Booklet Fasti d’Avalos sulle Selle da parata

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Fasti d’Avalos dagli Arazzi della Battaglia di Pavia alle Selle da parata


Musei Civici di Palazzo d’Avalos

Piazza Lucio Valerio Pudente 5, Vasto (CH) info e prenotazioni: tel. 0873/367773 o 334/3407240 www.museipalazzodavalos.it • palazzodavalos@archeologia.it

Comune di Vasto

Booklet a cura di Lucia Arbace Testi Lucia Arbace, Cecilia Bartoli, Maria Giuseppa Dipersia, Maria Taboga Referenze fotografiche: Giovanni Bernardi: p. 6; Aurelio Ciotti: pp. 22-23, 42 Archivio dell'Arte, Luciano Pedicini: copertina e pp. 11-12; 15-16; 19-20, 25-26,29 Archivio Bartoli Restauro e Ricerche: pp. 32-40 Si ringraziano per la collaborazione: Fabrizio Vona, Umberto Bile, Brigitte Daprà, Paola Giusti, Antonio Tosini, Soprintendenza per il Patrimonio Storico Artistico ed Etnoantropologico e per il Polo Museale della Città di Napoli Progetto grafico: Clifford Harbinson


La nostra città è lieta di riaprire le sale del nobile palazzo nel segno proprio dei d’Avalos con l’esposizione delle sontuose selle da parata dei Marchesi del Vasto, sottratte all’oblio e ai vecchi meandri in cui giacevano impolverate e restituite ai fasti del passato. Questo percorso a ritroso, questa emersione alla memoria dei tratti di una nobile storia ci offre una straordinaria chiave di lettura della presenza dei d’Avalos a Vasto, legata indissolubilmente alla loro sontuosa dimora. Il Palazzo, attraverso il ritorno delle preziose selle da parata, ricorda prepotentemente alla sua città che prima ancora che sede del Museo Archeologico, prima ancora che casa dei dipinti dei Palizzi, prima ancora di essere un eccezionale contenitore di bellezza che solo l’arte sa offrirci, è stata la dimora dei Marchesi d’Avalos. Costoro scelsero con cura questo luogo, la bellissima quinta sul mare unica nel suo genere che domina con austerità il golfo, progettando un complesso straordinariamente armonizzato nel contesto ambientale, fuso al centro medioevale e impreziosito dal giardino napoletano. Ringraziamo la Soprintendenza ai Beni Storico Artistici che negli anni ha creduto a questo progetto e in particolare il Soprintendente Dott.ssa Lucia Arbace che attraverso un’originale realizzazione riesce a far dialogare questi manufatti con il resto del palazzo in un gioco evocativo di rimandi storici. Un occasione di conoscenza e approfondimento della storia del nobile casato, uno spaccato di vita militare e di fasti di corte che si disvela oggi attraverso il suggestivo allestimento della sala delle selle. Per molti vastesi si tratterà di una sorpresa e di una novità che, attraverso le numerose iniziative della gestione dei servizi del palazzo a cura delle Cooperative Archeologia e Zoe, arricchiranno di spunti di storia, arte e cultura i giorni del Natale. Il Sindaco Luciano Lapenna L’Assessore alla Cultura Anna Suriani Città del Vasto, dicembre 2012


Elementi di armatura da bambino Napoli, Museo di Capodimonte


Vedete duo marchesi, ambi terrore di nostre genti, ambi d’Italia onore; ambi d’un sangue, ambi in un nido nati, di quel marchese Alfonso il primo è figlio, … L’altro di si benigno e lieto aspetto, il Vasto signoreggia, e Alfonso è detto. (L. Ariosto, Orlando Furioso, XXXIII, 46-47)

Marchese del Vasto dal 1504 al 1546, condottiero alla testa delle truppe imperiali di Carlo V, vincenti contro le armate di Francesco I nella Battaglia di Pavia, Alfonso d’Avalos è stato anch’egli un poeta, nonché un fine committente d’opere d’arte, versato nella letteratura, sedotto dalla straordinaria creatività di Ludovico Ariosto, cui accordò una pensione di cento ducati d’oro l’anno. Dei tanti personaggi che hanno abitato gli ambienti del maestoso palazzo d’Avalos – un tempo lussuosamente arredati – proprio ad Alfonso II del Vasto, fregiato dell’onoreficenza del Toson d’Oro, ho subito pensato come un buon punto di partenza per riannodare le fila di fasti smarriti, per ripercorre pagine di storia che hanno inciso profondamente sulle sorti di una cittadina affacciata sull’Adriatico, autostrada del mare. Il forte potere evocativo dei manufatti artistici ancora una volta è stato determinante per delineare un percorso, un progetto, che ha già compiuto primi passi ma ha davanti a sé una strada che può rivelarsi lunga ed entusiasmante. Ma per amore di chiarezza occorre fare un piccolo passo indietro e narrare i fatti. Nell’aprile del 2010 - c’eravamo appena insediati nei nuovi uffici della Soprintendenza dopo i lunghi mesi nei containers collocati nel parco del castello a L’Aquila, - ho incontrato un responsabile della ditta SICURMAX che da oltre un anno, un mese prima del terremoto, si era aggiudicata la gara per la realizzazione delle quattro vetrine destinate a ospitare le selle da parata in Palazzo d’Avalos. Mi sollecitava a far partire il lavoro, fermo da tanto


tempo. Intanto gli stessi manufatti avevano trovato ricovero temporaneo presso il Museo della Preistoria di Celano-Paludi dove venivano effettuate le verifiche conservative per determinare eventuali danni provocati dal sisma. Nel 2003 queste sontuose selle, ricche di ornati, erano state ritrovate assieme ad altri oggetti in condizioni di fatiscenza nelle cantine di Palazzo d’Avalos, ritirate dalla Soprintendenza e sottoposte ad accurati restauri a cura di Cecilia Bartoli sotto la direzione di Giovanna Di Matteo, grazie ai fondi del programma ordinario dei lavori pubblici, erogati dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali. Naturalmente alla fine del complesso intervento era prevista la restituzione alla sede di provenienza e la realizzazione dell’allestimento in situ. Dovendo riprendere le fila di questa pratica, da affidarsi ad altri collaboratori a causa del pensionamento della funzionaria che se n’era occupata fino a quel momento, ho compreso subito che le quattro selle da parata, pur magnifiche, non potevano essere proposte al pubblico come opere d’arte a se stanti, in vetrine individuali. Anzi la loro ricollocazione poteva trasformarsi in un’occasione preziosa per rievocare i fasti di un’epopea familiare, all’interno di un palazzo straordinario dal punto di vista ambientale e architettonico, caratterizzato da spazi dalle cubature maestose, ma purtroppo oggi desolatamente privi di atmosfera. Occorreva quindi migliorare l’allestimento per favorire una inversione di tendenza, con l’auspicio che nel prossimo futuro possa tornare in queste sale, magari sotto forma di deposito temporaneo, una parte dell’imponente quadreria, oggi conservata al Museo di Capodimonte assieme agli arazzi, ai ricami e ai pezzi di armature, da collocarsi accanto a qualche elemento d’arredo ancora in possesso degli ultimi discendenti, come ad esempio lo scenografico letto con baldacchino che incantò i visitatori della mostra Civiltà del Seicento a Napoli, nel 1984. Individuata la collocazione più idonea per le selle nella sala del piano nobile da cui si diparte la scala a chiocciola che


raggiunge le scuderie, ha preso forma l’idea di coniugare questi rari oggetti alle gesta cavalleresche e militari dei due marchesi – onore dell’Italia - riproducendo le rutilanti scene immortalate nella serie di arazzi dedicati alla Battaglia di Pavia del 1525, donata al Real Museo nel 1862. Malgrado si tratti di eventi avvenuti quasi un secolo prima rispetto alle selle databili all’inoltrato Seicento, queste immagini risultano di grande aiuto per agevolare una corretta comunicazione: viceversa senza cavalli e cavalieri sarebbe stato arduo per il grande

Staffe Vasto, Musei di Palazzo d'Avalos

pubblico comprendere il clima di riferimento e l’imponenza delle parate principesche. Riprogettata la vetrina, ampi dettagli dei prestigiosi arazzi cinquecenteschi tessuti a Bruxelles sono stati riprodotti su lastre dall’azienda Veneto Vetro, con il medium degli scatti fotografici a risoluzione altissima di Luciano Pedicini i quali permettono di percepire la trama della tessitura e le sfumature dei fili colorati intrecciati con l’oro e l’argento. Un plauso va quindi al gruppo di lavoro che ha seguito e attuato


tutte le fasi, in primis al RUP, l’arch. Carlo Alberto Natalizia della soprintendenza BAP dell’Abruzzo, ai nostri Ivana di Nardo, Aurelio Ciotti, Mario Salomone, Roberto Pezzopane e Giovanni Bernardi, ai collaboratori amministrativi e al servizio audiovisivi della Soprintendenza stessa, che ha elaborato le immagini per la proiezione delle fasi del restauro. Infine occorre rimarcare la positiva collaborazione stabilitasi da tempo con l’amministrazione comunale di Vasto, in particolare con il Sindaco Luciano La Penna e l’Assessore alla Cultura Anna Suriani, e con lo staff che oggi gestisce con competenza i Musei di Palazzo d’Avalos, coordinato da Antonella Marsico. Con questi interlocutori si dovranno ora definire meglio i termini del cammino futuro per un completo rilancio di questo magnifico complesso monumentale. Lucia Arbace Soprintendente per i Beni Storici, Artistici ed Etnoantropologici dell’Abruzzo

Rendering della Vetrina, Ditta SICURMAX


Fasti d’Avalos: gli arazzi della “Battaglia di Pavia” di Maria Taboga “Lego al Museo Nazionale di Napoli i miei arazzi e quadri, da riporsi in una sala apposita, con la mia leggenda, e vieto di potersi portare via da Napoli sotto pena di decadenza dal legato”: così il 18 agosto 1862 il nobile Don Alfonso d’Avalos d’Aquino d’Aragona (1796-1862), discendente di una antica stirpe di lontane origini castigliane e ultimo custode della collezione avita lasciò alla Pinacoteca Nazionale di Napoli i sette magnifici panni istoriati noti come gli arazzi della Battaglia di Pavia, una serie completa e preziosissima, connessa alle vicende della tormentata storia d’Europa del XVI secolo, “piena di atrocissimi accidenti” come scriveva lo storico fiorentino Francesco Guicciardini nella sua Storia d’Italia pubblicata postuma nel 1561. I monumentali tessuti figurati, ciascuno alto circa quattro metri per quasi otto di lunghezza, vanno annoverati fra i capolavori dell’arte dell’arazzeria del XVI secolo; realizzati a Bruxelles nel 1529-31 con una tecnica raffinatissima e profusione di filati preziosi – seta, argento e argento dorato filati – nell’atelier degli imprenditori Jan e Guillaume Dermoyen (o van der Moyen) le cui “marche” sono tessute sulle cimose di tre esemplari. La paternità dei modelli per le scene degli arazzi (i disegni si conservano al Louvre), sgomberato il campo da ipotesi fantasiose (Tiziano, Tintoretto e Giulio Romano), è stata universalmente riconosciuta al celebre artista fiammingo Bernard van Orley (1491 circa – 1542) - pittore di corte delle Reggenti dei Paesi Bassi Margherita d’Asburgo (1480-1530) e Maria d’Ungheria (1505-1558) - il progettista di molte, straordinarie serie intessute del XVI secolo. Negli arazzi, dispiegati su una superficie complessiva di più di trecento metri quadrati, sono illustrati in sequenza diversi


episodi relativi all’importante fatto d’armi svoltosi alle porte di Pavia nella notte fra il 23 e il 24 febbraio 1525 che vide fronteggiarsi le truppe dell’imperatore Carlo V e l’esercito transalpino guidato dal re Francesco I di Valois nell’ambito del lunghissimo conflitto che oppose per decenni i due stati, Spagna (Impero) e Francia, e i loro alleati. La battaglia ebbe immediata eco anche nelle arti figurative, ricordata in dipinti, stampe e rilievi scultorei; ma lo scontro fu importante soprattutto per le conseguenze sugli equilibri fra le grandi potenze perché segnò la fine del dominio francese sul Ducato di Milano e della politica espansionistica della Francia sulla nostra penisola. Oltre al re Francesco I, fatto prigioniero, tradotto a Madrid e liberato dopo un anno su pagamento di un forte riscatto, parteciparono alla battaglia (trovandovi in molti casi la morte) i rampolli dei casati più nobili d’Europa, spesso combattenti su fronti opposti anche se originari delle stesse terre, a testimonianza di un momento storico confuso, dei rovesciamenti continui delle alleanze e dei giochi politici e militari in atto fra i vari potentati italiani e stranieri, delle enormi tensioni che caratterizzarono quegli anni. Paesaggi ben riconoscibili per la fedeltà topografica ai luoghi dove si svolse realmente lo scontro fanno da cornice, nei panni, alle scene della battaglia nel momento in cui le truppe imperiali prendono il sopravvento: ogni arazzo raggruppa più episodi disposti su vari piani, come in istantanee fotografiche, mostrando cavalieri racchiusi in splendide armature, cinti di elmi piumati, armati di lance e montati su possenti destrieri, che si affrontano a duello; e ancora fanti abbigliati con giubboni dagli intensi colori, equipaggiati con spade e archibugi, soldati che manovrano a fatica alcuni dei primi esemplari di artiglierie da campo, insieme a torme di La Battaglia di Pavia Avanzata dell’esercito imperiale e attacco della gendarmeria francese guidata da Francesco I (particolare: l’ammiraglio di Francia Guillaume Gouffier) Napoli, Museo di Capodimonte




Lanzichenecchi che combattono ferocemente, in una confusione di carriaggi e salmerie rovesciate e imprigionate nel fango che vengono travolte nel parapiglia generale. Le sette scene sono state identificate come segue: 1) Avanzata dell’esercito imperiale e attacco della gendarmeria francese guidata da Francesco I. 2) Sconfitta della cavalleria francese. Le fanterie imperiali si impadroniscono delle artiglierie nemiche. 3) Cattura del re di Francia Francesco I. 4) Invasione del campo francese e fuga delle dame e dei civili al seguito dell’esercito di Francesco I. 5) Fuga dei civili dal campo francese. Gli Svizzeri si rifiutano di avanzare nonostante gli incitamenti dei loro capi. 6) Fuga dell’esercito francese e ritirata del duca d’Alençon oltre il Ticino. 7) Sortita degli assediati e rotta degli Svizzeri che annegano in gran numero nel Ticino. Fra gli episodi immortalati dagli arazzi il secondo in particolare toccava l’immaginario della nobile famiglia d’Avalos, tra le più cospicue dell’Italia meridionale per ricchezza e rilievo politicosociale: un casato da sempre al servizio dei re di Spagna - gli Aragonesi prima, gli Asburgo poi -, che, dal XVI secolo, poteva fregiarsi, fra altri, anche del titolo di marchesi di Pescara e del Vasto. I d’Avalos d’Aquino e d’Aragona erano parte di un ceto aristocratico che attribuiva grande valore alla virtù militare ispirata dagli antichi e a un rapporto particolare con il sovrano, ed erano esponenti di una classe divenuta interlocutrice privilegiata del potere imperiale, dal quale aveva ottenuto molti benefici. La scena di quell’arazzo infatti mostra l’attacco degli imperiali sulla cavalleria e sugli artiglieri francesi da parte dei La Battaglia di Pavia Sconfitta della cavalleria francese (particolare: Ferdinando Francesco d’Avalos, marchese di Pescara) Napoli, Museo di Capodimonte


lanzichenecchi di Georg von Frundsberg: sulla sinistra del panno la scritta “MARQ.is DU-VASTE” identifica Alfonso d’Avalos (1502-1546), guida degli archibugieri imperiali, poi celebrato anche da Tiziano in un noto ritratto, mentre poco lontano è raffigurato il cugino Ferrante Francesco (1496-1525), identificato dall’iscrizione “MAR.sc DI PES.” (marchese di Pescara) il quale, insieme al Viceré di Napoli - il fiammingo Charles de Lannoy - e al Conestabile Carlo di Borbone, era uno dei comandanti in capo delle truppe dell’imperatore. Don Alfonso d’Avalos, che lasciò gli arazzi in eredità alla città di Napoli, era un lontano discendente dei due combattenti immortalati nel panno. Ma come giunsero gli arazzi, dalle Fiandre, dove furono tessuti, alla Spagna, poi in Italia e Austria e, da ultimo, definitivamente a Napoli? L’opinione fondata su una tradizione familiare che vedeva nei panni della battaglia di Pavia un dono dell’imperatore Carlo V al marchese di Pescara per le azioni eroiche compiute durante lo scontro è stata smentita da palesi incongruenze storiche: Ferrante d’Avalos morì negli ultimi mesi del 1525, per le ferite riportate in battaglia, o secondo altre fonti di tisi, ed è impossibile legare il suo nome all’origine degli arazzi (Wouters, 1878). Invece, se si pospone il dono di circa cinquant’anni rispetto ai fatti narrati (negli arazzi e dalla tradizione familiare) e se i protagonisti vengono individuati in Don Carlos (1545-1568), figlio del re Filippo II di Spagna e nipote di Carlo V, e in Francesco Ferrante d’Avalos (15301571), marchese di Pescara e del Vasto, figlio del cugino del condottiero trionfatore a Pavia, l’opinione tradizionale si riconcilia, in parte, con la ricostruzione storica e con le evidenze archivistiche. La Battaglia di Pavia Sconfitta della cavalleria francese (particolare: Georg von Frundsberg, capo dei lanzichenecchi) Napoli, Museo di Capodimonte



La Battaglia di Pavia Cattura del re di Francia Francesco I (particolare: Carlo di Borbone) Napoli, Museo di Capodimonte


I documenti attestano che la serie fu offerta a Carlo V dall’Assemblea degli Stati Generali tenutasi a Bruxelles nel palazzo imperiale nel 1531 durante un consesso che aveva sancito l’investitura della sorella Maria d’Ungheria a nuova Reggente dei Paesi Bassi; ma circostanze e persone legate alla commissione rimangono misteriose. Il ciclo fu poi allestito nel 1549 nel castello di Binche, residenza della governatrice, che in quel momento ne aveva evidentemente la disponibilità, per celebrare un altro incontro “familiare” degli Asburgo, fra Carlo V e il figlio Filippo, Maria d’Ungheria ed Eleonora, la sorella maggiore dell’imperatore da poco divenuta regina di Francia; e ancora gli arazzi sono menzionati nel 1556 quando a Bruxelles, nuovamente nel palazzo imperiale, fecero da cornice (in realtà poco opportuna…) alla firma del trattato di Vaucelles, ennesima pace fra Spagna e Francia. In proposito le fonti ricordano che l’ammiraglio Coligny, rappresentante del nuovo re Enrico II aveva vivacemente protestato e che l’incidente diplomatico era stato superato grazie alla burla di un buffone francese il quale era riuscito a stemperare gli animi da entrambe le parti. Maria d’Ungheria, che rientrò in Spagna a fine mandato proprio nel tardo 1566, aveva disposto che gli arazzi fossero destinati al bisnipote allora tredicenne, Don Carlos che ne venne in possesso nel 1558, come si evince dalle ultime volontà della Reggente. Nel 1564 a sua volta il principe ereditario aveva deciso di lasciare la serie al suo tutore, Honorato Jaun, vescovo di Burgos e Osma (che era stato precettore anche di Filippo II), il quale però premorì a Don Carlos, nel 1566. Quest’ultimo passaggio –cioè la decisione di alienare, donandola a “estranei” una serie pur così preziosa - è un segnale che getta una nuova luce sul perché il set non sembri avere mai incontrato il favore della corte, primo fra tutti di Carlo V al quale era stato donato. Negli ultimi studi (Buchanan, 2002) è stato enfatizzato come il ciclo di Pavia non venga mai citato nell’inventario dei beni personali dell’imperatore.


D’altro canto, non sapendo né da parte di chi né perché gli arazzi vennero donati si può solo osservare che nel 1531 le scene della serie erano già state sacrificate dalla “Storia” sull’altare della ragione di stato: le alleanze erano mutate e gli arazzi non solo non erano più attuali, ma addirittura erano divenuti imbarazzanti e inusabili nelle cerimonie ufficiali: Francesco I di Francia, umiliato nello scontro e così “fotografato” negli arazzi, dal 1530, in ottemperanza alle clausole del trattato di Madrid, era divenuto cognato dell’imperatore Carlo V! In questa ottica, a maggior ragione il ciclo continuava a rappresentare un problema per la dinastia degli Asburgo dopo che Filippo II, nel 1559, in seguito alla pace di Cateau Cambresis aveva sposato in terze nozze Elisabetta di Valois (1545-1568), nipote proprio del sovrano così poco onorevolmente ritratto negli arazzi. Gli episodi legati alla cattura del re di Francia erano divenuti in tal modo ancora più scomodi e forse proprio per tale ragione la serie, alla morte di Maria d’Ungheria, non era stata inclusa nei beni di Filippo II ma era passata direttamente a Don Carlos, “parcheggiata” fra i suoi beni. Morendo quest’ultimo nell’agosto del 1568, solo pochi mesi prima della matrigna Elisabetta che si spense di parto nell’ottobre dello stesso anno - ma questo Filippo ovviamente non poteva saperlo - il problema della gestione dei panni si ripropose in tutta la sua delicatezza. Si può allora ipotizzare che il re, valutando per la seconda volta nel giro di pochi anni l’impossibilità di incamerare fra i propri beni la Battaglia di Pavia, nell’arco dei tre mesi che separano le morti di Don Carlos e di Elisabetta, abbia destinato la serie a una personalità a lui molto vicina che aveva un legame intimo e fortissimo con gli arazzi. Costui era Francesco Ferrante d’Avalos il quale ritrovava negli arazzi il ricordo del padre, La Battaglia di Pavia Cattura del re di Francia Francesco I (particolare: tre cavaliere alzano la spada in segno di vittoria) Napoli, Museo di Capodimonte




Alfonso d’Avalos marchese del Vasto e dell’altro suo celebre avo, quasi suo omonimo, Ferrante Francesco d’Avalos, marchese di Pescara. E così “i sette pezi di tapezaria di figure co’ oro con l’impresa di Pavia” donatigli nel 1568, vengono citati per la prima volta nelle mani dei d’Avalos il 13 luglio 1571, nell’atto del notaio palermitano al quale Francesco Ferrante aveva affidato le sue ultime volontà. In questo modo Filippo II si era “liberato” di arredi inservibili, gratificando al contempo, con un dono magnifico, un nobile che lo aveva servito per anni con totale abnegazione. Per un curioso scherzo della storia gli arazzi arrivarono quindi ai d’Avalos due generazioni dopo i fatti di Pavia, quando il legame che univa i discendenti della dinastia asburgica ai rampolli dei nobili marchesi di Pescara e del Vasto si era fatto, se possibile, addirittura più saldo e, a ben leggere le fonti, la loro frequentazione, basata su una totale fiducia, divenne intima e continuativa. Il giovane Francesco Ferrante era stato ammesso a corte, grazie ai buoni uffici della madre Maria d’Aragona già nel 1548, ed era rimasto per qualche tempo proprio al servizio del principe Filippo, seguendolo in Inghilterra nel 1554, in occasione delle nozze con la regina inglese Maria Tudor. Fu poi capitano militare e governatore di Milano dal 1560 al 1563. Durante quest’ultimo incarico il d’Avalos era stato anche nominato da Filippo suo rappresentante personale al Concilio di Trento e aveva difeso Malta da una minaccia turca nel 1566. Tutta la sua vita si dipanò a stretto contatto con il principe ereditario e poi re Filippo II, per il quale Francesco Ferrante aveva svolto delicati incarichi che culminarono nella nomina a Viceré di Sicilia l’11 aprile 1568. Fu quindi un dignitario di corte potentissimo e fedele al suo re, interessato a tutto ciò che riguardava la La Battaglia di Pavia Invasione del campo francese e fuga delle dame e dei civili al seguito dell’esercito di Francesco I (particolare: gruppo di soldati e di civili) Napoli, Museo di Capodimonte



La vetrina con le selle, le staffe e due portapistola Vasto, Musei di Palazzo d'Avalos


tradizione di famiglia, come dimostra anche l’elenco dei dipinti della sua collezione che si può leggere nel testamento del 1571, dove un posto preponderante avevano i ritratti degli antenati. Il patrimonio di Francesco Ferrante – che nel 1552, con un matrimonio che ampliava la rete d’illustri parentele e accresceva le sue prospettive di carriera, aveva sposato Isabella Gonzaga, figlia del duca di Mantova Federico II, nipote del cardinale Ercole e di Ferrante Gonzaga, governatore dello Stato di Milano -, compresi verosimilmente i preziosi arazzi fiamminghi, nel 1571 passò all’unico figlio Alfonso Felice, di soli sette anni, affidato alle cure dello zio paterno, il cardinale Innico d’Avalos. Uscito di tutela, il giovane marchese si era maritato, a sua volta, con l’esponente di un’altra importantissima e nobile schiatta, Lavinia Feltria della Rovere (1558-1632), sorella del Duca di Urbino. Alfonso Felice morì giovanissimo nel 1593, a soli ventinove anni, dopo una vita dissoluta trascorsa fra la Spagna e le Fiandre, lasciando debiti per 600.000 scudi che costrinsero la vedova a vendere e alienare oggetti preziosi e rendite. Il titolo nobiliare, in mancanza di eredi maschi, fu trasferito alla figlia maggiore Isabella, ultima discendente della linea principale della famiglia che, nel 1597, si unì in matrimonio con Innico d’Avalos proveniente da un ramo cadetto della famiglia, perpetuando nome e patrimonio e trasferendosi a Vasto. La storia familiare dei d’Avalos tramandava che gli arazzi sarebbero rimasti sempre nella disponibilità della stirpe, passando di generazione in generazione, ma ciò non corrisponde al vero, almeno nella seconda metà del XVIII secolo. Nel primo Settecento la Battaglia di Pavia si incontra infatti a Venezia, in possesso della famiglia Grassi, per tre generazioni (Paolo, il figlio Angelo e i nipoti Bortolo, Paolo e Giovanni), probabilmente in seguito a un acquisto. Di sicuro sappiamo che, nel 1706, gli arazzi di Pavia non si trovavano nella residenza viennese del capo del casato di allora, il marchese Cesare Michelangelo d’Avalos (1667-1729), esule


La Battaglia di Pavia Cattura del re di Francia Francesco I (particolare: Carlo di Lannoy vicerè di Napoli) Napoli, Museo di Capodimonte


La Battaglia di Pavia Fuga dell’esercito francese e ritirata del duca d’Alençon oltre il Ticino (particolare: uomo caduto in acqua) Napoli, Museo di Capodimonte


in seguito alla partecipazione alla congiura del Principe di Macchia contro Filippo V di Spagna. Un inventario dei beni trasportati a Vienna - che elenca molti arazzi, anche assai preziosi, ma non la serie di Pavia - dà un’idea dei tesori d’arte posseduti dalla famiglia negli anni della signoria su Vasto, città che i d’Avalos avevano abbellito con la costruzione di nuovi edifici e residenze suburbane e dove spesso soggiornavano, nel palazzo avito riportato agli antichi fasti. Il marchese potrebbe non avere portato con sé la serie, per le enormi dimensioni dei panni; oppure, prestando fede a una tradizione orale, si può pensare che li avesse impegnati a Venezia per sostenere gli oneri dell’esilio. Da Vienna, il munifico Cesare Michelangelo - che nel 1704, dall’imperatore Leopoldo I aveva ottenuto anche il titolo di principe e il diritto di battere moneta - rientrò in Abruzzo con la moglie nel 1713 e per anni, fino alla morte, condusse una vita di sfarzi. In proposito, nella cronaca dell’incontro avvenuto il 23 ottobre 1723 con il conestabile Fabrizio Colonna, giunto a Vasto per essere insignito dell’ordine del Toson d’oro conferitogli dall’imperatore Carlo II per tramite del marchese d’Avalos, si legge la descrizione dettagliata del luogo in cui avvenne la fastosa cerimonia (“i padiglioni presi nelle guerre contro i turchi e la gran tenda che l’imperatore Carlo V aveva donato a Ferdinando Francesco d’Avalos in memoria d’essersi a questi reso Francesco I nella giornata di Pavia”); come è evidente, non si parla dei panni, a meno di non volere interpretare “tenda” come gli arazzi, ma con una forzatura evidente. Morendo, Cesare Michelangelo lasciò una quantità enorme di debiti, tanto che, nel 1735, la Regia Camera decretò il sequestro dei suoi beni feudali. Un altro inventario del 13 ottobre 1736, riferito ai soli cespiti del palazzo di Vasto, ancora una volta non cita gli arazzi di Pavia. Sembrerebbe invece che il set sia stato presente a Vasto, nel palazzo, nel 1742, secondo quanto si dice riporti un “Apprezzo” riferito a quella data, ma la notizia,


sempre riproposta negli studi ma mai ricontrollata, andrebbe verificata in quanto in contrasto con la certa presenza degli arazzi a Venezia più o meno nello stesso torno d’anni. Nel 1771, nella città lagunare, i panni passarono di mano, venendo venduti dai Grassi al patrizio veneziano Daniele I Delfino (Dolfin) che li acquistò tramite un intermediario, un certo “Monsieur Dublin”. Nel 1774 viene stampato un raro opuscolo “Breve notizia degli Arazzi posseduti dalla Eccellentissima Casa Delfino”, un pamphlet promozionale collegato con il documentato tentativo di vendere i panni alla corte austriaca di Milano, attraverso l’Ambasciatore veneziano Vignola, tentativo che non ebbe esito positivo” (Forti Grazzini, 2000). Gli stralci della corrispondenza fra il Principe Von Kaunitz e gli intermediari per declinare l’offerta di acquisto sono il manifesto del mutamento del gusto: nel clima rococò imperante non si apprezzavano più i panni cinquecenteschi, buoni ormai, si affermava, “solo per l’addobbo della chiesa di corte, perché troppo tetri e malinconici”. E’ possibile che proprio in quella circostanza gli arazzi siano stati decurtati delle bordure inferiori (“Un Bordo superbissimo di Frutta, Fiori, Uccelli ed Animali; il tutto nei colori più vivi, animati e perfettamente conservati con in fondo un Basamento di Gruppi di Tritoni a chiaro scuro lumeggiati d’oro, sul disegno di Giulio Romano”) identiche nella descrizione a quelle che corredano un’altra importantissima serie fiamminga del XVI secolo, le “Cacce di Massimiliano” oggi al Louvre, forse per tentare un’ultima disperata manovra che li adattasse, nelle dimensioni verticali almeno, a un possibile allestimento negli ambienti del Palazzo Reale di Milano. Solo successivamente, in una data imprecisata entro il 1815, un altro discendente dei d’Avalos, il principe Tommaso riacquistò la serie, che rimase esposta nel palazzo napoletano della famiglia, fino al loro lascito, da parte di Don Alfonso al Museo Nazionale di Napoli, nel 1862.


La Battaglia di Pavia Sortita degli assediati (particolare: soldati che tentano di fuggire) Napoli, Museo di Capodimonte


A Napoli i panni vennero molto lodati e continuarono a essere oggetto di pubblicazioni ma anche di invenzioni fantasiose. Ne parlano Morelli, nel 1899, che li chiama “arazzi del Vasto” e che si rifà all’opera dell’abate Domenico Romanelli, del 1815, come anche Catalani nel 1845 e Chiarini nel 1856. Nel 1896 era stato pubblicato da Luca Beltrami l’opuscolo “La battaglia di Pavia illustrata negli arazzi del Marchese del Vasto, al Museo Nazionale di Napoli” in tiratura limitata che prendeva ancora per buona l’attribuzione dei disegni a Tiziano per le figure e al Tintoretto per gli ornati dei bordi. Scrissero sugli arazzi anche il direttore dell’Arazzeria Vaticana del San Michele, il cavalier Pietro Gentili nel 1874 e nel 1878 (il padre Eraclito li aveva restaurati nel 1853, quando erano ancora in possesso della famiglia d’Avalos), e Salvatore di Giacomo sulla rivista “Emporium”, nel 1897. Anche nel Novecento sono stati moltissimi i contributi che si sono occupati degli arazzi della Battaglia di Pavia, in Italia e all’estero; il saggio di Casali, Fraccaro e Prina del 1993 ha riassunto in modo completo le maggiori questioni aperte, sia per quanto riguarda gli aspetti storico artistici che quelli militari, con uno studio accurato delle ambientazioni reali delle scene nel territorio pavese. Le scoperte archivistiche di Buchanan, nel 2000 e nel 2002 hanno aggiunto nuovi tasselli alla ricostruzione storica. La possibilità che ci è data oggi, di ammirare la serie completa al Museo di Capodimonte, in buono stato di conservazione soprattutto dopo un restauro concluso nel 1999, ha del miracoloso: le complesse vicissitudini di questi panni, in buona parte ricostruite, pur con periodi ancora avvolti nel mistero, ci hanno consegnato un capolavoro dell’arte dell’arazzo, frutto di un periodo glorioso e difficile, un capolavoro giunto a noi anche grazie all’orgoglio dinastico di un potente e celebre lignaggio che ha saputo conservare il suo patrimonio artistico come testimonianza di un’importante storia familiare, donandolo infine, con grande generosità, all’Italia tutta.


Intervento di restauro delle selle d’Avalos di Cecilia Bartoli Breve descrizione dei manufatti Le quattro selle da parata dei Principi d’Avalos sono rarissimi manufatti polimaterici costituiti da un telaio di supporto in legno, finiture e cinghie in cuoio, 1 cm di spessore di “cartone” come intercapedine tra legno e tessuto, uno strato di canapa ed il tessuto a vista in gros de tour, impreziosito con filati metallici, oro e argento, in seta applicati a ricamo. Il gros copre anche l’imbottitura, che interessa quasi interamente le selle, costituita da bambagia e cotone. Questo livello di imbottitura sembrerebbe piuttosto un vecchio intervento di restauro. La seta è rifinita perimetralmente da frange in filato metallico e filati di seta. Misure: Lunghezza cm. 70; larghezza cm. 80; altezza (anteriore) cm. 46; altezza (posteriore) cm. 38. Epoca: Sec. XVII Stato di conservazione Le selle si trovavavano in un pessimo stato di conservazione. Tutta la superficie era ricoperta da uno spessissimo strato di sporco di varia natura che offuscava completamente il tessuto. Muffe e funghi avevano colonizzato il tessuto in gros de tour e ne avevano accelerato il degrado. Le fibre erano estremamente consunte e lasciavano scoperta l’imbottitura sottostante che, in alcuni casi, era fuoriuscita. Questo fenomeno di degrado era presente su circa il 75% della superficie. Dove il tessuto si era conservato, appariva con le fibre molto allentate ed i fili della trama spesso erano sollevati. Nelle parti più protette si era


conservata la decorazione floreale a ricamo, che comunque si trovava anch’essa in pessime condizioni di conservazione. I filati di seta erano allentati, ed in piÚ punti i fili apparivano sollevati. Il ricamo era scucito dai suoi alloggiamenti originali, ed in piÚ punti era in un precario stato di adesione al supporto. Il cuoio sottostante, fissato al telaio in legno, era in un pessimo stato di conservazione. Interessato da fenditure, tagli e da una disidratazione diffusa su tutta la superficie.


Intervento di restauro Parti in tessuto Pulitura meccanica con pennelli morbidi. Protezione di tutta la superficie attraverso un rivestimento di tulle fermato con punti in filato di organzino (adeguatamente tinto). Messa in forma di tutte le zone interessate da deformazioni. Microaspirazione di tutto il manufatto, del supporto e della superficie decorata. Smontaggio del tulle al fine di procedere con la fase di consolidamento. Test di soliditĂ dei filati e dei colori al lavaggio eseguiti con acqua deionizzata alcool. Posizionamento delle fibre del tessuto di rivestimento in gros de tour e successiva fermatura delle stesse con filato di organzino (adeguatamente tinto).


Fissaggio a cucito su supporti locali, delle zone lacunose e delle parti fessurate con velo di Lione adeguatamente tinto, trattato, ove necessario, con resina termoplastica (80% acqua – 20% resina termoplastica). Fissaggio a cucito, dei fili del ricamo sollevati. Fissaggio a cucito di tutta la superficie della sella con maline adeguatamente tinta.


Parti in cuoio Pulitura meccanica con spugne assorbenti con acqua deionizzata. Test di tenuta del cuoio e misurazione del pH. Pulitura chimica a tampone con Beva. Posizionamento delle parti in cuoio. Ammorbidimento della superficie con olio di pelo di bue passato a pennello. Rifinitura della superficie con olio di pelo di bue.


Decorazioni e guarnizioni metalliche Pulitura meccanica per abrasione (microtrapano, fibre di vetro). Ammorbidimento delle frange con acqua ed alcool denaturato. Messa in forma delle stesse. Fermatura ove necessario, a cucito con filo di organzino (tinto adeguatamente) Pulitura delle frange con alcool. Fissaggio a cucito dei fili dei ricami rialzati e scomposti.


Le selle d’Avalos di Maria Giuseppa Dipersia Databili tra il XVI ed il XVII secolo, le selle d’Avalos sono composte da una struttura di legno rinforzata da lamine di ferro, da diversi supporti (cuoio, cartone, canapa), da imbottiture di bambagia, da tessuti di rivestimento esterno, tutti fissati da chiodi, e infine da una frangia di rifinitura. Tre selle presentano la seduta in seta avorio e le parti esterne ricamate con filati d’oro, d’argento e rame a titolo basso in punto posato o steso, i cui fili risultano legati due a due al tessuto di fondo con piccoli punti di fermatura in filato di seta non ritorta e distribuiti in maniera non regolare. Il motivo decorativo fitomorfo si svolge ad andamento ondulante, i rami e le foglie sono profilate da cordoncino. Una di esse è caratterizzata dal fondo ricoperto da filati d’argento legati due a due al tessuto sottostante con piccoli punti di fermatura e dal ricamo applicato costituito da


foglie accartocciate in filato e lamina d’argento, oro e rame che ne determinano il rilievo. Quest’ultima particolarità è ottenuta con impregnatura di colla derivante dalla tradizione tedesca del secolo XVI. La sella presenta, inoltre, sferette metalliche che contornano la corolla al cui centro, come è visibile in alcuni punti, si trovava una semisfera sicuramente contenente una pietra dura. La quarta sella ha la seduta in velluto cremisi e le parti esterne in cuoio ricamato a motivi di gigli e margherite in punto scritto e reale, molto diffuso nel XVI secolo; elementi metallici fitomorfi contornano lo schienale. Rinvenute nelle cantine di Palazzo d’Avalos a Vasto nel 2003 dove erano conservate in pessime condizioni a causa dell’umidità e della polvere, le selle sono tornate a risplendere grazie al premuroso interessamento della collega, già funzionaria della Soprintendenza, Giovanna Di Matteo che, dopo il ritrovamento, le ha segnalate per la richiesta di finanziamento al Ministero per i Beni e le Attività Culturali,


procedendo poi all’affidamento al laboratorio di restauro e ricerca Bartoli s.r.l. di Roma che ne ha eseguito un soddisfacente intervento conservativo. La restauratrice si è trovata di fronte a una situazione complessa e alquanto difficile da gestire data proprio dalla composizione polimaterica delle selle e dalle alterazioni fisicochimiche causate dall’accumulo di sovrapposti strati di sporco

di varia natura, dall’attacco di muffe e funghi alle parti tessili e dalle ossidazioni su quelle metalliche. Come precisato nella scheda precedente, le selle sono state completamente smontate; ogni parte è stata trattata singolarmente tenendo conto delle problematiche intrinseche dei materiali, i quali hanno richiesto puliture meccaniche o chimiche con prodotti diversificati, prestando grande cura soprattutto per le parti tessili di lino, di seta intrecciati con fili di argento, di rame e di oro. Le parti in cuoio sono state ammorbidite con olio di pelo di bue, quelle in


tessuto sono state sottoposte a lavaggio con acqua deionizzata e alcool e si è provveduto al riposizionamento dei fili del ricamo e del tessuto. Le parti della seduta e quelle più deteriorate, infine, sono state protette da crepeline (tulle) opportunamente tinto nella stessa tonalità della stoffa originale per non interferire con la visione d’insieme. La struttura interna delle selle in legno rinforzata da lamine di ferro era ampiamente utilizzata tra la fine del Cinquecento e la metà del Seicento, periodo della presunta fabbricazione, come lo era anche la tecnica del ricamo ad applicazione. La foggia è di tipologia orientale diffusasi in Italia sin dal Medioevo. I materiali impiegati più o meno preziosi e soprattutto meno costosi erano richiesti dai proprietari che, divenuti meno esigenti rispetto ai secoli precedenti sia per le continue guerre da sostenere e sia per rispondere all’austerità dei costumi imposta dagli Spagnoli e dalla Chiesa, non richiedevano più agli oggetti lo status symbol, ma soprattutto la funzionalità e l’apparenza. I ricami, eseguiti con la tecnica ad applicazione di


facile esecuzione e di grande effetto, erano prodotti in tutta Europa e pertanto risulta difficile stabilirne la provenienza, ma l’eleganza e l’espressività dei motivi decorativi fanno propendere per una fattura italiana e l’appartenenza alla famiglia d’Avalos suggerisce un auto riferimento di questi rari manufatti ad ambito milanese. L’importanza della famiglia è ampiamente documentata, infatti Alfonso II, marchese di Pescara, fu governatore di Milano al tempo di Carlo V (15381546), carica conquistata con i successi militari alla guida dell’esercito imperiale nelle battaglie contro i francesi e così anche il figlio Francesco Ferrante ebbe tale carica dal 1559 al 1563. Non trascurabile nella città è la presenza di numerosi laboratori tessili, di ricamo, di produzione di filati metallici, di armi, di armature e di selle, tra i quali si ricordano quelli di Scipione Delfinone e Pompeo Berluscone. Le tonalità di colore differenti sono determinate dalla diversa percentuale dei metalli: il rossiccio con prevalenza di rame, il verdognolo di argento e il giallo di oro. I motivi decorativi utilizzati per questi preziosi manufatti si ritrovano nelle realizzazioni dei merletti ad ago e fuselli, nei lavori di oreficeria, tra le decorazioni dipinte o scolpite degli edifici, dei mobili e pubblicati nei numerosi libretti di disegni per oreficeria, merletti e tessuti a partire dalla seconda metà del Cinquecento e diffusi in tutta Europa. Bibliografia di riferimento L. Brenni, L’arte del battiloro ed i fili d’oro e d’argento, Milano, 1930; M. Schuette, S. Cristensen Muller, Il ricamo nella storia e nell’arte, Roma, 1963; Il Libro del sarto, Modena, 1987; Il Paliotto di Sisto IV ad Assisi, Indagini e intervento conservativo, Assisi, 1991; T. Boccherini, P. Marabelli, Atlante di storia del tessuto, Firenze, 1995.


Portantina, secolo XVII, Vasto, Musei di Palazzo d'Avalos


RESTAURO DELLE SELLE E DELLA PORTANTINA Ditta BARTOLI RESTAURO E RICERCA s.r.l., Roma Progetto e Direzione lavori: Giovanna Di Matteo Assistenza tecnico scientifica e direzione operativa: Roberto Pezzopane Fondi del Programma Ordinario 2004 del Ministero per i Beni e le AttivitĂ Culturali ALLESTIMENTO Realizzazione della vetrina: SICURMAX di Polisini Pierino, Montorio al Vomano (TE) Direzione di cantiere: Antonio Foglia Immagini degli arazzi: ARCHIVIO DELL'ARTE, Luciano Pedicini, Napoli Stampa su vetro: VENETO VETRO s.r.l., Montebelluna (TV) Plexiglass: IMMAGINE LUCE, Treglio (CH); ECOCEL s.p.a., Rosciano (PE) Televisore: SAMSUNG, acquisto tramite Consip Lampade Perroquet, design Gae Aulenti e Castiglione, iGUZZINI, Recanati Tinteggiatura: Impresa CHIARI SIRIO, Vasto (CH) Pellicole schermanti: QBIX, Vasto (CH) Apparati didattici: Litografia BOTOLINI, Lanciano (CH) Responsabile del Procedimento: Arch. Carlo Alberto Natalizia Progetto e Direzione Lavori: Ivana Di Nardo Assistenza alla progettazione e allestimento: Aurelio Ciotti Assistenza alla progettazione e direzione operativa: Roberto Pezzopane Collaborazione tecnico scientifica: Mario Salomone Direttore amministrativo: Mauro De Angelis Fondi del Programma Ordinario 2007 del Ministero per i Beni e le AttivitĂ Culturali HANNO COLLABORATO: Segreteria del Soprintendente: Graziella Mucciante, Sofia Cucchiella Vittorini Servizio Audiovisivi: Mauro De Angelis, Leonardo De Sanctis, Almerigo De Angelis Manutenzione delle selle e della portantina: Mario Salomone, Giovanni Bernardi Ufficio di Lanciano: Ivana Di Nardo, Maria Gaetani, Consiglio Martelli, Carlo Percario


Nessuna parte di questo quaderno può essere riprodotta o trasmessa in qualsiasi forma o con qualsiasi mezzo elettronico, meccanico o altro senza l’autorizzazione scritta dei proprietari dei diritti. Tutti i diritti riservati. Finito di stampare nel mese di Dicembre 2012 dalla Litografia Botolini srl


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