Confronti di marzo (parziale)

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marzo 2016

mensile di religioni · politica · società

“Facciamoci riconoscere” 6 EURO TARIFFA R.O.C.: POSTE ITALIANE SPA - SPED. IN ABB. POST. D.L. 353/2003 (CONV. IN L. 27/02/04 N.46) ART.1 COMMA 1, DCB

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marzo 2016

Anno XLIII numero 3 Confronti, mensile di religioni, politica, società, è proprietà della cooperativa di lettori Com Nuovi Tempi, rappresentata dal Consiglio di Amministrazione: Nicoletta Cocretoli, Ernesto Flavio Ghizzoni (presidente), Daniela Mazzarella, Piera Rella, Stefania Sarallo (vicepresidente). Direttore

Claudio Paravati Caporedattore

Mostafa El Ayoubi In redazione

Luca Baratto, Antonio Delrio, Franca Di Lecce, Filippo Gentiloni, Adriano Gizzi, Giuliano Ligabue, Michele Lipori, Rocco Luigi Mangiavillano, Anna Maria Marlia, Daniela Mazzarella, Carmelo Russo, Luigi Sandri, Stefania Sarallo,

Lia Tagliacozzo, Stefano Toppi. Collaborano a Confronti

Stefano Allievi, Massimo Aprile, Giovanni Avena, Vittorio Bellavite, Daniele Benini, Dora Bognandi, Maria Bonafede, Giorgio Bouchard, Stefano Cavallotto, Giancarla Codrignani, Gaëlle Courtens, Biagio De Giovanni, Ottavio Di Grazia, Jayendranatha Franco Di Maria, Piero Di Nepi, Monica Di Pietro, Piera Egidi, Mahmoud Salem Elsheikh, Giulio Ercolessi, Maria Angela Falà, Giovanni Franzoni, Pupa Garribba, Daniele Garrone, Francesco Gentiloni, Gian Mario Gillio, Svamini Hamsananda Giri, Giorgio Gomel, Laura Grassi, Bruna Iacopino, Domenico Jervolino, Maria Cristina Laurenzi, Giacoma Limentani,

Franca Long, Maria Immacolata Macioti, Anna Maffei, Dafne Marzoli, Domenico Maselli, Cristina Mattiello, Lidia Menapace, Adnane Mokrani, Paolo Naso, Luca Maria Negro, Silvana Nitti, Enzo Nucci, Paolo Odello, Enzo Pace, Gianluca Polverari, Pier Giorgio Rauzi (direttore responsabile), Paolo Ricca, Carlo Rubini, Andrea Sabbadini, Brunetto Salvarani, Iacopo Scaramuzzi, Daniele Solvi, Francesca Spedicato, Valdo Spini, Patrizia Toss, Gianna Urizio, Roberto Vacca, Cristina Zanazzo, Luca Zevi.

Amministrazione

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Gioia Guarna

Carolina Maria de Jesus) pag. 13 - Karen Cristina

Programmi

(Ocupação Carolina

Michele Lipori, Stefania Sarallo

Maria de Jesus) pag. 14 - Alexandre

Publicazione registrata presso il Tribunale di Roma il 12/03/73, n. 15012 e il 7/01/75, n.15476. ROC n. 6551.

Maciel (Ocupação Redazione

Carolina Maria de Jesus)

contatti

tecnica e grafica

pag. 17 - Alexandre

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Daniela Mazzarella

Maciel

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pag. 20 - Adriano Abreu

Sara Turolla

(Ocupação Carolina

@Confronti_CNT

Maria de Jesus) Hanno

pag. 24/25 - Alexandre

collaborato

Maciel (Ato Contra o

a questo numero

Aumento das Passagens)

C. Bettega, C.M. Calamani, E.C. Del Re, José Luiz Del Roio, R. Di Segni, I.C. Ferrero, A. Fucecchi, M.P. Giuffrida, G. Giulietti, T. Isenburg, M. Mazzoli, U. Melchionda.

pag. 26/27 - Alexandre Maciel pag. 31 - Alexandre Maciel (Ocupação Carolina Maria de Jesus) pag. 34 - Adriano Abreu (Ocupação Carolina Maria de Jesus)

RISERVATO

pag. 39 - Samara

AGLI ABBONATI

Takashiro (Ocupação Carolina Maria de Jesus) pag. 40 - Alexandre Maciel (Ocupação

foto/crediti

Carolina Maria de Jesus)

Copertina - Adriano

pag. 41 - Alexandre

Abbonamenti,

Abreu (Ocupação

Maciel (Ocupação

diffusione,

Carolina Maria de Jesus)

Carolina Maria de Jesus)

pubblicità

pag. 3 - Alexandre Maciel

e coordinamento

(Ocupação Carolina

programmi

Maria de Jesus)

Nicoletta Cocretoli

pag. 11 - Alexandre

Chi fosse interessato a ricevere, oltre alla copia cartacea della rivista, anche una mail con Confronti in formato pdf può scriverci a: info@confronti.net


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le immagini

fortezza a stelle e strisce Sono 6571 i morti, dal 1998 al 2015, tra i migranti che tentano di raggiungere il confine tra Messico e Stati Uniti. Un confine lungo 3200 chilometri, che dal 1994 in poi è stato gestito come una barriera, un muro, da sorvegliare e proteggere. Il tema migratorio è ancora oggi oggetto della campagna politica americana, lo affrontiamo col servizio a pagina 28. Foto di Abby C. Wheatley 3


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il sommario

il sommario gli editoriali

i servizi

Tornino i volti

UNIONI CIVILI

Luca Di Sciullo 6

titolo da fare Paolo Naso 7

titolo da fare

Felice Mill Colorni 9

titolo da fare

(int. a) Benedetta Selene Zorzi 11

“Una grottesca imposizione ideologica”

(int. a) Lucio Malan 13

Politica

A che punto è l’Italia di Renzi?

Biagio de Giovanni 14

È Possibile un Movimento di Sinistra? Roberto Bertoni 16

geopolitica

Iran e Arabia Saudita: così vicini, così lontani Franco Cardini 18

CHIESA CATTOLICA

titolo da fare Luigi Sandri 22

immigrati

Criminali e polvere nel deserto

Marta Bernardini 27

Una bussola che punta al Nord globale Abby Wheatley 29

società

Uomini e caporali, la schiavitù senza catene Marco Omizzolo 31

le notizie

le rubriche

i Libri

Informazione Rapporto di Reporters sans frontières

Diario africano L’ottima salute del terrorismo in Africa

Un’India stretta fra spiritualità e violenza

Immigrazione Nel 2015 un milione di persone fuggite in Europa

Note dal margine Quando una luce rompe la foschia

Segnalazioni

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Pluralismo Anche in Veneto una legge “anti-moschee”? 36

Chiese Record di download di moduli per lo sbattezzo 36

Medio Oriente Netanyahu irritato dall’Accordo tra Santa Sede e Palestina 36

Giubileo L’Anno santo in Georgia si apre con una porta in un prato 37

Anglicani Scisma evitato o solo rimandato? 38

Enzo Nucci 40

Giovanni Franzoni 41

Salute e religioni Curarsi per cultura: islam e medicina

IlhamAllah Chiara Ferrero 42

Spigolature d’Europa Polonia e Ungheria: due Paesi e due misure Adriano Gizzi 43

Maria Immacolata Macioti 44

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immagini

Un mondo da difendere Adriano Abreu copertina

Brasile

Adriano Abreu Karen Cristina Alexandre Maciel da Silva Samara Takashiro 3


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Semi e fiori di pace Claudio Paravati

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a molti anni, questa è la diciottesima edizione, siamo impegnati come Confronti nel progetto “Semi di pace” (22-28 febbraio 2016), col quale portiamo in Italia testimoni da Israele e Palestina, operatori di pace che raccontano le loro storie, i loro progetti, le loro sfide quotidiane. Semi di pace, che non si può far altro che curare, da lontano, cercando di contribuire alla loro crescita e vitalità. Ma certo l’agone politico è ben altra cosa, gigante rispetto alle nostre forze. Eppure anche a fronte del nostro quotidiano, fatto di attività varie, vicende personali, preoccupazioni e tutto ciò che riguarda le nostre vite, il seme intanto germoglia e cresce senza che si sappia come. Come dire: ognuno faccia la propria parte. Il programma Semi di pace propone ancora una volta uno spazio pubblico, incontri nelle scuole e per le associazioni, a Roma e in Italia, affinché quel dibattito pubblico, massmediatico, spesso facile ai toni forti e alle contrapposizioni senza se e senza ma, viva anche di queste testimonianze. Quelle di chi nel quotidiano costruisce progetti di pace. In tanti anche da noi in Italia, disincantati o delusi, esprimono una sfiducia che talvolta rasenta la rinuncia per una possibile soluzione del conflitto in corso in un’area che, ahinoi, vive una stagione drammatica. Quel Vicino Oriente tutto, su cui la geopolitica mondiale agisce, ancora una volta sulla pelle delle popolazioni locali, il braccio di ferro, complicato, stratificato, degli equilibri politici internazionali. Quanto è importante ricordarsi dei volti, delle singole vite e delle storie particolari, proprio in momenti come questi. Attraverso Semi di pace, ecco potremmo dire così, incontriamo volti, storie e testimonianze. Senza la pretesa di far crescere piante, ma semmai con l’impegno, quello sì, di curare i “semi”. Quest’anno abbiamo incontrato Ikhlas e Tova, dell’associazione “Parents’ Circle”; Mossi e Maysa, di Radio “All For Peace”; Nachshon e Luy, di “Road to Recovery” e “Basmat al-Amal”. Semi, dunque, ancora una volta, che però (questa è la speranza) crescono. In che modo, dipende anche da noi. Non perdetevi i loro racconti sui prossimi numeri di Confronti.

invito alla lettura


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gli editoriali

Tornino i volti

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volti, finalmente. Quelli di una giovane mamma siriana e della sua bambina bisognosa di cure, atterrate a Fiumicino lo scorso 4 febbraio grazie al primo “corridoio umanitario” promosso in Italia dalla Federazione delle Chiese evangeliche e dalla Comunità di Sant’Egidio, con il sostegno, tra l’altro, dell’Otto per mille della Chiesa valdese, riservato a mille profughi in condizioni di vulnerabilità che si trovino in stati limitrofi a quelli di guerra, persecuzione, morte. I volti, finalmente. Una carne e un incarnato. Tratti umani in cui cercarsi e possibilmente ritrovarsi, riconoscersi. Distinguersi, anche. Prendere le distanze, perfino. Distanze umane, però. È davvero troppo poco, una moneta uguale smerciata ai suoi quattro angoli, per fare identità. Nella sua effige avveniristica impressa su un soldo (un logo stellato, che più che mai evoca lontananze siderali, vuoti cosmici irraggiungibili), l’Europa cartolarizza il suo debito di identità. Svende se stessa, polverizzandosi. E paga così, dietro un’effige volutamente impersonale, il lavoro sporco (tre miliardi di euro) a chi ha dato buona prova di spregiudicatezza per proteggere dalle nuove invasioni post-moderne la fragile bolla d’ossigeno in cui il (sempre più) vecchio continente boccheggia. Le sue “radici” seccano al sole artificiale, telematico, dei mercati finanziari. Alla dura legge della ripresa a Luca Di Sciullo tutti i costi, dei Centro studi e ricerche Idos. differenziali di

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Luca Di Sciullo

rendimento, dell’austerity sì e no. Non capisce più chi sia, cosa sia. Perché non sa più, in fondo, dove sia. Le sue frontiere, le linee che ne tracciano il profilo, che ne disegnano il volto – i con-fini insomma: quei limitiche-condivide, letteralmente, con il mondo “terzo”, il concorrente della porta accanto – sono sempre più liquidi. Ma di una liquidità inversa: si ergono, solidi e gelidi come il ghiaccio, non appena il “contesto” si fa caldo, rovente.

“Grazie al primo corridoio

umanitario promosso da Fcei e Sant’Egidio, centinaia di profughi hanno trovato accoglienza nel nostro paese

Come in estate, tempo di traversate, di barche in mare, di immersioni subacquee... e si sciolgono, fino ad appiattirsi, quando tutto si raffredda. Dublino d’estate, Schengen d’inverno. Nel mezzo: il malinconico autunno comunitario. Muraglie o distese (di sabbia o di mare): spinate o spianate. Comunque non-luoghi. Mai soglie. Morirvi significa accettare, oltre al tragico destino, l’insulto beffardo che sempre accompagna l’abitare un non-luogo: l’anonimato, la cancellazione del volto, la riduzione a cifra (prerogativa di ogni “campo” di emarginazione che la storia attesta: profughi, rom, di concentramento...). Si vive, dicono, in società complesse. Una complessità che interpola, all’interno dei rapporti intersoggettivi, una serie di mediazioni oggettive

che si moltiplicano esponenzialmente con l’estendersi dell’orizzonte sociale di riferimento. Agenzie, servizi, enti “di collegamento” che intervengono a “regolare” l’incontro e la relazione a tutti i livelli: tra datore di lavoro e lavoratore, tra acquirente e venditore, tra cliente e fornitore, tra risparmiatore e investitore, tra colleghi di “categoria”, tra coinquilini. E persino tra (possibili) partner sentimentali. La continua differenziazione di queste strutture, tanto più astratte e distanti quanto più operano a livelli ulteriori di mediazione (“società di società”, “servizi di servizi”, ecc.) e in forma sempre più impalpabile (“in remoto”, online, on cloud; con sempre meno sedi “materiali” o sportelli “fisici”), non solo rende i rapporti umani tanto più indiretti e impersonali, ma anche sempre più condizionati da una rappresentazione dell’altro standardizzata, precostituita. Questa complessità ha fatto dell’assenza una forma parossistica della presenza: così, l’assenza è un assedio. L’orizzonte sociale, quello che ci dà identità, diventa tanto più inafferrabile quanto più si fa pervasivo nella spessa schermatura di infrastrutture sempre più sfuggenti, dove il “faccia a faccia” è rimandato a un altrove inimmaginabile di cui il monitor (di computer, tablet, pc, televisori onnipresenti) costituisce il nuovo fantasmagorico velo di Maia. Tornino i volti, finalmente. Quelli della piccola Falak, di sua madre Yasmine, di papà e fratellino. All’aeroporto di Fiumicino, il 4 febbraio scorso.


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La strada in salita del Consiglio per l’islam

P

uò capitare che dopo una vita passata a descrivere, valutare e criticare le politiche sull’islam, ci si trovi nella condizione di poter avanzare proposte e suggerimenti a chi ha il potere di prendere delle decisioni ai più alti livelli istituzionali. È accaduto al gruppo di “esperti”– alcuni dei quali firme ricorrenti su Confronti, compresa la mia – che nello scorso dicembre il ministro Alfano ha nominato membri del Consiglio per l’islam, un organismo consultivo che affianca la “Consulta” composta, invece, dai rappresentanti delle associazioni di musulmani che operano in Italia. E così, mentre in tutta Europa sale l’ondata islamofobica e da più parti si chiede di respingere alle frontiere gli immigrati musulmani, il Viminale sembra imboccare la strada opposta del dialogo e del confronto diretto con questa comunità che in Italia, come noto, ha superato da tempo il milione e mezzo di membri. Diciamo pure che la nomina di organismo consultivo non è una novità. Una prima “Consulta” era già stata istituita dal ministro Pisanu nel 2005 e confermata dal suo successore Amato nel 2006. Questo organismo, che raccoglieva le diverse anime dell’islam italiano, entrò in crisi nel 2007 per varie ragioni ma soprattutto per la “rottura” con l’Unione delle comunità islamiche d’Italia (Ucoii) seguita alla pubblicazione di un manifesto che equiparava i bombardamenti israeliani in Libano alle stragi naziste delle Fosse Ardeatine e di Marzabotto. Da destra e da sinistra si levò un coro unanime:

“fascismo islamico”, “paragone vergognoso e inquietante”, “iniziativa opposta a quella del dialogo e della pace”. Il Ministro e i suoi consiglieri pensarono che la via d’uscita alla crisi interna alla “Consulta” potesse essere l’approvazione di una “Carta dei valori della cittadinanza e dell’integrazione” che impegnasse

gli editoriali

Paolo Naso

tutte le organizzazioni islamiche a rispettare alcuni valori fondamentali della Repubblica. Seguì un lungo lavoro che produsse un testo che in 31 articoli richiamava e sintetizzava i principi e le norme fondamentali della Costituzione. La “Carta” fu quindi presentata ufficialmente nel 2007 e sottoscritta da vari enti religiosi, non solo islamici, ma non

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dall’Ucoii che ritenne superfluo formalizzare ciò che a suo avviso era ovvio ed implicito: ovvero che l’organizzazione e i suoi aderenti riconoscono e si impegnano a rispettare le leggi del paese in cui vivono. Agli occhi dell’Ucoii e di alcuni osservatori, la richiesta di un atto formale di sottomissione alla Costituzione italiana da parte dei musulmani – o degli aderenti ad altre comunità di fede composte in prevalenza di immigrati – sembrava avvalorare il pregiudizio di una fedeltà dubbia e incerta ai principi fondamentali che reggono lo Stato democratico.

“A fine dicembre il ministro Alfano ha confermato la Consulta per l’islam, composta da rappresentanti di varie associazioni di musulmani attive in Italia, e nominato un “Consiglio” 7di esperti invitato a proporre provvedimenti e buone pratiche. Tra coloro che lo compongono, vi sono vari collaboratori di Confronti e un ex direttore della nostra testata, Paolo Naso, chiamato a coordinare questo nuovo organismo

La cerimonia della firma della “Carta”, ormai quasi dieci anni fa, segnò pertanto anche la sostanziale conclusione di quel processo. Oltretutto nel 2008 cambiò il quadro politico e, dopo la breve parentesi del governo Prodi II, Berlusconi tornava a Palazzo Chigi affidando il Viminale al leghista Roberto Maroni. Fu svolta anche nella “politica islamica”: fu infatti costituito il “Comitato per l’islam”, un organismo incaricato di redigere “pareri” su temi specifici quali le moschee, il “velo”, la nomina e la formazione degli imam. Lavoro importante e per alcuni aspetti meritorio, inficiato dalla debolezza dello strumento adottato: un parere, per quanto autorevole, 8

non è altro che un’idea che se non viene assunta e trasformata in una norma non produce alcun effetto. E infatti siamo arrivati al 2016 con un paniere di provvedimenti “positivi” scandalosamente vuoto mentre, all’opposto, esercitano tuto il loro peso alcune norme che limitano la libertà religiosa dei musulmani e, con essi, degli aderenti ad altre comunità di fede non tutelate dalle intese previste dall’articolo 8 della Costituzione. Ci riferiamo, ad esempio, alla legislazione della Regione Lombardia in materia di edifici adibiti al culto, definita “tagliaminareti”: definizione colorita ma inappropriata perché il provvedimento non colpisce soltanto i centri islamici ma anche i luoghi di culto di altre confessioni religiose, e non si limita affatto e condizionarne la forma architettonica ma arriva a vietarne la stessa apertura. E allora, in estrema e cruda sintesi, la fotografia dell’islam in Italia è quella di una grande comunità religiosa, diffusa capillarmente in tutto il territorio nazionale; con l’eccezione del Centro islamico culturale d’Italia che gestisce la “Grande moschea” di Roma, priva di riconoscimento giuridico; frammentata in varie rappresentanze e limitata nell’esercizio del culto; troppo spesso vittima di pregiudizi e condanne sommarie che minano la convivenza e la coesione sociale. E tutto questo in un quadro geopolitico nel quale i musulmani che credono nel dialogo e nella convivenza subiscono gli attacchi spietati dei gruppi islamisti più radicali e fanatizzati. È l’islam “in mezzo”: tra l’incudine della violenza primordiale di chi inneggia al califfato e l’islamofobia dell’Occidente impaurito dall’altra. Per definizione, un organismo consultivo ha un ruolo limitato e la sua unica forza è l’autorevolezza scientifica e la preparazione culturale dei membri che lo compongono. In un paese religiosamente sempre più analfabeta come l’Italia, è quindi auspicabile che il Consiglio elabori

e diffonda chiavi di interpretazione su che cosa è l’islam; su come nella teologia, nella storia e nello spazio pubblico si relaziona alle altre comunità di fede; sulle mappe teologiche della sua pluralità teologica e politica; sulle strategie più efficaci per promuovere processi di integrazione dei musulmani di più recente immigrazione in Italia. Ma mettiamo le mani avanti: tutto questo avrà senso solo se all’interpretazione e all’analisi si accompagnerà la decisione politica. Ferma restando la legge in vigore sui culti “ammessi” – altro discorso la sua obsolescenza e la necessità di una urgente riforma complessiva della delicata materia della libertà religiosa e di coscienza – il lavoro di un Consiglio avrà senso soltanto se decisori politici e organi dello Stato sapranno fare la loro parte. E l’arretrato che si è accumulato sulle loro scrivanie in questo decennio è poderoso: dal riconoscimento giuridico di altre rappresentanze islamiche – come avviene di routine per le altre confessioni – alla “nomina” dei ministri di culto; dalla necessità di luoghi di culto adeguati, dignitosi e trasparenti alla formazione di guide spirituali in grado di orientare la comunità nella direzione di un islam “italiano” ed “europeo” a tutti gli effetti, e cioè capace di interpretarsi nello specifico della cultura, delle tradizioni e dello spazio pubblico dei nostri paesi. All’inizio di un mandato è velleitario fare proclami, ma è doveroso indicare dove si vuole andare. E la strada sembra obbligata: la Costituzione italiana tutela la libertà di culto in pubblico e in privato, quella degli ebrei o dei cattolici al pari di quella dell’islam o dei pentecostali. Per varie ragioni sappiamo, però, che nei fatti si è costruita una gerarchia dell’accesso alla libertà religiosa che ancora oggi pone l’islam vari gradini al di sotto di altre confessioni. Si tratta di recuperare un grave ritardo: il cammino, tutto in salita, parte da qui.


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i servizi

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i servizi | UNIONI CIVILI

Colmare il ritardo sui diritti Felice Mill Colorni

La maggior parte dei paesi occidentali ha già una legislazione molto avanzata in tema di riconoscimento di effetti giuridici alle convivenze omosessuali. Per questo, la proposta di legge Cirinnà appare per molti versi “il minimo sindacale” per colmare almeno parzialmente i ritardi italiani in materia.

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el XIX secolo l’abolizione della schiavitù dei neri era una causa progressista. Sarebbe difficile definire progressista chi si pronunciasse contro la schiavitù dei neri nel XXI secolo. Piuttosto, chi sostenesse la tesi opposta sarebbe da considerare, più che un reazionario, un patetico troglodita. Così una legge in materia di diritti degli omosessuali che avrebbe potuto essere considerata abbastanza progredita un quarto di secolo fa può risultare oggi tremendamente arretrata. Ventisette anni fa veniva approvata in Danimarca la prima legge che riconosceva rilevanza giuridica alle famiglie omosessuali. Quella legge, modello per molte altre negli anni successivi, pur non attribuendo alle unioni gay il titolo di matrimonio, vi applicava puramente e semplicemente, con un rinvio alla normativa matrimoniale, l’identico trattamento. La legge passò, come poi in molti altri paesi, senza troppe polemiche, e, fin da subito, la stessa Chiesa di Stato luterana cominciò a benedire le unioni gay, anche quelle contratte da suoi pastori e parroci. Si trattava di uno sviluppo del tutto naturale. Per secoli, in Danimarca come altrove, l’omosessualità era stata bandita e perseguita anche penalmente. Man mano che il principio della libertà di espressione veniva “preso sul serio”, a partire dagli anni Sessanta e più animatamente nel decennio successivo, anche agli omosessuali “comuni” – non più soltanto a eccentrici artisti o ad anticonformisti professi – era stato dato di testimoniare liberamente come la loro non fosse una scelta di vita volontaria, bensì una condizione esistenziale ascritta, non oggetto di scelta libera e discrezionale, ma di constatazione: la maggioranza che per secoli, finché era persistito il tabù su una libera discussione pubblica in materia, aveva naturalmente pensato che l’omosessualità fosse una UNIONI CIVILI Felice Mill Colorni Selene Zorzi Lucio Malan

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forma di perversa o malata persistenza in quella fase di sessualità indefinita che quasi tutti sperimentano nell’adolescenza, veniva a scoprire che, per una minoranza di esseri umani, l’evoluzione del proprio orientamento sessuale li portava verso l’omosessualità, altrettanto naturalmente e spontaneamente quanto per la maggioranza avveniva il contrario. Di qui, negli anni Sessanta, in tutti i paesi democratici, l’abrogazione delle leggi che ancora punivano l’omosessualità; di qui la sua cancellazione dalla lista delle condizioni patologiche da parte degli organismi medici nazionali e internazionali. Di qui la presa d’atto che un trattamento giuridico discriminatorio nei confronti degli omosessuali era altrettanto inaccettabile quanto quelli per secoli imposti agli appartenenti per nascita o per sorte ad altre minoranze. Le discriminazioni nei confronti degli omosessuali si rivelavano alla coscienza civile occidentale come fondate sul pregiudizio, esattamente come quelle, altrettanto secolari, contro le donne, gli ebrei, i neri, ecc.: non simili, ma identiche, nella loro sostanza, al razzismo in senso stretto e alla discriminazione razziale. Il processo del riconoscimento di effetti giuridici alle convivenze omosessuali sarebbe stato anche più rapido, in molti paesi, se i movimenti per i diritti dei gay, nati nel Nord Europa su un’iniziale base riformista, non avessero per lo più abbracciato negli anni Settanta la cultura diffusa nella nuova sinistra post-sessantottina, secondo cui non si trattava di rimuovere discriminazioni ma di fare la rivoluzione: se «la famiglia borghese si abbatte e non si cambia», l’obiettivo della parità dei diritti era inutile. Per questo in Olanda furono per anni i movimenti gay a rifiutare le offerte di riconoscimento giuridico delle coppie, avanzate da socialisti e liberalradicali: così la prima legge sul riconoscimento giuridico delle coppie gay fu introdotta nella più pragmatica Danimarca. Con poche variazioni, quel modello danese fu gradualmente introdotto negli anni successivi in quasi tutti i paesi dell’Europa occidentale, in mol-


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ti Stati degli Usa e latinoamericani. Molto spesso il problema delle adozioni – non solo l’adozione del figlio del partner, ma anche l’adozione in generale – neppure si pose, dato che, in molti paesi, era già prevista la possibilità dell’adozione da parte dei single. Parzialmente diversa fu la strada inizialmente adottata dalla Francia, che nel 1999 introdusse il pacs (patto civile di solidarietà), che, anziché estendere la legislazione matrimoniale alla coppie gay sotto una denominazione diversa, introdusse una sorta di “matrimonio leggero” con diritti e doveri attenuati, non discriminatorio, però, perché contraibile tanto dalle coppie eterosessuali (che in effetti lo utilizzano di più) quanto da quelle omosessuali. Ma ormai la consapevolezza civile della illegittimità di ogni discriminazione si era fatta strada nella coscienza civile e giuridica del mondo occidentale, per cui, a partire dal 2001, cominciarono a cadere anche le ultime discriminazioni formali, e in Olanda, per la prima volta, fu semplicemente soppresso il requisito della differenza di sesso per contrarre matrimonio. Veniva così a cadere anche la differenza di denominazione e la necessità di un istituto giuridico specifico per i soli gay. Oggi gli omosessuali possono contrarre matrimonio, esattamente come ogni coppia eterosessuale, in quasi tutti i paesi dell’Europa occidentale e, dopo la sentenza della Corte Suprema dello scorso anno, in tutti gli Stati Uniti, nonché in molti paesi dell’America Latina. Anche in paesi di forte tradizione cattolica, come Spagna, Irlanda, Francia, Belgio, Portogallo, Argentina e Brasile. Nei paesi che ancora non hanno provveduto, sono comunque previste leggi sulle unioni civili simili all’originario modello danese. E quasi ovunque sono previste anche forme di regolamentazione delle convivenze – indipendentemente dal sesso dei con-

i servizi | UNIONI CIVILI

viventi – meno impegnative del matrimonio. In Italia siamo ancora a zero. Tanto che l’anno scorso la Corte Europea dei Diritti Umani ha condannato l’Italia. E, in caso di ulteriore inadempienza, l’Italia sarà condannata a pagare risarcimenti insostenibili alle coppie discriminate. Di qui la corsa a una legge. Il progetto Cirinnà è davvero il minimo sindacale, necessario a evitare pesanti sanzioni. Non solo il progetto non prevede parità di diritti e pari dignità sociale per le coppie omosessuali, dato che prevede per queste un trattamento comunque differenziato, ma finge di prendere a modello la legge tedesca, che già è la più arretrata dell’Europa occidentale perché è ormai vecchia di 15 anni. Perfino questo modello sembra eccessivo a una classe politica complessivamente trogloditica. Eppure, se non vi sono figli, in che cosa mai la convivenza fra due persone dello stesso sesso avrebbe esigenze diverse da quelle di una coppia eterosessuale che, per le più varie ragioni (età, sterilità), non possa o non voglia avere figli? Della possibilità di adozioni il progetto non parla neppure, se non per quel che riguarda l’adozione del figlio naturale di uno dei due partner. E perfino questo suscita, in Italia, controversie insanabili. Tutti dicono di avere come priorità l’“interesse del minore”. Sennonché, nell’interpretazione di molti politicanti italiani, l’interesse del minore cui venisse meno il genitore naturale sarebbe quello di venire strappato anche all’altra persona che ha sempre considerato l’unico altro componente della propria famiglia. Pare agghiacciante, ma è l’orientamento di gran parte di una classe politica che fa ormai dell’Italia una terra di mezzo fra democrazie occidentali e paesi fondamentalisti mediorientali.

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i servizi | UNIONI CIVILI

Una famiglia in trasformazione Selene Zorzi

[intervista a cura di Daniela Mazzarella]

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a teologa Selene Zorzi, ideatrice del sito Coordinamento teologhe italiane (che ha gestito dal 2003 al 2013), si occupa di teorie di genere e ha scritto vari libri, tra cui Al di là del “genio femminile” (Carocci editore, 2014). L’abbiamo intervistata sulle questioni sollevate dalla proposta di legge Cirinnà, intorno alla quale si è creato un dibattito acceso, con toni da vera e propria Crociata da parte di un fronte cattolico politicamente trasversale ma decisamente compatto nella sua battaglia alla “famiglia diversa”. Da cattolica come vive le polemiche intorno al ddl Cirinnà? Il fronte cattolico è molto meno compatto di quanto sembri, come sempre del resto. A volte si dimentica che l’adesione alla Chiesa non ha le caratteristiche di un’adesione ad un partito politico o a delle idee, ma è l’appartenenza ad una comunità che condivide un’esperienza di fede dove i membri hanno opinioni anche differenti. Quello che vedo compatto è un fronte di persone, spesso anche non cattoliche, che hanno su queste questioni idee molto confuse, che non hanno dimestichezza con la terminologia degli studi di genere e che confondono le moltissime questioni in ballo. La famiglia è importantissima e resterà fondamentale cellula della società, ma è indubbio che essa stia attraversando una trasformazione dei suoi modelli. Come cattolica vivo i toni da Crociata, che spesso emergono nel dibattito, in modo molto imbarazzato, sia quando ad impugnarli sono persone più sprovvedute nella loro formazione cristiana, biblica o teologica, che si fanno portatori improbabili di una voce cattolica popolare, sia quando sono impugnati da parte delle gerarchie ecclesiastiche. Penso però che il dibattito con la parte pensante del paese spetti agli intellettuali cattolici e non vada lasciato al populismo. Fu un vescovo cattolico a dire che la differenza più importante non è tra chi crede e chi non crede, ma tra chi pensa e chi non pensa.

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Nel mio piccolo tento di chiarire il più possibile, laddove mi sia possibile, la differenza tra studi di genere e “ideologia del gender”, dando in mano anche a persone semplici una strumentazione linguistica e concettuale capace di farli orientare nel dibattito che riguarda anche il testo del ddl Cirinnà. Tanti personaggi pubblici hanno citato la Bibbia come supporto alle loro tesi in difesa della “famiglia naturale”, ma c’è anche chi lo ha fatto con intento contrario. Per esempio Carlo Flamigni, ginecologo e membro del Comitato nazionale di bioetica, ha detto che nella Bibbia si trovano casi di maternità surrogata. Da teologa, come spiega queste letture diametralmente opposte delle Scritture? La Bibbia è tutt’altro che univoca su queste tematiche, ma non va dimenticato che anch’essa è frutto di una mentalità patriarcale. Se nelle storie dei patriarchi o di altri personaggi della Bibbia troviamo una sorta di quella che oggi (!) noi moderni chiamiamo maternità surrogata non ci dobbiamo dimenticare che stiamo applicando categorie moderne ad un testo antico che non aveva queste problematiche. Anzi, la cosa era possibile in quella società perché le donne schiave non avevano una dignità ed erano considerate, al pari delle mogli, proprietà del capoclan. Non credo che la Bibbia debba essere citata per supportare o meno delle scelte che appartengono ad un’agenda moderna che essa non aveva. La Bibbia va sempre interpretata nel suo contesto, perché non c’è nessun dato senza interpretazione e la lettura letterale e fondamentalista è attualmente esclusa nell’interpretazione cattolica. Le Sacre Scritture non sono un codice di comportamento etico ma un racconto che vuole trasmettere un’espe- Selene Zorzi rienza spirituale. L’approccio teologa, scrittrice e docente storico-critico deve ricordar- all’Istituto ci la distanza linguistica, con- teologico cettuale e mentale tra noi, la marchigiano.


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