Confronti dicembre 2015 (parziale)

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6,00 EURO - TARIFFA R.O.C.: POSTE ITALIANE SPA - SPED. IN ABB. POST. D.L. 353/2003 (CONV. IN L. 27/02/04 N.46) ART.1 COMMA 1, DCB

Contro il terrorismo

DICEMBRE 2015

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CONFRONTI 12/DICEMBRE 2015

WWW.CONFRONTI.NET Anno XLII, numero 12 Confronti, mensile di fede, politica, vita quotidiana, è proprietà della cooperativa di lettori Com Nuovi Tempi, rappresentata dal Consiglio di Amministrazione: Nicoletta Cocretoli, Ernesto Flavio Ghizzoni (presidente), Daniela Mazzarella, Piera Rella, Stefania Sarallo (vicepresidente).

Le immagini Not in my name • Andrea Sabbadini, copertina I 160 della Claudiana • 3

Gli editoriali Il terrore, la pancia, l’Europa • Claudio Paravati, 4 Ogni governo sogna la sua legge bavaglio • Stefano Corradino, 6

Direttore Claudio Paravati Caporedattore Mostafa El Ayoubi In redazione Luca Baratto, Franca Di Lecce, Filippo Gentiloni, Adriano Gizzi, Giuliano Ligabue, Michele Lipori, Rocco Luigi Mangiavillano, Anna Maria Marlia, Daniela Mazzarella, Carmelo Russo, Luigi Sandri, Stefania Sarallo, Lia Tagliacozzo, Stefano Toppi. Collaborano a Confronti Stefano Allievi, Massimo Aprile, Giovanni Avena, Vittorio Bellavite, Daniele Benini, Dora Bognandi, Maria Bonafede, Giorgio Bouchard, Stefano Cavallotto, Giancarla Codrignani, Gaëlle Courtens, Biagio De Giovanni, Ottavio Di Grazia, Jayendranatha Franco Di Maria, Piero Di Nepi, Monica Di Pietro, Piera Egidi, Mahmoud Salem Elsheikh, Giulio Ercolessi, Maria Angela Falà, Giovanni Franzoni, Pupa Garribba, Daniele Garrone, Francesco Gentiloni, Gian Mario Gillio, Svamini Hamsananda Giri, Giorgio Gomel, Laura Grassi, Bruna Iacopino, Domenico Jervolino, Maria Cristina Laurenzi, Giacoma Limentani, Franca Long, Maria Immacolata Macioti, Anna Maffei, Fiammetta Mariani, Dafne Marzoli, Domenico Maselli, Cristina Mattiello, Lidia Menapace, Adnane Mokrani, Paolo Naso, Luca Maria Negro, Silvana Nitti, Enzo Nucci, Paolo Odello, Enzo Pace, Gianluca Polverari, Pier Giorgio Rauzi (direttore responsabile), Josè Ramos Regidor, Paolo Ricca, Carlo Rubini, Andrea Sabbadini, Brunetto Salvarani, Iacopo Scaramuzzi, Daniele Solvi, Francesca Spedicato, Valdo Spini, Patrizia Toss, Gianna Urizio, Roberto Vacca, Cristina Zanazzo, Luca Zevi. Abbonamenti, diffusione e pubblicità Nicoletta Cocretoli Amministrazione Gioia Guarna Programmi Michele Lipori, Stefania Sarallo Redazione tecnica e grafica Daniela Mazzarella Publicazione registrata presso il Tribunale di Roma il 12/03/73, n. 15012 e il 7/01/75, n.15476. ROC n. 6551. Hanno collaborato a questo numero: R. Bertoni, J. Betz, F. Brezzi, C. Brighi, F. Cardini, S. Corradino, F. Ferrario, M. Ferraris, M. Gendreau-Massaloux, M. Kromer, M. Maisano, M.P. Mazziotti, F. Peloso, G. Sarubbi.

I servizi Terrorismo

Geopolitica Birmania Vaticano Islam Chiesa cattolica Teologia Cultura Editoria Ecumenismo Incontri/Vigliani

Senza nervi saldi, l’Europa è perduta • Ottavio Di Grazia, 7 Terrorismo ed Europa: i fantasmi identitari • Maurizio Ferraris, 8 Mediterraneo: cosmopolitismo e laicità • M. Gendreau-Massaloux, 11 Se il linguaggio veicola il razzismo • Lia Tagliacozzo, 13 Turchia: le carte in mano a Erdogan • Franco Cardini, 15 Una difficile rinascita • Cecilia Brighi, 18 Fra conservazione e bisogno di «pulizia» • Francesco Peloso, 20 La sfida del dialogo • Giovanni Sarubbi, 22 Riscoprire le radici comuni di pace • Michele Lipori, 24 In attesa di un Sinodo per l’Italia • Luigi Sandri, 25 Quale umanesimo • Giancarla Codrignani, 28 Paul Tillich, il teologo della correlazione • (int. a) Fulvio Ferrario, 29 Antigone: l’amore è legge • Francesca Brezzi, 31 Un mito che ci pone ancora molte domande • Maria Pia Mazziotti, 32 Da 160 anni la Claudiana ci racconta la Riforma • (int. a) M. Kromer, 33 Francesco ai luterani: «chiediamoci scusa» • (int. a) Jakob Betz, 35 La bambina che viene dalla montagna • Piera Egidi Bouchard, 36

Le notizie Yemen Informazione Diritti Antisemitismo Economia Chiesa cattolica Incontri Convegno

Silenzio dell’Italia e dell’Europa sui crimini dell’Arabia Saudita, 38 Rapporto dell’Unesco: oltre 700 giornalisti uccisi in dieci anni, 38 Il rapporto dell’Onu sui bambini apolidi, 39 Rapporto sui diritti globali 2015 della Cgil, 39 Molti attestati di solidarietà dopo l’accoltellamento di Nathan Graff, 39 «Onde di giustizia», convegno alla Città dell’Altra economia di Roma, 40 Ricordato il «Patto delle catacombe» del 1965, 40 Il movimento internazionale di riforma ecclesiale Imwac a Roma, 41 «Guerre: quali profitti», il Cantiere di pace 2015-2016 del Cipax, 41 A Tirana convegno delle maggiori Chiese e organizzazioni cristiane, 42 Un convegno per ricordare il teologo Ernesto Buonaiuti, 42

Le rubriche Note dal margine In genere Libro Segnalazioni

Nassiriya: umiliati e offesi • Giovanni Franzoni, 43 Donne e politica: i 70 anni del diritto di voto • Anna Maria Marlia, 44 Heysel, il dovere della memoria • Roberto Bertoni, 45 46

RISERVATO AGLI ABBONATI: chi fosse interessato a ricevere, oltre alla copia cartacea della rivista,

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LE IMMAGINI

I 160 DELLA CLAUDIANA

Frontespizio de «L’amico di casa» del 1893, almanacco popolare illustrato.

Le foto che illustrano questo numero si riferiscono al servizio di pagina 33 e provengono dall’archivio della casa editrice Claudiana di Torino.

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GLI EDITORIALI

Il terrore, la pancia, l’Europa Claudio Paravati eirut (12 novembre, 43 morti), Parigi (13 novembre, 129 morti, 300 feriti), Bamako, in Mali (20 novembre, 170 ostaggi, 22 morti): questo è il pesante bollettino di novembre del terrorismo del cosiddetto Stato islamico (l’Isis, il cui acronimo, in arabo, è Daesh) e dei movimenti a esso affiliati. Un’azione terribile di guerra «a pezzetti» perpetrata, con drammatica folle lucidità, da coloro che seguono una propria ideologia del terrore. Il terrore. A dieci mesi da Charlie Hebdo, ancora una volta la Parigi di Rousseau e Voltaire è stata colpita. Questa volta però con una violenza ancor più impressionante: sei attacchi coordinati nel giro di 33 minuti, sparando sulla folla, in strada e nei locali, soprattutto fra giovani che stavano trascorrendo il venerdì sera fuori casa. Un attacco terroristico senza precedenti in Francia. La pancia. Le reazioni sono state ovviamente di sgomento, disperazione e rabbia. Il presidente Hollande ha promesso che la Francia reagirà «senza pietà»; Barack Obama ha parlato di «attacco a tutta l’umanità e ai nostri valori universali». Eppure tutti gli attacchi nel mondo sono un «attacco a tutta l’umanità», gli hanno da più parti fatto notare sulla rete internet gli statunitensi. Hanno ragione: solo nel mese di ottobre, 714 iracheni sono morti in atti terroristici. Il che non giustifica, né allevia ciò che è successo a Parigi: semmai ne è un aggravio sostanziale. Qui da noi, intanto, si sono levate varie voci per chiedere conto di quei crudeli eventi ai musulmani italiani. È tuttavia del tutto evidente che un musulmano che vive in Italia, quale che sia il suo paese d’origine (Siria, Pakistan, Nigeria...), non ha nessuna responsabilità per quanto compiuto da un correligionario in qualche parte del mondo. Del resto, nei decenni passati, a nessuno è venuto in mente di chiedere conto ai protestanti italiani delle violenze dei loro fratelli nella fede in Irlanda del Nord, o ai cattolici nostrani degli attentati compiuti dai «terroristi cattolici» dell’Ira.

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La strage di Parigi del 13 novembre ha fatto aumentare la diffidenza verso tutti i musulmani presenti in Europa, come se fossero tutti sostenitori dello Stato islamico. Pur non avendo alcuna responsabilità per le violenze, la comunità musulmana italiana ha voluto opportunamente dare un segnale che risultasse chiaro a tutta l’opinione pubblica allarmata dalla propaganda populista anti-islamica, scendendo in piazza il 21 novembre al grido di «Not in my name».

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La richiesta, dunque, è di per sé senza senso. E tuttavia, dato il clamore degli eventi e la bieca strumentalizzazione compiuta da alcuni media («Bastardi islamici») e da alcuni partiti politici per criminalizzare in blocco i seguaci dell’islam, era politicamente e culturalmente più che opportuno che dalla variegata comunità musulmana in Italia si levassero voci per condannare in modo pubblico e inequivocabile l’attacco terroristico di Parigi. Per dire che l’interpretazione del Corano che il Daesh tenta di imporre con la violenza è un tradimento del libro sacro dell’islam: dunque un messaggio importante, che aiuta a capire, a distinguere, a non fare di ogni erba un fascio, e a respingere come storicamente, teologicamente e di fatto infondata e inammissibile l’equazione islam=violenza. Perciò è stata pregna di significato la decisione (presa per la prima volta, data l’eccezionalità della situazione) da parte di esponenti musulmani, e delle loro varie organizzazioni, di promuovere e partecipare – insieme alla cittadinanza – alle manifestazioni che si sono tenute il 21 novembre, a Roma e a Milano soprattutto, sotto lo slogan «Musulmani d’Italia. Not in my name [Non nel mio nome]». E sentire imam che dal palco proclamavano parole scultoree – «Non esiste guerra santa, solo la pace è santa», «I terroristi che invocano Allah per uccidere tradiscono l’islam» – è stato un evento finora inedito, a tale livello. Il «Not in my name» è bene però che funga da passaggio per un «not in our name». Ovvero che diventi realmente e politicamente la strada senza «se» e senza «ma» della nostra - our - politica interna e internazionale. Cosa possiamo fare dunque come Italia e come Europa di fronte al massacro di Parigi? Prima di tutto capire da dove viene e perché è sorto il Daesh, e come resta in vita. Senza questo passaggio sarà fin troppo facile abbandonarsi alle scivolose e pericolose tesi dello «scontro di civiltà» e della «guerra di religione». Meglio ripartire dal colonialismo e dal post-colonialismo; dalla distruzione della Libia e dell’Iraq decisa dall’Occidente a guida statunitense; dalla strategia del «caos ordinato», fallimentare, adottata dalle superpotenze mondiali in Medio Oriente; e infine dalla chiusura alla democratizzazione del potere da parte degli stessi paesi arabi.


GLI EDITORIALI

Secondo: fare pace con la realtà. L’Arabia Saudita negli ultimi cinque anni ha speso cento miliardi di dollari per acquistare sistemi d’arma dagli Stati Uniti, essendo loro storici alleati fin dal 1945. Qui il flusso d’armi e di soldi proveniente dal blocco atlantico – quindi anche dall’Italia – verso mercati che foraggiano il Daesh e gli estremisti dura da decenni. «Not in our name» dovrebbe significare chiudere domani mattina i rubinetti del commercio delle armi. Armi e soldi, basta. E questa è una partita tutta in mano nostra. Terzo: non rinunciare mai, soprattutto in nome della sicurezza, a libertà, diritti (e doveri) e pace. Non è il momento di cedere di un millimetro a chi parla, senza neanche sapere di cosa parla, di «buonismo» o sciocchezze affini, mettendo a repentaglio le convinzioni fondanti della nostra libertà. Neanche la paura per la nostra stessa incolumità quotidiana (obiettivo dell’attacco parigino) ci può far vacillare nell’essere, per l’appunto, europei.

Il flusso d’armi e di soldi proveniente dal blocco atlantico – quindi anche dall’Italia – verso mercati che foraggiano il Daesh e gli estremisti dura da decenni. «Not in our name» dovrebbe significare chiudere domani mattina i rubinetti del commercio delle armi. Armi e soldi, basta. E questa è una partita tutta in mano nostra.

Fare passi indietro, creare uno Stato di polizia, rivedere Schengen, affidarsi all’azione militare come salvezza è una scelta «not in my name», o meglio «not in our name». L’Europa, troppo timida e ancora frammentata politicamente, ha però il suo compito – potrebbe averlo – ben chiaro e delineato. Deve intervenire come la «vecchia» Europa per contrastare machismi politici, interventismi muscolari senza visione, strangolamento della libertà in nome della sicurezza e della paura – e quindi xenofobia, razzismo, violenza, discriminazione. Deve mettere in campo ratio e historia. Il che non ha nulla a che fare con «teorie», ma è una «prassi» di vita e di politica, cosa sommamente concreta. Usare la forza (politica): tagliare soldi e rifornimenti al Daesh, mettere in campo una «forza culturale» per creare un Mediterraneo, e via via un mondo, che per mezzo di alleanze costruisce la pace. Questo progetto sì coinvolge tutti noi, «in our name».

La libreria Claudiana di Torino, aperta agli inizi degli anni Quaranta del Novecento.

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GLI EDITORIALI

Ogni governo sogna la sua legge bavaglio Stefano Corradino

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iuro che se e quando la legge bavaglio sarà approvata mi impegnerò a fare prevalere sempre e comunque il dovere di informare e il diritto di essere informati... Giuro che attraverso tv, radio, giornali, siti e blog e con ogni altro mezzo possibile darò qualsiasi notizia che rivesta i requisiti del pubblico interesse e della rilevanza sociale come prevedono le sentenze europee, i valori costituzionali e la legge istitutiva dell’ordine dei giornalisti... Giuro che utilizzerò tutti gli strumenti possibili per disattivare questa norma ingiusta ed incivile che si propone non solo di colpire giornalisti ed editori, ma di oscurare l’opinione pubblica e di rendere impuniti corrotti e corruttori...». Questo «giuramento di Ippocrate» dei giornalisti, l’associazione Articolo 21 lo ha scritto e recitato il 23 maggio 2010 a piazza Montecitorio nel corso di un sit-in contro il ddl Alfano sulle intercettazioni. A distanza di cinque anni quel giuramento conserva, purtroppo, tutta la sua validità e attualità alla luce della nuova legge sulla diffamazione approvata nel giugno di quest’anno alla Camera (a breve arriverà al Senato) e che, come ha giustamente commentato il giurista Stefano Rodotà, mette seriamente a rischio il diritto costituzionale ad informare ed essere informati, e per questa ragione è pericolosa, «non solo per la libertà d’informazione ma per la democrazia stessa». Vediamo, quantomeno per titoli, quali sono le nostre preoccupazioni sui tentativi di bavaglio all’informazione: · delega al governo sulle intercettazioni: demandare all’Esecutivo in questa materia è sbagliato e pericoloso. Significa svuotare il Parlamento del suo ruolo e impedire una discussione pubblica e trasparente che si trasferirebbe nelle stanze inintelligibili delle commissioni interministeriali. Come si comporterebbe il governo qualora dovesse decidere sulla diffusione di intercettazioni che riguardassero qualcuno dei suoi componenti? · Intercettazioni e privacy: chiedere una stretta sulle intercettazioni telefoniche in nome della tutela della privacy è un espedien-

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Anche il governo Renzi prova a mettere il bavaglio all’informazione libera: approvata alla Camera a giugno (ora all’esame del Senato) la nuova legge sulla diffamazione, che secondo Rodotà metterebbe seriamente a rischio il diritto costituzionale ad informare ed essere informati. Il nodo delle intercettazioni telefoniche e quello delle querele temerarie.

Stefano Corradino è giornalista Rai e direttore di Articolo 21.

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te improprio. Le leggi per preservare la riservatezza dei cittadini esistono già, si tratta solo di applicarle. Al contrario, se fosse passato qualche anno fa il principio della limitazione dell’uso delle intercettazioni, probabilmente l’opinione pubblica non conoscerebbe alcunché dei più grandi scandali finanziari e politici degli ultimi anni. · Querele temerarie: è uno degli strumenti preferiti dai «potenti» di turno per scoraggiare chi fa informazione dal proseguire lungo la sua strada. Si chiede un risarcimento milionario costringendo così un cronista, magari anche precario e in un luogo ad alto tasso di criminalità, ad occuparsi di altro. Praticamente un’intimidazione preventiva che genera inevitabili forme di autocensura. «Chi me lo fa fare – si domanderà il giornalista “di frontiera” – di indagare sugli intrecci tra politica, economia e criminalità nella mia realtà se, oltre ai rischi per la mia incolumità, posso incorrere in richieste di indennizzo insostenibili? Per questo una legge congrua sulla diffamazione dovrebbe prevedere, come succede nella gran parte delle democrazie occidentali, che il querelante, al momento dell’esposto, sia obbligato a versare una cauzione cospicua che poi perderebbe, in favore del querelato, in caso di perdita della causa. Il 5 novembre scorso, insieme alla Federazione nazionale della stampa, all’associazione Stampa romana e al Comitato #nobavaglio, ci siamo ritrovati davanti ai cancelli del tribunale di Roma per esprimere solidarietà ai 96 cronisti denunciati per aver raccontato le lordure di Mafia capitale, per aver fornito ai lettori notizie di interesse pubblico sul malaffare che ha infangato Roma e l’Italia. E oltre al nostro «giuramento» abbiamo rilanciato l’appello pubblicato sul sito nobavaglio.org e sottoscritto da decine di giornalisti e associazioni. «No bavaglio 3», a rappresentare una battaglia che continua indipendentemente dal colore del governo di turno. Perché imbavagliare l’informazione non significa solo impedire a un giornalista di adempiere al suo dovere professionale, ma inibisce il diritto dei cittadini di conoscere la verità sulle tante zone d’ombra che annebbiano la nostra quotidianità.


TERRORISMO

Senza nervi saldi, l’Europa è perduta

Ottavio Di Grazia

Dopo la strage di Parigi siamo stati sommersi dalla retorica e in molti hanno indicato l’ineluttabilità di uno «scontro di civiltà» tra mondo occidentale e mondo islamico. Ma i militanti di Daesh, andando contro l’insegnamento del Corano, riducono Dio a ideologia: sono dei nichilisti assoluti, privi di spiritualità. li attacchi terroristici di Parigi del 13 novembre scorso, ma anche quelli che si sono susseguiti e si susseguono ormai ininterrottamente da mesi e anni, con la scia di dolore e sbigottimento che lasciano, ci costringono tutti, anche quelli più riottosi e indolenti, a misurarci lucidamente su questioni ormai ineludibili. In gioco c’è sicuramente una riflessione sull’islam, sulle religioni, sul dialogo, sul farsi e disfarsi di alleanze, di convenienze diplomatiche, di scelte politiche, sugli scenari geopolitici, demografici e militari che si fanno sempre più confusi e incerti. Ma proprio perché siamo di fronte a snodi storici e geopolitici complessi non possiamo lasciarci sopraffare solo dalle emozioni, seppure forti, che tuttavia svaniscono nel giro di pochi giorni, ma dobbiamo fare spazio a una seria riflessione, che con intelligenza, realismo politico ed efficacia delle analisi e delle strategie risponda all’incalzare delle domande, ai timori, alle speranze, all’altezza delle tragedie storiche che stiamo vivendo. Certo non possiamo accontentarci delle vuote, stupide retoriche che accompagnano i commenti (spesso anche «autorevoli») di questi giorni su: scontro di civiltà, barbarie, umano, disumano, come se questi elementi fossero cifre vuote senza alcun legame con contraddizioni e conflitti. Un’altra di queste figure retoriche è che l’islam sarebbe un blocco unitario senza differenze al proprio interno solo perché c’è un credo religioso che fa da collante, per cui lo si appiattisce sul fondamentalismo, sul terrorismo. I militanti di Daesh saranno anche «seguaci» del Profeta ma prima di tutto hanno ridotto Dio a ideologia, contro ogni insegnamento del Corano. La loro religiosità è priva di spiritualità

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Ottavio Di Grazia è docente di Storia delle religioni del Mediterraneo.

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e in fin dei conti di religiosità stessa. Sono dei nichilisti assoluti. La loro alternativa non è tra fede e non, ma tra vita e morte, vita e nulla. I sinistri bagliori che attraversano la capitale francese si riflettono sulle nostre vite e rendono affannose le risposte alle domande che ci assillano: è davvero inevitabile il conflitto tra mondo occidentale, Europa e mondo islamico? È questo lo scenario destinato a segnare le nostre esistenze? Sarà il «fondamentalismo» o ciò che questo termine dovrebbe indicare, la cifra che compatterà tutto l’islam alla ricerca di un riscatto? O è l’islam nel suo insieme, il nuovo nemico? E cosa farà l’Occidente? Il terrorismo di Daesh, i suoi attacchi in Europa, ma anche in Africa e altrove, deve essere studiato e affrontato con strumenti all’altezza. Non possiamo accettare valutazioni che si basano su stereotipi o chiavi di lettura obsolete. Esso non si limita più ad alimentare gli incubi delle diplomazie, dei governi e delle borse dei paesi occidentali, ma penetra nella vita di ciascuno di noi come un’incognita difficilmente riconducibile ad una qualche previsione fatta con superficialità e scarsa attenzione alle reali dinamiche in gioco. Siamo di fronte a un fenomeno che non è un inquietante fantasma, ma si nutre delle contraddizioni di anni di miopia politica e diplomatica da parte delle potenze occidentali. Un fenomeno che allunga le sue ombre, non solo sui gruppi più radicali ed estremisti, ma su masse sempre più vaste di popoli in cerca di riscatto economico e di riscossa politica. Intanto occorre aver chiaro che – come ha scritto Amos Oz – questo conflitto, questa guerra, «prima che essere una guerra contro l’Europa e l’Occidente, è una guerra interna all’islam per il suo cuore. È un conflitto sul significato e l’identità dei musulmani». Un problema che richiama sicuramente, anche se impropriamente, questioni religiose, il rapporto tra ebrei, cristiani e musulmani, ma soprattutto questioni geopolitiche. Infatti siamo in presenza di una guerra fra sunniti e


i servizi

dicembre 2015

confronti

TERRORISMO

sciiti, fra sauditi e iraniani. I nemici dell’Europa, ovvero i terroristi, sono gli stessi che l’Europa e i suoi alleati nel Golfo hanno appoggiato in chiave anti-Bashar al Assad. E che dire delle inquietudini dell’area subsahariana, della saldatura tra Boko Haram in Nigeria e lo jihadismo di altro tipo che scende dal Nord, in particolare dalla Libia o da quello che è oggi? Se non comprendiamo questo dato fondamentale sarà inevitabile creare nuovi mostri e nuovi incubi da parte dell’opinione pubblica occidentale. Basta osservare le reazioni di questi giorni, certo a caldo, ma cavalcate cinicamente da capi di Stato, primi ministri e ministri dell’Interno. Intanto si è subito registrata la vera e propria dichiarazione di guerra della Francia. Ma a chi? Per cosa? Una dichiarazione di guerra accompagnata dall’assordante silenzio del resto d’Europa. Il solo Putin e in parte Obama, con qualche cautela, hanno deciso di accompagnare il presidente francese Hollande in questa avventura che rischia di naufragare; o quanto meno di produrre nuovi mostri geopolitici. Le azioni militari senza alcuna strategia politica sono disastrose. Afghanistan, Iraq e Libia ce lo ricordano ogni momento. Oggi perfino l’ex premier britannico Tony Blair ha ammesso il proprio errore per l’attacco anglo-americano all’Iraq del 2003. Il problema è che l’unica cosa che si sta producendo è un restringimento degli spazi di democrazia, e un profondo cambiamento delle politiche che dovrebbero regolare i flussi migratori. Gli immigrati sono ritenuti potenziali seminatori di terrore. Eppure la gran parte di essi fugge da guerre e persecuzioni, da quello stesso terrore che ha colpito Parigi e da anni colpisce la Nigeria, la Libia, la Siria, l’Iraq, il Mali e l’Afghanistan. L’Europa fa fatica a misurarsi con questi temi. Anzi è attraversata da spinte razziste, antisemite, incoraggiate da movimenti e partiti che pescano nel torbido e si presentano come baluardo a difesa dei valori occidentali. Molti di questi movimenti e partiti, in diversi paesi europei, hanno trovato spazio nelle sedi istituzionali e rischiano di scompaginare tutto. L’incombenza della minaccia terroristica non fa altro che evidenziare fratture e contrapposizioni che, certo, non aiutano nel difficile compito di sconfiggere il terrore.

Terrorismo ed Europa: i fantasmi identitari Maurizio Ferraris Vi proponiamo alcuni estratti dall’intervento di Maurizio Ferraris all’ottavo «Festival mediterraneo della laicità: laicità e cosmopolitismo», svoltosi dal 13 al 15 novembre a Pescara.

Il professor Maurizio Ferraris insegna Filosofia teoretica all’Università di Torino e dirige il «Labont» (Laboratorio di ontologia).

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L’azione terroristica è molto più di qualcosa che viene «da fuori», di incontrollabile. È semmai qualcosa che viene «da dentro» e che fa parte di quello che noi siamo. Non si intende certamente che i terroristi siamo noi, il punto è tuttavia che i terroristi sono in gran parte persone che vengono dall’Inghilterra o dalla Francia, non sono i «nomadi dalle steppe»: si nutrono della grammatica occidentale, costruiscono «videoclip» drammaticamente simili allo «splatter» del cinema horror europeo e americano. La lettura per la quale quello in atto sarebbe uno scontro tra culture o uno scontro tra religioni non regge in alcun modo, perché, se così fosse, si dovrebbe assumere che tutti i terroristi siano musulmani e che tutti i musulmani siano terroristi. E quando si sente chiedere come mai di fronte a tali fatti di terrore gli islamici moderati non si dissocino, non riflettiamo su ciò che tale domanda implica come premessa: ovvero che tutti i musulmani siano colpevoli, e che quindi debbano giustificarsi e chiedere scusa. Il terrorismo non ha nulla a che fare con l’islam. Andando a vedere quali siano le cause remote del terrorismo, è semmai opportuno individuarle nel colonialismo. Ci dimentichiamo del colonialismo, quasi fosse un periodo remoto e lontano, mentre parliamo di cinquant’anni fa. Nel 1956, quando sono nato, Francia e Inghilterra sono intervenute nel Canale di Suez per difendere i propri interessi politico-economici. Un’azione oggi impensabile, ma che era ancora naturale per la politica dell’epoca: era giustificabile e possibile. E se volessimo, detto ciò, chiedere: perché allora i terroristi vogliono costruire «il califfato», mentre in altri paesi, anch’essi con una storia di colonizzazione, non c’è un fenomeno simile? Come per esempio nel sudest asiatico? Risposta: è bene tenere in mente che in quelle zone si sono trovate diverse soluzioni statali. Inoltre, in secondo luogo, quelle aree ricoprono posizioni geopolitiche del tutto differenti rispetto a – per esempio – il Medio Oriente. Non si può trascurare que-


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