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PER LA FESTIVITÀ DEL 25 APRILE DOMANI LIBERAL NON SARÀ IN EDICOLA. APPUNTAMENTO DUNQUE A VENERDÌ 27

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QUOTIDIANO • MERCOLEDÌ 25 APRILE 2012

di Ferdinando Adornato

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Napolitano si appella a Monti: «Attenzione al bilancio, ma bisogna premere sulla Ue per favorire la crescita»

Date gli occhiali alla Merkel! La sua miopia moltiplica i voti di protesta e mette l’Europa in ginocchio Puntare solo sul rigore economico mette in difficoltà i governi e dà spazio all’antipolitica: in Francia, Olanda, Grecia, Irlanda... Qualcuno lo dica alla Germania, prima che l’Unione fallisca PERICOLO TECNOCRATI

Le presunte tangenti di Finmeccanica

Per favore, Angela adesso chiedi consiglio a Kohl...

Orsi indagato per la Lega. La Cassazione: Dell’Utri “mafioso” La motivazione della sentenza: «Il Cavaliere era in pericolo e lui lo protesse» E Berlusconi: «La sinistra vuole votare a ottobre per vincere» Marco Palombi • pagina 6

di Osvaldo Baldacci n politica non basta avere ragione, in democrazia bisogna essere convincenti per ottenere il consenso per governare. Ma nei tempi recenti c’era stata una chiara deriva propagandistica. a pagina 3

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L’opinione di Giulio Sapelli e Giacomo Vaciago

TRA RIGORE E CRESCITA

Sì, il sogno di Bruxelles può tramontare: di fiscal compact si muore

Povera Unione in cerca d’autore (e di un progetto)

«Il limite della Cancelliera è non capire che anteporre gli interessi dell’Europa a quelli tedeschi è un bene per tutti. E poi lei a destra non ha nessuno che la disturbi» Franco Insardà • pagina 4

di Giancristiano Desiderio i cosa ha bisogno l’Europa per sconfiggere la paura? Di una leadership forte o, meglio, di una guida autorevole che non si perda in sottigliezze e ambiguità. a pagina 3

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Morti e feriti nella capitale per un’autobomba. Nuovo vertice alle Nazioni Unite

Damasco brucia, l’Onu non basta In Siria si continua a morire. E Kofi Annan torna a mani vuote di Laura Giannone

L’impasse degli organismi internazionali

Mediazione fallita, adesso ammettetelo

Le (tante) crisi risolte

Elogio di Terzi, il ministro diplomatico di Maurizio Stefanini

orna la violenza in Siria, nonostante il cessate il fuoco previsto dal piano di pace preparato dall’inviato di Nazioni Unite e Lega araba, Kofi Annan. Un’autobomba è esplosa nel centro di Damasco, nei pressi dell’ambasciata iraniana, provocando un morto, secondo quanto riferito dall’emittente al Arabiya, ma fonti ufficiali parlano di tre feriti.

n Siria la guerra continua: nonostante mesi di negoziati condotti dall’ex segretario delle Nazioni Unite, Kofi Annan, e a dispetto di tutte le decisioni del Consiglio di Sicurezza. È durato lo spazio di un niente lo stop alle violenze.

l 16 novembre del 2011 Giulio Terzi di Sant’Agata, già ambasciatore d’Italia in Israele, presso le Nazioni Uniti e negli Stati Uniti, è diventato ministro degli Esteri del governo Monti, anche se a differenza dei colleghi ha potuto poi prestare giuramento soltanto il giorno successivo.

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EURO 1,00 (10,00

di John R. Bolton

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CON I QUADERNI)

• ANNO XVII •

NUMERO

80 •

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

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19.30


prima pagina

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Anche Napolitano fa appello a Monti: «Va bene il rigore, ma bisogna premere sull’Unione per favorire la crescita»

Europa in cerca d’autore Il no agli eurobond imposto da Berlino crea più problemi di quanti ne risolva. In Francia vince la protesta, in Olanda l’ultradestra fa cadere il governo. In Grecia (e in Italia), torna l’antipolitica. Ma la Germania guarda alla Cina di Errico Novi

ROMA. In un’intervista pubblicata ieri da Repubblica, Giulio Tremonti inciampa in una strana contraddizione. Prima dice che «si stanno formando una nuova sinistra e una nuova destra», quest’ultima incarnata, tra l’altro dallo «spontaneismo reattivo dell’estrema destra francese». E ricorda come a sua volta Hollande consideri la grande finanza internazionale «il fattore che ha sovvertito il vecchio ordine e generato il caos». Di fatto assimila quindi Le Pen con il candidato socialista all’Eliseo. Poi però indica una divaricazione incolmabile quando dice di condividere le tesi di Hollande e di non riconoscersi «assolutamente» in quelle del Front national. L’elegante dribbling non inganna. L’ex ministro dice quello che molti vedono. E cioè che destra populista e sinistra si toccano sempre più spesso in Europa. Non solo: tutti vedono, e al Tremonti anti-Sarkozy non sarà sfuggito, che l’antieuropeismo di ritorno è sempre più politica-

mente trasversale. Nel giro di poche settimane si è passati dal grigio pantano delle indecisioni franco-tedesche a un’ondata populista ed euroscettica preoccupante, imprevedibile e capace di mettere in ginocchio l’Ue più di quanto non abbia già fatto la crisi economica.

La circolarità delle idee confuse ma seduttive che avvicinano Marine Le Pen e François Hollande, il populista olandest Geert Wilders e il nazionalista ungherese Viktor Orban, si coglie anche in certi sondaggi. In quelli, per esempio, secondo cui l’elettorato del Fn è diviso quasi a metà in vista del ballottaggio: una quota non lontana dal 50 per cento dei lepenisti che il 6 maggio torneranno alle urne è pronta a spostarsi verso sinistra. Non stupisce, se si guarda alle critiche di Hollande su Fiscal compact e ruolo della Bce. Perché è proprio nella mitologia antiglobalista, nel dito puntato contro la turbofinanza speculativa e quindi contro il

cieco rigore imposto ai singoli Stati, il piatto forte dell’estrema destra come di alcuni filoni della sinistra europea. Un magma confuso ma appunto incontrollabile che rischia di trovolgere la teutonica rigidità di Angela Merkel. Nel mirino di quella che Bernardo Valli, su Repubblica, definisce «brontolio allarmante» ci sono soprattutto il Fiscal compact e le ulteriori restrizioni da esso imposte, compreso il pareggio di bilancio. C’è insomma la strategia europea disegnata da Berlino e accolta finora con sostanziale assenso da Nicolas Sarkozy. Finora, o meglio fino al primo comizio tenuto in vista del ballottaggio dal presidente francese a Tours. Dove Sarkozy ha parlato con un linguag-

gio che quasi ridimensiona Marine Le Pen quanto a gusto per l’iperbole.

Certi passaggi della concione per la verità paiono riprodurre con impressionante vicinanza precedenti performance della leader del Fn. «Solo io mi preoccupo dei piccoli, solo io so vedere nel voto per il Front national un grido di

sofferenza», dice Sarkozy. Che evoca i passaggi di un discorso di Marine Le Pen in cui qualche mese fa ci si rivolgeva ai «senza gradi, gli esclusi» che «non devono avere paura di sognare». E quando il presidente in carica dice che «la Francia vuol riprendere in mano il suo destino» ed esclama «basta con la globalizzazione senza regole», è difficile non assimilarlo alla retorica lepenista secondo cui bisogna difendere «i metalmeccanici, le operaie e gli operai di tutte quelle industrie rovinate dall’euromondialisno di Maastricht». Il modo per farlo, aggiunge la leader populista con mesi di anticipo rispetto a Sarko, consiste nel «restaurare la sovranità economica nazionale». L’insidia terribile portata alla costruzione europea dal nuovo populismo è anche nella capacità di costringere le forze politiche responsabili a inseguirlo in una drammatica sequenza di rilanci.

Di fronte a questo, la Germania si avvita nello scetticismo


L’Unione dei popoli e quella dei tecnocrati

Una via di mezzo tra rigore e crescita

Per favore, Angela adesso chiedi consiglio a Kohl...

Popoli smarriti e orfani di un progetto

di Osvaldo Baldacci

di Giancristiano Desiderio

n politica non basta avere ragione, in democrazia bisogna essere convincenti per ottenere il consenso per governare. Nei tempi recenti c’era stata una chiara deriva propagandistica che portava a cercare il consenso ad ogni costo vanificando ogni possibilità di governare. Di questa deriva sono ancora effetti in tutta Europa i movimenti populisti e antipolitici. Ma ora non si può esagerare al contrario, e cercare di governare contro il consenso popolare, ignorandolo e sfidandolo. La situazione di quasi tutti i Paesi europei, a partire dalle elezioni francesi, mostra che c’è un grande senso di insoddisfazione e di frustrazione tra la gente nei confronti delle attuali politiche europee. In particolare nei confronti dell’austerità tedesca.Vale per la Francia, ma anche per l’Olanda, per l’Irlanda che sottoporrà il fiscal compact a referendum, per la Grecia che tra pochi giorni andrà ad elezioni esplosive, per Spagna e Portogallo, per i Paesi dell’est, per la nostra Italia, e chi più ne ha più ne metta.

i cosa ha bisogno l’Europa per sconfiggere la paura? Di una leadership forte o, meglio, di una guida autorevole che non si perda in sottigliezze e ambiguità. Angela Merkel è la signora di ferro del vecchio continente. È lei che dal cuore della Germania detta la linea al resto dell’Europa. La Francia, con tutta la sua proverbiale prosopopea e tradizionale rivalità con la Germania, si è accodata e l’asse Parigi-Berlino è di fatto diventato il governo europeo. Bastano la crisi olandese e le elezioni francesi per rompere il connubio Merkel-Sakorzy?

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Ora, che la situazione economica sia quella che è, è un dato di fatto. Che la gente vorrebbe stare bene e non avere problemi è naturale, ed è anche comprensibile che sentendosi impotente provi avversione sia per chi ha causato i problemi si a per chi oggi chiede sacrifici su sacrifici per risolverli. Ovviamente la ragione sta dalla parte di chi sa che occorre rimboccarsi le maniche, stringere la cinghia e tirar fuori i Paesi europei dal pantano in cui si trovano. È l’unico modo per assicurarsi un futuro. Le vie facili non esistono, ma non si può neanche esagerare con le medicine amare e gli interventi chirurgici senza anestesia. Per cui ecco nascere ed avere successo tutta una serie di movimenti che si oppongono all’austerità europea, e magari finiscono per opporsi anche all’euro e all’Unione. Questo è controproducente. I governi europei devono da un lato mantenere la barra dritta e assumersi le importanti responsabilità (per esempio smettendola di dare all’Europa tutte le colpe delle misure più spiacevoli per poi prendersi i meriti delle cose buone), ma dall’altra devono anche iniziare a capire che bisogna dare ai popoli europei dei segnali di speranza. In questo è innegabile che un ruolo chiave ce l’ha la Germania della Merkel. È Berlino il massimo profeta dell’austerità e del rigore. E fa bene, ma se esagera nella cura il paziente muore. Un’austerità fine a se stessa non può far bene neanche alla Germania. Figuriamoci al resto d’Europa. La Germania ha il diritto e forse anche il dovere – in questa fase – di pretendere rigore dagli altri Paesi europei. Ma non può pretendere un’Europa tedesca. I diversi Paesi hanno le loro storie, le loro impostazioni, anche i loro sbagli e le loro colpe ma per portarli su una strada di maggior virtù bisogna fare un percorso che non li uccida: forse Angela Merkel dovrebbe chiedere consilgio a Helmut Kohl... Altrimenti il problema non sarà stato risolto, e anche la Germania non se ne gioverà. Questo vale tanto di più trovandoci di fronte a democrazie, dove è il popolo a decidere, non un’élite magari anche illuminata, in buona fede e dalla parte della ragione, ma autocratica. Sono i popoli a decidere, e sono perfettamente in grado di decidere giustamente e di accettare dei motivati e seri sacrifici, ma lo faranno se le classi dirigenti illustreranno loro bene le situazioni. Se si cerca solo di imporre dall’alto un rigore estremo, il rischio è quello pericolosissimo del rigetto.

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Se i francesi dovessero mandare a casa Sarkozy per far accomodare François Hollande, beh, di fatto il connubio sarebbe rotto. Ma il cambio della guardia all’Eliseo determinerebbe anche la fine della politica virtuosa europea? È lecito dubitarne perché nessuna filosofia socialista può cambiare la situazione dell’economia europea. Allora, è molto più probabile e realistico ritenere che in caso di vittoria di Hollande, la politica virtuosa dell’ex connubio continuerebbe con altri modi e altre parole d’ordine, ma continuerebbe. Il problema europeo, dunque, non è il cambio di questo o quel governo bensì l’autorevolezza e la determinazione dello stesso governo che guida l’Europa. Il governatore della Banca centrale europea, l’italiano Mario Draghi, sostiene che l’ostacolo da superare non sia l’eccesso di austerità ma l’allentarsi delle riforme. I conti dei singoli Stati vanno tenuti in ordine ma contemporaneamente bisogna continuare nel progetto di risanamento e di riforme che non può non prevedere tagli alla spesa e riduzione delle tasse. Il da farsi è noto ma è come se l’Europa - l’Europa e non, quindi, un singolo Paese o un gruppetto di Paesi - non avesse deciso di andare fino in fondo sulla sua strada. In questo momento l’autorevolezza della politica europea è tutto o quasi. Persino i modi sono importanti. Angela Merkel sembra sempre circondata da un’aria di signorina Rottemeier - la severa governante di Heidi - che forse piacerà ai tedeschi o incuterà loro rispetto e fiducia ma non funziona più di tanto con le altre genti europee. I colloqui con gli altri capi di governo sono sempre all’insegna della consegna e verifica dei compiti. Ma in questo modo la Germania ha sempre tanta responsabilità e allo stesso tempo non ne ha abbastanza. Il governo d’Europa, che è a metà strada tra Berlino e Bruxelles, deve perdere il suo profilo tecnocratico per mostrarne uno più animato che sia maggiormente in linea con i sacrifici nazionali dei singoli Stati e popoli e più sicuro e intraprendente nel mostrare la via d’uscita da un tunnel dal quale o si esce insieme o si rimane tutti al buio. È probabile che il connubio vada rafforzato, fino a trasformarsi in un triumvirato o in una leadership unica. Ma, al di là del numero dei componenti del “governo europeo”, ciò che conta è la politica del risanamento e della crescita che va perseguita con più fede e ragione. Il male che oggi blocca l’Europa è la paura ma dallo stato d’eccezione della paura si viene fuori con un’Europa più unita, non certo con un’Europa divisa. Ieri, come oggi, Parigi non val bene una messa.

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per gli eurobond, risorsa invocata ormai da molti economisti, nel Vecchio continente. Con prudenza, il primo a mettere davvero sul tavolo dei negoziati Ue l’emissione dei titoli scudo è stato proprio Mario Monti. Ora a lui si rivolge ancora Giorgio Napolitano, secondo il quale tocca al governo italiano spingere in Ue per un nuovo piano pro crescita. È una nuova strategia anticrisi l’unica arma per arginare il populismo. Ma Berlino se ne accorgerà in tempo? O preferirà coltivare il suo primato continentale di maggiore esportatore verso i Paesi emergenti, i Brics, come insinuato, opportunamente, dal Corriere della Sera di ieri? Da tempo gli analisti di mezzo Occidente, italiani compresi, mettono in guardia dal rischio di esasperare l’investimento strategico verso Cina e India, considerato che anche queste enormi potenze dell’economia globale incontreranno presto o tardi la loro curva discendente. La Germania si compiace di poter raddoppiare nel giro di tre anni il volume degli scambi commerciali con Pechino: da 144 a 280 miliardi, come promesso lunedì scorso dalla Merkel al premier cinese Wen Jiabao, all’inaugurazione della Fiera di Hannover. Ma chi è in grado di misurare le possibili ricadute che l’economia tedesca subirebbe se il colosso asiatico perdesse velocità?

In Olanda il Partito della libertà che ha appena costretto alle dimissioni il governo moderato di Mark Rutte si evoca il ritorno al fiorino esattamente come Le Pen promette di «far stampare tanti franchi alla Banca centrale da difendere l’occupazione e alzare i salari». Si recriminerà sul fatto che l’unica timida iniziativa assunta nei mesi scorsi dall’asse franco-tedesco, quella per introdurre la Tobin tax, è franata sul veto di Cameron. Ma è difficile separare l’irrigidimento di Londra da quello di Berlino sul fiscal compact, che non a caso il primo ministro inglese si è rifiutato di sottoscrivere. Così anche il tentativo di colpire, con un microprelievo, le transazioni speculative, si è perso nelle contraddizioni di un’Europa sempre più in cerca d’autore. Così smarrita da correre il rischio di non saper arginare neppure il fascismo strisciante impersonato in Ungheria da Orban. Esemplare caso in cui alla retorica antiglobalista si mescolano più chiaramente che altrove venature xenofobe. Persino antisemite – e su questo la Germania capace di ripudiare così nettamente il proprio passato peggiore dovrebbe riflettere – se è vero che quando due settimane fa gli ultranazionalisti magiari del Jobbik hanno richiamato «l’accusa del sangue» contro gli ebrei, sette parlamentari del partito di governo hanno votato la norma proposta dall’ultradestra. Dal mito della finanza usuraia alla follia antisemita, il passo, per l’Europa, sarebbe tragicamente breve.


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l’approfondimento

Il trattato sulla stabilità, il coordinamento e la governance dell’Unione europea rischia di far aumentare i voti di protesta

Morire di fiscal compact Sapelli: «Helmut Schmidt ha invitato la Merkel a seguire l’esempio di Kohl, che antepose gli interessi dell’Europa a quelli tedeschi». Vaciago: «La Cancelliera è tranquilla perché nel suo Paese a destra non ha nessuno che la disturbi» di Franco Insardà

ROMA. «Si vuole costruire l’Europa come casa comune oppure vogliamo disfare l’Unione che non siamo riusciti a realizzare? La zona euro è formata da 17 paesi, ma a comandare è la Merkel: e gli altri 16? Possibile che su 331 milioni di europei governi la Germania con i suoi 80 milioni di tedeschi? La Ue ha un Parlamento democratico, non è colpa dei tedeschi se gli altri non riescono a trovare un accordo. ll contropotere tedesco non c’è e la Germania dilaga, perché loro sono uniti e gli altri divisi. In democrazia la colpa non è mai della minoranza». È questa la fotografia impietosa di Giacomo Vaciago, professore di Politica economica all’Università Cattolica di Milano, sulla situazione europea che, sull’aumento dei movimenti nazionalisti che cavalcano la protesta aggiunge: «La signora Le Pen in Francia, l’ex premier olandese Rutt e Grillo in Italia non hanno nulla in comune e non è pensabile che possano costruire una alternativa vera, certo la confusione aumenta. L’Europa soffre senza più dignità: da Beppe Grillo, che auspica il de-

fault, alla Grecia, che sta ristampando le dracme, all’Olanda. È andata ancora bene a Parigi perchè, in caso di vittoria, Holland è un moderato che vuole soltanto discutere il fiscal compact, mentre gli altri vorrebbero uscire dall’euro». Sull’Europa è ancora più duro il suo collega Giulio Sapelli, professore di Storia economica all’Università Statale di Milano: «Non ha mai funzionato. Ci siamo illusi perché c’era una crescita spaventosa del mercato mondiale negli anni ’90. Ci si illudeva che i differenziali di produttività tra la Germania e gli altri paesi, soprattutto quelli del

Sud, non esplodessero. Un take over creato dai tedeschi, capaci nel Novecento di perdere tutte le guerre, ma di risultare sempre vincitori in pace».

Sulla miopia politica di Angela Merkel il professor Sapelli cita il discorso dell’ex cancelliere Helmut Schmidt all’ultima conferenza nazionale della Spd nel quale «ha detto alla signora Merkel che sta provocando un’ondata di antigermanesimo mai vista. Invitandola a seguire l’esempio del suo grande capo della Cdu, Helmut Kohl, che antepose gli interessi dell’Europa a quelli della Germania. A que-

L’Europa non ha mai funzionato, ma non solo per colpa dei tedeschi

sto aggiungo che la Merkel occulta, complici i giornali dell’oligopolio mondiale, che la crisi non è cominciata con le banche americane, ma con i subprime degli istituti tedeschi». Ma Vaciago fa notare: «Dove sono i lungimiranti? Tra l’altro, la Cancelliera è tranquilla perché nel suo Paese a destra non ha nessuno che la disturba. In Europa, poi, ha già detto chiaramente un anno fa che chi vuole può uscire dall’Unione. L’unica richiesta che ha fatto è quella di non sbattere la porta, anche perché la teoria, avanzata qualche anno fa, dei due euro per chi decideva di uscire non esiste

più. Bisogna tenere presente che nel mondo globale da solo non si è nessuno. Agli stessi greci, a conti fatti, converrebbe uscire dalla Ue, ma non hanno con chi allearsi. Almeno la Lega aveva le idee chiare e voleva un patto con la Tanzania, dove aveva già investito».

Per Vaciago il problema politico è che «o la maggioranza degli europei riesce a contare qualcosa a Berlino o si fanno sempre prendere in giro dalla Merkel? Bisognerà chiarire con chi si schiererà il prossimo presidente francese. Riuscirà a fare squadra con Monti, Rajoy e gli altri o andranno a Berlino in ginocchio da soli? Nei rapporti bilaterali ogni Paese è piccolo e perdente rispetto alla Germania. Non dimentichiamoci che è il nostro primo mercato e le aziende sono contente che la “locomotiva”tiri. I tedeschi sono bravissimi ad andare per la loro strada come carri armati e a ignorare il prossimo. È da quindici anni che è così e sarebbe, invece, auspicabile che il nostro governo andasse più spesso a Parigi, Londra e Madrid per riequilibrare lo strapotere di Berli-


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C’è molta attesa per la giornata nella quale molti equilibri politici muteranno

Il 6 maggio è il D-Day europeo: cambia tutto, da Atene a Parigi

Il ballottaggio per l’Eliseo; ma anche le politiche in Grecia e in Serbia, le regionali in Germania e le amministrative in Italia. In un solo giorno di Luisa Arezzo ualcuno, solo a sentirlo nominare, già evoca il D-Day dell’Europa. Altri preferiscono paragonare il 6 maggio a una sorta di super tuesday all’americana, e qualora il paragone dovesse reggere sarebbe più corretto parlare di super domenica. In ogni caso, la data è cruciale ed attesa non solo da Hollande e Sarkozy, ma anche dai mercati, dall’alta finanza e dalla Ue. Perché nella prima domenica di maggio si sono concentrate elezioni-test per l’intera Europa: il secondo turno delle presidenziali francesi, le elezioni legislative e presidenziali anticipate in Serbia, le legislative anticipate in Grecia, le regionali tedesche nello Schleswig-Holstein e le amministrative in Italia che coinvolgeranno dieci milioni di elettori. Cinque appuntamenti che peseranno (e non poco) sulle principali criticità del il Vecchio continente: dalla crisi dell’euro all’allargamento, dalla governance politica a quella economica, dalla libera circolazione (il patto di Schengen è quanto mai in pericolo, ieri anche il Wall Street Journal evocava un suo possibile irrigidimento) ai legami tra l’Ue e i cittadini financo allo stesso destino della Germania di Angela Merkel.

Q

Sullo scontro in atto fra Hollande e Sarkozy è stato già detto moltissimo, soprattutto dopo la “strepitosa” performance della Le Pen che ha scatenato una furiosa caccia al voto. In ballo c’è la revisione del patto di bilancio – come ha promesso il socialista François Hollande (tema peraltro su cui l’Irlanda è chiamata al referendum a fine maggio) - e la ridefinizione degli accordi di Schengen – come ha chiesto il presidente Nicolas Sarkozy, che in caso contrario minaccia di far uscire la Francia dallo spazio di libera circolazione. Senza contare il tramonto del rapporto privilegiato con la Germania di Angela Merkel, che comunque vada è destinato a mutare significativamente. In Grecia, il 6 maggio gli elettori daranno un nuovo governo al Paese, dopo la parentesi dell’esecutivo tecnico guidato da Lukas Papademos, e il risultato che uscirà dalle urne aiuterà a capire se e come il Paese più a rischio bancarotta dell’Unione europea riuscirà a superare la peggiore crisi economica dal dopoguerra e a mantenere i patti stabiliti con la troika del Fondo monetario internazionale, della Banca centrale europea e della Commissione europea. Secondo un recente sondaggio, alla domanda «Chi ritiene il candidato più adatto al ruolo di premier?» 24,3 greci su cento hanno risposto, a sorpresa, Evangelos Venizelos, ossia il nuovo leader del Pasok, il movimento socialista panellenico il cui ex capo

carismatico, dimissionario dallo scorso autunno, George Papandreou, si decise a chiedere l’aiuto finanziario alla Ue e al Fmi. Samaras, leader del centro destra, che a lungo si è opposto all’ingerenza della troika nella crisi economica ellenica, è scelto invece da 23,8 greci su cento. Dunque occhi puntati su un esito elettorale più che incerto. Abbastanza sicura, invece, la riconferma in Serbia di Boris Tadic, che ha approfittato delle legislative per rimettere

Il voto tedesco ha un’importanza particolare: potrebbe dare la spinta alle elezioni anticipate il proprio mandato e provare a ottenere carta bianca per la sua politica europeista. Come giustamente scritto da Eric Maurice «se sarà rieletto con una maggioranza in parlamento, avrà il margine necessario per avvicinare il paese alla Croazia nel percorso verso l’adesione all’Ue e la conseguente stabilizzazione dei Balcani occidentali. In caso di vittoria la sua politica di abban-

dono discreto delle rivendicazioni sul Kosovo, condizione posta dall’Europa per avviare il processo d’adesione, potrebbe diventare irreversibile, nonostante le tensioni che animano ancora l’ex provincia jugoslava». Ma visto che secondo i sondaggi i candidati alla presidenza delle due coalizioni (Tadic e Nikolic) sono quasi alla pari, se così non fosse i nodi al pettine tornerebbero subito a farsi sentire.

A dispetto delle apparenze, poi, anche in Germania tira aria di elezioni anticipate qualora i liberali della Fdp dovessero fallire l’obiettivo di tornare nei parlamenti regionali dello SchleswigHolstein e del Nordreno-Westfalia (Nrw) nelle rispettive elezioni del 6 e del 13 maggio. A scriverlo è la sempre bene informata Bild . Un importante esponente del partito liberale ha dichiarato al giornale che «il cancelliere vede il proprio futuro in una Grosse Koalition, che potrebbe realizzare rapidamente». Il ragionamento che starebbe facendo la Cancelliera gira intorno al fatto che in caso di elezioni anticipate i liberali potrebbero rimanere fuori dal Bundestag, dove entrerebbero invece i Piraten. Con un quadro del genere non sarebbe possibile nè una riedizione dell’attuale governo nero-giallo, nè un governo rosso-verde, con l’unica alternativa possibile della Grosse Koalition con la Spd, guidata dalla Merkel come avvenne dal 2005 al 2009. In questo modo il cancelliere si assicurerebbe senza sforzo la permanenza alla guida del governo tedesco per altri quattro anni, anche perché a livello nazionale con l’attuale 36% la Cdu/Cdu sopravanza largamente il Partito socialdemocratico, quotato al di sotto del 30%. Secondo la Bild, per far cadere l’attuale governo alla Merkel basterebbe mettere in votazione al Bundestag uno dei tanti temi su cui esiste un forte contrasto con la Fdp, come quello della tassazione sulle transazioni di Borsa. Nel caso in cui la maggioranza di governo risultasse battuta, il presidente della Repubblica, Joachim Gauck, potrebbe difficilmente rifiutarsi di sciogliere il Parlamento. Infine in Italia dieci milioni di elettori voteranno per le amministrative. Il risultato non inciderà particolarmente sul programma del Governo Monti, ma nel caso di qualche (probabile) batosta ai grandi partiti, si potrebbe aprire una fase di instabilità che certamente peserebbe non poco sui mercati finanziari. Esattamente come peseranno tutti gli altri test elettorali del 6 maggio. L’Europa è avvisata.

no. Si potrebbe paragonare la situazione attuale a una ruota di bicicletta con la Germania a fare da mozzo e gli altri 16 da raggi: se ne manca uno a turno la ruota gira, ma se si rompe il mozzo si ferma tutto. Possono cioè essere i tedeschi a uscire dall’Unione, come hanno minacciato un anno fa, ed è stata la Merkel a far rientrare la situazione». Il professor Sapelli insiste sulla politica deflattiva degli altri stati europei «mainstreaming, al quale il premier Mario Monti appartiene, dimenticando la famosa frase di John Kenneth Galbraith, secondo il quale in situazione di crisi una politica di austerità è suicida. Cosa che, purtroppo, sta accadendo». «Mario Draghi - continua Vaciago - anni fa, in una conferenza in Ancona, rilesse le leggi fondamentali della stupidità umana di Carlo M. Cipolla che descriveva come l’Italia nel Seicento in tre generazioni tornò a essere un Paese di affamati, analfabeti e poveri, dopo essere stati per 150 anni al vertice del mondo. A forza di declino e decadenza il Vecchio Continente è destinato inevitabilmente a tornare indietro e non è la prima volta».

Sui rapporti economici internazionali di Berlino con i paesi emergenti del Brics Vaciago dice chiaro: «Mi stupisco che ci si accorga oggi che la Germania ha ottimi rapporti con la Cina. Sono quindici anni che i tedeschi sono il primo partner cinese e la crisi momentanea dell’export tedesco è da attribuire alla frenata cinese. La Germania è la Cina in Europa, ma non lo scopriamo oggi. Berlino è globale. Cito un episodio molto esplicativo che si riferisce alla visita del presidente della Repubblica Ciampi a Pechino, insieme ai nostri industriale. A metà incontro la delegazione italiana viene cordialmente salutata, perché stava arrivando il Cancelliere tedesco Gerhard Schroeder alla sua sesta visita in Cina». E Sapelli conferma: «Era già così prima dell’euro, quando la Germania esportava in Cina il 38 per cento del prodotto interno lordo, oggi è al 39. La Germania va per la sua strada perché ha un modello economico costruito così, bisognava che non si fosse sudditanza da parte dei banchieri centrali. Siamo stati consegnati all’euro, in un rapporto uno a due, cosa che ha danneggiato irrimediabilmente la produttività italiana». Il possibile default europeo per Sapelli sarebbe «un’ipotesi molto complicata perché l’oligopolio finanziario mondiale non vuole. L’Europa si avvierà a una morte lenta, durante la quale le banche internazionali faranno un sacco di soldi, giocando al ribasso sui titoli di Stato. Dopo la primavera araba gli americani hanno tutto l’interesse a sostenere ancora il Vecchio continente. Per fortuna».


mondo

pagina 6 • 25 aprile 2012

Pubblicata la sentenza che ha annullato il processo: «Deve essere provato il concorso esterno tra il 1977 e il 1982»

Silvio e il Mediatore Dell’Utri trattò con Cosa Nostra: poi pagò per conto di Berlusconi, dice la Cassazione di Marco Palombi

ROMA. Colpa dei magistrati. Sempre loro. E per uno che si rifiuta di fare il giudice persino nei «piccoli spettacolini di burlesque» che alcune ragazze organizzano a casa sua deve essere proprio uno smacco difficile da digerire. Sì, questo è il pezzo di una precedente era geo-politica e si occupa della vita pubblica di Silvio Berlusconi: il nostro infatti, ieri mattina, aveva pensato bene di fare la sua rentrée sulla scena mediatica, ma quelli, i magistrati, gliel’hanno rovinata. Roba già sentita, come si vede. Il Cavaliere s’era presentato alla Camera per incontrare quelli che un ottimista definirebbe i dirigenti del suo partito, s’era persino fermato a pranzo nel ristorante di Montecitorio per la prima volta in 18 anni di mandato parlamentare, proprio mentre i suoi ascari lasciavano al solito filtrare dichiarazioni da prima pagina che sarebbero comunque state smentite oggi e invece…. i giudici. Quelli di Cassazione, per di più, quelli con cui ha il rapporto più rilassato e felice. La cosa più fastidiosa è che proprio quelli che gli hanno rovinato la giornata ieri, i componenti della quinta sezione della Suprema Corte, li ave-

va elogiati giusto un mese e mezzo fa, ad inizio marzo, quando avevano annullato la condanna per concorso esterno in associazione mafiosa per Marcello Dell’Utri rinviando il processo in appello.

E allora? Il problema è che ieri – come prescrive la legge, ma questo è un dettaglio – gli ermellini hanno depositato anche le motivazioni di quella sentenza: nessuna assoluzione mascherata, nessuna critica al reato di concorso esterno, anzi. La Cassazione ci tiene a soste-

anni pagò il pizzo ai Corleonesi grazie all’intermediazione di Dell’Utri.Va, invece, dimostrato - ritiene la Cassazione - che l’inventore di Forza Italia sia stato al servizio di Cosa Nostra pure mentre lavorava per il finanziere Filippo Alberto Rapisardi, tra il 1978 e il 1982: è questo il “vuoto argomentativo”che ha portato all’annullamento della sentenza di colpevolezza in appello.

In sostanza, le 146 pagine di motivazioni che hanno mandato il pranzo per traverso al

È pienamente riscontrato, scrivono i giudici, «il tema dell’assunzione - per il tramite di Dell’Utri di Mangano ad Arcore, come la risultante di convergenti interessi di Berlusconi e di Cosa nostra» nere che «è probatoriamente dimostrato che Marcello Dell’Utri ha tenuto un comportamento di rafforzamento dell’associazione mafiosa fino ad una certa data, favorendo i pagamenti a Cosa Nostra di somme non dovute da parte di Fininvest». Somme “cospicue”, che Silvio Berlusconi versava alla mafia «in stato di necessità»: in sostanza l’ex premier per lunghi

Cavaliere danno ragione alla Procura di Palermo. Peggio. Credono ai “pentiti”: «La motivazione della sentenza impugnata (quella d’appello, ndr) si è giovata correttamente delle convergenti dichiarazioni di più collaboratori a vario titolo gravitanti sul o nel sodalizio mafioso Cosa nostra - tra i quali Di Carlo, Galliano e Cocuzza - approfonditamente e

congruamente analizzate dal punto di vista dell’attendibilità soggettiva». Pure sulla vicenda di Salvatore Mangano, lo “stalliere” assunto ad Arcore dal Cavaliere, in realtà boss della famiglia mafiosa di Porta Nuova e trafficante internazionale di droga, brutte notizie per il mero proprietario di Mediaset: è pienamente riscontrato, scrivono i giudici, «il tema dell’as-

sunzione - per il tramite di Dell’Utri - di Mangano ad Arcore come la risultante di convergenti interessi di Berlusconi e di Cosa nostra» e pure «il tema della non gratuità dell’accordo protettivo, in cambio del quale sono state versate cospicue somme da parte di Berlusconi in favore del sodalizio mafioso che aveva curato l’esecuzione di quell’accordo, essendosi po-

Terremoto sul Carroccio in seguito alle dichiarazioni dell’ex dirigente Finmeccanica. Indagato anche l’ad Giuseppe Orsi

Tangenti alla Lega? Maroni: «Adesso basta!» ROMA. Da Napoli a Lugano si passa per la Padania: le dichiarazioni rese dall’ex capo delle relazioni esterne di Finmeccanica Lorenzo Borgogni hanno portano i magistrati napoletani fino in Svizzera. E da lì, al ritorno, nel libro degli indagati hanno scritto anche il nome dell’amministratore delegato di Finmeccani, Orsi. Al centro di tutto questo giro c’è una traccia ipotetica di riciclaggio e tangenti: un affare da 51 milioni di euro che fa tremare la Lega e allunga ombre sull’attuale amministratore delegato del colosso di Stato, Giuseppe Orsi. I fatti sono stati resi noti ieri e hanno messo a scompiglio il mondo politico.Vediamoli: l’abitazione e dieci società ritenute riconducibili a Guido Ralph Haschke, imprenditore con la doppia cittadinanza che si muove prevalentemente sul mercato indiano, sono state perquisite lunedì a Lugano dalla Procura di Napoli.

L’affare sarebbe legato alla vendita di un pacchetto di dodici elicotteri sul mercato internazionale. Il Triumviro si sente minacciato e contrattacca: «Questa roba con noi non c’entra nulla». E già si parla di un «Lega Day» per rilanciare il partito

te le mie funzioni in Finmeccanica». Ebbene: nell’affare elicotteri in India sarebbe stata riconosciuta, a titolo di intermediazione, una somma che, da 41 milioni di euro iniziali, è lievitata fino alla cifra definitiva di 51 milioni. Un aumento di dieci milioni che si sarebbe reso necessario, è l’ipotesi prospettata da Borgogni, non solo per garantire il compenso pattuito con Haschke, ma soprattutto per soddisfare le richieste, stavolta di tangenti, di un altro intermediario che avrebbe ”girato”a politici della Lega parte del suo maxi onorario. Forse proprio quei 10 milioni aggiunti in extremis.

stratore Giuseppe Orsi, oggi al vertice di Finmeccanica. Al rientro dalla Svizzera, gli inquirenti sono apparsi ottimisti.Tra le carte e i contratti sequestrati ad Haschke, avrebbero trovato prime, importanti con-

Ed ecco che scoppia la bomba. Borgogni, scendendo nei dettagli, dice ai pm di Napoli: di quei 51 milioni, 20 sarebbero andati ad Haschke come compenso pattuito preventivamente per la sua ricono-

di Gualtiero Lami Sul decreto, ottenuto per rogatoria dalla Procura federale della città svizzera, torna l’ipotesi di corruzione internazionale. L’indagine parte dalla vendita di 12 elicotteri al governo indiano da parte di Agusta Westland, la società di cui è stato ammini-

ferme al quadro delle accuse. «Siamo molto soddisfatti, andiamo avanti», hanno commentato gli investigatori. Del resto, la vicenda raccontata da Borgogni – sentito più volte come teste dai pm Francesco Curcio, Vincenzo Piscitelli e Henry

John Woodcock, che con il procuratore aggiunto Francesco Greco, coordinano l’inchiesta sugli appalti Finmeccanica – è molto complessa: «Riferisco in maniera trasparente quello che ho appreso duran-


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finalizzato alla realizzazione di evidenti risultati di arricchimento». E ancora: «Un patto che, peraltro, risentiva di una certa, espressa propensione dell’imprenditore Berlusconi a “monetizzare”, per quanto possibile, il rischio cui era esposto e a spostare sul piano della trattativa economica preventiva l’azione delle fameliche consorterie criminali». Tradotto: il Cavaliere non ha avuto grossi scrupoli morali ad accordarsi con Cosa Nostra, era solo un ostacolo come un altro sulla via del profitto.

Parole dure da mandare giù, specialmente nella giornata della rentrée. S’era affannato tutta la mattina, Berlusconi, per inviare in giro i suoi messaggi: «È possibile che si vada a votare a ottobre», aveva spiegato ai coordinatori regionali del Pdl, e in quel caso «è probabile che vinca la sinistra visto che la Lega ha deciso masochisticamente di andare da sola alle amministrative». Il Cavaliere, però, ha l’arma fine di mondo: «Noi speriamo che i moderati si possano presentare insieme alle prossime elezioni - ha buttatò lì alludendo all’Udc - I moderati dal 1948 a oggi sono la maggio-

sconi - sottoporremo un altro nome per il nostro partito che però resta lo stesso, composto dalle stesse persone che credono nelle stesse cose». Della struttura liquida e senza fondi pubblici annunciata da Angelino Alfano per il dopo-amministrative nessuna traccia, ma tanto non è che ci avesse creduto nessuno (il segretario, però, stavolta ha spiegato che ci sarà una grande iniziativa per i 18 anni della “discesa in campo” del capo, perché i nati nel 1994 – nati e cresciuti nell’era Berlusconi – alle prossime politiche andranno a votare).

Quanto alla legge elettorale, dice l’ex premier che si sta ”lavorando ad un sistema elettorale che si avvicini a quello tedesco”. Infine, a pranzo, uno dei grandi classici: il lamento sul grosso risarcimento che Mediaset deve a Carlo De Benedetti per avergli rubato la Mondadori. Pier Ferdinando Casini, tirato in ballo dal Cavaliere sulla cosiddetta “unità dei moderati”, ha sostanzialmente glissato, denunciando però un tentativo di “sabotare la riforma elettorale”sia da destra che da sinistra. Pierluigi Bersani, invece, ha risposto al Cavaliere che «il Pd

In mattinata, l’ex premier aveva fatto la sua rentrée a Montecitorio attaccando la sinistra: «Vogliono votare a ottobre perché vincerebbero». Poi ha promesso un nuovo nome e un nuovo partito sto anche come garante del risultato». L’accordo protettivo a cui si riferisce la Cassazione, in sostanza, è il seguente: io (Mafia) non faccio del male a te, alla tua famiglia e alle tue aziende e tu (Berlusconi) in cambio mi paghi. Insomma, non ci sono “valide alternative” alla ricostruzione per cui l’assunzione di Mangano rientra in «un accordo di natura pro-

tettiva e collaborativa raggiunto da Berlusconi con la mafia per il tramite di Dell’Utri che, di quella assunzione, è stato l’artefice grazie anche all’impegno specifico profuso da Cinà (mafioso e amico del senatore Pdl, ndr)». Quanto al ruolo dell’ex presidente del Consiglio, rimane quello di vittima del suo amico (non è mai stato un imputato in questo

sciuta attività professionale di intermediazione all’estero. Il resto, sempre secondo il racconto di Borgogni, sarebbe stato versato dal gruppo Finmeccanica a un altro professionista, un uomo che affiancava Haschke e indicato come ”referente”di Giuseppe Orsi, il manager già al vertice di Agusta, in quel momento in procinto di diventare – con il decisivo sostegno della Lega Nord – amministratore delegato di Finmeccanica al posto di Piefrancesco Guarguaglini. Per Borgogni, l’intermediario ancora senza nome era il collettore delle tangenti dirottate verso le due anime della Lega, all’epoca non ancora irrimediabilmente spaccate tra i maroniani e i fedelissimi di Bossi. Ora le indagini dovranno ora approfondire la natura dei rapporti tra Haschke e Orsi.

Ed è proprio quello che stanno facendo i magistrati, cercando di verifcare tutta la faccenda. Così sono partiti i contatti con il procuratore federale di Lugano. Ed è stata avviata la rogatoria. Lunedì, la svolta. I pm indagano per corruzione internazionale e riciclaggio. Nel corso delle perquisizioni è stata acquisita documenta-

processo), ma con un ritratto in chiaroscuro: pagò “in stato di necessità”, cioè minacciato, ma in realtà «la consorteria mafiosa aveva, grazie all’iniziativa di Dell’Utri, siglato con l’imprenditore un patto, all’inizio non connotato e tanto meno sollecitato da proprie azioni intimidatorie (cioè si accordò senza nemmeno essere stato minacciato, ndr) oltre che

zione ritenuta estremamente utile allo sviluppo di un’inchiesta dagli sviluppi potenzialmente esplosivi. Haschke avrebbe fornito le prime risposte sempre alle autorità elvetiche, nelle prossime ore sarà interrogato come indagato alla presenza del suo avvocato.

È ovvio però che la faccenda abbia provocato ieri un vespaio politico. La Lega è già abbastanza nei guai di suo perché possa permettersi l’apertura di un altro

ranza del paese, se si dividono consegnano la maggioranza alla sinistra». Al prossimo congresso, ha poi promesso, verrà discussa l’ipotesi di cambiare il nome del partito. Ammesso e non concesso che questa assise si faccia, c’è da scommettere che i delegati avranno ben altre cose da discutere, ma tant’è: «L’acronimo Pdl non suscita emozione – ha spiegato Berlu-

fronte di indagine. Anche perché un conto sono i diamanti e le lauree comprate (quasi una fiera delle vanità), un conto sono le tangenti.Tanto più una maxi tangente da 10 milioni di euro! Ecco perché in difesa della Lega ieri è sceso anche il paladino della pulizia, Bobo Maroni in persona. Tanto per cominciare, in mattinata, il Carroccio ha diramato un comunicato ufficiale: «La Lega Nord è totalmente estranea alla vicenda Finmeccanica e non ha mai preso alcuna tangente». Dopo di che,

mantiene la parola data: per noi si vota nella primavera del 2013. Se Berlusconi ha problemi, lo dica ma mi consenta di lasciare a me la parola sul Pd». Un’unica domanda è rimasta senza risposta: ma se Berlusconi è stato taglieggiato da Dell’Utri per conto della mafia, perché lo ha candidato in questi anni e lo candiderà anche alle prossime elezioni?

la solita minaccia: «Chi associa la Lega Nord a questa vicenda sarà perseguito in sede civile e penale”. Il segretario in pectore, poi ha aggiunto di suo sulla sua pagina Facebook: «Ho letto anch’io sui giornali stamattina le insinuazioni su presunte tangenti alla Lega da parte di finmeccanica. Per quanto ne so io è una cosa fuori dal mondo. Cosa c’entriamo noi con Finmeccanica?». In effetti è la stessa domanda che si pone la magistratura. Ma poi Maroni continua in modo sprezzante: «Le insinuazioni di un ex dirigente di Finmeccanica, licenziato dal nuovo presidente Giuseppe Orsi, orecchiate da qualche parte su “presunti finanziamenti illeciti ai partiti”sono diventate sui giornali di oggi “tangenti alla Lega”: viva la libera stampa... si fa per dire...». Tutta colpa dei giornalisti: anche questo è un classico. Come pure la chiosa volgarotta: «Ma la Lega non si fa intimidire di certo da queste stronzate fangose». Salvo che la pressione della magistratura e della stampa non devono essere troppo diverse da quelle dei militanti, se Maroni ha sentito il bisogno di lanciare un «Lega unita day», forse il primo maggio.


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l tennis può avere sugli spettatori un effetto di attrazione fatale o di rifiuto totale o, peggio, di indifferenza. Quella pallina che va avanti e indietro sulla rete mentre i due tennisti a bordo campo (ma non sempre) vanno da destra a sinistra cercando di mettere la palla nell’angolo giusto in cui l’altro non riuscirà a prenderla può avere senz’altro qualcosa di snervante. Non solo per chi gioca, per chi arbitra e per chi assiste, ma anche per chi ne fa la telecronaca. Guido Oddo, che ai miei tempi era il principe dei telecronisti del tennis, amava ripetere una battuta: «Una partita di calcio dura novanta minuti, noi possiamo stare qui anche cinque ore». La partita di tennis si sa quando inizia ma non quando finisce. In teoria potrebbe andare avanti anche all’infinito. Se nessuno dei due giocatori sbaglia si può andare avanti senza fine. Il gioco in questa sua infinità esprime la sua sovranità, mentre i giocatori ne sono gli interpreti. «Il tennis è il gioco del sovrano, dunque il sovrano dei giochi». La filosofia sempre più spesso lascia le aule delle lezioni per provare a fare lezione in campo o, più naturalmente, per mettersi in gioco. L’ho fatto in prima persona con il calcio mostrando come il calcio non è solo, come vuole J.P. Sartre, una metafora della vita ma una vero modello cognitivo che basandosi sul pluralismo e non sul monismo mette in scacco la volontà di potenza e la volontà di verità che è insita nella storia della filosofia a tal punto da potersi trasformare in una ragione e in una volontà totalitarie. Il motivo di questo felice incontro tra pensiero e calcio è nel gioco che aiuta a ridefinire l’idea di es-

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il paginone sere non mettendola (completamente) a disposizione della volontà umana. Ecco perché la filosofia - che per altro fin dal nome si porta dietro l’idea di gioco - si può praticare sia in un campo di calcio, sia in un campo da tennis o in un altro qualunque campo da gioco in cui l’uomo fa esperienza delle sue possibilità e dei suoi limiti.

Carlo Magnani, che è ricercatore di Istituzioni di diritto pubblico alla “Carlo Bo”di Urbino, ha scelto il campo da tennis provando a sostenere una analogia tra la condizione del soggetto moderno e la tecnica del tennis. In campo, proprio come nel calcio, ci sono tanto i giocatori quanto i filosofi: Cartesio, Hobbes, Spinoza ma anche Laver, Jimbo e lui, Björn Borg. Per chi ha la mia età, Borg è qualcosa di più di un giocatore di tennis. Sempre che s’intende - quella pallina che va avanti e indietro sulla rete del campo centrale di Wimbledon non vi sia indifferente. Non è mia intenzione spiegare il libro di Magnani che s’intitola in modo chiaro Filosofia del tennis, è edito da Mimesis e ha un sottotitolo che è la parafra-

A destra John McEnroe, sotto Ilie Nastase. In basso a sinistra Björn Borg e Spinoza; a destra, Adriano Panatta e Giordano Bruno. Il libro di Carlo Magnani, edito da Mimesis, s’intitola “Filosofia del tennis. Profilo ideologico del tennis moderno”

Essere e tennis, d La condizione del soggetto moderno analizzata attraverso le tecniche del sovrano dei giochi. Mettendo in campo giocatori e filosofi. A partire da un libro di Carlo Magnani di Giancristiano Desiderio si di un famoso titolo di Bobbio: profilo ideologico del tennis moderno. Questo lo potete fare personalmente. È mia intenzione, invece, soffermarmi su alcune pagine centrali della lunga partita di tennis proposta dal filosofo del diritto e del rovescio. Sono le pagine legate ai filosofi della libertà e della racchetta: Borg, Nastase e Panatta. Il primo a mettere la palla in gioco è lo svedese. Quando si parla di Borg è quasi impossibile non tirare

in ballo anche McEnroe, cosa che avviene anche nel libro di Magnani, ma qui facciamo un’eccezione alla regola. Soffermiamoci sulla libertà di Borg che è un particolare tipo di libertà che è

Lo stile del campione svedese come del filosofo olandese è quello della libertà come necessità. Panatta invece richiama Giordano Bruno: libertà come possibilità spiccatamente filosofica e morale e coincide con la necessità, perché ha al suo fondo la passione per la conoscenza e dunque la verità.

McEnroe è senz’altro un genio. Ricordate? Servizio e discesa a rete per concludere la giocata sottorete. Ma in questa bellezza del gioco di McEnroe c’è già troppa emotività, troppa passione, troppa immaginazione. Non sempre il colpo riesce. «Non è il genio, non è il semplice desiderio a costruire la realtà - dice Magnani -: cioè non basta l’atto d’imperio della volontà a creare un efficace rapporto con le cose. L’immaginazione rischia semmai di essere nemica della libertà umana nella misura in cui allontana dalla verace comprensione; e anche le emozioni e le passioni hanno bisogno di essere lette dentro un’etica razionale. Borg pone il soggetto come mai prima nella storia del tennis, rivoluziona le tecniche di esecuzione dei colpi fondamentali, il modo di arrivare sulla palla, tutto all’insegna


il paginone spalti di Wimbledon e saltellare sul campo provando a giocare». Nel 1976 Nastase perse nella finale di Wimbledon proprio contro Borg: il pluralista perse contro il monista, lo storicista fu sconfitto dal razionalista e per contestare l’arbitro rimase sul servizio a sinistra mentre Borg serviva a destra. I due modelli, del resto, sono l’uno la critica - non dirò il rovescio - dell’altro e, forse, proprio questa loro reciproca critica ce li rende entrambi indispensabili, tanto nel campo da gioco di Wimbledon quanto nel campo della vita.

Adriano Panatta? Famoso per il colpo che ha un nome di donna: veronica. Ma, certo, non è paragonabile al monista o al pluralista. Tuttavia, anche Adriano Panatta ha il suo posto nella storia del tennis perché, dopotutto, anche il tennis ha una sua dimensione storica. Forse, soprattutto il tennis: «Dal punto di vista tecnico Adriano era un giocatore abbastanza tradizionale, aveva dei colpi che portava in maniera classica: un ottimo servizio, un diritto potente giocato con una impugnatura aperta, come usava allora; mentre il rovescio era meno sicuro specie in difesa e nei giorni poco felici, anche se lo slice di attacco era uno dei suoi punti di forza. Il carattere innovativo di Panatta non sta tanto nella tecnica in sé, quanto nell’insieme di contesto storico e di strategia di gioco in cui il tennista romano ha saputo esprimere il suo tennis, conferendogli grande originalità». Proprio la libertà è il modo in cui il tennista italiano, che si affermò negli anni

da Borg a Spinoza della rigorosa applicazione materialistica, dello studio, verrebbe da dire, delle possibilità scientifiche date allo sport della racchetta. C’è poca “soggettività” nella sua condotta sul campo, manca la prorompenza di Connors, la personalità brillante di Laver, l’istrionismo di Nastase. Eppure il fascino che emana è profondo, tanto da conquistare come nessuno, prima e dopo di lui, la cattedrale del tennis Wimbledon».

È vero e lo si può dire con una formula di sintesi e chiarezza: Borg è il tennis. La sua capacità di fare gioco e di diventare esso stesso gioco è esemplare perché razionale, geometrica, identica a se stessa. La sua libertà è l’adesione o la adeguazione della necessità. Ma se è il tennis ne è anche la sua fine o il suo hegeliano compimento. Per questo Borg uscì presto di scena. Con lui tutta la razionalità del tennis si realizzò e tutta la realtà del tennis si razionalizzò. Ilie Nastase è un’altra cosa. Dopo i tre grandi rumeni Mircea Eliade, Eugéne Ionesco ed Emil Cioran, proprio Nastase ha fornito «il maggior contributo alla diffusione della cultura del suo Paese». Il suo tennis era brillante e incredibilmente vario e proprio Borg affermava che ogni palla del rumeno giungeva differente dalla precedente. Nastase non era prevedibile. Il suo modello di

libertà non rientra nel razionalismo monista di Borg/Spinoza ma in quel pluralismo che mette proprio in questione i presupposti stessi della filosofia tennistica dello svedese. «Quando Nastase era in campo - nota giustamente Carlo Magnani - non erano solo le palline a sottostare a variazioni di taglio e traiettoria, ma l’intero macht a subire diverse perturbazioni.

Il genio di McEnroe trabocca di sentimenti che potenzialmente allontanano dalla comprensione. Mentre il modello di Nastase rientra nel razionalismo monista Era più forte di lui, come ammise più volte: quando il pubblico lo ammirava il tennis finiva per diventare il pretesto per una esibizione totale, forse anche narcisistica, della sua personalità. Ogni occasione era buona per parlare con gli spettatori o contestare l’arbitro; per mettersi in testa, al Roland Garros, il cappello del giudice di linea prima di servire; per disputare un incontro, vincendolo, coi soli calzini e senza scarpe; o per prendere un ombrellino dagli

Settanta, ha sempre interpretato il suo gioco: «Quando sconfisse Pietrangeli, ai Campionati italiani assoluti del 1970 a Bologna, in una partita di cinque set che tutti ricordano, non si trattò di una vittoria meramente tecnica. Attraverso il trionfo del figlio del custode del Circolo Parioli, il tennis italiano semplicemente si dee mocratizzò trovò così modo di stare dentro i tempi nuovi». Il tennista italiano non ha vinto molto ma le sue vittorie hanno qualcosa di significativo per la storia e per il tennis. Il vero antiBorg - almeno questa è la tesi sostenuta da Magnani - non è McEnroe ma Panatta. Le vittorie dell’italiano sullo svedese sono sei. Non poche. Due di queste sono parigine e proprio queste due vittorie di Panatta sulla terra battuta del Roland Garros hanno impedito a Borg di vincere otto volte su otto a Parigi. L’italia-

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no è la migliore incarnazione della filosofia di Bruno nel tennis. Il Nolano non è per la necessità sulla libertà ma, prima con la vita che con lo stesso pensiero, è per la libertà sulla necessità. Panatta è il Bruno del tennis: «Era un attaccante da terra rossa nel momento in cui il tennis si stava specializzando e i giocatori di rete iniziavano a essere confinati sui terreni veloci. Lui no, lui giocava sulla terra all’attacco, con i diritti potenti e rovesci tagliati lungo linea da togliere il fiato, mettendo volée in ogni dove del campo, tuffandosi come un portiere di calcio per ribattere passanti angolati e insidiosi». Ecco, questo accenno al calcio mi pare la conclusione migliore per il pezzo. La differenza tra il Borg/Spinoza e il Panatta/Bruno potrebbe andare avanti all’infinito, proprio come una partita di tennis che non si decide a finire, mentre Guido Oddo si lamenta della lunghezza estenuante dell’incontro e ironizza sui comodi novanta minuti della partita di calcio. Proprio come l’eterna partita della filosofia che si riapre proprio quando sembra ormai volgere alla fine. La differenza tra Borg/Spinoza la libertà come necessità - e Panatta/Bruno - la libertà come possibilità - è il motore interno della vita del pensiero e dell’azione nella quale siamo immersi fin dalla nostra nascita: è un gioco che un po’ esiste senza di noi e un po’ ha bisogno di noi per essere.


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Perché l’inviato del Palazzo di Vetro e della Lega Araba ha fatto un buco nell’acqua

Fallimento Kofi Annan Mesi di negoziati non hanno messo alcuna paura ad Assad. Anzi. L’Onu mostra tutta la sua debolezza (e quella di Obama). E l’Iran si appresta a vincere di John R. Bolton n Siria la guerra continua: nonostante mesi di negoziati condotti dall’ex segretario delle Nazioni Unite, Kofi Annan, e a dispetto di tutte le decisioni del Consiglio di Sicurezza. È durato lo spazio di un niente lo stop alle violenze promesso dal regime la scorsa settimana e nonostante sabato scorso il Consiglio abbia portato il numero degli osservatori in Siria a 300, i civili continuano a morire. La dittatura di Ba-

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shir al-Assad viola apertamente il cessate il fuoco di Annan e soprattutto non dà segno di essere pronta alla resa. Ma perché Washington e l’Occidente sono incapaci di porre fine al conflitto siriano? Perché l’Amministrazione Obama è così paralizzata? Due le principali ragioni: la prima è che il presidente Obama spinge per una soluzione in seno all’Onu quasi certamente destinata a fallire; la seconda è che

la Casa Bianca si rifiuta di guardare al vero pericolo siriano, incarnato dagli ayatollah iraniani. I negoziati di Annan si sono tenuti nel teatro dell’Onu, concedendo così ad Assad la possibilità di usare le sue milizie contro gli oppositori, mentre una lentissima diplomazia si metteva in moto per partorire un piano di pace che qualsiasi dittatore avrebbe adorato. Capirete: contravvenire al piano Onu non ha generato altro che l’avvio di

andare a monitorare una dimostrazione anti-Assad (che è esattamente quello che dovrebbero andare a fare) per evitare - questa la loro giustificazione di interferire nelle proteste. Uno simile dichirazione potrebbe anche far ridere se le sue conseguenze non fossero così gravi. E infatti ci sono già alcune voci in seno agli inviati che esplicitamente denunciano il peso piuma che questa la missione avrà sul conflitto.

Il segretario di Stato Hillary Clinton la scorsa settimana ha proposto al meeting degli ”Amici della Siria” un embargo di armi contro il governo siriano nel caso questo continuasse a bombardare i civili. La sua proposta, però, non sembra essere stata accolta da nessuno. La Francia, per esempio, che tanto si è sbilanciata contro Assad, è stata muta. Comprensibile, visto che è nel pieno di una

Gli osservatori militari mandati a controllare la situazione non sono imparziali. «Si rifiutano anche di andare a vedere una manifestazione anti-regime» denuncia l’ex ambasciatore Usa all’Onu una nuova consultazione diplomatica. E anche lo stesso aumento degli osservatori militari è arrivato soltanto dopo che il regime di Damasco aveva acconsentito al loro invio, non a dispetto del suo volere. Ma a preoccuparmi è anche il fatto che gli osservatori in campo non sembrano esattamente imparziali. Venerdì scorso, per esempio, si sono rifiutati di

tornata presidenziale che potrebbe veder salire all’Eliseo il socialista Hollande, decisamente più pro-Assad di Sarkozy. Senza considerare che alla convention degli Amici della Siria mancavano sia la Russia che la Cina, a significare la forte divisione che attanaglia le Nazioni Unite. Dato il loro doppio veto di Febbraio contro ogni sanzione più dura ci sono abbastanza motivi per dubitare che l’Onu possa mai

avallare un embargo sulle armi, soprattutto visto che la Russia è fra i principali fornitori d’armi del regime. Un embargo Onu richiederebbe di invocare l’articolo VII della Carta, che Mosca e Pechino hanno più volte disatteso, specialmente dopo l’affaire Libia. Allora, il Consiglio di Sicurezza aveva spinto ad agire per prevenire una catastrofe umanitaria, e su quella dichiarazione la Nato si era inserita per facilitare l’uscita di scena di Gheddafi. È evidente che Russia e Cina eviteranno di commettere lo stesso errore un’altra volta. Al massimo, potranno spingersi a chiedere un embargo totale, che riguardi sia Assad che l’opposizione. Una misura che in seno alle Nazioni Unite potrebbe finire con il prevalere, in nome di una sorta di moral equivalence. La stessa che vent’anni fa portò l’Onu all’embargo totale di armi nella ex Yugoslavia, e si è visto con quali risultati.

Ma il vero fallimento di Obama non è quello di aver fatto l’errore di affidarsi all’ingombrante e inefficiente Onu, ma la sua incapacità a contrastare l’Iran, determinato più che mai a mantenere Assad al potere. Teheran ha a lungo trattato la Siria come un suo satellite, parte del suo raggio di influenza regionale che include il regime di al-Maliki in Iraq e i terroristi di Hezbollah, oggi politicamente e militarmente dominanti in Libano. L’iran è pronto a versare molto sangue siriano per salvare Assad, così come è pronto a rifornire il regime di armi e aiuti finanziari. D’altronde, sono ormai sempre di più e sem-


Esplosa una bomba ieri vicino all’ambasciata iraniana della capitale

Homs, Hama e Douma: l’assedio continua

Durissimo il presidente tunisino (che gli offre asilo): «Bashar è finito e se ne deve andare. Vivo o morto» di Laura Giannone pre più credibili i report che denunciano in Siria le Guardie Rivoluzionarie iraniane a fianco dell’esercito lealista. Quindi Obama sa che, se affronta l’Iran direttamente in Siria, sparirà ogni possibilità di arrivare a un accordo negoziato sulla corsa (quasi conclusa) di Teheran verso l’arma atomica. Ovviamente dovrebbe avere capito molto tempo fa che la diplomazia non persuaderà mai l’Iran a rinunciare al suo obiet-

ton deve riconoscere che sfidare effettivamente Assad significa andare oltre le sanzioni e la diplomazia verso uno sforzo più ampio che miri a cambiare il regime di Teheran. Obama non sembra essere in grado (né sembra volere) di capire che l’Iran contemporaneo è un nemico dell’America, un elemento le cui ambizioni nucleari e di egemonia regionale devono essere tarpate se non si vuole la vittoria degli ayatollah. Un leader

Teheran ha a lungo trattato Damasco come un suo satellite, parte del suo raggio di influenza regionale che include il regime di al-Maliki in Iraq e i terroristi di Hezbollah, oggi dominanti in Libano tivo di divenire una potenza nucleare, ma questo non è ancora avvenuto. E quindi, nonostante l’ovvio ruolo dell’Iran (appoggiato da Russia e Cina) nella difesa delle brutalità di Assad, Obama non può spingersi fino ad ammettere la futilità della propria politica riguardo Teheran.

In queste circostanze, combinate con altre differenze significative rispetto alla Libia – come una logistica militare molto più difficile – un intervento della Nato simile a quello di Tripoli non è probabile. Un intervento militare occidentale non può essere confinato alla Siria, perché l’Iran vedrebbe un simile intervento come un atto ostile. E la cruda realtà è che Obama è interamente dedicato a evitare ogni rischiosa avventura estera che potrebbe mettere in pericolo la sua rielezione. Più profondamente, Washing-

così incerto non può gestire in maniera efficace un confronto critico. Di conseguenza, per quanto possa essere difficile da ammettere, gli Stati Uniti dovranno quasi certamente attendere fino ad avere un vero Presidente, invece di cercare di procedere (e fallire) in Siria sotto un debole e inefficace Obama. Israele, come che sia, potrebbe non voler attendere che una mano americana più salda gestisca il programma bellico nucleare iraniano, o anche gli scontri ai propri confini settentrionali. Se il conflitto siriano dovesse concludersi a favore di Assad (e quindi di Teheran), si verificherebbero conseguenze negative significative per Israele e per la pace e la sicurezza dell’intero Medioriente. E questo sarà il vero prezzo della deferenza inutile di Obama al processo delle Nazioni Unite, e la sua volontà di non affrontare i mullah di Teheran.

iesplode la violenza in Siria, nonostante il cessate il fuoco previsto dal piano di pace preparato dall’inviato di Nazioni Unite e Lega araba, Kofi Annan. Un’autobomba ieri è esplosa nel centro di Damasco, nei pressi dell’ambasciata iraniana, provocando un morto, secondo quanto riferito dall’emittente al Arabiya - ma fonti ufficiali siriane parlano di tre feriti. Le forze d’opposizione al regime di Bashar al Assad riferiscono di nuovi attacchi da parte delle forze di sicurezza a Homs e Hama, nei quali hanno perso la vita un’ottantina di persone. Nel mirino dell’artiglieria siriana anche Douma, città nei pressi della capitale Damasco. Nel Paese è dispiegata una missione di osservatori delle Nazioni Unite, che potrebbe essere aumentata a 300 unità, come previsto da una recente risoluzione e come auspicato ieri dal ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov. Intanto, nuove sanzioni sono state decise a Bruxelles, dove ieri i ministri degli Esteri hanno deciso di bloccare l’export di beni e tecnologia che potrebbe essere utilizzata da Damasco per produrre armi chimiche. I capi delle diplomazia dei Ventisette hanno anche deciso lo stop alle esportazioni di beni di lusso verso la Siria. «Nonostante la necessità immediata che Assad ponga fine alle violenze, lui e i suoi più stretti sostenitori continuano a vivere negli agi», aveva sottolineato il titolare del Foreign Office William Hague, al termine del vertice. Un’affermazione un po’ populista ma senz’altro vera. Resta casomai da chiedersi perché ancora i beni di lusso fossero esportati a Damasco, visto che certo non erano gli oppositori a goderne. L’ipocrisia della storia, insomma, non cessa mai di stupirci.

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no capire che quell’uomo è finito - ha detto al quotidiano panarabo al-Hayat - Non è più possibile difenderlo e dovrebbero convincerlo a cedere il potere al suo vice». «Dovrai andartene in un modo o nell’altro - ha proseguito Marzouki rivolgendosi direttamente ad Assad - Dovrai lasciare il potere, vivo o morto. Meglio per te e per la tua famiglia se vivo». Per il presidente tunisino, la soluzione per la Siria dovrebbe essere modellata su quanto accaduto in Yemen, dove l’ex presidente Ali Abdullah Saleh ha ceduto il potere al suo vice in cambio dell’immunità. Se si dovesse raggiungere questa soluzione, Marzouki sarebbe pronto a dare asilo ad Assad in Tunisia, perché «negargli una via d’uscita servirebbe solo a produrre un’escalation nel conflitto». Marzouki non ha invece fiducia nel piano di pace dell’inviato Onu Kofi Annan, perché i 300 osservatori che dovrebbero monitorare il cessate il fuoco «sono troppo pochi». E, diciamolo, forse anche di parte.

Intanto, il segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-Moon ha ribadito la necessità che le autorità siriane lascino totale libertà di movimento agli osservatori dell’Onu, che, in 300, arriveranno a partire dalla prossima settimana per sorvegliare la corretta attuazione del cessate il fuoco in Siria. «È realmente importante che il governo siriano fornisca una protezione totale agli osservatori e garantisca loro libertà di movimento e di accesso» a tutte le aree del paese, ha dichiarato Ban KiMoon alla stampa. Damasco deve fornire a questa missione «tutta la cooperazione possibile, tra cui i mezzi aerei». Un appello come sempre caduto nel vuoto. Nel paese, infatti, si continua a sparare: soltanto lunedì il bilancio delle vittime degli scontri, fornito dalle organizzazioni di attivisti, è di 60 persone uccise, nonostante alcuni osservatori Onu si trovino in Siria. E ieri il bilancio provvisorio si è fermato a quota 24.

Il 10 maggio il capo della Casa Bianca incontrerà Putin. Una data che molti osservatori giudicano decisiva per la soluzione del dilemma siriano

Forte, invece, la presa di posizione della Tunisia: Il presidente siriano Bashar al-Assad è «finito» e dovrà lasciare il potere «vivo o morto». Se ne è detto certo il presidente Moncef Marzouki. «I russi, i cinesi e gli iraniani devo-


mondo

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Il ministro Terzi e il suo sottosegretario De Mistura sono mediatori di rango, e lo stanno dimostrando

Tecnica diplomatica Dagli ostaggi alle navi, la Farnesina colleziona successi (dopo le polemiche) di Maurizio Stefanini l 16 novembre del 2011 Giulio Terzi di Sant’Agata, già ambasciatore d’Italia in Israele, presso le Nazioni Uniti e negli Stati Uniti, è diventato ministro degli Esteri del governo Monti, anche se a differenza dei colleghi ha potuto poi prestare giuramento soltanto il giorno successivo, perché si trovava appunto nella sua sede di Washington. Nella storia della Repubblica è il terzo diplomatico di professione a divenire titolare della Farnesina, dopo Carlo Sforza e Renato Ruggiero. Sforza però già quando nel 1919 era entrato per la prima volta al governo come sottosegretario era stato contestualmente nominato senatore del Regno; era stato eletto alla Costituente come indipendente nelle liste del Pri quando nel 1947 divenne ministro degli esteri nel governo De Gasperi III; e da ministro degli esteri del governo De Gasperi IV dopo le elezioni del 18 aprile del 1948 divenne membro di diritto del nuovo Senato repubblicano nel mentre veniva designato ministro degli Esteri dei governi De Gasperi V e VI. Insomma era un diplomatico di carriera, ma già passato a fare il politico a tutto tondo. Mentre Renato Ruggiero, dal 1995 al 1999 direttore generale dell’Organizzazione Mondiale del Commercio dopo essere stato tra 1987 e 1991 un ministro tecnico del Commercio con l’Estero con Goria, De Mita e Andreotti, fu designato ministro degli Esteri tecnico ma in un governo ultra-politico co-

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me il Berlusconi II: un tentativo di captatio benevolentiae verso una comunità internazionale in effetti ancora un po’ perplessa a proposito del Cav, e che comunque si concluse bruscamente dopo appena sette mesi, proprio per uno scontro con la linea della maggioranza, e in particolare della Lega Nord.Al suo posto andrà lo stesso Berlusconi ad interim, poi seguito da Frattini e da Fini, mentre Ruggiero tra 2006 e 2009 farà invece da consigliere per la Costituzione Europea di Romano Prodi. Nel governo tecnico di Lamberto Dini alla Farnesina era invece andata Susanna Agnelli: una politica pura che tra 1983 e 1991 c’era già stata come sottosegretario, anche se il suo profilo familiare, il fatto che il suo Pri fosse intanto collassato e il non essersi più dopo il 1992 ripresentata le davano un profilo di alta indipendenza.

Insomma: Terzi di Sant’Agata è nella storia della repubblica il primo ministro degli Esteri tecnico di un governo tecnico. Per di più assistito da un altro tecnico di grande nome come sottosegretario nella figura di Staffan de Mistura: già vice-rappresentante e rappresentante speciale per l’Onu in Iraq, vice direttore esecutivo per le Relazioni Esterne del Programma Alimentare Mondiale a Roma e rappresentante speciale dell’Onu in Afghanistan. Quasi per una maledizione, a questa coppia di diplomatici di lusso e illustre blasone a appena tre mesi dal loro insediamento è capitata tra capo e collo quella vicenda dei due marò Massimiliano Latorre e Salvatore Girone che imbarcati nella petroliera Enrica Lexie sono stati arrestati alla polizia in India perché accusati di essere coinvolti nell’uccisione di due pescatori: una storia che ha obbligato Terzi a venire in India, de Mistura praticamente a trasferirvisi, e tutti e due a destinare a questa storia tempo e energie che probabilmente avevano programmato di riservare a progetto di più ampio respiro. Oltretutto, esponendosi a facile ironie sulle difficoltà trovate nello sbrogliare la complicata matassa. Ci si aggiunga che proprio mentre entrambi stavano occupandosi dell’India l’8 marzo l’ostaggio italiano Franco Lamolinara veniva ucciso assieme a un altro ostaggio inglese durante un blitz condotto in Nigeria da un commando delle unità speciali dell’esercito in collaborazione con Londra e senza informarci, e il 14 marzo altri due italiani venivano sequestrati nell’Orissa. Insomma, di che far pensare a più di un cittadino, che forse ministro e sotto-

Aung San Suu Kyi incontrerà il nostro ministro domani a Rangoon

Terzi e Ban Ki-moon, è corsa al Myanmar Le elezioni e la revoca delle sanzioni Ue rilanciano un Paese finora nell’ombra di Vincenzo Faccioli Pintozzi Europa le revoca le sanzioni, gli Stati Uniti sono pronti a nominare un ambasciatore, il mondo corre a omaggiare i suoi leader politici. La Birmania – nota con il nome fittizio di Myanmar per la decisione di un generale folle – è in questi giorni al centro del palcoscenico mondiale. L’inizio delle danze è avvenuto in concomitanza con le ultime elezioni parlamentari a cui la giunta militare, che si spaccia per un governo “civile” ora guidato da un più moderato Thien Sein, ha fatto partecipare anche la Lega nazionale per la democrazia. Ovvero quel partito guidato dalla Signora, Aung San Suu Kyi, che ha vinto un seggio in Parlamento e ha spezzato le catene di una condanna ai domiciliari che durava da 22 anni.

L’

E il primo ad arrivare è il nostro ministro degli Esteri, Giulio Terzi di Sant’Agata, che nel corso di un

tour nel Sud-Est asiatico ha voluto dedicare due giorni proprio alla Birmania. Oggi e domani, insieme a una delegazione di industriali e all’ex inviato speciale dell’Unione Europea per la Birmania Piero Fassino, il ministro sarà a Naypyidaw e Rangoon. Si tratta di una tappa particolarmente significativa non solo per le straordinarie riforme economiche e sociali avviate dal nuovo governo, ma anche per l’incontro con la leader dell’opposizione, Aung San Suu Kyi. Terzi sarà il primo leader internazionale a incontrare la “pasionaria” birmana all’indomani della riunione dei ministri degli Esteri dei Ventisette che da Bruxelles hanno deciso di alleggerire il regime sanzionatorio nei confronti di Naypyidaw, aprendo dunque nuove possibilità agli investitori stranieri. Negli anni della dittatura militare, l’Italia ha sempre mantenu-


mondo

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Da sinistra a destra in senso orario: la “Enrico Ievoli”, nave sequestrata 4 mesi fa al largo dell’Oman e liberata ieri con a bordo l’intero equipaggio (fra cui 6 italiani) illeso; Paolo Bosusco, la guida turistica sequestrata dai maoisti dell’Orissa perché accusato di sfruttare la situazione dei tribali e liberato dopo settimane di angoscia; Maria Sandra Mariani, la 53enne turista fiorentina rapita il 2 febbraio 2011 da alcuni uomini armati nel deserto meridionale dell’Algeria e rilasciata lo scorso 17 aprile; i due marò Latorre e Girone in stato di fermo in India. In basso, Aung San Suu Kyi, leader democratica della Birmania; nella pagina a fianco il ministro Guido Terzi di Sant’Agata

«per aiutare il Paese e i suoi abitanti in questa critica fase della propria storia».

to i canali di comunicazione aperti (è uno dei pochi Paesi ad avere un’ambasciata a Rangoon) ed è sempre stata in prima linea nel favorire il processo di allentamento delle sanzioni. Dalla diretta voce dei protagonisti, sarà interessante capire la vera portata della svolta e quali siano ancora i nodi in sospeso: per esempio, il ruolo dell’esercito, i passi avanti compiuti nel processo di pacificazione con le minoranze etniche, la liberazione dei detenuti politici o la riforma della Costituzione, approvata nel 2008 con un referendum discutibile e che riserva ancora le leve del potere agli ex generali. Prima di Terzi c’era stata Hillary Clinton, Segretario di Stato americano, e dopo di lui arriverà Ban Ki-moon, Segretario generale delle Nazioni Unite. Ban sarà nel Paese alla fine della settimana, e ha dichiarato di voler garantire la sua presenza

Al di là di questa corsa al Nobel va sottolineato l’interesse del governo italiano per il Sud-Est asiatico: si tratta di un’area di 600 milioni di consumatori, con picchi di tassi di sviluppo al 6/8% e sempre più aperta a investimenti e mercati stranieri. Monti, reduce anche lui da un lungo viaggio a Oriente, vorrebbe far cogliere alle aziende italiane le opportunità di investimento ma anche offrire il nuovo “sistema Italia”a potenziali investitori stranieri. Terzi si è fermato per 3 giorni a Jakarta per incontri bilaterali: insieme a lui viaggia una delegazione di investitori e industriali italiani. Con i suoi 243 milioni di abitanti l’Indonesia, la maggiore democrazia islamica del mondo, è l’economia del sud-est asiatico a crescita più rapida e impetuosa, continua a fare passi da gigante (Pil a +6,5% nel 2011; a +5,9% secondo le stime 2012) ed è il Paese emergente più accreditato ad unirsi al gruppo dei Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica). L’acronimo racchiude le economie più vitali, con delle percentuali di Pil che volano intorno al 5 % di media annua. Ultima tappa il Brunei, il 27 aprile, per partecipare alla ministeriale tra l’Ue e l’Asean (l’Associazione dei Paesi del sud-est asiatico): un incontro particolarmente interessante perché i dieci Paesi della regione a partire dal 2015 si apriranno a un accordo di libero scambio, l’Asean community, sul modello dell’Ue. Di cui vogliamo far parte.

segretario erano quanto meno perseguitati dalla jella. Eppure, già il 21 dicembre, a poco più di un mese dal loro insediamento,Terzi e de Mistura avevano ottenuto un primo risultato, anche se in quel momento non col massimo di attenzione dell’opinione pubblica. Infatti in quella data veniva liberata dai pirati somali che l’avevano presa a febbraio la petroliera Savina Caylyn, con a bordo 22 membri dell’equipaggio tra cui cinque italiani. «Non c’é stato nessun blitz, né tantomeno è stato pagato un riscatto», spiegava in quell’occasione la Farnesina. Pian piano, la lista si è allungata. Il 25 marzo è stato liberato Claudio Colangelo: il 61enne pensionato di Rocca di Papa attivo nel volontariato che era stato sequestrato dai guerriglieri maoisti naxalites nello Stato indiano dell’Orissa lo

Grande attesa per vedere come finirà la questione dei marò indiani, ma l’atteggiamento italiano si è guadagnato col tempo anche il rispetto di Delhi scorso 14 marzo. Il 12 aprile è stato liberato Paolo Bosusco: il 54enne piemontese appassionato di trekking che aveva fatto da guida a Colangelo ed era stato sequestrato con lui. Il 17 aprile è stata liberata Maria Sandra Mariani: la 53enne turista fiorentina rapita il 2 febbraio 2011 da alcuni uomini armati nel deserto meridionale dell’Algeria. Lunedì è stato liberato l’equipaggio della nave italiana Enrico Ievoli: sequestrata dai pirati il 27 dicembre con a bordo tra i 18 uomini, tra cui sei marinai siciliani. E adesso siamo di fronte a una svolta decisiva anche nella vicenda dei due marò: con la corte Suprema di New Delhi che ha accolto il ricorso italiano; l’Alta Corte del Kerala che ha accettato un ac-

cordo extra-giudiziale con cui il governo italiano ha pagato un risarcimento alle famiglie dei due pescatori uccisi e le famiglie hanno rinunciato all’azione civile; e l’Avvocatura dello Stato di New Delhi che ha accusato la polizia del Kerala di aver abusato del proprio potere per arrestare i due marò.

C’è poi anche l’improvviso incidente che ha permesso a uno dei due marò di salvare la vita a un fotoreporter indiano che stava per essere messo sotto da un tassì e nella stampa indiana ha trasfigurato l’”assassino” in “eroe”: lì evidentemente Terzi e de Mistura non hanno meriti, ma se il problema era di fortuna avversa, e anche significativo che perfino su quel fronte la ruota abbia ripreso a girare. Ovviamente, non bisogna dimenticare che i due marò sono ancora dentro. E neanche che restano ancora due i connazionali in ostaggio di bande armate in giro per il mondo: Rossella Urru, la cooperante sarda rapita nel sud dell’Algeria in ottobre e scomparsa tra le dune del Sahara; e Giovanni Lo Porto, il cooperante siciliano, che lo scorso 19 gennaio venne catturato con un collega tedesco in Pakistan, nella località di Multan. Va pure evidenziato che probabilmente non tutti questi risultati sono stati dovuti al grosso sforzo che la Farnesina sta comunque facendo, anche se di gran parte dei particolari in realtà non siamo a conoscenza. Ma neanche tanti risultati avrebbero potuto venire tutti assieme, se un grosso sforzo non fosse stato compiuto. In questo senso, probabilmente due diplomatici di professione come Terzi e de Mistura hanno una marcia in più, in materia di trattative. Ovviamente, senza dimenticare che la liberazione degli ostaggi è un sia pur obbligatorio e impellente di più, rispetto ai compiti della nostra diplomazia. E che, una volta liberati tutti, sarà bello anche perché Terzi e de Mistura si potranno infine dedicare alla loro missione principale.


cultura

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Attore, cantautore, ballerino e scrittore. A cent’anni dalla nascita, ritratto di un punto di riferimento del teatro leggero italiano. Oggi un po’ dimenticato

Piccolo, grande Rascel Con lui si è affermata una nuova comicità surrealista che non aveva paura di sognare di Marco Ferrari n piccolo grande uomo. Cento anni fa, il 27 aprile 1912, nasceva a Torino Renato Rascel, attore, cantautore, ballerino e persino scrittore. Renato Rascel, al secolo Renato Ranucci, morto a Roma nel 1991, aveva lo spettacolo nel sangue. Figlio di cantanti d’operetta, nato casualmente nella città sabauda durante una tournée dei genitori e quindi trasferitosi a Roma, cresciuto da una zia e da una nonna, fin da piccolo si trova a calcare i palcoscenici di compagnie filodrammatiche, senza trascurare la vocazione famigliare entrando nel coro di voci bianche allestito dal compositore don Lorenzo Perosi. Nel contempo impara a suonare la batteria, balla il tip-tap, accompagna il trio delle sorelle Di Fiorenza. Nel 1934 viene notato dai fratelli Schwartz (ebrei, registi e impresari tedeschi fautori del passaggio dall’operetta alla rivista: erano scappati dalla Germania nazista sperando nella tolleranza italiana… fecero una brutta fine) e debutta, come Sigismondo, nell’operetta in tre atti Al Cavallino bianco. Poi torna con le Di Fiorenza e quindi passa con Elena Gray partecipando anche a una serie di spettacoli in Africa. A partire dal 1941 fonda una compagnia propria, insieme a Tina De Mola, allora sua moglie, mettendo in scena testi di Nelli e Mangini, di Galdieri e di Garinei e Giovannini. Una carriera lunga e brillante, con caratteristiche condivise con tanti altri artisti dell’epoca: dall’esordio in famiglia nell’operetta alla comicità popolare. Lo stesso, per dire, fecero Pietro De Vico e Anna Campori, che si trovarono poi sulla scena come nella vita: perché un pezzo cospicuo del grande spettacolo italiano è “fatto in casa”, autodidatta. Se la famiglia è sempre stata una grande istituzione, qui da noi, ha mantenuto il suo ruolo anche sul palcoscenico.

U

omino ingenuo e ammiccante, il finto stupido che attraverso un costante uso del doppio senso perviene alla caricatura della realtà sociale. Forse i gerarchi fascisti non si accorsero che quella figura così naif altro non era che una critica all’uomo forte delineato dal regime mussoliniano. Ad accentuare questo personaggio fuori dal comune ci pensano poi un bizzarro repertorio linguistico e un abbigliamento esagerato che contrasta col fisico minuto dell’attore, fuori misura rispetto al resto della compagnia. Così Renato Rascel contribuisce in maniera evidente alla nascita di una nuova comicità prevalentemente surrealista, fatta più di sogni sospesi nell’aria che di piedi impiantati nel palcoscenico. Che poi è il passaggio (colto) dalla

co. E Rascel s’aggiustò addosso questa maschera dandogli un tocco di consapevolezza intellettuale in più. In quegli anni, quelli dell’avanspetacolo, Rascel trova delle partner femminili fedeli, capaci di fare da contraltare alle sue fantastiche esibizioni quali Livia Muguet, Elena Quirici e Elena Grey. E poi, negli anni Quaranta, le sue macchiette si inseriscono perfettamente all’interno del teatro di rivista italiano, evolvendosi in storielle a tema unico sorretto da testi di qualità che giocano sull’improponibilità di quell’omino che non può spaventare nessuno, simbolo di un’Italia che si sente a disagio di fronte ai muscolosi alleati tedeschi. Ma proprio perché unico, il personaggio Rascel finisce per essere riconosciuto e amato da pubblico. I suoi sketch e le sue canzoni diventano capisaldi della rivista, sodali e colleghi sorreggono quella minuscola figura che rischia di scomparire in scena mentre spalle femminili, come Marisa Merlini, giocano con quello strambo Ufo catapultato nell’èra di Mussolini e Hitler.

Nella dura palestra dell’avanspettacolo delineò il personaggio cardine della sua carriera: il “piccoletto”, uomo tascabile, mite e stralunato che con la sua aria ingenua ridicolizzava la realtà sociale

Insomma, è nella dura palestra dell’avanspettacolo che Rascel delinea il personaggio cardine della sua carriera, il “piccoletto”, l’uomo tascabile stralunato, mite, distratto, innocente, incredulo, quasi incapace di stare al mondo. Sempre aperto alla scoperta, eternamente fanciullo, il personaggio Rascel è una macchietta, una figura astratta, sconclusionata, basata sul nonsense, come lo erano stati i fratelli De Rege. Si afferma sulla scena un

tradizione del nano seicentesco alla maschera - surreale, appunto - del Novecento. Il nano, infatti, era una particolare figura di buffo nell’Opera napoletana: lo scemo che non capisce quel che gli capita intorno ma che alla fine con una trovata di genio risolve tutto. Insomma: uno stupido o un genio? Nano è stato Ciccio De Rege, come si diceva, ma anche Peppino De Filippo o il già ricordato Pietro De Vi-

Ma era difficile per i gerarchi far quadrare i conti con quel falso tono infantile di Rascel che spiazzava ogni logica persecutoria. Basta pensare alle strofe della sua più famosa canzone, scritta di getto nel 1939 durante una pausa in camerino: «È arrivata la bufera/ è arrivato il temporale/ chi sta bene e chi sta male/ e chi sta come gli par». Poteva una filastrocca descrivere meglio il clima Renato Rascel nasce “per caso” a Torino durante una tapcupo che gravava sull’Europa alpa della tournée della compagnia d’arte in cui lavorano l’inizio della guerra? Ma i suoi suo padre Cesare Ranucci, cantante di operetta, e sua bizzarri componenti finirono lo madre Paola Massa, ballerina classica. Riceve il battesistesso sotto le forbici della censumo nella Basilica di San Pietro secondo il desiderio del ra avendo titoli dai reconditi sipadre, romano da sette generazioni, e alla città eterna la gnificati e dai doppi sensi contro sua vita resterà sempre legato. il regime come Mi chiamo ViscarCresce a Roma con una zia nell’antico rione di Borgo, fredo, La canzone del baffo, Torna a quenta la Scuola Pontificia Pio IX, gestita dai Fratelli di casa che mamma ha buttato la Nostra Signora della Misericordia i quali, oltre a imparpasta e La canzone della zanzara tire l’insegnamento scolastico, organizzavano corsi di cantubercolotica. Terminato il conto, musica e recitazione. Renato mostra lì i segni del suo flitto, Rascel si prenderà una riprecoce talento, al punto di essere ammesso a far parte, alvincita con il film Gran Varietà in l’età di dieci anni, del Coro delle Voci Bianche della Capcui interpreterà se stesso e il rappella Sistina. Debutta in teatro a fianco del padre, divenupresentante della censura, quella to direttore della filodrammatica “Fortitudo”. All’inizio fascista e quella post-fascista. In degli anni Trenta, e dopo un lungo tirocinio in compagnie un’Italia che aveva bisogno di didi avanspettacolo, Renato Ranucci decide di scegliersi un menticare gli orrori della guerra nome d’arte e sceglie casualmente quello di “Rachel” (dal la sua candida, ingenua comicità nome di una cipria francese molto famosa in quel tempo); è dilagante come testimoniato dai tuttavia, poiché, come ammetterà più tardi in alcune ingrandi successi delle pièce teatraterviste, sono in molti a sbagliarne la pronuncia, decide di li Attanasio cavallo vanesio e Alsostituire la “ch” con “sc”, onde evitare errori. varo piuttosto corsaro a cui fecero seguito altri strambi titoli come

la storia

Renato Rascel con Ugo Tognazzi, Delia Scala e Alberto Sordi. Sotto, in tv, nei panni del “piccoletto” in abiti napoleonici. A destra in basso, la Bocca della Verità. Rascel è anche autore della trilogia di favole “C’era una volta Re-Natino”


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e di cronach

Ufficio centrale Nicola Fano (direttore responsabile) Gloria Piccioni, Errico Novi (vicedirettori) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo Stefano Zaccagnini (grafica) Direttore da Washington Michael Novak Consulente editoriale Francesco D’Onofrio Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Lo Dico, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria) Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Osvaldo Baldacci, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Orio Caldiron, Anna Camaiti Hostert, Mauro Canali, Franco Cardini, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Anselma Dell’Olio, Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Aldo G. Ricci, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Gennaro Malgieri, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Antonio Picasso, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Franco Ricordi, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Emilio Spedicato, Maurizio Stefanini, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania Società Editrice Edizioni de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Consiglio d’amministrazione Vincenzo Inverso (presidente) Raffaele Izzo, Letizia Selli (consiglieri) Concessionaria di pubblicità e Iniziative speciali OCCIDENTE SPA Presidente: Emilio Bruno Lagrotta Amministratore delegato: Raffaele Izzo Consiglio di amministrazione: Ferdinando Adornato, Vincenzo Inverso, Domenico Kappler, Antonio Manzo Angelo Maria Sanza

Tobia la candida spia, Un paio d’ali e nel 1961 Enrico che celebra il centenario dell’Unità d’Italia. Già dagli anni Quaranta Rascel spazia dall’avanspettacolo alla rivista, dalla commedia musicale, all’intrattenimento radiofonico, coprendo in pratica tutti i mezzi che lo spettacolo ha mutevolmente occupato nell’arco di quasi un secolo, inclusa la televisione in cui entrerà nel 1956 con Rascel la Nuit a cui farà seguito Stasera a Rascel-City del 1964.\u2028A Cinecittà debutta nel 1942 con Pazzo d’amore di Giacomo Gentilomo per riprendere poi nel 1949 con Maracatumba ma non è una rumba di Edmond Lozzi per poi essere protagonista di altre 44 pellicole.

repertorio classico italiano come Arrivederci Roma, Romantica, Te voglio bene tanto tanto e È arrivata la bufera. Brani cantati, fischiati, accennati senza sapere oggi che l’autore è proprio quel “piccoletto” che compare in certi film in bianco e nero. Diventato Padre Brown in un’epica serie televisiva, non ha disdegnato di fare il presentatore, interpretare Ionesco, scrivere operette musicali. La forza del suo destino teatrale è forse tracciabile nella nobiltà del suo essere attore a tutto tondo della commedia, assunta in lui con un tono surreale, nobilmente popolare, senza mai cadere nella volgarità.\u2028Nel 1957 Ugo Mursia lo convince a scrivere delle favole per la figlia, tradotte poi in gran parte del mondo. Nasce così la trilogia C’era una volta Re-Natino composta da Il piccoletto, Renatino non vola la domenica e Bambino beat. La prima favola diverrà anche un programma di pupazzi animati trasmesso dalla Rai nel 1969. Uno dei monumenti del teatro leggero italiano, capace di liberare i comici dalla paura di far sognare, purtroppo oggi un po’ dimenticato.

Ha utilizzato tutti i mezzi a disposizione del fare spettacolo. In due film fu memorabile: nel “Cappotto” di Alberto Lattuada e in “Policarpo ufficiale di scrittura” di Mario Soldati

S i t ra t ta , in g r a n p a r t e , di riproposizione in chiave cinematografica della figura astratta e stralunata del teatro con gli stessi memorabili sketch. Spesso, questa forzata teatralità, non gioca a favore del successo dell’opera. Due film si differenziano dagli altri: Il cappotto, tratto da Gogol’, di Alberto Lattuada e Policarpo ufficiale di scrittura, diretto da un altro mostro sacro del macchina da presa, Mario Soldati. Chiuderà poi la sua carriera nei panni

drammatici del cieco Bartimeo nel Gesù di Nazareth di Franco Zeffirelli. Pochi ricordano che Rascel è stato autore di importanti canzoni rimaste nel

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ULTIMAPAGINA Metropoli capaci di pensare al posto dei cittadini: un progetto ambizioso, ma possibile, spiegato in un manuale

La città ideale? Sarà di Martha Nunziata itymatica, interconnessione e iperconnessione, un mondo di realtà aumentata: termini con i quali dovremo cominciare a fare l’abitudine. Alcune di questi fanno già parte della nostra vita, come gli smartphone, l’iPad, i tablet, i microprocessori che però presto risulteranno superati da nuove tecnologie. Che arriveranno presto, come “Project Glass”, gli occhiali bionici di Google, che ci permetteranno di essere sempre connessi, visualizzare informazioni digitali in tempo reale, ma con le mani libere, ricevendo i dati di cui abbiamo bisogno direttamente sulle lenti. Ormai l’interconnessione permanente sembra diventato un bisogno primario dei terrestri, e in questa direzione, ovviamente, si muovono anche le città, alle prese con una trasformazione epocale, un passaggio, forse definitivo, sicuramente irreversibile, da city a smart city, cioè gli agglomerati urbani intelligenti, capaci di “pensare” al posto dei cittadini.

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Un viaggio tra architettura, infrastrutture e reti private delle metropoli, tutti temi trattati in Le città intelligenti, un libro scritto a più mani da Francesca Bruni, Alberto Cavicchiolo, Giancarlo Magnaghi e Federico Piazza (Art Valley editore), che propongono «un manuale di citymatica per amministratori intelligenti e cittadini esigenti». Un libro che porta con sé un progetto ambizioso, ovvero quello di indicare una strada possibile per raggiungere la qualità delle città, sogno dell’uomo moderno che in tutto il mondo ha progettato studi rivoluzionari e soluzioni futuribili. Ne ha parlato a liberal Gianluca Moretti, amministratore delegato di Umpi. Un’azienda riminese che si muove da anni in questa direzione, e che si è ritagliata un posto in prima fila nel mercato mondiale del telecontrollo e della telegestione: lampioni intelligenti connessi in rete, che garantiscono notevoli risparmi energetici in un campo, quello dell’illuminazione pubblica, che è al terzo posto nel bilancio delle città. È la domotica, la robotica delle città: tecnologia che sembra fantascienza, e forse un po’ lo è, ma può essere applicata alla vita di tutti i giorni? Che cos’è la citymatica? Secondo Moretti «la Cytimatica in questo contesto diventa una soluzione che unisce l’informatica alla città e con il sistema Minos (cioè il sistema di telegestione dell’illuminazione esterna che dosa la luce utilizzata da un lampione, permettendo di risparmiare fino al 30-35% sui consumi energetici, ndr) in particolare unisce il mondo elettrico a quello delle telecomunicazioni e dell’informatica appunto, attraverso le onde convogliate: segnali digitali trasmessi sulla rete elettrica esistente e che servono a fornire servizi al cittadino come la banda larga». Nel libro si parla di città intelligenti, ma cosa si intende? «Questo libro - con-

INTELLIGENTE Un esempio di Cytimatica: la telegestione dell’illuminazione esterna che dosa la luce dei lampioni permetterà di risparmiare sui consumi energetici fino al 30-35%

più i comuni piccoli a essere maggiormente flessibili e in grado di guidare con più leggerezza la macchina comunale verso le innovazioni e la tecnologia intelligente, capace di ottimizzare e far risparmiare gli impianti di pubblica illuminazione, base per la città digitale e per la costruzione di servizi a valore aggiunto. Altro fattore però è l’abitudine che frena l’innovazione, in questo caso le città più grandi, magari più strutturate nei servizi o che dispongono di una utility che gestisce gli impianti, meglio si predispongono alla tecnologia anche se con tempi un po’ più lunghi. In tutti i casi però, come successo con Minos System, il salto tecnologico diventa trasversale da Nord a Sud, dai comuni più piccoli a quelli più grandi e garantisce un risultato certo e di successo per portare servizi ai cittadini che ne hanno sempre più bisogno».

impatto, efficienti, che producano risparmi e servizi nel contempo, proprio come il Minos System». In molte grandi città come New York la figura dello Chief digital officer (cdo) sembra ormai indispensabile per la gestione digitale dei sevizi per i cittadini e anche in Italia si preme per la corsa alla digitalizzazione delle città. Ma quali sarebbero le prime a vincere questa gara? Ed esistono città più adatte di altre a questi progetti? «In questo caso - secondo Moretti - tra Centro-Nord e Centro-Sud c’è parità assoluta, anzi la divisione è più tra comuni piccoli e comuni grandi, se vogliamo, nel senso che forse, paradossalmente, sono

Dall’era dell’informatizzazione stiamo passando all’era del digitale, quanto potrà essere d’aiuto nel miglioramento della qualità della vita? Non c’è un rischio di overloading? «Dobbiamo notare - conclude Moretti - che soprattutto in Italia abbiamo riscontrato una scarsezza di utilizzo di risorse innovative e di risorse informatiche; ciò limita enormemente la capacità di rilancio e di uscita dalla crisi delle amministrazioni che si trovano imbrigliate senza sapere che una soluzione c’è e che da subito si può utilizzare». Le città intelligenti però, secondo gli autori, non devono prescindere dalla nostra tradizione e dalla nostra storia.

tinua Moretti - nasce con l’intento di dare uno strumento all’amministrazione e in particolare al sindaco, che è l’amministratore delegato delle nostre città, al fine di informarlo di soluzioni che hanno impatto zero sull’installazione, sono facili da implementare e utilizzare e vanno nella direzione delle cosiddette smart cities. L’intelligenza della città si misura nella capacità di tradurre e trasportare nel proprio tessuto urbano soluzioni innovative, a basso


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