza punti di riferimento visibili e concreti, ma per guardarsi l’una con l’altra lungo il corso del paese, in mezzo alle case e al calore della gente. Da sole, all’aperto, ne uscirebbero sconfitte, impaurite, spaesate. Non reggerebbero. Qui, in questa piccola piazza, i punti di riferimento ci sono, altrettanto concreti e simbolici: davanti l’argine a far da quinta teatrale e dietro l’Arno a far memoria, pur col rischio delle muffe, dei vandalismi, dei furti, ma con una certezza, che la materia delle sculture sarà mutevole come mutevoli sono le foglie e invecchierà come pelle conciata dal tempo e dall’uomo. Piazza Pasolini, sono certo, farà suo questo “Parco delle foglie tenaci”, questo inedito Parco delle Rimembranze o meglio ancora, come suggerisce a tutte le Comunità di tutti i paesi del mondo Carlo Petrini, questo “granaio” della memoria e della bellezza, dove piante e sculture, in colloquio continuo e silenzioso, diventeranno i testimoni delle nostre stagioni. nelle foto: Il Sindaco Osvaldo Ciaponi, l’assessore Mariangela Bucci ed il pittore Romano Masoni



FIRENZE

Il Rinascimento italiano, raccontato attraverso 50 magnifici capolavori provenienti dagli Uffizi e dal British Museum, evidenzia la forza individualistica del 8 marzo 2011 - 12 giugno 2011 disegno nel settore delle Galleria degli Uffizi arti. In sintonia con le nuove Piazzale degli Uffizi concezioni umanistiche, tale disciplina si afferma quale espressione soggettiva in simbiosi con l’affermazione universalistica dell’io nella dimensione quotidiana della realtà. Le opere in mostra recano la firma di grandi maestri, basti pensare a Lorenzo Monaco, Beato Angelico, Filippo e Filippino Lippi, i Pollaiolo, Verrocchio, Botticelli, Perugino, Ghirlandaio, Leonardo, Raffaello, Michelangelo, la scuola dell’Italia Settentrionale. L’uomo e la natura, osservata secondo i canoni della cultura classica, rappresentano i soggetti partoriti dai maestri secondo tecniche, stili, sperimentazioni, interpretazioni di alto spessore, tale da rendere il disegno un’arte, l’arte dello stupire per bellezza esteriore e interiore.

11 maggio 2011 18 settembre 2011 Museo del Bargello Via del Proconsolo 4

FIRENZE

Dagli splendori di corte al lusso borghese

FIRENZE L’acqua, la pietra, il fuoco

L’ARTE INTORNO A TE a cura di Carmelo De Luca

Figure, memorie, spazio

Bartolomeo Ammannati, illustre maestro della scultura accademica fiorentina del XVI secolo, ha il merito di estrapolare il concetto della fontana dalla sua funzione puramente decorativa, facendola assurgere a vera dimensione artistica, armonia architettonica degli elementi costitutivi, rivisitazione moderna della cultura classica, come dimostrano le tre splendide opere destinate al Salone dei 500, a Piazza della Signoria, al giardino della villa medicea di Castello. L’esposizione del Bargello è dedicata allo studio di questa importante triade di capolavori, che evidenziano il genio dell’artista capace di dare dinamismo scenografico ai giochi d’acqua attraverso l’esaltazione della dimensione scultorea. Leda e il Cigno, il Monumento Nari, il Genio Mediceo, il Marte Gradivo, la Venere del Prado, disegni, progetti, documenti, completano la mostra. Assolutamente da non perdere.

17 maggio 2011 11 settembre 2011 Galleria d’Arte Moderna Piazza Pitti 1

Firenze rende omaggio ai 150 anni dell’Unità d’Italia con una mostra dedicata alle creazioni dell’Opificio delle Pietre Dure a partire dagli albori della nostra identità nazionale; infatti il celebre laboratorio ex granducale acquista nuova luce proiettandosi verso una dimensione cosmopolita grazie a prestigiose commissioni che varcano i confini granducali, basti menzionare lo zar di Russia e Ludwig II di Baviera. Ricercate lavorazioni, realizzate mediante l’utilizzo della scagliola, pietre semipreziose, marmi, impreziosiscono tavoli, medaglioni, cofanetti, pareti, oggetti d’arredo, diventando oggetti ricercatissimi fra la nobiltà e la ricca borghesia europea per la loro squisita fattura artigianale e, ancora, l’eccelsa produzione dell’Opificio trova degno consenso nei numerosi riconoscimenti attribuitigli da enti pubblici e privati. L’esposizione di Palazzo Pitti restituisce trasparenza, dignità, nuovo vigore alla prestigiosa istituzione che ha fatto assurgere la lavorazione della pietra al rango di creazione artistica.


Il tesoro del Cremlino

FIRENZE

Il Cremlino, cuore di Mosca, custodisce un tesoro di inestimabile valore appartenuto alla casa regnante di Russia: abiti imperiali, pietre preziose, oggetti da cerimonia, d’uso quotidiano, una ricca collezione delle famose Uova di Fabergè, rendono questa collezione unica al mondo per bellezza, qualità artistica, rilevanza storica. Le sale di rappresentanza del Museo degli Argenti ospitano una oculata selezione di opere che ripercorrono la crescita artistica dell’oreficeria imperiale nel corso dei secoli, a partire dal XIII secolo caratterizzato dalla ricercatezza di monili lavorati con la tecnica della granulazione o della filigrana, dalle suadenti icone, dai reliquiari, dagli arredi sacri in argento impreziositi da smalti. Nel settecento, Caterina II e Pietro il Grande aprono alla cultura europea e i gioielli presenti in mostra denotano un gusto decisamente barocco-rococò, solenne nella sua ricercatezza del particolare, del disegno, delle qualità dei materiali utilizzati.

27 maggio 2011 11 settembre 2011 Firenze, Museo degli Argenti Piazza Pitti 1

Lorenzo Bartolini

12 marzo 2011 17 luglio 2011 Palazzo Strozzi Piazza Strozzi 1

Richiamandosi agli scultori del primo Rinascimento, il maestro esalta l’arte attraverso l’imitazione della natura allontanandosi dagli schemi accademici della lezione canoviana. Le sale espositive mostrano l’operato di uno scultore che decanta il sentimento, la memoria, i valori, relativamente al periodo neoclassico, purista, naturalistico. Le creazioni di Bartolini sono permeate di vivida luce interiore e un vigore espressivo intriso da una forte connotazione psicologica: lo dimostrano le 70 opere della mostra, provenienti da importanti istituzioni museali europee, che per la prima volta dialogano in un simbiotico confronto con i modelli custoditi nella gipsoteca dell’Accademia. L’evoluzione artistica dell’illustre cittadino pratese trova degna conferma in molti capolavori presenti nella Galleria, basti menzionare il Napoleone I, Elisa Napoleona col Cane, l’Ammostatore e Maria Naryškina Gourieva, Anne Lullin de ChateauvieuxEynard.

Picasso, Mirò, Dalì: giovani arrabbiati Gli albori della pittura contemporanea raccontata attraverso l’operato giovanile di Picasso, Mirò, Dalì. Del geniale Pablo, la mostra fiorentina esamina la produzione pre-cubista intrisa di ideali politici, sociali, umani, come dimostra il famoso quaderno con i bozzetti preparatori della tela Le Demoiselles d’Avignon che rivoluziona i canoni del dipingere. Il giusto esercizio del governare anima il lavoro artistico di Mirò, divenendo strumento di rifiuto della pittura figurativa legata alle classi dominanti, somigliante per alcuni vincoli stilistici alle creazioni del giovane Dalì, che parte da tali ideali creativi per aderire, successivamente, alla corrente surrealista. Un sentimento di protesta ai soprusi dei potenti, il grido di ribellione ai vincoli, ai dettami, alla condizione del proletariato, vivacizza le opere di questi tre nomi della storia dell’arte come dimostrano le tele e gli oltre cento schizzi presenti nelle sale di Palazzo Strozzi.

31 maggio 2011 6 novembre 2011 Galleria dell’Accademia Via Ricasoli 58

SANTA CROCE SULL’ARNO

FIRENZE

FIRENZE

30 aprile 2011 22 maggio 2011 Centro Polivalente Villa Pacchiani

Reality

Italian Poster Rock Art Una mostra promossa dal Comune di Santa Croce sull’Arno e dalla Commissione Cultura e Politiche Educative che raccoglie numerosi poster di gruppi musicali italiani. Il giorno dell’inaugurazione merenda beat e live set. Alla chiusura dell’evento, il 22 maggio, un incontro con gli artisti che hanno fatto la storia della musica italiana

LA VETRINA


Santiago Compostela

Territorio

de

una città di grazia

TEXT&PHOTO Emanuele Greco

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antiago de Compostela è una grazia che si riceve. È una città che si deve meritare, con fatica, di raggiungere. Sarebbe impossibile, infatti, arrivando in mistero spirituale del suo antico pellegrinaggio. A Santiago tutti diventano inaspettatamente, e forse per grazia, dei pellegrini, anche una persona come me che non è partita per motivi religiosi. Lo stesso nome della città rivela un evento prodigioso: la scoperta della tomba dell’apostolo San Giacomo Maggiore, il cui corpo, dopo il martirio in Palestina, sarebbe stato trasportato miracolosa-

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mente in queste terre. La tradizione vuole che nell’anno 813 l’eremita Pelayo, che viveva in quella che allora era l’antica diocesi di Iria Flavia, fosse attirato da strane luci a forma di stella provenienti dalla fitta boscaglia (il termine Compostela deriverebbe dal latino campus stellae, “campo della stella” appunto). Avvertito di questi strani eventi il vescovo d’Iria, Teodomiro, si recava nel luogo indicato dall’eremita, dove scopriva la tomba del Santo e dei suoi due seguaci, Teodoro e Atanasio. Da quel momento aveva inizio il culto e, di conseguenza, il pellegrinaggio a Santiago de Compostela, come ci testimoniano le parole, risalenti alla prima metà del IX secolo, del teologo Floro di Lione: «Le ossa di questo Santissimo Apostolo, trasportate in Spagna e depositate ai confini, cioè di fronte al mare Britannico, vi ricevettero culto con venerazione famosa da parte di quella gente».

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È in una mite giornata di fine aprile che la città di Santiago si rivela ai miei occhi. Il sole che mi accoglie ha già qualcosa di prodigioso nelle terre di Galizia solitamente fredde e piovose. Il centro storico è tutto in pietra grigia; solo i muschi, dovuti appunto alle frequenti piogge, creano varie tonalità di verde e di giallo. Passando per i vicoli stretti e intricati della città sento talvolta le melodie magiche di una cornamusa, che mi ricordano le antiche origini celtiche di questo strano lembo di Spagna. All’improvviso le strade anguste mi portano nello spazio aperto della Praza do Obradoiro, la piazza prospiciente la mole austera della Cattedrale: il miracolo si rivela di fronte a me. Adesso riesco ad intuire quale grazia avesse dovuto rappresentare – e rappresenta tutt’oggi – per un pellegrino, giungere, dopo un viaggio difficoltoso, in questa piazza, di fronte all’arca di San Giacomo. Adesso anch’io sento di appartenere a quel sentimento antico che ha spinto per secoli le persone a partire in cerca del mistero del sacro. Entrando nella Cattedrale mi soffermo con lo sguardo sul trumeau del portale centrale del Portico della Gloria, opera romanica del Maestro Mateo, consunto dai pellegrini che hanno lasciato l’impronta della loro mano, scavando la pietra, bramosi di un contatto diretto, quasi fisico, con il divino. Intorno a me, nel silenzio oscuro dell’interno della Cattedrale, osservo le persone dirigersi, come elettrizzate, verso il busto-reliquiario del Santo, che vogliono abbracciare affettuosamente come si fa con un amico che si è ritrovato dopo molto tempo. Mi emoziono all’idea che ogni pietra, ogni immagine sacra, ogni piccola parte di questo edificio sia stata accarezzata dallo sguardo pieno di speranza e di meraviglia dei pellegrini. Per questo, forse, Santiago è la città dei pellegrini. È la città conquistata passo dopo passo, fatica dopo fatica, dai pellegrini. Anche il termine choiva, ovvero la “pioggia” in galiziano - la prima parola che si impara in quella lingua - a Santiago sembra nascondere al proprio interno il senso della fatica, sembra quasi voler significare il sudore del cammino del pellegrino. Certo sarebbe ingenuo, e forse riduttivo, credere che Santiago si riassuma tutta nelle sua Cattedrale e nel suo cammino. Un amico compostelano, infatti, mi ripete più volte, con il suo italiano dal forte accento galego, dello “sviluppo” e del riscatto economico della sua città, per anni rimasta al margine della Spagna, ma non si accorge che la modernità, molto spesso anonima e ormai globale, è ciò che mi interessa di meno di questo luogo, che, almeno nella mia mente, rimane immobile in uno spazio misterioso e arcaico come la storia dell’uomo.

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1. Chiostro della Cattedrale 2. La Cattedrale, da Praza do Obradoiro.3. Personaggi sacri “viventi”. 4. Praza de Fonseca. 5. Scultura di Re David, parapetto della loggia, facciata della Cattedrale. 6. Scultura medievale di S. Giacomo 7. Scritta in galiziano con souvenirs di Santiago.

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S

Barcelona

Territorio

la

I

l binomio Barcelona-Gaudí è uno dei dati di fatto dai quali non si può assolutamente prescindere, quando si pianifichi una visita al capoluogo catalano. L’arte mirabile, ingegnosa ed estrosa del grande architetto ci accompagna un po’ dappertutto in città, ma è nel quartiere dell’Eixample che troviamo riuniti alcuni dei segni più marcati che il genio artistico di Gaudí ha lasciato nel paesaggio metropolitano. Tra questi eccelle il Temple Expiatori de la Sagrada Famìlia, divenuta una delle più note immagini-simbolo di Barcelona nel mondo e recentemente assurta alle cronache internazionali per la consacrazione a Basilica, fattane da Papa Benedetto XVI lo scorso 7 novembre 2010. La Basilica è facilmente raggiungibile con la metropolitana: con oltre due milioni di visitatori all’anno, è il monumento più visitato di tutta la Spagna. Questa immensa e incompiuta opera architettonica fu iniziata nel 1882, su un progetto redatto dall’architetto diocesano Francisco de Paula del Villar. Antoni Gaudí fu incaricato di proseguire i lavori alla fine del 1893, compito che espletò fino alla morte, nel 1926. Il tempio espiatorio, iniziato 129 anni fa, ha potuto contare esclusivamente sulle dona-

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agrada

Famìlia TEXT&PHOTO Giuliano Valdes

zioni dei fedeli, “costruito dalla gente, che vi si rispecchia, è nelle mani di Dio e nella volontà della gente stessa”, come era solito affermare lo stesso illustre progettista. L’ipotesi di una data per il suo completamento viene collocata nei primi anni Trenta del XXI secolo. Per prima cosa venne realizzata la Cripta, terminata nel 1889, ma il grande progetto, che poteva prendere sempre più slancio, anche grazie alle cospicue donazioni, voleva significare, nell’intento di Gaudí, un supporto plastico e scultoreo alla spiegazione catechistica dell’insegnamento dei Vangeli e della Chiesa Universale. Nel 1894 veniva ultimata la facciata absidale e nel 1910 veniva esposto, al Grand Palais di Parigi, un modello della facciata della Natività, in occasione di una mostra delle opere di Gaudì, patrocinata dal suo mentore Eusebi Güell. Dopo il 1914, l’architetto si ricavò una vera e propria bottega

Un ponte tra cielo e terra all’interno dell’erigendo tempio (una stanza sotto l’abside) per realizzare modellini in scala, eseguire schizzi e disegni, potendo contare su uno studio per sculture e un gabinetto fotografico. Nel 1911 era ultimato il progetto della facciata della Passione; nel 1923 veniva completato il disegno definitivo delle navate e dei soffitti. Nel novembre 1925 era terminato il primo campanile della facciata della Natività (100 m). Praticamente fu l’unico campanile che Gaudí riuscì a vedere: il “papà” della Sagrada Famìlia periva infatti, di lì a pochi mesi (giugno 1926), travolto da un tram. Le sue spoglie furono traslate nella Cripta del tempio, dove riposano tuttora. Tra i più noti collaboratori del maestro, che condivisero con lui il progetto, si ricordano gli architetti Francesc Berenguer, Joan Rubió, Domènec Sugrañes, Josep Maria Jujol, Josep Canaleta, Francesc de Paula Quintana i Vidal, Josep Francesc Ràfols, Cèsar Martinell, Isidre Puig i Boada, Lluís Bonet i Garí, Francesc Folguera e Joan Bergós; il disegnatore


Ricard Opisso; gli scultori Llorenç Matamala, Joan Flotats, Joan Matamala, Carles Mani e Pau Badia; alla realizzazione della grande opera hanno contribuito anche ceramisti, intagliatori in legno e fabbri. Alla morte di Gaudí, la direzione dei lavori fu assunta da uno dei suoi più stretti collaboratori, Domènec Sugrañes, fino al 1938. Successivamente tale incarico fu rivestito da Francesc de Paula Quintana i Vidal, Isidre Puig i Boada e Lluís Bonet i Garí, tutti della bottega di Gaudí, e che seguirono i lavori fino al 1983. Seguirono Francesc de Paula Cardoner i Blanch e Jordi Bonet i Armengol (figlio di Lluís), che dirige il cantiere dal 1985. Nel 1930 venivano ultimati i campanili della facciata della Natività. La tragica vicenda della guerra civile spagnola inferse gravi danni anche al cantiere: la fiamme, appiccate dai repubblicani alla Cripta, devastarono il laboratorio di Gaudí, portando alla distruzione dei progetti, dei disegni e di svariati modelli. Nonostante questa pagina oscura (luglio 1936) la costruzione del tempio è proseguita senza interruzioni, rispecchiando in toto le intenzioni e la volontà dell’originario progetto architettonico. Nel 1952, l’erigendo tempio accolse alcuni degli eventi collegati al XXXV Congresso Eucaristico Internazionale che ebbe luogo a Barcelona; sempre in quell’anno fu eretta la scalinata della Natività e la facciata fu illuminata per la prima volta. Nel 1954 furono iniziate le fondamenta della facciata della Passione; nel 1958 il gruppo scultoreo della Sacra Famiglia (Jaume Busquets) veniva collocato sulla facciata della Natività; nel 1961 veniva aperto un museo nella restaurata Cripta, relativo agli aspetti storici, artistici, architettonici e simbolici della Sagrada Famìlia. Tra il 1976 ed il 1977 venivano innalzati e completati i terminali dei campanili della Passione. A partire dal 1978 furono terminate le fondazioni della navata, della crociera, con l’innalzamento delle colonne, delle volte e delle facciate della navata maggiore e del transetto. A partire dal 1986, lo scultore Josep Maria Subirachs si è occupato dell’aspetto scultoreo della facciata della Passione, elaborandolo in uno stile suo proprio per circa 20 anni. Nel 2000 furono compiute le volte della navata centrale e del transetto e si pose mano alla fondazione della facciata della Gloria. Lo stesso anno, in occasione del nuovo Millennio, vi fu celebrata una Messa, in un contesto di grande suggestione. Nel 2001, la finestra centrale della facciata della Passione fu ornata da un’artistica vetrata (Resurrezione) di Joan Vila-Grau. Furono ultimate anche le quattro colonne al centro della crociera. Il tempio fu al centro di eventi spettacolari nel 2002, quando Barcelona celebrò l’Anno Internazionale di Gaudí, in occasione dei 150 anni dalla sua nascita. Nel 2002, lo scultore Josep Maria Subirachs fece il progetto per il muro dei Profeti e dei Patriarchi, che Gaudí aveva posizionato nel porticato della facciata della Passione. Nel 2005 il gruppo scultoreo dell’Ascensione fu collocato tra le torri della facciata. Nel 2006 fu costruito il coro della facciata della Gloria, secondo i modelli di Gaudí; nel 2008 furono ultimate le volte del deambulatorio absidale. Nel 2010 sono state terminate le volte della crociera e dell’abside. Su queste svetterà la torre della lanterna centrale, con una croce di 170 m, e la torre absidale, consacrata a Maria Vergine. Attorno alla torre centrale ne verranno innalzate altre quattro, dedicate agli Evangelisti. A coronamento dell’interminabile progetto (il completamento effettivo è previsto non prima di 15-20 anni) verrà ultimata la facciata maggiore: quella della Gloria. Allora, nella variegata e suggestiva skyline di Barcelona, svetterà, finalmente compiuto, uno dei più arditi “ponti” tra terra e cielo.

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Pisa

Territorio

SANT’ANNA

il Conservatorio nel 1808 TEXT Paola Ircani Menichini

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a Scuola superiore universitaria Sant’Anna di Pisa, fondata nel 1987, prende il suo nome da istituto ricordato nel secolo XIV come monastero benedettino, ingrandito nel 1656 con l’acquisizione del convento dei Gesuati di S. Girolamo e diventato conservatorio nel 1785, dopo il motuproprio del granduca Pietro Leopoldo. Era stato poi riunito ai monasteri di S. Giuseppe e di S. Martino con l’intenzione di farne, assieme a S. Silvestro, un «Ritiro», «unicamente per educare le giovani del primo e secondo ceto», cioè del patriziato e della nobiltà, e dell’alta borghesia. Le suore del monastero così secolarizzate da allora in poi furono affiancate nell’insegnamento dalle «oblate» che erano le maestre o le serventi non religiose. Con l’annessione della Toscana all’Impero francese il conservatorio subì la legge di soppressione del 1808, ma fu riaperto con i decreti del 24 marzo e del 9 maggio 1809, riottenendo beni e rendite. Determinanti erano state le istanze dirette al sottoprefetto Francesco Mastiani, nelle quali era stato scritto che «la mancanza di questo istituto getterebbe … in grande imbarazzo non solamente questa città, ma Livorno non meno, e tutte le altre città e terre del Dipartimento» e che esso era «mantenuto con lustro» e dava «sovente alla patria, e alla città delle buone madri di famiglia». Il che rappresenta bene la mentalità dell’epoca sullo scopo dell’educazione femminile. Queste considerazioni sono riportate in alcuni documenti del 1808 1 e un’accurata descrizione quasi «fotografica» del Sant’Anna si trova nel processo verbale del 28 giugno, redatto dopo la visita formale dei delegati prefettizi alla presenza della priora donna Aurora Cosi del Vollia e dell’operaio Bruno Scorzi. Tra gli atti è interessante l’inventario delle argenterie di sagrestia e dei paramenti sacri che erano calici, patene, un ostensorio, un turibolo, pianete e piviali, paliotti, ombrellini di stoffa, candelieri, cartaglorie, croci e crocifissi, e includevano anche un seggiolone con fodera di damasco rosso per l’arcivescovo in visita. La chiesa, che era quella già di S. Girolamo, presentava l’altare maggiore di marmo con

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due gradini, quattro altari laterali, due quadri della Madonna e di S. Girolamo un coro dietro con un altare e l’organo «con i suoi registri e custodia, collocato sopra un’orchestra di legno tinta marmorizzata». Nelle stanze di sagrestia si trovavano, tra le altre cose, le immagini della Madonna di Montenero e della Madonna di Arezzo, l’ultima di marmo. Il campanile era fornito di tre campane di bronzo. Il convento comprendeva il refettorio, con sette tavoli di legno e 42 seggiole, e altri ambienti quali, per citarne alcuni, la stanza dei bucati, la scala regia, un terrazzo e un coretto con le grate di ferro, arredato con le statue della Madonna e dell’Angelo e una Via Crucis. Le celle (camere) avevano ciascuna un letto di varia 2 forma e grandezza, con abbondanza di materassi, coltroni, cortine e zanzariere, portiere, tavolini, «canterali», lucerne, quadri, «sedie di Barga» e «sedie pisane». Anche l’educatorio per le giovani allieve era un ambiente spazioso con due dormitori, la camera della maestra maggiore, la stanza del lavoro, la toelette, lo spogliatoio, un salotto a uso di scuola e un terrazzo. Aveva inoltre refettorio e cucina propri, un orto grande con il pozzo e un bel giardino con 54 vasi di piante di limoni. I letti, i canterali, le numerose sedie, le scrivanie ad altri

mobili, tutti ben descritti, facevano parte della proprietà personale delle suore o delle allieve ospiti. Della numerosa comunità femminile sono ricordati alcuni dati anagrafici. La priora, donna Aurora, aveva 92 anni ed era nativa di Pisa, mentre le suore più anziane erano le livornesi suor Fidalma Gaffuro di 79 anni e suor Elena Rinaldi di 75. Le religiose dette «corali» erano otto, provenienti, oltre che da Pisa e Livorno, da Fornacette, Siena, Peccioli,

Campiglia o dalla Lunigiana come donna Teresa Malaspina emigrata a Sant’Anna dal soppresso convento di S. Vincenzo di Prato. Le «oblate corali» erano sette e tra loro Teresa Bertier di Livorno di 55 anni aveva le funzioni di «maestra maggiore». C’erano poi ventitrè converse addette al servizio della comunità, di età per lo più fra i quaranta e i cinquanta anni, provenienti da S. Prospero, Titignano, Mezzana, Calci e da altri luoghi della campagna pisana. Infine le ospiti che erano divise secondo la maggiore o minore età. Le convittrici, sopra i 18 anni, erano sette ed originarie per lo più di Pisa e Livorno. Le educande, minori di 18 anni, ammesse alla scuola, erano ventitre: tra loro otto provenivano da Pisa, otto da Livorno, una da Milano (Ester Sala) e due da Genova (Francesca Boccardi e Virginia Barbier). La maestra dell’educatorio era Teresa Grossi di Borgo a Buggiano; seconda maestra la livornese Luisa Torri. I lavori di fatica erano svolti da otto donne di servizio, ognuna ricordata con una propria camera arredata con pochi mobili e oggetti indispensabili. Note: II, 95.

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Archivio di Stato di Livorno, Prefettura,

1. La facciata della chiesa dell’ex conservatorio di Sant’Anna di Pisa. 2. Domenico Ghirlandaio, Madonna con Bambino, dipinto nel 1478 per i Gesuati di S. Girolamo e poi passato alle monache benedettine di Sant’Anna, oggi nel Museo Nazionale di San Matteo di Pisa

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Storia

etichette attraverso i secoli parte seconda TEXT Luciano Marrucci

Si può dire che la cromolitografia dette il colore all’etichetta che conobbe quasi subito il suo apogeo; forse questo cartellino che noi chiamiamo etichetta raggiunse il suo splendore tra la fine

Era il tempo in cui La Bonne Marchè aveva fatto affari d’oro impiegando figurine che venivano collezionate a Parigi e fuori di Parigi; la Liebig, accogliendo la lezione pubblicitaria, vendeva

Lo splendore della stampa cromolitografica: chromos e passpartout

Nascita di un collezionismo: le figurine dei grandi magazzini

dell’800 e gli inizi del ’900. Nell’etichette cromolitografiche, che chiameremo chromos, è evidente la maestria dello stampatore e quella dell’artista. Nel procedimento antico della cromolitografia, i piani del disegno e i colori erano riportati in 12 o 13

estratti di carne regalando le sue ricercatissime figurine. I produttori di liquori si portano ben presto sul medesimo piano e praticamente attaccano queste figurine sulle loro bottiglie. La stamperia Bognard di Parigi, su commissione della Liebig, pro-

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pietre, corrispondenti ad un magico arcobaleno di luminescenze. La tredicesima pietra era impiegata per decorare questi minuscoli capolavori di un fondale d’oro (in questo caso l’etichetta fa pensare alle miniature medioevali). Spesso, con un’ultima tiratura, si aggiungeva un sottile strato di lacca che può spiegare l’intatto splendore di questo prodotto. Nel processo di questa stampa non era possibile utilizzare i caratteri tipografici; questi venivano sovrapposti successivamente mediante il processo tipografico. Sempre in questo periodo assistiamo al trionfo del passpartout: si tratta di una medesima vignetta impiegata per liquori diversi. Un grande complesso tipografico creava una serie di etichette; queste venivano distribuite a diverse stamperie, che si occupavano di imprimere su di esse il nome di un vino o di un liquore secondo le richieste del committente. Accadeva che la stessa vignetta compariva ad illustrare prodotti diversi di diversi paesi. In qualche modo l’etichetta era il risultato di un prodotto assemblato. Disegni e colore creati a Parigi, Berlino e Milano distribuiti per tutta l’Europa in stamperie che aggiungevano tipograficamente indicazioni della bevanda e denominazioni del produttore. In pratica uno scambio di prodotti di base tra le principali stamperie europee.

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duce 12 figurine riproducenti 12 passaporti e le offre al tempo stesso all’industria dei liquori, che le impiega come etichette facendone un richiamo da collezione. L’avventore, che è potenzialmente un collezionista, cerca di procurarsi in tutti i modi le


12 bottiglie che recano i diversi passaporti. Alla serie fortunata dei 12 Passaporti, corrispondenti a 12 Paesi, si allinea quella delle Banconote, tre delle quali sono dedicate alla Francia. Le nazioni più importanti sono rappresentate in queste due serie. Si capisce la direzione pubblicitaria di questi prodotti destinati ai collezionisti di parecchi paesi. L’etichetta si propone come offerta promozionale: non è propriamente una réclame del prodotto, ma un dono destinato ad accontentare chi lo acquista.

Uno specchio che ritrae una società: espressione di un’epoca. Dall’ultima decade dell’800 fino alla Prima Guerra mondiale si svolge un periodo che avrebbe influenzato il clima sociale e artistico non soltanto della Francia, ma anche quello di altri paesi: la Belle Èpoque. Il fatto più rappresentativo di questo fenomeno sociale è probabilmente lo spettacolo, quello del cabaret spensierato e un pò sfrenato e quello dei teatri, le thèàthee gai au boulevard, che rappresenta spesso una commedia satirica, ma priva di valenza sociale. Questo quadro lo ritroviamo riprodotto nelle etichette di questo periodo. Esse ci presentano una società colta nel suo spontaneo atteggiarsi di fronte alla realtà: esprimono il gusto verso tutto ciò che è piacevole, raffinato e fuori del comune e ancora il rifiuto degli aspetti inquietanti della vita. Le etichette dei liquori di questo periodo sono esteticamente pregevoli. La tematica volge su temi ricorrenti: la scelta di scene caricaturali, satiriche e il gusto per l’esotico. Artisti come Pierre Lotì avevano parlato nelle loro opere d’incanti del Medio Oriente e delle spiagge della Polinesia e dei Caraibi: ecco un tema d’evasione spaziale. L’evasione diventa temporale ed è sviluppata attraverso la rappresentazione di scene che riverberano il fasto dell’antichità classica. Successivamente e in concomitanza della Belle èpoque esplode lo stile floreale: il liberty. Il liberty introduce nelle etichette le sue corde di cetra, gli steli, le foglie e le corolle di papavero. Si rompe la geometria dei fregi marginali e le stesse scritte, presentate con caratteri di fantasia, prendono accenti di languore: rosolio di rosa, liquore di fata etc.

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(segue nel prossimo numero di Reality) 1.Significativa espressione di etichetta della Belle Epoque con i fregi movimentati che caratterizzano questo periodo. 2. Passaporto italiano 3. Passaporto inglese (Serie “passaporti” queste stesse figure erano accompagnate da iscrizioni differenziate secondo la richiesta dei vari committenti)

4. Banconota americana 5. Banconota canadese 6. Banconota giapponese (Serie “banconote” queste etichette erano ricercatissime dai collezionisti dell’epoca)

7. Donna di Costantinopoli

(Etichetta dove è evidenziato il gusto per l’esotico di cui si è fatto interprete lo scrittore francese Pierre Lotì.)

www.old-labels.com

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Poes a Patr a

Lo scaffale dei poeti

Risorgimento

TEXT Valerio Vallini

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l Romanticismo in Europa, significò il passaggio graduale dalla sensibilità del sensismo e del razionalismo a quella dello spirito idealista e di forti sentimenti. Le opere più significative di questa temperie romantica furono le Lyrical Ballads di Wordsworth, la nuova poesia di André Chenier (1762-1794), la perfezione formale di Theophile

Per il 150° dell’Unità d’Italia si riscopre la poesia popolare Gautier in Francia, fino agli Inni alla notte di Novalis e l’opera di Goethe in Germania. Da noi, in Italia, Romanticismo volle dire soprattutto risorgimento, patriottismo, concreto anelito di libertà e costruzione di una identità nazionale. Significò recupero della storia fino al medioevo. Il Romanticismo si espresse, da Milano a Palermo, in quella fusione di poesia e musica che fu il melodramma. Giuseppe Verdi assunse il ruolo di padre culturale della patria al pari di Mazzini, Garibaldi e Cavour. Nelle arti figurative dominarono il realismo e il movimento macchiaiolo. Romanticismo significò anche, nonostante la lotta con la chiesa, principale ostacolo all’unità d’Italia, il recupero del sentimento religioso in contrapposizione al teismo illuministico. Un grande specchio del dibattito sociale e politico, letterario e artistico, che si agitava nella società italiana dell’Ottocento, fu la diffusione della stampa periodica. L’impegno alla chiarezza, la capacità di divulgazione, l’utilizzazione di un linguaggio accessibile al maggior numero di persone, rappresentarono lo sforzo di un’autentica ricerca di un linguaggio nuovo, un fare gli italiani attraverso le lettere. Sarebbe utilissimo per i lettori mostrare un panorama delle testate importanti che hanno segnato il

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della

nostro Risorgimento, dal Conciliatore, all’Antologia, al Politecnico, agli Annali, le Gazzette, i Giornali di passatempo. Per restare nell’ambito di uno Scaffale di poesia, lasciando da parte per la poesia romantica e risorgimentale i grandi nomi di Vincenzo Monti, Ugo Foscolo, Giacomo Leopardi, Alessandro Manzoni, Giosuè Carducci, già abbondantemente noti e studiati, almeno a livello scolastico, ho preferito in questa occasione-celebrazione del 150° dell’ Unità d’Italia, ricordare alcuni poeti minori che troppo spesso sono dimenticati, ma che hanno assolto una funzione sociale e politica nel senso più alto. Sono voci di una poesia popolare e patriottica come quelle di Goffredo Mameli, Carlo Alberto Bosi, Arnaldo Fusinato, Silvio Pellico, Niccolò Tommaseo, Ippolito Nievo. In gran parte è gente che ha pagato con la prigione e con il proprio sangue la dedizione alla causa dell’Italia laica, unita e libera.

Immagini di: Giuseppe Verdi, Giuseppe Mazzini, Giuseppe Garibaldi, nella pagina a fianco Goffredo Mameli Note alle poesie: 1. Quando nel 1946 l’Italia diventò una repubblica, fu scelto come inno nazionale questo, scritto da Goffredo Mameli, morto per le ferite riportate mentre combatteva in difesa della Repubblica romana nel 1849, e musicato da Michele Novaro. Secondo le testimonianze, fu cantato in pubblico per la prima volta nel novembre 1847 a Genova, e da allora la sua diffusione fu assai ampia, fino a diventare uno dei canti più popolari nel corso delle vicende risorgimentali. La scelta fu fatta tenendo conto che questa poesia ha una chiara ispirazione mazziniana e si rifà idealmente all’unica corrente del pensiero risorgimentale decisamente repubblicana. Metro: 5 strofe di senari, secondo lo schema abcbdeef 2. L’autore della famosa Lettera semiseria di Grisostomo al suo figliolo, che è “una delle prime cannonate della campagna del Romanticismo, dopo le Cinque Giornate di Milano”, visse in esilio fino alla morte. La sua fama poetica poggia sulla poesia I profughi di Parga, commovente episodio della lotta dei greci contro i turchi. 3. Sette erano i regni in cui era divisa l’Italia nel 1931. 4. Luigi Mercantini, autore di questa “canzone” di intonazione popolaresca. Fu scrittore di poesie patriottiche per i Martiri di Belfiore, per Daniele Manin, per i Cacciatori delle Alpi. 5. Carlo Alberto Bosi fu un avvocato fiorentino. Ignoto, se mai esistito, è l’autore della melodia. Addio, mia bella, addio, è un canto scritto a Firenze a un tavolino di caffè nel marzo del 1848. Si commemorano i caduti di Curtatone.


Goffredo Mameli (Genova 1827- Roma 1849) 1

Giovanni Berchet (Milano 1783- Torino 1852) 2

Inno di Mameli

All’armi! All’armi!

Fratelli d’Italia, Italia s’è desta, dell’elmo di Scipio s’è cinta la testa. Dov’è la vittoria?! Le porga la chioma, ché schiava di Roma Iddio la creò.

(Ode scritta in occasione delle insurrezioni di Modena e Bologna del 1831) (due strofe)

Stringiamoci a coorte, siam pronti alla morte; l’Italia chiamò. Noi siamo da secoli calpesti, derisi perché non siam Popolo, perché siam divisi: raccolgaci un’unica bandiera, una speme: di fonderci insieme già l’ora suonò.

Su figli d’Italia! Su, in armi! Coraggio! Il suolo qui è nostro: del nostro retaggio Il turpe mercato finisce pei re. Un popol diviso per sette destini, 3 In sette spezzato da sette confini, Si fonde in un solo, più servo non è. Su Italia! Su, in armi! Venuto è il tuo dì! Dei re congiurati la tresca finì! Dall’Alpi allo Stretto fratelli siam tutti! Su i limiti schiusi, sui troni distrutti Piantiamo i comuni tre nostri color! Il verde, la speme tant’anni pasciuta; Il rosso, la gioia d’averla compiuta; Il bianco, la fede fraterna d’amor; Su Italia! Su, in armi! Venuto è il tuo dì! Dei re congiurati la tresca finì!

Stringiamoci a coorte, siam pronti alla morte; l’Italia chiamò. Uniamoci, amiamoci, l’unione e l’amore rivelano ai popoli le vie del Signore; giuriamo far libero il suolo natio: uniti per Dio, chi vincer ci può!? Stringiamoci a coorte, siam pronti alla morte; l’Italia chiamò. Dall’Alpi a Sicilia dovunque è Legnano, ogn’uom di Ferruccio ha il core, ha la mano, i bimbi d’Italia si chiaman Balilla, il suon d’ogni squilla i Vespri suonò. Stringiamoci a coorte, siam pronti alla morte; l’Italia chiamò. Son giunchi che piegano le spade vendute: ah l’aquila d’Austria le penne ha perdute; il sangue d’Italia bevé col Cosacco il sangue polacco: ma il cuor le bruciò. Stringiamoci a coorte, siam pronti alla morte; l’Italia chiamò.

Luigi Mercantini (Ripatransone 1821-Palermo 1872 4 La spigolatrice di Sapri (tre strofe) Eran trecento, eran giovani e forti, e sono morti! Me ne andava al mattino a spigolare quando ho visto una barca in mezzo al mare: era una barca che andava a vapore, e alzava una bandiera tricolore. All’isola di Ponza si è fermata, è stata un poco e poi si è ritornata; s’è ritornata ed è venuta a terra: sceser con l’armi, e a noi non fecer guerra. Eran trecento, eran giovani e forti, e sono morti! Sceser con l’armi e a noi non fecer guerra, ma s’inchinaron per baciar la terra. Ad uno ad uno li guardai nel viso: tutti aveano una lagrima e un sorriso. Li disser ladri usciti dalle tane, ma non portaron via nemmeno un pane; e li sentii mandare un solo grido. «Siam venuti a morir pel nostro lido».

Carlo Alberto Osi 5 (Firenze 1813- 1886) Addio, mia bella, addio… (otto strofe) Addio, mia bella, addio, L’armata se ne va; Se non partissi anch’io Sarebbe una viltà! Non pianger, mio tesoro, Forse ritornerò; Ma se in battaglia io moro, In ciel ti rivedrò. La spada, le pistole, Lo schioppo l’ho con me; Allo spuntar del sole Io partirò da tè. Il sacco è preparato, Sull’omero mi sta; Son uomo e son soldato; Viva la libertà’ Non è fraterna guerra La guerra ch’io farò: Dall’italiana terra L’estraneo caccerò. L’antica tirannia Grava l’ Italia ancor, Io vado in Lombardia Incontro all’oppressor. Saran tremende l’ire, Grande il morir sarà! Sì mora; è un bei morire Morir per libertà. Tra quanti moriranno Forse ancor io morrò; Non ti pigliare affanno, Da vile non cadrò. Se più del tuo diletto Tu non udrai parlar, Perito di moschetto Per lui non sospirar. Io non ti lascio sola, Ti resta un figlio ancor; Nel figlio ti consola Nel figlio dell’amor. Squilla la tromba, addio, L’armata se ne va: Un bacio al figlio mio; Viva la libertà!

Eran trecento, eran giovani e forti, e sono morti! Con gli occhi azzurri e coi capelli d’oro un giovin camminava innanzi a loro. Mi feci ardita, e, presol per la mano, gli chiesi: «Dove vai, bei capitano?». Guardommi e mi rispose: «O mia sorella, vado a morir per la mia patria bella». Io mi sentii tremare tutto il core, ne potei dirgli: «V’aiuti’l Signore!». Eran trecento, eran giovani e forti, e sono morti

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Libri

il Risorgimento

di Giuseppe Giusti

TEXT Federica Cipollini

C

’è una parola che tanto insistentemente è taciuta in questo periodo di celebrazioni per il centocinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia, passata sotto silenzio nonostante non si possa non incapparvi scorrendo le pagine dei libri di storia che di quel periodo trattano:

Nei versi del poeta il sentimento nazionale e la fratellanza fra i popoli questa parola è Nazionalismo. Le regole del politicamente corretto impongono forse ai retori delle celebrazioni ufficiali, anche quelle da salotto tv, di censurare un termine che viene invece comunemente utilizzato dagli storici per definire questo straordinario movimento internazionale che nell’Ottocento significò la nascita di un sentimento nazionale che non precludeva la fraternità fra popoli differenti, ma anzi, come insegna l’esperienza di Mazzini, accomunò tante genti nell’anelito di costruire uno Stato indipendente per la propria nazione. A chi si chiedesse il motivo di questo silenzio potremmo

rispondere che il divenire storico non risparmia le parole, le quali si prestano loro malgrado ad essere riempite di significati nuovi da parte dei loro nuovi utilizzatori, e così questo termine, sorto per significare una nobile aspirazione alla libertà dei popoli, ha finito col restare coinvolto in poco onorevoli storie di persecuzioni, tedesche e non. Il nazionalismo democratico, che si affermò in Europa e in America Latina

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nella prima metà dell’Ottocento, pensava alla nazione come comunità che coesiste pacificamente con le altre nazioni e credeva in un futuro luminoso di autodeterminazione dei popoli. Nulla a che vedere con le aspirazioni colonialiste di cui si ammantò, anche in Italia, il nazionalismo del Novecento, che si faceva portatore di ideali di supposta superiorità della razza e con essi giustificava l’asservimento di altri paesi.


Per comprendere cosa abbia significato questo sentimento di solidarietà nazionale nulla ci pare più appropriato che ricordare i versi del poeta toscano Giuseppe Giusti, nativo di Monsummano Terme, oggi un po’ trascurato dalla didattica della letteratura italiana, ma autore di memorabili pagine di poesia satirica e non solo. Nella poesia Sant’Ambrogio, infatti, realizza la difficile fusione tra i toni satirici e l’autentica commozione ricordando un episodio realmente accadutogli nel 1846 quando, recatosi a Milano per incontrare l’amico Manzoni, incontrò in chiesa un gruppo di soldati dell’esercito austroungarico, rappresentanti di quell’occupazione straniera che con le sue poesie avversava. L’iniziale senso di ribrezzo di fronte al nemico occupatore è sostituito dal sentimento della profonda comunione umana con questi uomini, ungheresi e croati, strappati dalle proprie case e spediti lontano per fungere da pedine di manovre politiche di cui forse non hanno nemmeno piena conoscenza. A dura vita, a dura disciplina, muti, derisi, solitari stanno, strumenti ciechi d’occhiuta rapina, che lor non tocca e che forse non sanno; e quest’odio, che mai non avvicina il popolo lombardo all’alemanno, giova a chi regna dividendo, e teme popoli avversi affratellati insieme. è il canto nostagico di questi soldati, il linguaggio universale dell’arte insomma, a suscitare l’epifania dei sentimenti, questo riconoscimento di un’umanità uguale dietro divise diverse, che rende tanto distante il nazionalismo sano ed egualitario dell’Ottocento, padre della nostra nazione, dal quel nazionalismo dell’odio che ha generato le tragedie del Novecento. Nella pagina a fianco: foto casa Giusti a Monsummano Terme (PT), ritratto di Giuseppe Giusti, e in basso monumento scultoreo in suo onore nella piazza della sua città natale.

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A cura di Pierluigi Carofano Atti della Giornata di Studi Francesco Maria del Monte e Caravaggio Edizioni: Bandecchi & Vivaldi Editori

SAGGIO

I saggi e i contributi raccolti in questo volume sono il risultato delle relazioni presentate nella Giornata di Studi Francesco Maria del Monte e Caravaggio: Roma, Siena, Bologna. Opere, Biografie e Documenti, tenutasi a Monte Santa Maria Tiberina, presso il Castello Bourbon del Monte il 2 ottobre 2010. La giornata di studi si proponeva lo scopo di riflettere su temi ancora aperti come i momenti che precedettero la morte di Caravaggio, il rapporto tra il cardinale Francesco Maria del Monte e Caravaggio, l’analisi iconografica e iconologica di opere capitali come la Cesta di frutta, la controversa attribuzione de La caraffa di fiori e la fortuna figurativa de I musicisti.

Edizioni: Centro Toscano Edizioni

Testi critici di Nicola Micieli CARISMI per l’Arte 2010

NARRATIVA

NOVITÀ EDITORIALI a cura dii Angelo Errera

CATALOGO

La Cassa di Risparmio di San Miniato S.P.A. presenta il secondo volume della collana “CARISMI per l’Arte”, edito da CTE, che riassume le mostre allestite dalla banca nel corso del 2010 nell’ambito dell’omonimo Progetto. Il volume presenta in ordine cronologico le varie iniziative realizzate presso le filiali della Banca e a Palazzo Inquilini. All’interno del volume sono riprodotte le singole opere, a memoria di un percorso artistico e dei momenti della fruizione pubblica. I testi critici sono stati curati da Nicola Micieli, giornalista e cristico d’arte. Il progetto Carismi per l’Arte è nato dalla Volontà della Cassa Risparmio di San Miniato SpA di valorizzare le molteplici espressioni artistiche del territorio e la divulgazione dell’arte, “contaminando” con essa gli ambienti lavorativi delle proprie sedi.

Virginia Woolf Flush. Biografia di un cane Edizioni: La Tartaruga

Chiunque non sia un conoscitore eccellente di letteratura potrebbe rimanere un po’ stupito dell’opera appena citata. Ed ancora di più se sapesse che parlando di questa biografia non facciamo altro che citare due delle più grandi poetesse inglesi di sempre, Virginia Wolf, l’autrice, ed Elizabeth Barrett Browning, la co-protagonista dell’opera. Quest’ultima definita in patria come la “Shakespeare al femminile”, viene raccontata attraverso gli occhi del cagnolino. Nata ad inizio Ottocento nel nord est dell’Inghilterra fu fin da giovanissima attratta dalla letteratura, ed oltre allo studio si dilettò presto nel comporre versi e componimenti. Sembrerebbe questa la storia comune di tante scrittrici e poetesse di cui siamo abituati a leggere; in realtà Elizabeth trasformò proprio la sua vita in un grande romanzo, degna protagonista delle grandi saghe ottocentesche. Innamorata del poeta Robert Browning e osteggiata dalla propria famiglia, decise di sposarsi in segreto e da Londra si trasferì in Toscana. Visse a Firenze e qui divenne presto protagonista della vita culturale e politica della città. Appoggiò senza riserve la causa indipendentista italiana ed in particolare la figura di Cavour, ma non abbandonò mai la poesia, e proprio nei versi d’amore dedicati al marito Robert riuscì ad esprimere la grandezza della sua opera. Con Sonetti al Portoghese, raccolta di poesie pubblicata nel 1850, lascia ai posteri alcuni dei più bei versi d’amore di sempre.


Paolo Ciampi Miss Uragano. La donna che fece l’Italia Edizioni: Romano Editore

STORIA

Jessie White nacque in Inghilterra nel 1832, fu amica di Garibaldi e Mazzini, sposò Alberto Mario e morì a Firenze nel 1906. Fu infermiera nella Spedizione dei Mille, giornalista, inviata di guerra e scrittrice. “Con professionalità e partecipazione, questo libro riempie un vuoto, che ancora oggi è alquanto insolito provare a colmare. Il vuoto di attenzione e di riconoscimento verso le tante donne che hanno costruito la storia ma che non emergono, a pari titolo, nella storia raccontata dagli uomini” (dalla prefazione di Anita Garibaldi) Paolo Ciampi, giornalista professionista e scrittore, è oggi redattore nell’Agenzia di informazione del governo regionale della Toscana. Da anni ricopre incarichi nell’Ordine dei Giornalisti e nell’associazione Stampa Toscana. Si divide tra la passione per i viaggi e le esplorazioni di tutti i tempi e la curiosità per i personaggi dimenticati nelle pieghe della storia.

RACCOLTA

Valerio Vallini In Riva d’Arno e oltre

ROMANZO

Edizioni: Edizioni dell’Erba e Centro Toscano Edizioni

Una raccolta di articoli, recensioni di libri, interviste, editi e inediti, dagli anni Ottanta ad oggi. Valerio Vallini, da Ponte a Egola (San Miniato 23 gennaio 1941), laureato in Scienze Politiche - indirizzo storico, ha pubblicato 7 libri di versi fra i quali Viaggio obbligato (Quaderni di Barbablù, Siena, 1986) con una lettera di Luigi Baldacci e Realtà dei Luoghi (Bandecchi & Vivaldi, Pontedera, 2008), Fra le ali dell’angelo, (Edizioni Titivillus, Corazzano, 2003), Fra passato e presente (Edizioni Ponte Blu,1987), Storia di Ponte a Egola (Edizioni Ponte Blu, 1990) Leporaja in Valdegola (Edizioni dell’Erba,1998) La Valdegola in Toscana (CLD Edizioni, 1999). In via di pubblicazione Politica e Società negli anni delle lotte di classi e della Liberazione in Quaderni dell’Istituto Storico Lucchese, Sezione Valdarno, n°2. Giornalista pubblicista: ha collaborato a Il Tirreno e La Nazione. Collabora al Grande Vetro, Erba d’Arno, Reality Magazine d’informazione

Francesca Chirico Arrovescio Edizioni: Rubbettino

Una sola lettura non basta per sviscerare tutte le piccole gemme nascoste in questa narrazione semplice che non ricorre a nessun artificio stilistico se non quello di accostarsi il più possibile ad un registro lessicale popolare che è al contempo la forza ed il sigillo di questo romanzo tanto breve quanto ricco. A rileggerlo più e più volte si scopriranno sempre sfumature nuove e si noteranno particolari che prima non si erano colti, perché il bello del romanzo sta proprio in questo: nella capacità della Chirico di restituire al lettore una descrizione vivida e palpabile di una storia che non soltanto si legge, ma si vede in tutto il suo arrovesciato compiersi. L’autrice Francesca Chirico è nata a Reggio Calabria e dopo aver conseguito la laurea in Lettere classiche con indirizzo archeologico e aver maturato alcune esperienze come docente di materie letterarie, nel 2001 si è accostata al giornalismo. Specializzata in cronaca nera, attualmente collabora con “Narcomafie”, mensile di analisi e documentazione del gruppo Abele, ed è tra i redattori dell’archivio multimediale www.stopndrangheta.it per il quale ha curato, tra l’altro, la pubblicazione nel febbraio 2010 di “Arance insanguinate – Dossier Rosarno”. “Arrovescio” è il suo primo romanzo.

Reality

LA VETRINA


Cinema

Duba TEXT&PHOTO Andrea Cianferoni

D

i

l a v i t s e F Film

L A N O I T A N NTER

ubai, ormai da alcuni anni considerata l’economia più dinamica del mondo arabo, è riuscita a

La rassegna degli Emirati Arabi porta fortuna a Colin Firth, premiato con l’Oscar per “Il Discordo del Re” far diventare gli Emirati Arabi Uniti una delle mete turistiche più richieste. Il volto moderno di Dubai è rappresentato dalle sue icone che vanno dall’avveniristico Burj Khalifa, il grattacielo più alto del mondo che ospita al suo interno l’Armani Hotel, al Burj Al Arab, l’albergo a forma di vela costruito sul mare, fino alla Palm Jumeirah, l’isola artificiale a forma di palma che ospita l’Atlantis Dubai, un hotel extra lusso con 1539 camere e l’acquario marino più grande del mondo. Un’altra attrazione turistica di Dubai è il complesso denominato Madinat Jumeirah, ricostruzione di una antica cittadella araba con tanto di souk, boutiques, anfiteatro, ristoranti e il mo-

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derno conference center che ogni anno ospita uno dei festival cinematografici più glamour del mondo arabo, il Dubai International Film Festival. La rassegna cinematografica, che si propone come ponte per il dialogo tra la cultura ara-

ba e quella occidentale, è suddivisa in sette sezioni: Contemporary World Cinema: uno sguardo a trecentosessanta gradi sul cinema indipendente di tutto il mondo; Arabian Nights: una selezione di circa venti film sul meglio della produ-


zione cinematografica araba contemporanea; Operation Cultural Bridge: una sezione che presenta film che si propongono di abbattere il muro dell’intolleranza e favorire il dialogo tra i due mondi; Bollywood Meets Hollywood: una selezione di classici e nuove produzioni della più conosciuta espressione del cinema indiano; Cinema from the Subcontinent: i nuovi autori emergenti dal Pakistan, dall’India, dallo Sri Lanka e dal Bangladesh; Destination Documentary, Il cavallo, il falco e il deserto: una sezione dedicata al cinema documentario con particolare attenzione verso le tematiche ambientali; Hi-Tech Hollywood: l’importanza delle nuove tecnologie nel cinema contemporaneo. La settima edizione del festival ha portato bene a Colin Firth; il cinquantenne attore inglese che ha inaugurato la rassegna cinematografica degli emirati con “Il discorso del Re” , si è visto poi assegnare l’Oscar come miglior interprete maschile sempre per lo stesso film, nel quale interpreta un giovane Duca di York, in seguito diventato Re Giorgio VI, alle prese con un grave problema di balbuzie. Nonostante le molte difficoltà e grazie all’aiuto di un logopedista riuscirà a superare il problema e fare un proclama via radio alla nazione contro la Germania nazista. Ben 3 le statuette conquistate dalla produzione, oltre quella andata a Colin Firth, al miglior film, migliore regia e sceneggiatura. Ma gran parte dei film che hanno tenuto banco al festival di Dubai hanno ruotato intorno al mondo arabo. Circa metà delle opere del festival sono state infatti prodotte, girate, scritte da artisti arabi o ambientate in paesi arabi. Due le produzioni che hanno avuto grande riscontro sia del pubblico che della critica come nel caso del film egiziano “Six, Seven, Eight”, storia attualissima sulle molestie sessuali e “Cairo Exit”, ritratto sulle giovani generazioni egiziane che lottano per uscire dalla

Nella pagina precedente: Madinat Jumeirah In basso a sinistra: Colin Firth; Jean Reno, Abdulla Al Kaabi e Cyrille Thouvenin; Il produttore de “Il discorso del Re” Gareth Unwin con Enrico Pastura; Catherine Deneuve; Carey Mulligan con il direttore Abdulhamid Juma; Khalid Al Mahmood; Colin Farrell; Erfan Rashid; Jim Sturgess A fianco: Madinat Jumeriah Complex L’hotel Atlantis Dubai; L’acquario di Atlantis Dubai

povertà e dallo sfruttamento sociale ed economico. A tener alta la bandiera dell’Italia cinematografica a Dubai ci hanno pensato ben tre produzioni. La prima capitanata dal regista curdo, ormai naturalizzato italiano, Fariborz Kamkari che ha scelto di raccontare il dramma di una storia d’amore durante lo sterminio del suo popolo perpetuato da Saddam Hussein. La seconda opera italiana è “20 sigarette” del regista Aureliano Amadei, l’unico sopravvissuto alla strage di Nassirya del 2003 in cui morirono 19 soldati italiani, mentre l’ultima produzione è “Il padre e lo straniero” di Ricky Tognazzi. Sullo sfondo di una Roma dai toni medioorientali si dipana un giallo con protagonisti l’italiano Diego e l’arabo Walid. I due stringono una profonda amicizia, uniti dall’amore per i propri figli, purtroppo disabili. Diego, attraverso il rapporto con Walid, metterà in discussione il significato di “diverso” e “normale”. E’ proprio questo il messaggio che vuole lanciare il Dubai film festival. Incoraggiare il dialogo tra culture e civiltà che solo apparentemente sono profondamente diverse.



Magliano le libere donne

Spettacolo

Peccioli Teatro

TEXT Irene Barbensi

L

a Festa della donna ha giocato d’anticipo sul colle di Peccioli con un omaggio all’altra metà del cielo che supera le divisioni di genere per farsi spunto di riflessione sul disagio psichico, sulla normalità convenzionale e su tutto ciò che sfugge alle convenzioni e spesso per questo viene definito “follia”. Domenica 6 marzo alle ore 18.00 presso il Centro Polivalente di Peccioli è andato in scena, dopo lo straordinario successo riscosso al Teatro del Giglio di Lucca, “Le libere donne di Magliano”, promosso dalla Fondazione Tobino e dalla Fondazione Peccioliper, con la regia di Andrea Buscemi, interpretato da Livia Castellana e con le musiche di Niccolò Buscemi, per offrire un omaggio non convenzionale all’universo femminile, tra forza e fragilità, determinazione e follia. Liberamente tratto da uno dei romanzi più noti di Mario Tobino, poeta, scrittore e medico psichiatra, ha messo in scena le storie e gli intrecci di vita delle figure femminili che rivivono raccontando le vicissitudini della loro vita trascorsa all’ospedale psichiatrico di Maggiano, citato in modo criptico volutamente nel titolo, dove Tobino le ha potute osservare ed incontrare come medico. L’opera, scritta sotto forma di diario, esprime il punto di vista del medico viareggino sui malati di mente: persone degne di stima, rispetto e amore, è un testo che ha aperto la strada ad una nuova con-

siderazione del disagio mentale e di chi ne porta i segni. “Abbiamo lavorato a questo spettacolo per un anno – ha raccontato l’interprete Livia Castellana. È stata una maturazione necessaria che mi ha fatto scoprire la bellezza del modo in cui Tobino parla di queste persone ed il coraggio che ha guidato il suo lavoro”. “Un tratto interessantissimo di questo spettacolo - spiega Paolo Vanelli, docente e critico letterario esperto della figura e dell’opera del medico scrittore - è la scelta di rendere costantemente ambiguo il punto di vista: l’interprete inizia a parlare usando la voce del narratore, ma con l’andare avanti accade che si stravolge, incontrando ed usando le voci dei vari personaggi, ed infine si metamorfizza in essi, trasformandosi da voce narrante a voce narrata”. Un messaggio che travalica il genere e accompagna alla riflessione sui concetti di reclusione, annullamento, emarginazione. Pazienti, infermiere, suore e contadine. Soprattutto donne assorbite dalla follia, incontrate e osservate da Tobino all’ospedale psichiatrico di Maggiano citato in modo volutamente criptico nel libro dove il confine tra sanità e pazzia è labile, a volte indistinguibile. Sulle musiche originali del giovane musicista pisano, lo spettatore ha iniziato un viaggio dalle comode poltrone e si è addentrato sempre di più nei meandri delle paure e

delle sofferenze che le donne esprimono. A volte con la voce, a volte con i gesti, ma sempre con una grandissima spinta emotiva, un tumulto soffocato di lacrime, sogni, desideri d’amore. Un pubblico in completo trasporto si è alzato in piedi all’unanimità per applaudire l’intensa interpretazione di Livia Castellana. Il Sindaco di Peccioli Silvano Crecchi ha espresso una piena “soddisfazione per la nutrita partecipazione di pubblico e per la performance di Livia, storica attrice della Compagnia PeccioliTeatro che ci ha regalato tante pagine di ottimo teatro e che costituisce un arricchimento culturale per la nostra comunità”. Al termine dello spettacolo una Livia Castellana molto commossa ha ringraziato il pubblico. “Sono molto contenta delle emozioni che le persone che hanno assistito allo spettacolo mi hanno riportato”. “Si è rinnovata così la collaborazione con Peccioli per rivalutare l’opera letteraria di Tobino, poco conosciuto a livello teatrale”, Andrea Buscemi, regista e direttore artistico della Compagnia PeccioliTeatro, porterà lo spettacolo in replica il 27 aprile nella suggestiva location del Cortile degli Svizzeri a Lucca. Per info: Fondazione Peccioliper, Piazza del Popolo 10; 56037 Peccioli (PI). 0587 672158, www.fondarte.peccioli.net; info@fondarte.peccioli.net

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ss

Musica

la

coperta dei

uoni antichi

TEXT Gustavo Defeo

C

i sono personaggi nella storia della musica che hanno guidato le tendenze di certi periodi apportando il loro studio e la loro filosofia, senza essersi distinti come grandi compositori. Uno di questi personaggi è Giovanni Battista Doni, nato a Firenze intorno al 1594. Nel 1605, inizia i suoi studi di arte e lettere a Bologna, per continuare a Roma nel collegio dei Gesuiti, dove si dedica alla filosofia, le lingue classiche, la geografia e la matematica. Nel 1613, suo padre lo invia a Bourges a studiare diritto. Avrà come compagno di studi il suo cugino, Luigi Doni d’Attichy, che diventerà vescovo a Riez. Più interessato per il latino, la filosofia e le lingue orientali che per il diritto, suo padre lo riportò in Italia, dove ottenne il suo dottorato presso l’Università di Pisa. Nel 1621, fu eletto per accompagnare a Parigi il cardinale Neri Corsini, ambasciatore del Papa Gregorio XV preso la corte del Re di Francia. In questo viaggio conobbe tra altri il Padre Marin Mersenne ( 1588 - 1648), Teologo, Filosofo, Matematico ed anche uno tra i teorici musicali più importanti di tutti tempi, spesso nominato “padre dell’acustica”. Questo incontro con Mersenne sarà decisivo nella carriera di Doni come teorico musicale, ed entrambi manterranno una fitta corrispondenza epistolare oltre a svariati incontri personali, lungo le loro vite. La morte d’uno dei suoi fratelli lo riporta a Firenze nel 1622, e nel 1623 ritorna a Roma, stavolta come segretario del cardinale Francesco Barberini, futuro Papa Urbano VIII, che assunse a quei 1

2

tempi l’incarico di decano del collegio cardinalizio. Viaggiano insieme nelle missioni diplomatiche a Parigi nel 1625, e 1627, ed a Madrid nel 1626. In questi viaggi realizzerà le sue prime ricerche alla scoperta della musica antica. Nel 1629, Doni è stipendiato come segretario del sacro collegio cardinalizio, portando il manto viola dei ciambellani del Papa. Nonostante questo onore, scriverà ad un suo amico, che “non si sente con l’anima del cortigiano, ma la sua uni-

Giovanni Battista Doni, cambia nome all’antica nota musicale “Ut” in “Do” ca aspirazione é quella di continuare i suoi studi sulla antichità”. Nel 1633, dopo la morte di un secondo fratello, si dedicherà a tempo pieno allo studio della musica. In questo periodo lavorerà sulle tavole di Alipio, per interpretare la notazione musicale greca antica. Nel 1635 ritorna a Firenze per amministrare i beni famigliari, dopo la morte del suo terzo fratello. Diventa professore di retorica, è ammesso all’accademia della Crusca, e console dell’Accademia Fiorentina. Sposerà Margherita Fiaschi nel 1641. Appassionato per l’antichità greca, Doni si dedicherà alla ricerca di strumenti capaci di suonare nei modi antichi, e a riformare l’opera secondo i principi della Grecia antica. Frutto di questi studi e certamente degli insegnamenti di Marsenne, è un cu3

rioso strumento basato sul Barbiton greco, e chiamato “Amphichordo”, perché aveva due facce, con due tipi di accordature: una con corde metalliche, e un’altra di budello. Doni l’ha anche nominato Lyra Barberina in onore al suo protettore, a quei tempi Papa Urbano VIII. Le ultime tracce di questo esemplare unico si perdono a Firenze a fine secolo XIX. Doni dedica la sua vita a collezionare antichità, e mantenne una fitta corrispondenza con Claude de Saumaise, René Moreau, Lucas Holste, Galileo Galilei, Athanasius Kircher, Isaac Voss, ed il Padre Marin Mersenne tra altri. I suoi trattati musicali si contano tra le opere più importanti del genere, del suo periodo, e ci permettono un approccio esaustivo ai modi antichi. Oltre ai suoi studi, è riconosciuto per aver rinominato l’antica nota musicale “Ut”, in “Do”, a scopo di semplificare il solfeggio. Tra i suoi scritti più importanti possiamo citare “Compendia del trattato de’ generi et de’ modi della musica “(1635), “Annotazioni sopra il compendio” (1640) e “De praestantia musicae veteris” (1647). Antonfrancesco Gori, publica nel 1763 una descrizione della Lyra Barberina, oltre a diverse lettere di Giovanni Battista Doni. Con indice a cura del noto musicista bolognese, Padre Giovanni Battista Martini, troviamo in alcuni dei suoi capitoli importanti riferimenti alle musiche di Jacopo Peri, Claudio Monteverdi, Vincenzo Galilei, Giulio Caccini, e la Camerata de’Bardi, in sintesi le basi fondali del melodramma. 4

1. Giovanni Battista Doni 2. Lira Barberina detta amphicorde 3. Padre Marin Marsenne 4. Rappresentazione del Barbiton in un piatto Greco.

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musicisti

per

Musica

Viaggi

TEXT Claudio Guerrini

G

amla Stan, un isolotto piccolo piccolo, un fazzoletto di terra nel mare del nord che ha dato origine, diventandone il centro storico, alla capitale svedese, e che curiosamente è diventato pure terreno fertile per fare di Stoccolma il nocciolo Blues del nord Europa, forse dell’Europa tutta. Vivono infatti in Svezia musicisti provenienti da mezzo mondo, che nei pubs stoccolmini (Stampen, Wirstroms, Santa Clara, Lilla Persien e Backstreet alcuni nomi.) danno vita a jams interminabili che vanno avanti per ore in qualsiasi giorno della settimana. Figura cardine di questo magico ribollire e ideatore e della jam session dello Stampen (la House of Blues di Svezia ) è il newyorkese Brian Kramer, bluesman di razza e musicista di talento. Un brunch all’Hard rock café di Stock è stato il pretesto per quattro chiacchiere esplorative. Quando cresci a New York è molto facile pensare che il mondo finisca lì mentre qui ci sono edifici che sono vecchi 2 volte la grande mela, e questo ti fa pensare. Ed è così che Brian qui ha trovato l´ispirazione per creare dal nulla un mondo musicale che mancava, che attira gente da mezzo pianeta e che è diventato un fenomeno con cui gli Svedesi si identificano con orgoglio. In queste sessions musicali si alternano sullo stesso palco insieme alla house band musicisti famosi come giovincelli di belle speranze, gente dagli strumenti più originali come vere e proprie reincarnazioni di monumenti dei seventies, servendoci insieme alle immancabili birre minestroni musicali dai sapori più vari e originali, ma la bellezza del fenomeno sta nella sua popolarità. L’ascolto della musica dal vivo è nell’anima del popolo svedese, i locali dove ci sono le jams sono sempre pieni, i turisti le considerano ormai un’attrazione e le famiglie ci portano i figli. Dinamiche di respiro e libertà musicale che dalle nostre parti si vedono ben poco; pensate che anche se la durata media è di 4 ore per eventi speciali, qui possono superare in allegria le 12.

“È la più bella esperienza blues della mia vita” ci dice Brian, e parliamo di un musicista che ha suonato in giro per tutto il pianeta (Cambridge Folk Festival compreso), fatto dischi e diviso il palco con gente del calibre di Taj Mahal, Robben Ford, Bob Brozman etc. Fossi in voi cari musicisti italiani mi metterei lo strumento in spalla e prenoterei un bel volo low cost (a Stoccolma ci arrivano Ryan, Easy Jet e Norwegian) ma prima date un’occhiatina a questi due siti web: www.briankramerblues.com www.stampen.se (foto Courtesy of Brian Kramer)

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S

Muscia

anremo

anremo

TEXT&PHOTO Stefano Maffei e Daniela Bagnoli

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a dieci anni ormai io e mia moglie Daniela assistiamo al festival di San remo. Iniziò tutto con la 51° edizione, per caso ci ritrovammo a passare da Sanremo tornando da una breve vacanza in Francia. Come tappa scegliemmo proprio la città dei fiori. In quel periodo iniziava il Festival. Ci furono offerti dei biglietti per la serata iniziale e fu una grande bella esperienza. Da allora tutti gli anni facciamo una vacanza di qualche giorno per assistere di persona a questa manifestazione canora. La città di Sanremo già dalla settimana che precede l’inizio delle serate si trasforma in una grandissima passerella di cantanti, attori, personaggi del mondo dello spettacolo, per non parlare della marea di giornalisti e operatori del settore. Il clima che si respira è di festa, infatti il centro è sempre gremito di gente dalla mattina fino a notte inoltrata. hotel, bar, ristoranti e tutti i locali pubblici sono pieni di gente comune e di vip. Non è diffìcile andare a cena, ed avere al tavolo accanto personaggi come Beppe Vessicchio, Gianni Morandi, Laura Freddi, oppure prendere posto sulla navetta dell’hotel dove sei alloggiato e trovarsi con Mogol, Wilma de Angelis o le nuove proposte come i Btwens. La cosa che ci piace del Festival è tutto questo movimento di gente che fa da cornice all’evento, e che ti porta a vivere in prima persona in tutto e per tutto questa grande macchina organizzativa. Per tutte e cinque le serate abbiamo preso posto nella platea dell’Ariston. La cosa più imbarazzante è il momento dell’ingresso al teatro.

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La celebre passerella, con il suo tappeto rosso con i lati transennati e pieni di gente mette in suggezione, crea un vero e proprio distacco tra colui che entra a vedere la serata e gli altri che non hanno avuto la possibilità di prendervi parte. Quando sei dentro inizi ad assaporare le emozioni che si provano assistendo ad un grande concerto. Un brulicare di gente, cantanti, vip; l’orchestra che accorda gli strumenti, gli ordini che arrivano dalla regia per prendere posto ed accomodarsi . Ecco ci siamo! Lo spettacolo ha inizio! Sul palco dell’Ariston c’è la Clerici con la piccola figlia che passera il testimone al presentatore di questa 61° edizione del Festival, Gianni Morandi. Le “belle e brave” Belen e Elisabetta, i comici Paolo e Luca daranno una bella mano a Gianni per tutte e cinque le serate, riuscendo molte volte a metterlo in salvo in momenti un po’ di crisi. Arrivano le canzoni, come sempre al primo ascolto non troppo entusiasmanti, ma mano a mano iniziano ad entrarti dentro e farti capire quali sono quelle più orecchiabili e più belle. A differenza della precedente edizione, l’ordine di classificazione ha rispettato i gusti sia del pubblico dell’Ariston (orchestra compresa) che degli ascoltatori a casa. Non sono volati gli spartiti, la vittoria di Roberto Vecchioni era nell’aria fin dalle prime serate. Partecipando alla manifestazione, non hai neppure la sensazione del tempo che passa. Dalle 20.30, momento dell’ingresso fino a mezzanotte e oltre, il tempo vola anche perché non ci sono momenti di vuoto. Quando in tv mandano le pubblicità, il palco dell’Ariston si anima in maniera impressionante. Truccatori, scenografi e addetti lo riempiono in pochi secondi, sparendo tutti in un’attimo all’inizio della diretta! Eccezionale è stata la serata del giovedì, serata della celebrazione del 150° Anniversario dell’Unità d’Italia. L’ingresso del maestoso cavallo bianco (dal nome Ombra, fatto venire appositamente da Roma per l’occasione) con il “Cavaliere” Roberto Benigni con in mano il Tricolore, è stato qualcosa di veramente entusiasmante! L’inno di Mameli è stato spiegato da Roberto in una maniera egregia, catturando l’attenzione di tutto il pubblico presente in maniera surreale. Non volava una mosca, c’era un’attenzione totale. Una lezione di storia che ha lasciato tutti a bocca aperta.

Sanremo, hotel tutti esauriti, gente dappertutto! All’Hotel Londra aveva sede “Casa Sanremo”. Nella hall e in altri spazi dell’hotel, si trovavano stand di importanti ditte e operatori del settore. Tantissimi i fotografi, giornalisti e curiosi che si accalcano vicino alle auto di servizio in arrivo all’hotel, per farsi concedere foto, interviste e autografi da personaggi del Festival. Al “Palafiori” era stata allestita una mostra dedicata a Guglielmo Marconi. Esposte nelle ampie sale della struttura c’erano radio, telegrafi, tv ed apparecchiature di vario genere. Se non ci fosse stato Marconi forse non sarebbe esistito neanche il Festival di Sanremo. È chiaro che la ”Citta dei Fiori” da questo evento ha un’introito non indifferente. La gente residente sopporta volentieri il caos inerente alla manifestazione, visto che l’economia del posto si basa sul turismo. Quindi possiamo dire che la gentilezza regna sovrana! Un bel Festival!!! Il bello è che ogni anno che prendiamo parte alla manifestazione abbiamo un ricordo ancora più bello dell’anno precedente. Poi ormai dopo tutti questi anni siamo diventati un pò sanremesi. L’appuntamento che ci siamo prefissati io e Daniela è: - anno prossimo a Sanremo…- magari vi racconteremo in maniera più dettagliata il 62° Festival della Canzone Italiana. Foto: alcuni momenti delle serate del Festival, cantanti e attori che hanno partecipato all’evento

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con il

D ANZA Festival Ballet

Spettacolo

a Massa dal mondo

TEXT&PHOTO Andrea Berti

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lassica, contemporanea, moderna, hip hop. Stage, Concorsi e Rassegne Internazionali di Danza. Grandi coreografi e straordinari protagonisti dello spettacolo e della tv. Un campus estivo ospitato nel verde del Parco Letterario della Comasca, meta di relax per poeti e scrittori, a due passi dalla spiaggia della Versilia, per vivere un’esperienza indimenticabile. Tutta d’un fiato! Sudando e ballando. E ancora, show e party serali, importanti montepremi e borse di studio per chi dimostrerà sul palco, di fronte al pubblico, di avere talento. E’ questo che al Festival Ballet cercano! Torna, puntuale come ogni estate, dal 6 al 9 luglio, a Marina di Massa (Ms), il Festival Ballet, il più esplosivo e il più giovane evento dedicato a ballerini professionisti e non di tutta Italia arrivato alla sesta edizione. Organizzato da Simone Ranieri con il Patrocinio della Provincia di Massa Carrara, Comune di Massa, Fondazione Cassa Risparmio di Carrara, e di importanti scuole e accademie internazionali, sponsor tecnici e media specializzati (Radio Bruno official radio), sono tante le novità per l’edizione 2011: dal ritorno del Concorso Ufficiale alla formula open card che permette, ai partecipanti, di non perdere nemmeno una lezione e vivere quattro giorni nonstop danzando ed imparando dai miglio-

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ri interpreti e insegnanti (per iscrizioni e informazioni vai su www.festivalballet.it). Special Gust e conduttore della serata finale del concorso lo show man e attore Paolo Ruffini, si quello di “Io Doppio” e dei doppiaggi in livornese, in questi mesi in tv, al fianco di Bonolis-Laurenti e Julia Roberts. Già in 5 mila hanno partecipato al Festival Ballet nel corso delle prime cinque edizioni. Giovani di talento che grazie al format apuano sono riusciti a spiccare il volo e a conquistarsi un posto nel jet set della danza nazionale come Giordano Orchi, Premio Talento nel 2008, e reclutato poche settimane dopo dal talent show della Rai “Italian Accademy”. Ma al Festival Ballet con chi danzerai? Classica con Ludmill Cakalli, Iride Sauri, Marco Pelle (neoclassica) e Bruno Vescovo. Modern Jazz con Teresa Firmani e Annarita Larghi; Jazz con Andre De La Roche; Modern con Pietro Pireddu, Susanna Beltrami; contemporanea con Emanuela Tagliavia e Mauro Astolfi. Presiede la giuria del concorso ufficiale Giuseppe Carbone, direttore dei più grandi teatri italiani e tra i principali “interpreti” della danza nel mondo. Daniele Baldi, Ilenja Rossi, Alice Cimoroni, Gus Bembery, Byron, Richy e Michael, Massy e Barbara La B completano il cast degli eccezionali insegnanti dell’Hip Hop Competition&Stage, l’altro grande even-

to del Festival Ballet per radunare in Toscana il mondo urban. Il Festival Ballet è tutto questo, e molto altro ancora: stage, spettacolo, competizione, divertimento e vacanza, ma soprattutto talento. Il tuo. Per informazioni: www.festivalballet.it Email: info@festivalballet.it Concorso: 320-0776603 (Simone Ranieri) Aperte le iscrizioni alla VI° edizione dello Stage e Concorso Internazionale di Danza. Tra i docenti Andre De La Roche, Susanna Beltrami, Mauro Astolfi, Ludmill Cakalli, Annarita Larghi, Emanuela Tagliavia e i presenter internazionali di Hip Hop.

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COMMEDIA

Paul

Regia: Greg Mottola Distribuzione: Universal Pictures Data di uscita: 13 maggio 2011 Due grandi appassionati di film fantascientifici intraprendono un viaggio in camper diretti nella misteriosa “Area 51” dove ha sede una segretissima base militare. Il sogno dei due ragazzi si realizzerà nel momento in cui si imbattono in Paul, un alieno in fuga dalla stessa base...

AVVENTURA Regia: Rob Marshall Distribuzione: Walt Disney Studio Data di uscita: 18 maggio 2011 Quando Jack (Johnny Depp) Sparrow ritrova una donna che appartiene al suo passato (Penelope Cruz), non sa bene se ha ritrovato l’amore o soltanto un’avventuriera senza scrupoli che intende usarlo per arrivare alla mitica Fontana della Giovinezza. La donna lo costringe ad imbarcarsi a bordo della Queen Anne’s Revenge, la nave del minaccioso pirata Blackbeard (Ian McShane) coinvolgendolo in un’avventura durante la quale non saprà se deve temere di più Blackbeard o la donna del suo passato.

COMMEDIA

SOLO IL MEGLIO DEL CINEMA a cura di Kirilla

Pirati dei Caraibi Oltre i Confini del Mare

Thor

Regia: Kenneth Branagh Distribuzione: Universal Pictures Data di uscita: 27 aprile 2011 Punito per le sue esuberanze caratteriali, il guerriero Thor, viene spedito sulla Terra e costretto a vivere insieme agli umani nascosto da un’identità di facciata. Nel suo lungo percorso troverà modo di crescere ed imparare ad utilizzare al meglio i suoi poteri, soprattutto, quando le forze del male di Asgard giungeranno sulla Terra...


Holes

Marcatamente inglesi anche se arrivano dal territorio toscano. La struttura dei 6 brani che compongono questo primo lavoro è assai interessante e varia tra pop e rock, passando tra citazioni di gruppi inglesi che tutti ricordano i Radiohead venati di prog. Esistenzialisti, romantici, imprevedibili dosano, variandoli nei brani, effetti che ricordano le varie epoche del rock. Intarsi rumorosi, suoni di radio mal sintonizzate, riecheggia in tutto ciò il caos odierno (dell’ informazione). Loro si definiscono un gruppo Kraut Pop. Ascoltando l’album si inizia un viaggio, vediamo col tempo dove ci condurranno...

Lucariello

I nuovi mille

Mariposa

a cura di Luca Gennai

Semmai Semiplay

L’intero album del rapper Lucariello ci guida in un percorso attraverso le tante anime che incarnano la lotta per la legalità, la libertà e la democrazia, citando esempi estranei alle luci della ribalta che hanno sofferto e dedicato la vita a costruire occasioni, come Don Peppino e Diana. Chi sono oggi i nuovi Mille? Lucariello rappresenta e racconta le storie dei giovani protagonisti dell’Italia di oggi: un ricercatore, un operaio, un amministratore locale, un immigrato, un giornalista antimafia, un militare in missione. Ragazzi che lavorano lontano dai riflettori impegnati a costruire con il loro lavoro e i loro ideali una società civile, motore della storia moderna. Tutti i proventi derivanti dallo sfruttamento economico dell’album saranno interamente devoluti in beneficienza alla Fondazione Pol.i.s., la struttura promossa dalla Regione Campania per l’aiuto alle vittime innocenti della criminalità.

LA MUSICA CHE CI PIACE ASCOLTARE

Gagarin

Il nuovo inaspettato album dei Mariposa è un mix di funk bianco, elettronica e ritmi nervosi, con i testi surreali e visionari di Alessandro Fiori e le orchestrazioni di Enrico Gabrielli, i Mariposa sono da anni la band più sorprendente e creativa del panorama indipendente italiano. Dopo 12 anni di palchi e 11 album di ricerca attorno alla forma canzone (nei quali Mariposa del 2009 rappresenta l’elemento più ‘pop’), cambiano radicalmente direzione. Semmai Semiplay recupera la tradizione, tipica nel gruppo, del nonsense e questo è forse l’unico elemento di continuità col passato. Semmai Semiplay esibisce un sound evoluto, maturo, diretto, mai troppo semplice, coinvolgente. Uno shock, un nuovo brivido che provocherà animate discussioni. Lunga vita al colosso Mariposa

Paolo Benvegnù Hermann

Paolo Benvegnù è il chitarrista-cantante fondatore degli Scisma, imprescindibile gruppo alternative-rock italiano ormai sciolto. Ha proseguito la sua carriera come artista solista, con ottimi riscontri di critica e pubblico. Lo scorso anno il live Dissolution chiudeva un ciclo, quello introspettivo, di Paolo Benvegnù. La volontà di guardare davanti a sé e di aprirsi al mondo (per usare le sue parole) lo ha portato a partire da lontano, per un nuovo, magnifico viaggio nella sua musica, nelle sue parole, nella sua poesia. Hermann: Il lavoro è composto da tredici brani inediti, e si snoda sul tema dell’uomo - della sua storia, la sua evoluzione (o involuzione?) - intorno a cui si muove un mondo fatto di immagini, di intuizioni letterarie, di fantasia concreta come nessuna realtà.

Reality

LA VETRINA


Architettura e contemporaneità SECOND LIFE

Reinventando un opificio TEXT Stefania Catastini PHOTO Gianni Bellucci

“… come sotto un cielo stellato” Un progetto senza confini Un opificio in disuso e l’esigenza di portarvi all’interno un nuovo mondo contemporaneo sono i moventi che hanno portato alla reinterpretazione di uno spazio altrimenti dismesso. Second Life è un’operazione filosofica (e non solo) che permette di individuare, migliorandoli, edifici in disuso inventando per loro una nuova vita. Dare così una seconda chance a luoghi che altrimenti rimarrebbero ignorati. Con questo concetto nasce lo spazio espositivo Artwood (il legno vissuto in maniera artistica), dove il prodotto vuole essere protagonista, principalmente vissuto e non solo venduto. Lo spazio è concepito come un accampamento nel bosco; il bosco è colui che fornisce il legno così da creare quasi un’operazione di ritorno alle origini denunciata anche dal logo stesso, ridisegnato nell’occasione per adeguarsi al nuovo progetto, dove si intuisce il prendere forma della casa dalla natura. La volontà di annullare la presenza del contenitore generante, mantenendo comunque la struttura originaria, porta a utilizzare il nero come non colore sui soffitti e sulle pareti smaterializzando così i confini che si fondono con l’aria scura di una notte estiva. Il velo nero della tenda, che risolve tecnologicamente anche funzioni architettoniche con il principio del massimo risultato con il minimo sforzo, è concepito come un limite da superare che permette il formarsi di un luogo interno diverso. Attraversando l’unico varco nel tendone voluttuoso ci ritroviamo in una zona che per percezione sensoriale appare come un mondo parallelo. Lo spazio è punteggiato da volumi deformi volontariamente dispersi sotto un cielo stellato (il soffitto nero costellato da luci) la cui dislocazione permette al fruitore di muoversi come in un luogo aperto privo di confini. Sulla lunga parete posteriore si intravede l’immagine retroilluminata di un vivido bosco a tutta parete e tutt’altezza così da riportare direttamente alla memoria un’autenticità naturale che si respira anche negli oggetti prodotti. Artwood è concepito come uno spazio aperto con una serie di episodi che si raccontano per gli arredi, dove i


contenitori sono contenuti e le strutture diventano espositori ribaltando così la comune concezione di spazio/ mostra. La volontà di creare spazi con relazioni variabili tra loro crea una diversa fruizione/relazione del visitatore con lo spazio espositivo; troviamo infatti luoghi di sosta e di percorso inusuali e inaspettati. All’interno di ogni volume vi sono spazi di arredo dimostrativo, zona uffici, zona ricevimento clienti e servizi. Passeggiare, sostare e vivere l’interno di questo edificio riesce a far perdere il senso di un luogo dedicato al commercio, portando la visita più su un piano esperienziale che commerciale.

Le immagini si riferiscono all’edificio Artwood in via Brodolini 4, Castelfiorentino ( FI) Il progetto è dello studio LDA.iMdA architetti associati, via XXIV Maggio 22/D, San Miniato - PI (www.ldaimda.it) 1. Esterno, particolare ingresso 2. Interno, zona ingresso 3. Esterno, particolare angolo 4. Esterno, panoramica prospetto principale 5. Interno, volumi interni 6. Interno, percorsi 7. Interno, particolare volumi espositivi 8. Interno, zona uffici 9. Logo

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emplicità TEXT Carla Cavicchini PHOTO Andrea Cianferoni

Interviste

Linea Blav. Lo stile della

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n simbolo, un quadrifoglio, quattro cuoricini che ruotano formando un tondetto, oppure ciò che detta la fantasia, l’importante è ciò che è scritto sotto, sotto nella cartella stampa che mi viene consegnata: ”Amare porta fortuna”. La linea è la ‘Blav’, di Lavinia Borromeo, Spring-summer 2011. Collection. Una nobildonna che ama la moda ma che appare in estrema semplicità nel suo essere squisitamente sportiva: tacchi bassi, lunghi capelli biondi fluenti eppur liberi, classe innata. D’altronde, con quel suo cognome imponente assai, e quello del marito John Elkann. L’albero genealogico ci rimanda a santi, cardinali, e non solo. Pensiamo a quel 4 novembre: è l’onomastico di San Carlo Borromeo senza considerare poi la discendenza ben perpetuata da buoni intellettuali, nobili, capitani d’industria. Madame è d’una gentilezza unica, squisita, eppure avverto riservatezza e fermezza. L’argomento è legato al mondo della moda, si può svolazzare verso qualcos’altro, ma il tessuto è il re del momento. Appena chiedo l’intervista scatta fulminea per non farmi aspettare sorridendo cortesemente. Gli occhi. Grandi, magnetici, espressivi, chiari ed acquosi come l’oceano. Specchio dell’anima. Ed è buona educazione guardar dritto l’interlocutore. Nelle famiglie ‘bene’ si insegna che chi non lo fa è timido, oppure ha qualcosa da nascondere…di non troppo sano. Ed ella la lezione l’ha imparata. Eccome. Donna Lavinia si occupa anche di onlus, in mezzo a quella miriade di impegni fatta di lavoro e famiglia. Spiega che: “Il mio rapporto con la moda per bambini è maggiormente sentito da quando sono arrivati Leone ed Oceano. Si, direi proprio una linea nata con loro, e che continua a crescere. Creo “da un anno, sino agli otto,” presentando molte collezioni. Punto molto sui particolari, qualità, tessuti, tutto rigorosamente “Made in Italy”. Osservo. Tra la favola al profumo di lavanda, il buon sapone di Marsiglia e torta di mele, vedo un girotondo di fiorellini liberty, quadretti vichy, e abitini double. Collezione unica ed innovativa, prosegue inoltre nel sodalizio con

Nella foto: John Elkann e la moglie Lavinia Borromeo Caovilla, con la linea calzature per piccoli, con scarpette fresche e leggere, rispettando l’esigenza del quotidiano. Lo sa che lei ha una ‘r’ molto ma molto francese… “Si, l’ho ereditata.” Da sempre sostiene che la sua è una famiglia estremamente normale. Seppur con i ‘blasoni’ aggiungerei! Insomma, gli impegni non sono pochi, ed ora c’è anche quello d’esser stilista. Come si organizza in tutto questo? ”L’ha detto! Organizzandomi, come tutte le famiglie.” E’ in splendida forma “Non sto ferma, ho quest’impegno che mi piace e mi gratifica, e sto molto dietro ai miei bambini; creda, è un’ottima palestra. E poi sono fortunata.” Si, lo è. Snella nonché estremamente disinvolta nei movimenti. Mi parla dei suoi progetti futuri? “Si, certamente, ce n’è uno coi fratelli Guzzini nel campo del design.” Passiamo alla vita di coppia: - un marito, un compagno che ‘gode’ d’una eredità importante. Successore designato di Gianni Agnelli, vicepresi-

dente della Fiat…forse anche altro. Presumo abbia mille impegni più uno. Dicono che lei lo reclami un po’…sempre così affaccendato… Sorride. E’ il suo modo d’essere e forse non vuol mettermi in difficoltà. “Francamente la mia vita con lui è molto, molto serena. C’è e sono molto contenta di questo.” Mamma mia, quant’è innamorata. Lo dicono gli occhioni azzurri capaci di brillar quali cristalli. Prosegue. “Ciò che fa è parte del suo mestiere, ha delle responsabilità ovviamente, ed io son contenta che lui le porti avanti seriamente. Tempo addietro lessi della sua grande passione per la barca assieme al suo compagno di vita. “Ci vuole coraggio, forza, nonché spirito indomito”. Lavinia, discretamente, stavolta, la chiamiamo col nome di battesimo ne ha da vendere. P.S. Apprendiamo ora che la holding di casa Agnelli, la Exor, ha varato un’importante riorganizzazione sul piano internazionale e John Elkann ne è diventato oltre che presidente anche Amministratore delegato.

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Santa Croce sull’Arno

Sport

finale TEXT Camilla Trillò

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anta Croce capitale della pallavolo per due giorni. E’ quello che è accaduto sabato 12 e domenica 13 marzo quando la Lega Pallavolo di Serie A Femminile ha accolto la candidatura della Biancoforno per ospitare la Final Four di Coppa Italia di A2. Un evento altisonante, che ha convogliato a Santa Croce il pubblico delle grandi occasioni, ed un’opportunità senza dubbio di spessore per una Società che, dopo aver militato per due anni nella serie cadetta, è riuscita a fare il grande salto nel mondo che conta, centrando la promozione in A2 e approdando così nell’olimpo del volley nazionale. A questo si aggiungano gli ottimi risultati conquistati dalle squadre minori, grazie alla professionalità di staff tecnici e manageriali di prim’ordine, alla passione dei tifosi che ormai si identificano in questo sport, e soprattutto al grande, grandissimo contributo dello sponsor principale, la Biancoforno, industria pasticcera leader nel settore dolciario con sede a Fornacette (Pisa), ormai divenuto il marchio di fabbrica di questa Società. E’ stato l’insieme di tutti questi fattori, riconosciuti ormai anche a livello federale, che hanno portato all’assegnazione di un evento così importante per il volley italiano, ennesimo riconoscimento dell’importanza che Santa Croce sull’Arno ha ormai raggiunto nel panorama pallavolistico nazionale. Quattro squadre ai vertici della Lega Due, organizzazione impeccabile, pubblico numeroso e acceso, e soprattutto una pallavolo a dir poco entusiasmante: sono stati questi gli ingredienti di due giorni che hanno lasciato davvero col fiato sospeso tutti gli appassionati di volley e non solo. Sabato 12 marzo: è il giorno delle semifinali, l’adrenalina inizia a salire e l’attesa per la gara della Biancoforno diventa palpabile. Alle ore 16 scendono in campo le formazioni di Chieri e Loreto: una gara che la Esse-ti Loreto riesce a dominare chiudendo la pratica con un netto 3-0. Alle 18.30 scocca finalmente l’ora dell’atteso debutto della Biancoforno alla Final Four: avversario di turno una temibile Pontecagnano. Fin dalle battute iniziali è chiaro che si tratta di una

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battaglia colpo su colpo, una sfida di nervi. La tensione sale e le due squadre danno vita ad una sfida combattutissima: un pubblico vibrante ed un PalaParenti ornato a festa sono la cornice ad una sfida davvero al cardiopalma. Il primo set viene deciso nelle battute finali e sono le ospiti ad avere la meglio; ma il riscatto della Biancoforno non tarda ad arrivare e si va sull’1-1. Nel terzo set è ancora Pontecagnano a chiudere in vantaggio, ma il quarto parziale è un dominio delle padrone di casa che rimandano così il verdetto finale al tiebreak. Sugli spalti sale la temperatura, tutto si gioca nei minuti finali. Purtroppo l’allungo delle ospiti si rivela fatale e per la Biancoforno i sogni di gloria sono costretti ad interrompersi in semifinale.

Domenica 13 marzo: alle ore 16 arriva finalmente il momento della finalissima tra Loreto e Pontecagnano. Nonostante l’assenza della Biancoforno da questa finale, si tratta di un appuntamento davvero imperdibile, uno degli appuntamenti più importanti e prestigiosi del volley nazionale. Ancora una volta le attese non vengono deluse: le due formazioni danno vita ad una sfida davvero vibrante, una pallavolo bella, spettacolare e in cui ancora una volta tutto si decide al tie-break quando è Loreto ad imporsi per 3-2 e vincere così l’agognata Coppa Italia. Oltre all’aspetto puramente sportivo, senza dubbio di spessore, questa Final Four ha segnato un risultato davvero prestigioso per l’intera Società di Santa Croce, riconosciuto ai massimi livelli: la Biancoforno è ormai dive-

nuta una realtà di punta del movimento pallavolistico nazionale, e questa Coppa Italia ne ha rappresentato il riconoscimento e la conferma.

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Rugby

Sport

il

TEXT Gaia Simonetti

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’Italia del rugby è nella storia con il successo sulla Francia al Sei Nazioni. Questa è storia recente, quella più antica ci riporta a Firenze alla prima partita che venne giocata il 10 novembre 1928. Era una domenica, l’orologio segnava le 13. “Il modernissimo giuoco americano che tanti entusiasmi suscitava nelle Arene di oltre oceano” venne salutato con stupore dalla città toscana. Firenze fu il teatro di una gara tra due formazioni di rilievo: l’Ambrosiana di Milano ed il Bologna. “Oggi che il nuovo esercizio sta conquistando le masse per divenire in un non lontano domani popolarissimo si scriveva nei giornali dell’epoca sarà interessante assistere ad un confronto per il quale vivissima è l’aspettativa. Il giuoco è combattutissimo, serrato, e il regolamento che lo dirige è stato compilato sotto la scorta di utili ammaestramenti. Senza dubbio tutta la Firenze sportiva non si vorrà privare domani di assistere a questo avvenimento ed affollerà il campo della Fiorentina come nelle grandi occasioni”. E così lo stadio Libertas di via Bellini, come emerge dalle ricerche storiche del presidente della P.G.F. Libertas, Paolo Crescioli, ebbe anche l’onore di tenere a battesimo il rugby. Lo stesso campo che, inaugurato il 2 aprile 1922, aveva visto correre sulla sua pista con curve paraboliche che facevano da cornice al campo di calcio, i più grandi campioni del periodo da Girardengo a Linari. Il velodromo venne poi demolito per allargare il campo di gioco, quando nel 1926, il Marchese Ridolfi impose la fusio1

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ne delle sezioni calcio delle due più forti squadre cittadine, la P.G.F. Libertas e il Club Sportivo, per dar vita alla Fiorentina. La squadra “viola”, sebbene il colore delle maglie inizialmente fosse bianco rosso, vi giocò fino al 1931, quando lo stadio Berta, il nostro Comunale, fu finalmente pronto. Lo stadio di via Bellini perse progressivamente di importanza fino ad essere demolito negli anni cinquanta, per far posto all’espansione edilizia della città.

Il rugby in Italia aveva mosso i suoi primi passi a Genova alla fine dell’Ottocento per opera della comunità inglese. La prima partita di cui si ha notizia fu un incontro dimostrativo giocato a Torino nel 1910, tra le squadre del Racing Club de Paris ed il Servette di Ginevra. Il 2 aprile dell’anno successivo venne giocata la prima partita tra team, l’U.S. Milanese ed i francesi del Voiron. Nel settembre 1928 vide la luce la Federazione Italiana Rugby, sebbene già alla fine dell’Ottocento a Genova la comunità inglese avesse iniziato a far conoscere questo sport. Ma per aver notizia delle prime partite giocate da squadre italiane si deve aspettare il 1910-11. Nel 1929 si svolse il primo campionato italiano con sei squadre partecipanti, che vide la vittoria dell’Ambrosiana Milano. Dal passato al presente, la passione per 4

il rugby non conosce né confini né l’oblio del tempo. A proposito, una curiosità: il rugby è lo sport più amato dalle donne. Viene da chiederci per lo spettacolo in campo o per il calendario, per molte indimenticabile, che realizzarono gli azzurri? 1. Stadio Libertas via Bellini Firenze 2.Tessera socio degli anni 20 3. Stemma PGF - Libertas 4. Rugby Italia

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NEO delle ivelazioni

Sport

il

TEXT Marco Massetani PHOTO Massimo Covato

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chi l’avrebbe detto...Le due tenniste professioniste che hanno scritto la storia del circuito WTA 2010 la nostra Francesca Schiavone vincitrice a sorpresa del Roland Garros e la danese Caroline Wozniacki divenuta N° 1 al Mondo senza vincere uno Slam ma con 6 titoli all’attivo nel suo anno di grazia - non sembrarono altrettanto irresistibili sui campi in rosso del Tennis Club Santa Croce sull’Arno, quando da juniores si cimenteranno nei tornei giovanili che contano e che offrono punti pesanti per il ranking ITF. Francesca, ancora giovane ‘Leonessa’, classe 1980, varcò i cancelli del Cerri nel 1996 e presto fece le valigie per casa, sconfitta al primo turno dalla bella e talentuosa francese Kildine Chevalier, oggi scomparsa letteralmente dai palcoscenici importanti. Tanto shock deve aver causato la brutta figura alla nostra che la stagione successiva la Schiavone gioco i tornei di Firenze, Salsomaggiore e Milano, saltando però il Grade 1 di Santa Croce, forse evocatore di brutti ricordi. Correva invece l’anno 2005 quando Caroline Wozniacki, bellezza diafana già sulla vetta delle classifiche mondiali under 18, arrivò a Santa Croce da superfavorita, salutando però tutti con la manina già all’esordio contro la nostra Erika Zanchetta giocatrice dotata di buona tecnica ma soggetta ai capricci di un metabolismo impietoso. Va detto che la bionda Wozniacki in quella stagione avrebbe vinto gli US Open junior e l’anno seguente avrebbe alzato al cielo il trofeo di Wimbledon (due tornei su superfici veloci), ma pesa sulla carriera junior della tennista di Odense l’eliminazione patita sui campi del Cerri in quel caldo martedì 10 maggio di sei anni addietro. Cosa significano queste storie? Tutto e niente, a seconda dei punti di vista. Con due attenuanti che si contraddicono. L’innata idiosincrasia per la terra rossa di Caroline Wozniacki non trova conferma nel caso di Francesca Schiavone (vincitrice sull’argilla di Parigi); lo spessore tecnico della giovane Chevalier (che arrivò ad essere N° 13 al mondo tra le junior nel 1997 e che giocò la finale a Firenze nel 1998, quando sconfisse nei quarti una certa Kim Cljister…) non può essere paragonato

a quello di una Erika Zanchetta che arrivò al N° 53 ITF giocando in tre anni la miseria di 4 tornei sui campi veloci, tra Australia e Lussemburgo. Quelli di Francesca e di Caroline Wozniacki non sono i soli due casi ‘storici’ a difesa della tesi sul difficile impatto che il Torneo Internazionale juniores “Città di Santa Croce” Mauro Sabatini (oltre 4000 gli atleti passati dai campi del Cerri in 32 edizioni e in rappresentanza di 100 Paesi) continua inesorabilmente ad avere sulle grandi promesse del tennis continentale. Un altro ex N° 1 al Mondo tra i grandi, tale Marcelo Rios, nel 1991 non riuscì ad andare oltre le qualificazioni, anche se 7 anni più tardi, nel periodo forse più buio vissuto dal tennis maschile, riuscì a salire sul trono ATP. Gli appassionati di tennis

anche quest’anno potranno sfamare passione, curiosità e interessi tecnici con l’edizione 33 del Torneo Internazionale juniores “Città di Santa Croce” Mauro Sabatini, che sarà di scena dal 9 al 15 maggio (7 e 8 le gare di qualificazioni) sui cinque campi outdoor del Cerri. La kermesse tennistica ‘vernissage’ del Bonfiglio di Milano - che sarà sponsorizzata Mediolanum, Kemas, Gyrpoc - Saint Gobain, Goldengas, Conceria Meridiana e Nik Winters – vedrà presenti oltre 200 tra i talenti tennistici di circa 50 Nazioni. Regalando spettacolo, conferme e, come sempre, inaspettate sorprese… Dal 9 al 15 maggio torna al Cerri l’appuntamento con la 33° kermesse internazionale juniores: una prova selettiva e spettacolare, che vide transitare da ‘meteore’ la Schiavone e la Wozniacki…

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POLO on the S

e c’è un personaggio che nel corso dei decenni ha contribuito a far conoscere il polo in tutto il mondo, questo è senz’altro il Principe Carlo d’Inghilterra. Come non ricordare, tra gli anni Settanta e Ottanta, le partite di polo dell’ erede al trono inglese sotto l’occhio attento e divertito della madre, la Regina Elisabetta II. Il gioco del polo è molto antico e approda in Europa grazie alle truppe coloniali britanniche, le quali lo avevano scoperto in India durante il Diciannovesimo secolo. A loro volta gli indiani avevano sviluppato questo sport imitando un gioco tibetano, la cui palla era chiamata pulu. Il primo club di polo al mondo fu fondato nel 1862

La perla della Versilia, dopo Cortina d’Ampezzo, ospita dal 21 al 25 aprile la seconda tappa di Audi Polo Gold Cup dai coltivatori di tè britannici, a Silchar, ad ovest di Manipoor. Successivamente lo sport ha trovato un terreno fertile di diffusione in Argentina, grazie alle grandi distese terriere, l’ottimo clima, e la disponibilità quasi illimitata di cavalli. Ogni partita di polo, che è divisa in tempi di sette minuti detti chukker, necessita di molti cambi di cavalli, in quanto questi ultimi devono essere sempre molto veloci e scattanti. L’idea di base di questo gioco è molto simile a quella di una partita di calcio e consiste nel far entrare la palla nella porta dell’avversario, costituita da due pali distanti tra loro 7,30 metri. La palla, generalmente di legno e del peso

B

EACH

di circa 150 grammi, viene colpita con una mazza di bambù chiamata stecca la cui lunghezza dipende dall’altezza dei cavalli. Nelle squadre, composte di quattro giocatori, ai numeri sulle maglie corrisponde un preciso ruolo in campo: il numero 1 è l’attaccante più avanzato, il 2 la seconda punta, il numero 3 è il regista, mentre il 4, denominato “back”, è il difensore. Nel polo non esiste il fuorigioco, ma qualsiasi giocatore che tagli la traiettoria dell’altro, o colpisca deliberatamente il cavallo dell’altro, commette fallo. I costi proibitivi per mantenere i cavalli e acquistare l’attrezzatura hanno limitato la diffusione ad un ristretto numero di persone. Ma queste non sono le uniche ragioni. Forza, nervi saldi, senso tattico sono doti fondamentali per ogni giocatore. Lo sa bene anche il presidente dei giovani industriali di Firenze Gabriele Poli, amministratore delegato di Dorado Communication ed ideatore della rivista Equestrio, diretta dalla pluridecorata Caterina Vagnozzi. Il simbolo di un giocatore di polo a cavallo ha portato fortuna a molti imprenditori nel settore della moda. Sei anni fa Lorenzo Nencini, imprenditore fiorentino manager di Incom, ha importato dagli Stati Uniti il marchio U.S. Polo ASSN, che ha conquistato in pochissimo tempo, grazie a importanti campagne di comunicazione, uno spazio rilevante. Main sponsor della prima edizione dell’Audi Polo Gold Cup a Forte dei Marmi, dal 21 al 25 aprile, sarà la casa automobilistica tedesca. Per Audi l’appuntamento in Versilia rappresenta una novità assoluta di sicuro richiamo tanto per i giocatori quanto per il pubblico. Tutte le partite, infatti, si svolgeranno sulla sabbia “nobile” di Forte dei Marmi. La perla della Versilia è infatti nota per ospitare, soprattutto durante i mesi estivi, le più importanti famiglie dell’imprenditoria italiana e della nobiltà. Capostipiti di questa tendenza furono gli Agnelli, che nel 1926 acquistarono Villa Costanza. In seguito vi si stabilirono i Moratti, che ancora oggi continuano

Sport

FORTE DEI MARMI

TEXT&PHOTO Giampaolo Russo

questa tradizione. La città, inoltre, ha dato i natali all’attuale Regina dei Belgi, Paola Ruffo di Calabria. Il tenore Andrea Bocelli vive stabilmente a Forte dei Marmi. La città è diventata meta preferita di una mondanità d’eccellenza, che ancora oggi coltiva le sue relazioni nelle ville immerse nel verde delle sue pinete. Una realtà ancora a misura d’uomo, dove la salvaguardia dell’ambiente è stata e continua ad essere una delle priorità delle amministrazioni comunali transitate nella sua storia, ma che non le ha impedito di adeguarsi alle crescenti esigenze turistiche. Oggi, dunque, chi viene a Forte dei Marmi trova una città all’altezza della sua fama che ha accolto con piacere l’invito ad ospitare il torneo Audi Polo Gold Cup al Bagno Costanza di Forte dei Marmi.

A lato: Giuseppe Ferrajoli, il Sindaco di Forte dei Marmi Umberto Buratti e Guglielmo Giovanelli Marconi. Sopra: uno scatto di una partita di polo sulla spiaggia.

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YAB

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Società

YABYAB FORTEMENTE YABYABYABYAB YABYAB TEXT&PHOTO Domenico Savini

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e la Capannina di Forte dei Marmi è il locale culto in Toscana per le notti dell’estate o comunque al mare, la stessa cosa si può dire per la più storica di tutte le discoteche fiorentine: lo Yab di via Sassetti. E’ infatti da trentatré anni che questo locale è aperto cinque giorni su sette, cosa ormai rarissima in tutta Italia e può ancora vantarsi di avere un pubblico selezionato. Armando Casodi e Mara Agliata insieme ad altri soci fondarono addirittura nel 1979 lo Yab e continuativamente ne sono ancora responsabili , e tutti sanno coma la gestione di un locale notturno sia difficile in una città come Firenze. Ma lo Yab non teme nè confronti nè difficoltà. Da qualche anno un apporto di forze giovani ha contribuito al rinnovamento dell’ambiente, il direttore artistico è infatti un giovane imprenditore fiorentino di origine romana: Niccolò Armaroli, (sotto nella foto) che ha rinnovato, pur rimanendo fedele alle più storiche serate. Ad esempio il giovedì la serata si chiama “I love Yab”, dedicato ad un pubblico adulto che a volte da più di trenta anni è fedele alle sue abitudini; qui si danno convegno attori, squadre di calcio e personaggi del mondo dello spettacolo. Un’ altra serata reinventata da Niccolò è quella del venerdì dal titolo un po’ impegnativo di “snob” una occasione in stile club londinese dal pubblico trendy e griffato che inizia alle dieci con la cena-spettacolo. Il sSabato poi è chiamato “super” dove è sempre attivo il privé vip members club, un locale nel locale con servizio ai tavoli dedicato qui ad un pubblico più adulto. Ai più giovani è destinata la serata del mercoledì

per gli universitari che non pagano il biglietto d’ingresso se mostrano il libretto universitario. Il lunedì, infine, è dedicato soprattutto agli studenti straneri al quale si mescolano naturalmente quelli italiani. La storica discoteca fiorentina è gemellata con le più importanti d’Italia, il pubblico a volte può arrivare addirittura da altre regioni per passare una serata nel cuore di Firenze, non manca naturalmente un ottimo servizio parcheggiatori con parcheggi convenzionati nel centro della città. Quest’anno come sempre le iniziative legate a Niccolo Armaroli hanno puntato sul fashion con alcune serate dedicate alla moda e non solo nel periodo di Pitti. Gettonatissimi i due eventi legati a Miss e Mi-

ster Yab; l’agenzia “Alex Model” di Prato capitanata dal simpaticissimo patron Alex, attira sempre l’attenzione per i suoi tavoli dove si possono ammirare le bellissime indossatrici e gli aitanti modelli. Infine attendiamo come tutti gli anni l’attesa selezione di “Mister Italia” a fine stagione organizzata dallo Studio Movimenti dell’altrettanto simpatico Claudio Vigiani che da venti anni ha l’esclusiva per la Toscana di questo concorso e l’esclusiva speciale per il suo prestigioso “Presidente di Giuria”. Altri eventi di rilievo “griffati” Moreschina Fabbricotti, come la presentazione delle nuove collezioni di Ermenegildo Zegna oppure la presentazione di “Arturo” a villa La Vedetta. Oliva Rucellai Toscani ha inagurato la sua nuova galleria d’arte contemporanea in via Maggio dove si sono dati convegno tutti gli amici e gli esperti del settore. La recentissima mostra delle camelie merita un capitolo a parte. L’autore di questo contributo vuole esprimere la sua simpatia a Mara, vero motore della già citata discoteca Yab; senza di lei da più di trenta anni le notti fiorentine sarebbero state monotone, senza lo Yab due generazioni di ragazzi toscani non si sarebbero detti: “stasera andiamo a ballare”!

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Medicina

C il

affè è una

me icina?

TEXT Brunella Brotini PHOTO Alena Fialová

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apoleone lo beveva per procurarsi calore e forza, nel XVII secolo in Inghilterra se ne sostenevano le qualità terapeutiche, J.S.Bach ne fu ispirato fino a comporre la “ Cantata del caffè”, oggi si sa che una tazzina di caffè contiene 2 Kcal se amaro, 9 se macchiato, 15 se zuccherato; contiene 60 mg di caffeina che agisce: sul sistema nervoso centrale aumentando l’attenzione sulla muscolatura, la frequenza cardiaca sul metabolismo dei grassi aumentando la disponibilità di energia sullo stomaco aumentandone la secrezione. Naturalmente la risposta alla caffeina è soggettiva, ma poiché migliora le prestazioni atletiche, bere 12-15 tazzine di caffè è considerato doping. Inoltre ci sono nel caffè sostanze con spiccate attività antiossidante ed antinfiammatorie (acidi cloro-fenici) che potrebbero prevenire il diabete tipo 2. Il caffè è sconsigliato negli ipertiroidei, ipertesi, ulcerosi. Riduce l’assorbimento del ferro e l’azione sedativa delle benzodiazepine. Comunque sia, sulle sue origini esistono parecchie storie, come quella di Kaldi, un operaio dello Yemen, il quale, vedendo le sue capre ballare eccitate intorno ad un cespuglio di bacche rosso brillante, incuriosito, ne mangiò pure lui ed anche lui si mise a ballare. Questa storia giunse presto al locale monastero: l’Iman ed i suoi dervisci, mangiandole, furono aiutati a rimanere svegli durante le lunghe ore di preghiera. Un’altra storia è quella di Alì Bin Omar, asceta yemenita, tuttora il santo protettore dei coltivatori di caffè e grande diffusore dell’uso del caffè, tant’è che in Algeria ancora oggi il caffè è chiamato “Shordhiline” come il suo cognome. Il caffè fu coltivato nello Yemen fin dal VI secolo e ci sono testimonianze del suo uso come medicinale presso gli Arabi, soltanto nel XIII secolo si cominciò a praticare la torrefazione dei chicchi per ricavarne una bevanda vagamente simile a quella di oggi. Il primo caffè pubblico fu aperto alla fine del XV secolo. In tutto il mondo arabo divenne simbolo di ospitalità e


nelle zone meridionali dell’Egitto e dell’ Uganda gli abitanti si scambiavano chicchi di caffè in segno di amicizia. Naturalmente gli arabi erano gelosi del loro monopolio e non cedevano nemmeno un chicco, a meno che non fosse tostato o bollito e quindi sterile. Ma un indiano, Baba Budan, ne contrabbandò sette chicchi in India meridionale e dalle progenie di quelle piante gli olandesi diedero inizio alle loro piantagioni a Giava che per molti anni furono le più importanti del mondo. Il caffè arrivò in Italia all’inizio del XVII secolo e da qui passò in Francia, in Olanda ed Inghilterra dove però non ebbe forte diffusione essendo il governo propenso ad incoraggiare il commercio del thè. Nel 1715 Luigi XIV riesce a farsene portare una pianta dagli olandesi di Giava per arricchire l’orto botanico di Parigi e da qui il francese Gabriel Mathiew de Clieu ne porta una pianta in Martinica, dove l’arbusto crebbe benissimo. La storia più romantica sul caffè è quella secondo cui l’imperatore brasiliano inviò nella Ghinea Francese un suo rappresentante che intesse una storia d’amore con la moglie del governatore francese la quale gli donò, nascosta in un mazzo di fiori, una piantina di caffè, senza sapere che quella piantina sarebbe diventata la base sulla quale sarebbe nato il più grande impero commerciale del mondo. Si pensi che Francesco Redi (nato ad Arezzo nel 1626) letterato e medico, attivo all’interno dell’Accademia della Crusca, fa dire al suo Bacco (nell’opera Bacco in Toscana): “l’amaro e rio caffè” e ben poco giudizio ha il musulmano che “ se lo cionca a precipizio”.


Società

il

Peso e la Salute

TEXT Paola Baggiani

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ire che la salute si gioca a tavola non è un luogo comune; la corretta alimentazione è fondamentale per una buona qualità di vita e per invecchiare bene. Il cibo è determinante per il nostro benessere e le prove scientifiche che certi alimenti più di altri aiutano a prevenire le malattie vengono oggi da un’imponente mole di indagini e analisi epidemiologiche. Esiste un nesso tra alimentazione corretta e salute. Gli squilibri nutrizionali, se in una parte del mondo portano ancora a malnutrizione e fame, nel mondo industrializzato generano diffusissime patologie legate ad una alimentazione sbagliata: malattie cardiovascolari, diabete, obesità, tumori, responsabili di milioni di decessi e di enormi costi sanitari. Nei paesi occidentali l’obesità rappresenta la seconda causa di morte prevenibile dopo il fumo, quindi la prima nei soggetti non fumatori. Quindi è chiaro che il sovrappeso e l’obesità non sono solo problemi estetici, ma sopratutto di salute e influenzano non solo la qualità di vita, ma anche l’aspettativa di vita. Nel mondo industrializzato circa la metà della popolazione è in eccesso di peso, e il nostro paese non fa eccezione poichè un italiano adulto su dieci è obeso (circa 5 milioni di persone) e 34 italiani su cento hanno comunque problemi più o meno gravi di peso. Dall’analisi dei più importanti studi emerge che si potrebbe prevenire il sovrappeso e le patologie ad esso correlate, tra l’altro con un risparmio economico rilevante, modificando lo stile di

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vita: anzitutto la dieta e l’attività fisica. La prescrizione di un trattamento dietetico personalizzato stabilito in funzione dei fabbisogni energetici,delle preferenze e necessità individuali, è un compito complesso che spetta al Medico Specialista. Esistono tuttavia una serie di raccomandazioni di carattere generale che tutti possono seguire per migliorare la propria alimentazione. La cosidetta alimentazione italiana basata sul modello mediterraneo tradizionale è quella che offre le maggiori garanzie di salute. Essa raccomanda di privilegiare largamente i carboidrati complessi (pasta, pane), la frutta, la verdura e il pesce; di consumare invece bassi quantitativi di carne rossa e un moderato consumo di vino rosso ai pasti. Limitare il consumo di zuccheri semplici, del sale e dei grassi di condimento dando la preferenza a quelli di origine vegetale ed in particolare all’olio d’oliva. Il raggiungimento di un giusto peso corporeo va realizzato oltre che attraverso il controllo

dell’alimentazione anche con uno stile di vita fisicamente attivo, intendendo un tipo di comportamento che dia la preferenza all’uso dei propri muscoli nell’espletamento delle attività quotidiane come il camminare, il salire le scale, etc.. Non occorrono massacranti esercizi in palestra, è necessario scegliere tra le varie attività quella che meglio si adatta alle proprie caratteristiche, gusti e impegni di lavoro. Ad oggi le modificazioni dello “stile di vita”orientate ad una alimentazione equilibrata e all’aumento dell’attività fisica sono l’unica terapia dimostratasi efficace verso le complicanze del sovrappeso e dell’obesità che si riducono solamente a fronte di un calo ponderale stabile. info@baggianinutrizione.it www.baggianinutrizione.it


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Eventi

tre

fotopoesia per una

TEXT Graziano Bellini PHOTO Silvia Bicchi

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uando la fotografia racconta una poesia sembra che le sue immagini parlino. Quando la poesia viene rappresentata da una fotografia sembra che le parole si colorino. E’ ciò che è successo ammirando i lavori del 1° Trittico Awards a La Limonaia di Fucecchio, locale giovane e all’avanguardia nonché music club di qualità, dove 24 bravi fotografi del gruppo “0571 Photography Community” hanno raccontato con 3 foto

Grande successo di pubblico per la mostra fotografica del gruppo 0571 Photography Community a La limonaia a Fucecchio una delle quattro poesie indicate dal concorso. La scelta della poesia da rappresentare era fra: “Se non avessimo amato” di Oscar Wilde; “Raggio di sole” di Francesco De Gregori; “L’attesa” di Graziano Bellini e “Parigi di notte” di Jacques Prevert. Una splendida cornice di pubblico ha scaldato la serata finale di domenica 30 gennaio 2011 quando alle 22,30 sono state aperte le urne per decretare il vincitore del concorso fra gli artisti in gara, che con le loro opere hanno allestito questa mostra interessante e gradita ai visitatori. Il vincitore è stato Marco Padovani che con un trittico di grande fascino ha rappresentato la poesia “L’attesa” di Graziano Bellini, mentre al secondo posto si è classificata Silvia Bicchi e al terzo posto Emanuele Bertini entrambi rappresentando “Parigi di notte” di Jacques Prevert. La premiazione è stata presenziata dall’Assessore del Comune di Fucecchio Alessio Spinelli il quale, oltre a Nelle immagini alcuni momenti della serata. In basso il momento della premiazione, al centro il vincitore Marco Padovani con l’Assessore del Comune di Fucecchio Alessio Spinelli. Nella pagina seguente il trittico L’attesa di Marco Padovani

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amelie C

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delle

TEXT Domenico Savini PHOTO Andrea Cianferoni

S

i è svolta nei giorni scorsi nello storico palazzo Gondi di Firenze, la ventisettesima mostra della camelia organizzata dal Garden Club di Firenze, la cui presidente marchesa Vittoria Gondi ha voluto quest’ anno il cortile del palazzo rinascimentale di famiglia. Le nobili dame fiorentine, socie del Garden, hanno contribuito al successo della manifestazione cui è seguito un coktail nelle cantine del palazzo recentemente restaurate, offerto da “UniCredit PB”. Ma il vero protagonista dell’evento è stato il cortile del palazzo, per l’occasione adorno di splendide ortensie e, naturalmente delle camelie in gara. Il primo premio se lo è aggiudicato Wanda Ferragamo, la grande mecenate della manifestazione, per la maggiore quantità di fiori esposti; a seguire Maria Teresa Guicciardini ed Alice Esclapon, per la composizione più originale dedicata al tricolore italiano. Il Giardino Bardini si è distinto per le numerose varietà; inoltre Maria Novella Batini per la più bella “higoromo”. Palazzo Gondi, vero gioiello del Rinascimento fiorentino a due passi da palazzo della Signoria, è da sei secoli residenza

Marchesa Vittoria Gondi

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della famiglia; i recenti restauri voluti dai marchesi Bernardo e Vittoria, lo hanno riportato all’antico splendore; qui si danno convegno già da ora alcuni rappresentanti della società internazionale

Palazzo Gondi

per organizzare i loro eventi e si spera fra non molto si potranno ammirare anche i “fuochi di San Giovanni” dalle splendide terrazze con vista mozzafiato su Firenze e dintorni.


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Associazione Conciatori

Interviste

Alessandro rancioni F TEXT&PHOTO Andreas Quirici

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rentadue anni non sono una vita in senso letterale, ma rappresentano una bella fetta di vissuto. A 30 anni si è uomini e Alessandro Francioni ha passato più o meno lo stesso tempo all’interno dell’Associazione Conciatori. Dal 1979 nel consiglio d’amministrazione e dal 1996 presidente per quattro mandati e vice presidente per tre anni. Se non è una vita poco ci manca e adesso che si avvicina il suo addio alla carica più importante dell’ente che rappresenta le aziende conciarie di Santa Croce sull’Arno, Castelfranco di Sotto e Ponte a Cappiano, per lui è tempo di bilanci, ma è comunque il momento di guardare ancora avanti. Così come ha sempre fatto. Dodici anni di presidenza e tre di vice presidenza sono un tempo molto lungo. Come ha visto cambiare l’Associazione Conciatori? “E’ stata un’evoluzione continua, ma sempre in base alle priorità. Il cambiamento più significativo, ma anche il più impegnativo è stato quello riguardante il rapporto tra l’AssoConciatori e le società collegate del sistema conciario. L’obiettivo di questo passaggio-chiave è stato quello di instaurare una comunione d’intenti totale, in modo da realizzare completamente quella visione distrettuale d’insieme che è stata la nostra forza negli ultimi 15 anni. E se siamo riusciti a costruire qualcosa di buono è proprio questa unicità di azioni e di prospettive data all’intero settore”. Un aspetto di rilievo è stato anche il rapporto con le istituzioni e con il mondo del credito... “Si, ma quello è venuto successivamente. Prima avevamo la necessità di saldare tutte le componenti del mondo conciario. A quel punto siamo stati in grado di far valere il peso delle nostre aziende nel contesto istituzionale che abbiamo curato a tutti i livelli. Dall’ambito locale a quello nazionale, ma anche internazionale. Le numerose visite di delegazioni straniere, prime fra tutti quelle che accompagnarono il primo ministro cinese e poi il presidente della stessa Repubblica Popolare ne sono una dimostrazione. Il nostro fiore all’occhiello è stato il disinquinamento che ha rappresentato una bella sfida, ma che ha permesso anche di dare un futuro al settore. Produrre con un’attività pesante

come quella conciaria in un territorio bello, ma ristretto come la Toscana e in particolare il Comprensorio del cuoio non era facile. Ma ci siamo riusciti. Il mondo del credito, poi, è stato un referente fondamentale per tutto il Comprensorio, anche se non è stato affatto semplice relazionarsi con le banche in un contesto difficile come quello del biennio 2008-2009”. E’ stato il momento più difficile della sua gestione? “Sicuramente. La crisi rischiava di dimezzare il comparto di pelle e cuoio in Toscana, così come la maggior parte dei settori produttivi italiani. Il mondo del credito è stato fondamentale, ma siamo scesi in campo come Associazione nel tentativo di dare credibilità ad aziende che avevano sempre lavorato con onestà e redditività. Volevamo andare avanti senza perdere aziende, anche perché questo avrebbe creato notevoli problemi per la gestione ambientale. La sfida più grande, però, è stato credere nella ripresa e far credere agli imprenditori che il settore aveva un futuro. In questo caso non abbiamo dovuto fare grandi sforzi, perché è stata proprio la forza di volontà dei miei colleghi che ha permesso al settore di andare avanti”. Qual è il ricordo più significativo della sua esperienza all’Associazione Conciatori? “Non ce n’è uno in particolare, ma mi passano davanti tutti gli apprezzamenti che il distretto ha ricevuto dal mondo istituzionale o gli attestati di stima di chi ci veniva a visitare. Dagli imprenditori non ti aspetti elogi e quando non arrivano critiche hai già fatto un buon lavoro. Credo che abbiano apprezzato il fatto di aver lavorato con trasparenza e sempre nell’interesse del settore e delle aziende. E’ chiaro che qualche frizione con qualcuno c’è stata, ma quando ci si dà da fare per temi forti come quelli che

riguardano il nostro comparto è inevitabile discutere”. Sta per finire il suo mandato. Cosa le viene in mente ripensando al recente passato? “Voglio ringraziare tutte le persone con cui ho lavorato. Dai direttori e i presidenti delle società collegate, ai membri del nostro consiglio d’amministrazione alla macchina operativa dell’Associazione conciatori senza la quale non funzionerebbe nulla. L’unità è stata la chiave di volta di questi ultimi 15 anni e se si è vincenti lo si è tutti insieme, senza distinzioni”. Cosa farà quando non sarà più presidente? “Il pensionato, ma sarò comunque a disposizione del settore e del nuovo presidente se vorrà un aiuto. Del resto questa è stata un’esperienza di vita eccezionale per me e, pur non essendo più presidente, non potrei mai distaccarmi del tutto dal mondo conciario”. E come vede il futuro della conceria? “Lo vedo florido, a patto che le aziende abbiano quel famoso ricambio generazionale su cui puntare per gli anni prossimi. Chi non ha collaboratori giovani pronti a calarsi in questa realtà e ad affrontare le sfide del mercato con coraggio è destinato a scomparire. E’ inevitabile”. Il futuro è dei giovani anche in Associazione conciatori? “Direi di si, anche se l’esperienza del vissuto è fondamentale nel portare avanti rapporti con le istituzioni e nell’affrontare le tematiche che le concerie trattano ogni giorno e che passano fatalmente dall’Assoconciatori. E’ per questo che i giovani in Associazione sono e saranno fondamentali, ma con i cosiddetti vecchi al loro fianco per un mix di esperienza e freschezza che risulteranno determinanti nel futuro del settore conciario”.

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Intervicte

il sociologo

Adolfo atteucci M TEXT&PHOTO Luciano Gianfreschi

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essun altro è da sei generazioni in conceria. Accade alla famiglia Matteucci, che aveva il mulino a Molino d’Egola tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento. Ha iniziato Luigi, dopo di lui Valente, quindi Adolfo, dopodiché il dottor Emilio Matteucci, l’attuale titolare Adolfo, che ha ora in azienda anche il figlio Emilio. L’azienda è Legnotan Spa, che ha già festeggiato mezzo secolo d’attività. L’opificio è in via Pannocchia a Ponte a Egola, mentre in via Diaz è rimasto il centro amministrativo di “commercio pelli e legname”. Nella stanza dei bottoni ci riceve il dott. Adolfo Matteucci. Perché Legnotan, mentre la maggior parte delle concerie ha nome di animali o cognome dei titolari? “Legnotan nasce nel 1948 quando mio padre Emilio, insieme ad altri soci, mise su un’azienda nella zona di Massa Carrara, vicino alle Alpi Apuane con le piante di castagni. Il castagno viene cippato, ossia rotto in scaglie, poi bollito come si fa il tè, e quel che viene fuori è l’estratto tannico. Dunque dal legno si faceva il tannino, in quegli anni Cinquanta. Poi la nostra azienda conciaria è evoluta in pelli pregiate di rettili (diventata la specialità della casa). Abbiamo il piacere di cercare sempre l’innovazione”. Restando fedeli alla concia al vegetale? “Mio nonno Adolfo, si chiamava come me, lavorava i satinati. Oggi sono tornati di moda. E’ storia che la conciatura a cromo nasce nel dopoguerra, prima si conciava solo a vegetale. E però la gente aveva bisogno delle scarpe nere. Almeno un paio ci volevano. E per fare la scarpa nera, cioè la tomaia, si prendeva il nero d’inferno e con una spazzola si dava sopra la pelle. E quindi avvenivano rigature e striature, chiamate satinati, al tempo della Prima guerra mondiale 1915-18”. Da un lato non s’inventa nulla, magari si recupera e s’aggiorna? “Si cerca sia l’innovazione sia soddisfare quelle che sono le esigenze di mercato. Bisogna sempre dare al cliente quel che chiede. A volte invece siamo noi che, intuendo quel che il momento potrà chiedere, proponiamo un articolo commerciale, tecnico”.

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Ci parli della sua laurea. Il sociologo è un esperto dei fattori e degli elementi sociali, e delle relazioni umane. Che cosa ci fa in un mondo (cosiddetto) di pellai? “Avevo iniziato i miei studi in legge, e per un paio d’anni ho fatto metà università. Ma poi ha prevalso la passione per la filosofia. E in modo specifico per i filosofi più importanti tra quelli recenti: Immanuel Kant, il filosofo della conoscenza, e Georg Wilhelm Friedrich Hegel. Cominciai a tenere alcuni loro volumi sul comodino, ce li ho ancòra”. Faccia un esempio. “Kant, con la “sintesi a priori” dice che quando l’uomo nasce è una tabula rasa, e quindi il mondo che lo circonda vene a contatto con lui e l’uomo conosce il mondo. Ma esiste anche una predisposizione dell’uomo ad assorbire questa conoscenza. Kant è stato il primo ad avere l’idea che dunque l’uomo è assimilabile al computer, perché i computer hanno un programma che è disponibile a ricevere nozioni e notizie, che infatti vengono annesse”. Come si applica la sociologia all’industria conciaria? “Mi diletto con la filosofia. E come tutti gli studi che facciamo, poi li usiamo nella vita quotidiana: la conoscenza, la competenza, anche l’esperienza”. Negli anni Sessanta, quando ci fu il boom della concia al cromo che dà alle pelli riempimento e pastosità, sembrava che il vegetale non avesse più futuro. “Il cromo, poiché è un minerale, fa la pelle anche più resistente. La conciatura avviene così: prima si fa l’ammollatura, poi la calcina, e la purga. A questo punto nasce il bivio: o la concia al vegetale, o quella al cromo. La pelle al vegetale ha la resistenza che può avere il legno. Ma ha caratteristiche più naturali”. Mai dire mai? “In questo momento c’è una ripresa nella richiesta di cuoio da suola. Dato che c’è stato un grosso aumento nei prezzi del petrolio, e le suole di poliuretano nascono appunto da un succedaneo del petrolio, ecco che quelle suole sono raddoppiate di prezzo. E siccome contemporaneamente il cuoio era abbassa-

to molto di prezzo, ecco che è tornato competitivo e un certo mercato si sta facendo”. Insomma, la concia fa un prodotto che sa stare sul mercato. Non ha perso definitivamente la guerra il vegetale con il cromo, e nemmeno il cuoio con il poliuretano. “Però i volumi che si facevano in passato, oggi non si fanno, non si faranno più. Avevo 70 operai, ora ne ho 10. E mi contento così. Non li ho mandati via, ma progressivamente ho ridimensionato la produzione. Questo declino esiste”. Magari, con la moderna tecnologia fa la stessa produzione che in passato? “No. C’è minore richiesta, si lavora un po’ meno, e ritengo che anche il sapersi contentare sia una capacità”. L’industria conciaria che in questa zona ha fatto la ricchezza un po’ di tutti, che futuro avrà? “Si lavora un po’ nello sporco, c’è il contatto con il pellame. Oggi la gioventù concepisce il lavoro con una sedia, un tavolo e un computer. Il 90% vuole quello e basta, mentre io ritengo che il lavoro sia passione. Però che certi figli non abbiano passione per il lavoro dei padri, è normale. E inoltre dai figli dobbiamo prendere quello che danno, non si può dire da loro voglio; almeno per quanto mi riguarda. Poi bisogna avere anche il coraggio di dare un po’ di fiducia, di credito e di libertà ai figli. A volte un genitore, più anziano, s’immagina che il figlio non riesca ad arrivare e si sforza di aiutarlo: ma bisogna stare attenti a non esagerare in quest’invasione di campo”. Il sentimento fa cambiare la logica? “Un po’ bisogna lasciarsi guidare dall’istinto paterno, dalla fiducia. E’ un rapporto difficile gestire la famiglia, i figli, tuttavia bisogna impegnarsi: ma con la coscienza più pulita possibile. Così anche negli affari: è giusto trarre l’utile, in quanto uno si alza la mattina per lavorare. Però guardarsi serenamente allo specchio e guardare le persone negli occhi è importante. Io sono convinto, come dicevano Socrate e Aristotele, che fondamentale nei rapporti interpersonali sia la coscienza”.


TEXT Sergio Matteoni

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credere

ei giorni scorsi ho tenuto presso un’azienda un corso sull’utilizzo della nostra soluzione di Customer Relationship Management (Workland CRM) e nell’occasione abbiamo affrontato, con la direzione ed i Venditori, varie tematiche, tra queste anche quella dell’aggiornamento della scheda cliente da parte dei Venditori.

“La difficoltà non sta nel credere alle nuove idee, ma nel fuggire dalle vecchie“ (J.M. Keynes padre della macroeconomia e considerato uno dei più grandi economisti del XX secolo) Chi segue la nostra rubrica sa che ogni tanto mi piace riportare degli esempi di vita vissuta proprio perché sono aneddoti che spesso viviamo un po’ tutti all’interno delle nostre aziende. Tornando all’esperienza suddetta, durante il corso uno degli aspetti più ostici è stato proprio quello di far capire l’importanza di introdurre le informazioni che reperivano i Venditori, tramite le loro visite ai clienti, nel sistema informativo aziendale. Inizialmente la discussione si è fatta particolarmente accesa in quanto da una parte si schierava la Direzione con le sue esigenze e dall’altra i Venditori con le proprie. Tutte le esigenze erano condivisibili ma difficilmente

conciliabili. A poco a poco ho poi cominciato ad intravedere il reale motivo della discussione. I Venditori si sentivano come controllati e obbligati a seguire degli schemi che temevano gli facessero perdere di vista la loro missione primaria: vendere. D’altronde la direzione reclamava la titolarità del cliente e la necessità di avere il maggior numero di informazioni su cui poi modellare delle strategie. In effetti mi trovavo di fronte ad una situazione che viene descritta molto bene dal titolo di questo articolo, ripreso da una celebre frase del fondatore di quella che è stata definita la “rivoluzione keynesiana”. Per superare questo scoglio ho preso come spunto un capitolo di un libro di Heinz M. Goldmann che avevo letto di recente in cui l’autore spiega come esercitarsi alla confutazione delle obiezioni utilizzando il metodo del foglio di carta diviso in due. Da un lato le obiezioni che i clienti ci possono fare e dall’altro le risposte che possiamo dare. In effetti l’arma più efficace per un venditore è l’essere preparato ad ogni obiezione che il cliente può muovere all’articolo che si sta vendendo. Partendo da questo presupposto ho spiegato ai Venditori dell’azienda come fosse possibile, in una sezione della scheda del cliente, inserire le obiezioni che lo stesso aveva mosso al venditore, in maniera semplice ed intuitiva, assegnandoli anche una Categoria (solitamente tutte le obiezioni dei clienti possono essere raggruppate in un massimo di dieci categorie). Queste informazioni potevano successivamente essere aggregate e mostrate graficamente in modo da portare all’evidenza le principali cause delle mancate vendite e quindi offrire l’opportunità alla direzione di modificare le proprie strategie, fornendo ai Venditori degli strumenti ( servizi aggiuntivi da abbinare agli articoli, modalità di pagamento particolari, consegne più rapide…) per avvicinarsi il più possibile a quello che il cliente desidera. In sostanza quello che si sareb-

Lavoro

CRM

CRM PROVARE per Customer Relationship Management

be attivato inserendo queste informazioni era un ciclo virtuoso dal quale ne uscivano vincitori sia la Direzione sia i Venditori. In effetti sembra l’uovo di Colombo ma la cosa ha funzionato davvero: i Venditori hanno visto nella “perdita di tempo” di introdurre informazioni nel sistema gestionale la possibilità di influire in maniera più incisiva sulle scelte aziendali e la Direzione ha avuto la possibilità di analizzare e tenere di conto delle informazioni, che quotidianamente hanno a disposizione solo i Venditori, in una forma facilmente fruibile ed aggregabile. Ancora una volta ho potuto constatare che la sinergia tra i reparti aziendali è la chiave del successo, ed i preconcetti l’ostacolo da sormontare. L’azienda è come un enorme ingranaggio, se un reparto, o una singola persona si blocca o non svolge volentieri il proprio compito, tutto l’ingranaggio tende a rallentare o peggio a bloccarsi. I Venditori in particolare sono il collante che lega i clienti all’azienda e non possono essere obbligati perché la loro capacità di vendita è data dall’articolo che vendono ma anche dal loro sentimento di successo, dall’iniziativa e dall’entusiasmo che ci mettono nell’azione di vendere. E’ per questo che è importante che la Direzione, ed in particolar modo il Direttore Commerciale, gestisca in maniera appropriata il proprio personale addetto alle vendite, anche offrendo delle opportunità di vendita semplici in quei momenti di scoramento che ogni venditore può attraversare di tanto in tanto. Ad ogni modo, alla base di ogni buona organizzazione aziendale deve esserci un team di persone che credono in quello che fanno ed inoltre, visto che siamo nel ventunesimo secolo, deve esserci sempre un buon sistema informativo aziendale, meglio se un CRM (Customer Relationship Management) . WORKLAND CRM Tel. 0571.366980-367749 Fax 0571.367755 www.worklandcrm.it

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Sensi

di Margot

La libertà è la misura della maturità di un uomo e di una nazione

Giovanni Paolo II

(Karol Wojtyla) (1920-2005)


Ristorante Bracali

Piaceri di palato

dove le stelle brillano davvero!

Text&photo Claudio Mollo


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scita Gavorrano, della superstrada Livorno-Grosseto e poi ci si incammina verso Massa Marittima, tranquilla cittadina, forse un po’ troppo, che si trova a circa quindici chilometri verso l’interno, proprio in piena campagna maremmana. A Massa Marittima da qualche mese a questa parte brilla una stella Michelin in più, quella che è andata ad accoppiarsi alla prima che il ristorante Bracali possedeva già da molti anni. Un nuovo ristorante 2 stelle Michelin in Toscana, che va ad affiancarsi ad altri blasonati colleghi e che, nella provincia di Grosseto, si aggiunge al ristorante “Caino” di Montemerano e al “Pellicano” situato a Porto Ercole, facendo balzare questa bellissima parte d’Italia agli onori della cronaca per quanto riguarda la ristorazione di prestigio. E quando si parla di ristorazione di un certo livello, purtroppo, si parla di locali che richiedono un certo impegno economico per chi li va a trovare, aspetto d’altra parte più che giusto quando si tratta di ristoranti come Bracali. Locali nei quali l’arte dell’accoglienza si concretizza a livelli molto alti e la cucina si esprime in raffinate preparazioni frutto di studi e prove fatte tra i fornelli, a dir poco maniacali. Ho sempre detto, a molte persone e in molti convegni o seminari, che per apprezzare certi livelli culinari si deve andare preparati, come anche nell’enologia ad esempio, dove per bere e capire un grande vino bisogna aver “studiato” altrimenti è come parlare arabo. Comprendere il valore aggiunto di una pietanza è un aspetto complicato che prescinde dal costo finale, a meno che questo non sia “spropositato” e completamente ingiustificato. Cosa che non succede dal momento in cui varchi la soglia di Bracali. Se si ha voglia di fare un’esperienza “unica”, quello è il posto giusto. Coccolati e seguiti da Luca, il maggiore dei due fratelli Bracali che gestiscono il locale, che insieme al resto dello staff di sala supporta il piacere dei piatti che arrivano ad allietare il palato.

Eleganza e raffinatezza, ma allo stesso tempo sobrietà dell’ambiente, ti ben dispongono ad un pranzo o cena che si annunciano notevoli. Nel frattempo un flute di bollicine, a scelta tra italiane o francesi, mette a segno il primo colpo giusto. E da qui in poi è la cucina che inizia a presentarsi, in un susseguirsi di portate nelle quali si capisce la persona che c’è dietro ai fornelli: bellissimi accoppiamenti tra alimenti, armonia nei piatti e fusioni di sapori a dir poco eccellenti. Nessuna stonatura, nessun sormontarsi di gusti e ingredienti, ma sensazioni nitide e ben definite della grande materia prima utilizzata. Sì, la migliore; e si sente anche, senza per questo dover essere esperti. Una grande kermesse alimentare che ti viene proposta in modo impeccabile, preparata nella cucina a vista, dove Francesco Bracali si muove veloce tra una cottura e l’altra e compone i suoi piatti misurando anche i granelli di sale da aggiungere per dare il tocco finale al sapore ed alle guarnizioni. Quella di decidere dove andare a mangiare è una scelta ben precisa che va fatta con il senno di poi. La pizza è buona, piace a tutti e “non costa poco”, una bella trattoria ti ricorda i profumi delle cotture della nonna o della mamma, con odori decisi e gusti forti, che si propongono con prezzi equilibrati. Dopodiché si passa al ristorante, nome sotto il quale si celano una serie di possibilità che vanno dagli svarioni più eclatanti a corrette proposte alimentari e piacevoli modi di accogliere il cliente. Qui il costo inizia a salire e varia dal “pericoloso”, per quei posti nei quali promettono di farti mangiare “bene” spendendo poco e da li a salire di livello, fino ad arrivare a locali come Bracali, che almeno “una volta nella vita”, famosa battuta fatta da tanti ma mai messa in atto, bisognerebbe provare. Insomma, se volete provare un esperienza unica, andate qualche volta in meno in pizzeria o in trattoria e magari, una volta l’anno fate rotta verso Massa Marittima, da Bracali, per vedere e capire quanto possono brillare le stelle... Michelin, naturalmente!

Ristorante Bracali Via Di Perolla, 4 58024 Ghirlanda - Grosseto - Tel. 0566 902318


Viaggio

A passeggio per ordeaux TEXT&PHOTO Carlo Ciappina

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ll’arrivo al Merignac, l’aeroporto di Bordeaux, ci si aspetterebbe di trovare una città godereccia se non altro per il suo celebre vino, al contrario il centro urbano offre un ambiente assolutamente rilassato, tipico della provincia francese, dove il caffè viene rigorosamente servito al tavolo mai in piedi. Le enoteche e le taverne cittadine sono altrettanto prolifiche, per cui i cultori di Bacco hanno comunque modo di apprezzare quel nettare dell’ Aquitania che produce fortuna economica a questa terra fin dal 1840, quando con la sua esportazione in Inghilterra la città potenzia enormemente il proprio porto, assumendo un ruolo di prim’ordine anche grazie ai commerci con le colonie e il resto d’Europa. Ma godiamoci di quell’atmosfera che solo i nostri cugini d’oltralpe sanno creare, ad iniziare da Place de La Comédie brulicante di gente che chiacchiera, ride, scherza nei bistrots tutti all’aperto durante la bella stagione. La piazza, dominata dal settecentesco Grand Théatre preceduto dal colossale porticato a 12 colonne, è perfetta per una ottima colazione; comodamente seduto il turista apprezza certamente gli aromi delle cioccolate calde che si mescolano alle fragranze dei croissands o i brusii celtici di chi passeggia nell’ isola pedonale che qui dicono essere, con un pizzico di “grandeur” tutto francese, la più grande d’ Europa. Vogliamo credergli? Colà c’è sempre qualcuno pronto a darti

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informazioni sulle attrattive cittadine anche senza chiederglielo. Superato la stadio iniziale di una umana diffidenza, intuisci che quello è il loro modo di fare, non chiedono soldi e senza secondi fini ti fanno da “Cicerone” un po’ per farsi belli, un po’ per vena di cortesia; come quel tale che mi dice “ Lei si trova proprio nel salotto buono della mia Bordeaux! “, sciorinandomi poi tutto il suo sapere su Place De La Bourse laddove dove ci trovavamo. Mi giro con lo sguardo tutt’ intorno ed effettivamente la spazio è splendido, una vera vetrina di architettura in uno stile che ricorda Versailles, realizzata da Ange Jacques Gabriel, architetto del Re Sole, con al centro la fontana “LeTre Grazie” dello scultore Visconti: grazie all’acqua rimasta sul suolo, dinanzi a lei, regala giochi di luce ed un effetto -specchio sublime che non si può non fotografare. La magnifica spinata si affaccia sulla Garonna, creando un ambiente curato, arioso, monumentale, dal sapore tipicamente parigino; qui Il grande fiume è scavalcato dallo splendido Pont de Pierre a 17 arcate, realizzato da Deschamps del 1810 per volere dell’imperatore Napoleone Bonaparte, da cui si possono godere magnifiche vedute dell’agglomerato, soprattutto , al tramonto. Ah, tale curatissimo centro storico si raggiunge passando attraverso la Porte Cailhau, autentico gioiello d’arte, voluta dal Re Carlo VIII per celebrare la sua vittoria nella battaglia di Fornovo del 1495: da qui, il tragitto a piedi porta dritti sino alla Cat-

tedrale di Sant’ Andrea, reso gradevole dalla totale assenza di auto nell’area “pietonne”. Il pregevole edificio di culto, con l’altissima guglia sormontata da una madonna dorata che ricorda quella del Duomo di Milano, è in rigoroso stile gotico, come gotica è pure la Basilica di Saint Michel con a fianco l’arditissima torre “Fleche” alta ben 114 metri. Più austera è la romanica Chiesa di Saint Croix, armonica nella sua semplicità, mentre il fasto barocco regna nel tempio di Notre Dame. L’elegante Palazzo Rohan, ubicato nel medesimo quartiere descritto e costruito per l’arcivescovo Ferdinand Maximilien Mériadec de Rohan nel 1771, rappresenta una vera reggia per dimensioni, lusso, armoniosità dell’insieme: assolutamente da non perdere.! Nel capo opposto del centro antico ci si imbatte davanti ai resti delle mura medievali con la celebre altra Porta, denominata la “Grosse Cloche” per la presenza di un’enorme campana del peso di ben Kg. 780, che suonava solamente per gli eventi pubblici di estrema importanza.Cosa dire ancora? L’ Unesco ha inserito Bordeaux nella lista del Patrimonio Mondiale dell’ Umanità, possiede una rete tramviaria di 3 linee all’avanguardia per l’assenza di fili aerei nelle zone turistiche ma la cosa importante, affinché si possa assaporare tutto ciò che non ho potuto esternare per esigenze di spazio, è una verifica fatta con i propri occhi e gambe, buon viaggio quindi in Aquitania!

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1. Basilica di Saint Michèl 2. Basilica di Saint Croix 3. Cattedrale di Saint André 4. Palais Rohan 5. Piazzetta di Bordeaux 6. Porte Grosse Cloche 7. Pont de Pierre sulla Garonna, sullo sfondo la Basilica di Saint Michèl 8. Grand Théatre 9. Place de la Bourse con Fontane delle tre Grazie di Visconti 10. Porte Cailhau

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t o r o emelli Ariete

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el mese di maggio la primavera culmina nel segno zodiacale del Toro, governato da Venere, simbolo della donna che fiorisce rigogliosa nella gravidanza, festa dei cinque sensi. Il nutrimento di cibi sostanziosi è necessario per accogliere la nuova vita, ecco perché il Toro incarna l’emblema della buona tavola, tripudio godereccio, concretezza radicata alla terra, suo elemento naturale. Amante della natura, con la quale vive in totale sintonia, nelle passeggiate e nella tranquillità di borghi immersi nel verde, come ad esempio il borgo di Montalcino, fortezza trecentesca arroccata su un colle che domina le dolci colline circostanti. Nel labirinto di botteghe artigiane e prodotti tipici si sprigiona l’essenza del segno zodiacale del Toro. Pensiamo al vino che Montalcino gli dona: il Brunello, corposo e caldo, perfetto con piatti strutturati, quali carni rosse e selvaggina. Il buongustaio Toro si fa strada tra le tipiche e ruspanti trattorie casalinghe, nei sapori tradizionali come il “tegamaccio con l’anatra arrosto”, profumata con aglio, peperoncino e rosmarino, in sugo al pomodoro, vino rosso e trito di pesci di lago.

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di Federica Farini

Pennellate di Toscana nel firmamento di primavera 110

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l segno zodiacale dell’Ariete, primo dei segni di Fuoco, si regala al mondo attraverso l’impeto che lo contraddistingue. Come illustra Lisa Morpurgo, maestra dell’astrologia contemporanea, con l’Ariete inizia la festosa sagra primaverile che spinge il creato all’istinto di riproduzione. Il Sole si risveglia dopo il letargo invernale, incalzante nel virile Ariete, guida del gregge, testardo, istintivo e battagliero. A questo segno Tolomeo e Dante abbinavano il capoluogo toscano, Firenze, imbevuta da sempre della simbologia di Marte, pianeta governatore dell’Ariete, conquistatore del mondo circostante. Il crocevia ferroviario della città prende il nome di Campo di Marte e la sua impronta è evidente anche nel “calcio fiorentino”, gioco dalle tinte violente da cui deriva il moderno sport calcistico. Un’antica leggenda narra che all’epoca pagana i fiorentini dedicarono una statua al dio in qualità di protettore. Quando la città divenne cristiana e Marte fu sostituito da San Giovanni Battista, la statua venne spostata in riva all’Arno, provocando le sue ire, per cui Marte si rivalse su Firenze scatenando guerre che a lungo tormentarono la città.

uando l’estate sboccia in giugno, la freschezza del segno dei Gemelli irrompe allegra, leggera come l’aria che lo rappresenta. Gemelli, eterno adolescente pieno di sogni e sorrisi, che vuole crescere in fretta anche se non sa bene che cammino intraprenderà. Età della spensieratezza, della mente curiosa, regalo di Mercurio, irrequieto pianeta che lo governa. Frizzante come bollicine a festa, le quali inebriano senza bloccare l’energia guizzante che gli è propria. La Toscana gli dedica l’Isola del Giglio, perla del mare Maremmano, costa bagnata da acque limpide alternate da scogliere granitiche e calette cristalline. Giglio, isola originale, effervescente e variegata, proprio come le sfaccettatture del Gemelli: baie incantevoli per amanti delle immersioni e della pesca, territorio selvaggio e boschivo per lunghe passeggiate, meta per famiglie ma anche per giovani alla ricerca di equilibrio tra natura, vita notturna e cultura. Antichità e modernità immerse in particolari suggestioni, come quella regalata da Cala dell’Allume, dalla caratteristica forma a cuore, tra lo Scoglio Nero e la rupe della Penna, con le sue pietre striate giallo-ruggine, per la presenza di materiali ferrosi come la pirite.


tra Suocera vincail

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Nuora e

on ton! a cura del Maestro di Cerimonie Alberto Presutti

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Bon Ton è la grazia del saper vivere, a partire dai rapporti che si sviluppano nell’alveo familiare, a principiare dalle relazioni a volte difficili, che vengono in essere tra nuora e suocera a fronte dei rapporti tra genero e suocero, che, invece, scorrono più facili.. Il vocabolario italiano contiene una parola che ha assunto un significato sgradevole, tanto da apparire quasi una offesa: è la parola suocera. La suocera ha una sua certa età, non più giovane, e una sua esperienza di vita, è stata a sua volta nuora, per cui è naturale che possa avere una sua visione delle “cose della vita” che non collima con quella della giovane o più giovane, nuora che deve astenersi dal relazionarsi in controtendenza ai valori della suocera, già solo per amore del marito. Per il Bon Ton è indiscutibile che la nuora debba essere padrona di vivere accanto a suo marito come ritiene più giusto ma è altrettanto vero che allora dovrà farlo basandosi solo sulle proprie forze. Fare la nuora può non essere facile se vi è invasione di campo da parte della suocera, atteggiamenti, poi, fraintesi dalla nuora per suscettibilità o arroganza. Una buona suocera darà e pretenderà rispetto, in nome della educazione, ma eviterà di metter il dito nelle situazioni di coppia, che, in generale, non le competono. La brava nuora, avrà piacere di ascoltare e di accontentare la mamma del proprio sposo, entro i limiti del rispetto e del buon senso, mai creando gratuiti screzi. Fare il genero, rapportandosi al suocero, forse anche per la solidarietà tra uomini, risulta più lieve e meno oneroso, anche psicologicamente. Ciò non toglie, che il genero debba portare riguardo e attenzione, ai suoceri, mai mancandogli di rispetto, e soprattutto rivolgendosi sempre con il “Lei”, finchè non saranno loro a consentire il “Tu”. Infatti è da evitare la troppo confidenza, che tende a divenire, col tempo, permissivismo. Se ben inquadrati, i summenzionati rapporti, possono solo giovare all’armonia familiare e alla sana crescita dei nipoti.

www.albertopresutti.it


Maratonina di Carnevale 2011 Giunta alla sua XVII edizione, ha portato a Santa Croce sull’Arno molti podisti circa 2500 iscritti la giornata e stata buona ed ha permesso un’ottima riuscita della stessa. La maratonina fa parte dei tre calendari: Pisa, Lucca e tre province. Naturalmente vista la data è la prima d’inizio anno, il che rende ancora più sportivi i suoi partecipanti, non ti lascia vittima dei bagordi di fine anno! Ogni spensierato ha un compito ed è assegnato in un luogo; il tutto sotto un ottima e attenta regia, ottima la coreografia che dà uno sprint alla corsa, la quale raggiunge il suo apice al traguardo; dove oltre al consistente ristoro si fa stretching, ballando e cantando in gruppo. A fine gara ai partecipanti è stata regalata una borsa con prodotti alimentari, questo anno è stata gentilmente offerta dall’industria pasticcera Biancoforno. A tutte le societa’ sportive oltre al regalo, in base al numero di partecipanti per ogni società, vengono omaggiate agende della polisportiva “Gli Spensierati” la quale giunta alla sua VI edizione riscuote curiosita’ e successo da parte di tutti. Non resta dire che, la polisportiva vi aspetta non solo alla maratonina, ma anche come nuovi tesserati per poter correre o semplicemente camminare insieme tutto l’anno. A presto!


Carnevale d’Autore 2011 La conclusione della manifestazione, ha decretato i suoi vincitori, certamente le nuove idee del Comitato, presidenziato da Mauro Dell’Unto, hanno dato un buon esito, le iniziative sono riuscite a coinvolgere l’intero centro, le maschere con il loro seguito gli hanno dato colore e vivacità; nonostante il maltempo la partecipazione del pubblico é stata numerosa, è ritornata la voglia di stare insieme, di vivere il paese prima e dopo le sfilate. Le targhe assegnate sono: Targa Carnevale di domani assegnata al gruppo “IL NUOVO ASTRO” Targa Maschera ecologica assegnata al gruppo “LA LUPA” Targa Maschera Carnevale d’Autore assegnata al gruppo ”GLI SPENSIERATI” Targa Pelleidea assegnata al gruppo ”IL NUOVO ASTRO”(targa realizzata da Mariachiara Marcori) Targa Maschera buffa assegnata al gruppo “LA NUOVA LUNA” Il gruppo vincente del carnevale d’autore 2011 é stato il gruppo ”GLI SPENSIERATI”. Popolo carnevalaio vi aspettiamo con nuove coloratissime e fantasiose novità, alle sfilate del carnevale 2012. foto di: Riccardo Lombardi (Fotoelle)


Fiore

Ilfruttomelograno del paradiso TEXT Paolo Pianigiani PHOTO Alena Fialová

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a storia di questa pianta affonda nella notte dei tempi. Ma si pensa che provenga dall’Asia e si sia diffusa dapprima nelle regioni del Caucaso, per poi conquistare l’area del Mediterraneo. I semi, splendidi come perle rosse, accompagnavano i faraoni nelle loro ultime dimore terrene, nel fondo più segreto delle Piramidi. I greci immaginarono che il melograno nascesse dal sangue di Dionisio, e che avesse un ruolo primario nel mito di Persefone e di Era. I romani lo chiamarono “Malum punicum”, mela punica, o cartaginese, perché i primi frutti rossi arrivarono da quella regione, dove aveva sede il nemico di sempre, Cartagine. E sempre il frutto del melograno, chiamato melagrana o “balausta”, non ha mancato di illuminare l’immaginario degli uomini, con la sua bellezza e il suo sapore, fra il dolce e l’asprigno, così tipico dei suoi semi trasparenti, rivestiti come da uno scrigno, di un bel rosso cupo. In Turchia esiste ancora oggi una tradizione, legata al matrimonio e alla fertilità: le spose lanciano a terra una melagrana, e il numero dei figli che avranno sarà uguale ai semi che si staccheranno dall’interno del frutto. Per i Cristiani la melagrana è il frutto della Passione di Cristo. In tante opere che rappresentano la Madonna con il Bambino, si ha la presenza di questo frutto rosso premonitore, come nella “Madonna della Melagrana” di Sandro Botticelli (foto in basso). Per gli Ebrei il numero dei semi della melagrana è uguale alla somma delle prescrizioni previste nella “Torah”, il sacro libro delle Leggi: 613. E in effetti, ad aver la pazienza di contarli tutti, sono circa 600 i grani luminosi rinchiusi nel guscio lucido e rotondo. Il Corano (Sura 6:141), parla del melograno e dell’olivo come doni di Allah, e invita i fedeli a mangiarne ma senza eccedere. Nella Sura 55: 68, invece, cita la pianta fra quelle che crescono in abbondanza nel Paradiso. In Spagna, nei pressi della Sierra Nevada, in piena Andalusia, fu fondata dagli arabi la città di Granada. Nello stemma della splendida città è presente una melagrana, e per accedere al più bel palazzo mai costruito dagli uomini, l’Alhambra, si passa da una porta a tre arcate che porta il nome del nostro frutto. Chiudo con una considerazione… Il succo che si estrae dai semi rossi e traslucidi è chiamato “granatina”, e viene consumato soprattutto come sciroppo. Il suo sapore è come quello della vita: un po’ dolce e un po’ amaro.


© Foto Alena Fialová


Miti e Leggende

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e Sirene erano nei lontani tempi mitologici, le affascinanti figlie dell’Oceano. Abitavano presso l’isola di Sardegna e posate sugli scogli o fra le onde, attendevano i naviganti per incantarli. Avevano volti bellissimi di donna e corpo terminante in coda di pesce. Il loro canto era così armonioso che nessuno poteva ascoltarlo senza esserne ammaliato inesorabilmente. I marinai, per udire le loro voci melodiose, dimenticavano di mangiare e si gettavano sulla tolda, lasciandosi consumare d’inedia o, attratti dall’irresistibile canto e dai volti delle ammaliatrici, si gettavano a capofitto nel mare. Giasone e i suoi compagni, dopo essere fuggiti rapidamente dalla Colchide col Vello d’Oro che avevano conquistato, si erano diretti verso la Grecia. Avevano attraversato il Mar Nero, risalendo il Danubio e attraverso il Po e il Rodano erano arrivati all’isola di Sardegna ove stavano in agguato le figlie del mare. Esse, appena videro la bella nave costeggiare le rive si avvicinarono e cercarono, con i canti dolcissimi, accompagnati dal suono della lira, di fermarne il rapido viaggio. Ma Orfeo, il musico divino che faceva parte della spedizione, comprese il pericolo che li circondava e affinché i marinai non udissero le insidiose canzoni, prese a suonare la sua lira. La melodia di Orfeo era così deliziosa che tutti gli uccelli accorsero intorno alla nave per ascoltarla, i delfini circondarono la carena incantati e perfino le Sirene cessarono di modulare le loro canzoni maliarde. Così, nel silenzio religioso degli uomini e degli animali, entro le calme acque del Mar di Sardegna, passò incolume la bella nave. Cantò a lungo, instancabile, modulando dolcissimi accordi, finché la nave non ebbe superato i sinistri paraggi della Sardegna. Le Sirene attesero silenziose e tristi che il canto soave si allontanasse, poi indispettite e umiliate di essere state vinte da Orfeo, si gettarono dalle rocce in mare con i loro strumenti. Giove, pietoso, le mutò in alte scogliere dominanti le acque della Sardegna.

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