Confronti di febbraio 2017 (parziale)

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MENSILE DI RELIGIONI · POLITICA · SOCIETÀ

6 EURO TARIFFA R.O.C.: POSTE ITALIANE SPA - SPED. IN ABB. POST. D.L. 353/2003 (CONV. IN L. 27/02/04 N.46) ART.1 COMMA 1, DCB

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Confronti | febbraio 2017

Mario A. Rollier, “il sogno di una Europa federale”

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ANNO XLIV NUMERO 2 Confronti, mensile di religioni, politica, società, è proprietà della cooperativa di lettori Com Nuovi Tempi, rappresentata dal Consiglio di Amministrazione: Nicoletta Cocretoli, Ernesto Flavio Ghizzoni (presidente), Daniela Mazzarella, Piera Rella, Stefania Sarallo (vicepresidente). DIRETTORE

Claudio Paravati CAPOREDATTORE

Mostafa El Ayoubi IN REDAZIONE

Luca Baratto, Alice Corte, Antonio Delrio, Franca Di Lecce, Filippo Gentiloni, Adriano Gizzi, Giuliano Ligabue, Michele Lipori,

Rocco Luigi Mangiavillano, Anna Maria Marlia, Daniela Mazzarella, Carmelo Russo, Luigi Sandri, Stefania Sarallo, Lia Tagliacozzo, Stefano Toppi. COLLABORANO A CONFRONTI

Stefano Allievi, Massimo Aprile, Giovanni Avena, Vittorio Bellavite, Daniele Benini, Roberto Bertoni, Dora Bognandi, Maria Bonafede, Giorgio Bouchard, Stefano Cavallotto, Giancarla Codrignani, Gaëlle Courtens, Biagio de Giovanni, Ottavio Di Grazia, Jayendranatha Franco Di Maria, Piero Di Nepi, Monica Di Pietro, Piera Egidi, Mahmoud S. Elsheikh, Giulio Ercolessi,

Maria Angela Falà, Giovanni Franzoni, Pupa Garribba, Daniele Garrone, Francesco Gentiloni, Gian Mario Gillio (direttore responsabile), Svamini H. Giri, Giorgio Gomel, Laura Grassi, Bruna Iacopino, Teresa Isenburg Domenico Jervolino, Maria Cristina Laurenzi, Giacoma Limentani, Franca Long, Maria Immacolata Macioti, Anna Maffei, Dafne Marzoli, Cristina Mattiello, Lidia Menapace, Adnane Mokrani, Paolo Naso, Luca Maria Negro, Silvana Nitti, Enzo Nucci, Paolo Odello, Enzo Pace, Nicola Pedrazzi, Gianluca Polverari,

Paolo Ricca, Carlo Rubini, Andrea Sabbadini, Brunetto Salvarani, Iacopo Scaramuzzi, Daniele Solvi, Francesca Spedicato, Debora Spini, Valdo Spini, Patrizia Toss, Gianna Urizio, Roberto Vacca, Vincenzo Vita, Cristina Zanazzo, Luca Zevi.

PROGETTO GRAFICO E ART DIRECTION

Sara Turolla COLLABORANO A QUESTO NUMERO

M. Campli, I.C. Ferrero, G. Fofi, A. Linchi, G. Marcon, M. Patulli Trythall, S. Rostagno, A. Tinozzi.

Publicazione registrata presso il Tribunale di Roma il 12/03/73, n. 15012 e il 7/01/75, n.15476. ROC n. 6551. CONTATTI tel. 06 4820 503 www.confronti.net info@confronti.net @Confronti_CNT

FOTO/CREDITI ABBONAMENTI,

famiglia Rollier

DIFFUSIONE,

(copertina e pagina 20);

PUBBLICITÀ

Michele Lipori

E COORDINAMENTO

(pagine 3, 9, 11, 13, 15,

PROGRAMMI

16, 31 e 35);

RISERVATO

Nicoletta Cocretoli

Tano D’Amico

AGLI ABBONATI

(pagine 27 e 30); AMMINISTRAZIONE

Ahmed Moustafa

Riccardo Tomassetti

(pagina 39); Pietro Romeo

PROGRAMMI

Alice Corte, Michele Lipori REDAZIONE TECNICA E GRAFICA

Daniela Mazzarella

(pagina 43).

Chi fosse interessato a ricevere, oltre alla copia cartacea della rivista, anche una mail con Confronti in formato pdf può scriverci a: info@confronti.net


SUL CONFINE Tutto in queste terre dà un senso di attraversamento di una soglia che conduce in un mondo ordinato da una peculiare visione del mondo. Sono molti i nomi con cui si designa questa piccola porzione di Medioriente e anche i luoghi “santi” sono considerati tali da tutte e tre le religioni abramitiche (e non solo da esse). Tutto è contiguo. E dunque, spesso, conteso. Le foto sono state scattate da Michele Lipori durante il seminario di Confronti “Sulle frontiere della pace più difficile” in Israele e Territori palestinesi, dal 27 dicembre 2016 al 5 gennaio 2017.

Confronti | febbraio 2017

le immagini

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il sommario

il sommario GLI EDITORIALI

Il sistema economico alla base della povertà Giulio Marcon 6

I molti volti della libertà

Sergio Rostagno 7

La fine della guerra in Siria parte da Astana

Mostafa El Ayoubi 8

I SERVIZI MEDIO ORIENTE 10 Le molte nuvole

nel cielo di Gerusalemme

Luigi Sandri - Michele Lipori 14 Una comunità internazionale

distratta

(intervista a) Pierbattista Pizzaballa 15 L’unità delle Chiese

e il nodo del Medio Oriente (intervista a) Munib Younan

LE NOTIZIE

LE RUBRICHE

Diritti umani

Diario africano Congo: una spirale di violenza lunga vent’anni

Ricordo Ricordando “Demi” e la sua ironia elegante

In genere Centri antiviolenza al bando?

I LIBRI

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Ambiente 32

Sanità 33

Iraq 33

Conflitti 34

EUROPA

17 Ripartire dai popoli d’Europa Mario Campli 19 L’Europa di Rollier,

un valdese federalista Nicola Pedrazzi

CINEMA 22 Il silenzio di Dio,

le violenze degli uomini Goffredo Fofi

BRASILE 24 Un paese stretto

tra instabilità e repressione Teresa Isenburg

POLITICA 26 1977, già storia o ancora cronaca? Marisa Patulli Trythall 29 Un anno che fa ancora paura Roberto Bertoni

Memoria 34

Enzo Nucci 36

Alice Corte 37

Arte e religioni L’arte e il sacro si fondono nell’islam IlhamAllah Chiara Ferrero 38

Gian Mario Gillio 43

In Italia oltre i cattolici c’è di più Daniela Mazzarella 44

Che razza di ebreo sono io? Luigi Sandri 45

Note dal margine Nascere pompieri per finire incendiari

Una società aperta, plurale e cosmopolita

Spigolature d’Europa Usa e Russia “uniti nella lotta” contro l’Ue

LE IMMAGINI

Giovanni Franzoni 40

Adriano Gizzi 41

Medio Oriente I palestinesi piangono monsignor Capucci M.V. 42

Adriano Gizzi 46

Mario A. Rollier, “il sogno di un’Europa federale” copertina

Sul confine

Michele Lipori 3


invito alla lettura

L’Europa dei Leviatani Claudio Paravati

M

entre “the Donald”, insediatosi lo scorso mese, tiene il mondo col fiato sospeso tra la Trump Tower e Washington DC, dove va l’Europa? «Un’integrazione europea che non può tornare indietro e non riesce ad andare avanti», dice Mario Campli (pag. 16). L’Unione europea si avvicina, il prossimo marzo, a ricordare i Trattati di Roma del 1957, e si trova oggi a fare i conti con le sue differenti anime: quella «degli Stati sovrani», quella «comunitaria» e infine quella «federale» (vedi Nicola Pedrazzi a pag. 19). Anime che faticano a trovare oggi la sintesi vincente. In uno dei momenti di massima sfiducia nel progetto europeo, con la Brexit (giugno 2016) da una parte, e la crescita di partiti anti-europeisti dall’altra, giova ricordare come per chi la pensò «nell’atto di resistere al nazifascismo l’Europa fu, prima di tutto, una scelta di coscienza» (pag. 20). In questa storia si inserisce la figura di Mario Alberto Rollier, a cui dedichiamo la copertina. Rollier, valdese, nel 1943 diede vita – insieme a Spinelli, Rossi, Colorni, Foa, Ginzburg, Rossi Doria, Jervis e altri – al Movimento federalista europeo. Un’idea che oggi è drammaticamente al vaglio della storia, pericolosamente in bilico tra gli “uomini forti” dell’odierna stagione geopolitica. «Trump e Putin condividono non solo un comune modello di leadership. Ma un comune bersaglio. L’Unione europea», ha scritto Ilvo Diamanti su la Repubblica (24 gennaio), presentando i numeri dell’ultimo sondaggio dell’istituto Demos: fra i cittadini l’attrazione per l’uomo forte risulta «non solo maggioritaria, ma in costante crescita. E oggi dominante. L’affermazione “c’è troppa confusione, ci vorrebbe un uomo forte a guidare il Paese”, infatti, nel 2004 era vicina – ma ancora sotto – alla maggioranza degli elettori. Nel 2006, però, era condivisa dal 55% degli elettori e nel 2010 quasi dal 60%. Ma oggi (meglio: pochi mesi fa, nel novembre 2016) l’attrazione verso l’Uomo forte sfiora l’80%. Pare divenuta, dunque, un’idea dominante. Sulla quale conviene interrogarsi seriamente». Sulla quale, senza dubbio, conviene interrogarsi seriamente.


gli editoriali

Il sistema economico alla base della povertà

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uello che i ricchi chiamano il problema della povertà, i poveri lo chiamano il problema della ricchezza», così disse negli anni ’30 del secolo scorso Richard Henry Tawney, un socialista fabiano non particolarmente radicale. Negli ultimi trent’anni gran parte del dibattito politico è stato concentrato solo sulla povertà, tralasciando il tema della ricchezza, ovvero della sua eccessiva disparità nella distribuzione tra le classi sociali, disparità che della povertà è in gran parte causa.

basso (cioè i poveri). La teoria si è dimostrata infondata: anzi, le diseguaglianze (e la povertà) sono cresciute. La maggiore ricchezza prodotta è andata a favore delle classi agiate e dei privilegiati, non verso i poveri. In 30 anni vi è stato un enorme spostamento di ricchezza dai salari al capitale, dai redditi alla rendita. Non è vero che per fare delle fette di torta più eque bisogna prima fare una torta più grande. Al contrario: per fare una torta più grande, bisogna prima fare delle fette di torta più giuste.

Si è parlato molto di povertà e troppo poco di diseguaglianze. Merito dell’ultimo rapporto di Oxfam è di ricordarci che le diseguaglianze sono alla base della povertà. Quando Oxfam ci ricorda che il reddito degli otto uomini più ricchi del mondo equivale al reddito della metà della popolazione più povera del pianeta ci mostra plasticamente il livello parossistico delle diseguaglianze e delle ingiustizie globali. Come ricorda ancora la Ong britannica, in quasi 25 anni (tra il 1988 e il 2011) il reddito medio del 10% più povero è aumentato di 65 dollari (meno di 3 dollari l’anno), mentre quello dell’1% più ricco di 11.800 dollari, cioè 182 volte di più.

Le diseguaglianze infatti, oltre ad essere socialmente ed eticamente insostenibili, causano instabilità e impediscono la crescita economica e la qualità dello sviluppo e del sistema economico. Oxfam formula nel suo rapporto un’analisi impeccabile e delle proposte condivisibili. Due sono i modi per aggredire il problema. Primo: garantire un welfare universalistico – opposto a quello compassionevole – pagato con la fiscalità generale (a impianto fortemente progressivo), capace di correggere la cattiva distribuzione della ricchezza. Secondo, una politica di giustizia fiscale redistributiva attraverso vari strumenti: l’introduzione di una tassa sui grandi patrimoni, l’accentuazione della progressività delle aliquote Irpef, l’introduzione di una vera Tobin tax e l’introduzione di una digital tax, la revisione della tassa di successione.

Per anni i sacerdoti del neoliberismo ci hanno propinato la teoria del “trickle down” (il cosiddetto sgocciolamento) in base alla quale il problema della povertà si sarebbe risolto sic et simpliciter dalla produzione della ricchezza che – al pari di un secchio riempito da un GIULIO MARCON rubinetto d’acqua parlamentare – sarebbe sgocciodi Sinistra lata così verso il italiana - Sel.

L’economista Thomas Piketty, nel suo ultimo lavoro Il Capitale nel XXI secolo ci ha ricordato che, negli ultimi vent’anni, la trasmissione per via ereditaria della ricchezza è stata una delle fonti principali della crescita delle diseguaglianze. Negli anni del neoliberismo le tasse sulla

Giulio Marcon

trasmissione per via ereditaria della ricchezza sono state in diversi casi cancellate e in molti altri fortemente ridotte. In questo contesto parlare di meritocrazia è pura ipocrisia.

COME DENUNCIA UNO STUDIO DI OXFAM, TRA IL 1988 E IL 2011 IL REDDITO MEDIO DEL 10% PIÙ POVERO È AUMENTATO DI 65 DOLLARI, MENTRE QUELLO DELL’1% PIÙ RICCO DI 11.800 DOLLARI. Le diseguaglianze sono causa di povertà, ma anche del cattivo funzionamento del sistema economico. La loro drastica riduzione permetterebbe la possibilità di un nuovo modello di sviluppo capace di generare una ricchezza economica diffusa, un benessere condiviso e una coesione sociale, essa stessa fattore di qualità e sostenibilità della crescita. Dopo l’economia del privilegio dei quasi quarant’anni di neoliberismo, dobbiamo costruire un’economia di giustizia capace di generare un cambio di paradigma nelle politiche pubbliche di questi anni troppo attente al mercato e alle imprese e complici della deriva delle diseguaglianze. Come dice Oxfam, ora serve un’economia per il 99% delle persone.


gli editoriali

I molti volti della libertà

origine della parola libertà è sconosciuta. La radice greca “lib” si riferisce all’acqua corrente. Da lì sembra che venga la nostra parola libertà. Più interessante il termine inglese freedom, free, che ricorda il latino frater, ma si ritrova anche in Friede (pace in tedesco) e nell’inglese friend (l’amico). Vedi anche: Franco; Francia. I greci avevano almeno 3 parole: eleuteria, exousia, parrhesia. Sono stati i greci a istituire la prima festa della libertà. La si celebrava ogni cinque anni ricordando di aver respinto l’invasione persiana e conservato la propria identità e la propria storia. In origine l’essere umano intende libertà come appartenenza (al clan, alla stirpe, alla famiglia) che ti protegge e dentro la quale sei libero: se ne esci diventi schiavo di qualcuno. Ciò spiega la parentela tra libertà, identità e fraternità nelle culture primitive. I popoli desiderano essere padroni sul loro territorio: questa è la libertà. La coesione interna e l’appartenenza ne sono un aspetto necessario. Il culto consacra e sottolinea l’appartenenza. Molto presto l’essere umano si accorge di poter vivere soltanto nel rapporto con altri (Lévi-Strauss). Ma poco per volta il concetto si universalizza e diventa più ideale e più astratto. Intorno al I secolo filosofie e religioni assumono una concezione più universale dell’umano. Ne sentono il richiamo anche l’ebraismo e il cristianesimo. La religione stessa trova la sua più autentica espressione nella libertà e si

svincola dall’idea di popolo trasformato (per catacresi) in «popolo di Dio». Gli scritti cristiani sottolineano la figura di Gesù come figura della libertà. Esempi di tale libertà sono gli episodi di superamento del legalismo e la norma come “nuova” legge. La legge lega, certo, ma siamo nello stesso tempo liberi. Il senso dell’identità è dato dall’agape, il legame reciproco, dove l’alterità diventa una nuova variabile prima sconosciuta. La nozione di agape viene a riempire e interpretare quella di legge, legandosi così intimamente alla nozione di libertà e di persona intimamente nuova. La libertà come problema appare nelle chiese paoline.

UNA RIFLESSIONE SULLA LIBERTÀ CHE PRENDE A SPUNTO IL 17 FEBBRAIO, GIORNO IN CUI I PROTESTANTI ITALIANI CELEBRANO LA FESTA DELLA LIBERTÀ. Da un lato i Galati non comprendono la libertà, ne hanno quasi paura; dall’altro i Corinzi vi si immergono con impeto individuale soggettivo, senza accorgersi del suo nesso intersoggettivo (agape). Tale problematica ha trovato nell’idea moderna di “emancipazione” una applicazione a diversi contesti (il popolo, la donna, lo schiavo). La filosofia moderna coltiva il concetto radicale di libertà. L’essere umano è libero come tale. Non si può risalire a niente di più originario che la libertà (Kant). Ma l’idea di libertà così raffi-

nata finisce nell’arbitrio o nell’egoismo. Peggio se equivale a «volontà di Dio». Va quindi ripensata e temperata. Fuori della solidarietà il diritto diventa astrazione, egoismo. Su tutto sovrasta ancora il fatto irrisolto dell’alterità. Forse solo oggi ci accorgiamo di quanto fosse forte in teoria e labile in pratica il rapporto tra diritto e solidarietà. Non c’è diritto personale che tenga alla lunga se non è compensato dal diritto altrui. Non c’è libertà nemmeno per me se il mio prossimo non è libero insieme con me. Libertà non prescinde da solidarietà: oggi più che mai appare necessario riflettere sul loro nesso. Ci sfuggono realtà che fino a ieri sembravano raggiunte, conquiste che sembravano stabili. Siamo giustamente preoccupati dalla difficoltà di poter mantenere per tutti i vantaggi del welfare e della scuola pubblica. Ma se questo discorso riguarda i popoli europei, ancor più riguarda il rapporto con i nostri simili di ogni provenienza e cultura. Coltivare e salvaguardare la propria identità è una cosa, isolarsi e credersi migliori è un’altra. L’idea che l’identità viva nel rapporto, nell’accoglienza, nella reciprocità non deve illanguidire sotto il peso dei problemi complessi che abbiamo. Dobbiamo farne invece una bandiera vivace anche oggi. SERGIO ROSTAGNO teologo e professore emerito alla Facoltà valdese di teologia di Roma.

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Sergio Rostagno

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gli editoriali

La fine della guerra in Siria parte da Astana

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hi avrebbe mai ipotizzato che i turchi si sarebbero seduti intorno allo stesso tavolo con i russi e gli iraniani per discutere della crisi siriana e avviare un dialogo per mettere fine ad una guerra che ha distrutto la Siria e consentito ad al Qaeda e altri movimenti come Daesh – accomunati dalla stessa ideologia jihadista takfirista – di mettere sottosopra tutto il mondo arabo!

in quanto sciiti che stanno accrescendo la loro influenza politica e religiosa nel mondo islamico. Eppure questa ibrida troika è riuscita a far adottare dall’Assemblea generale dell’Onu la risoluzione 2336 del 31 dicembre 2016, che impone un cessate il fuoco tra il governo siriano e le opposizioni armate, ad esclusione di Daesh e al Nusra in quanto riconosciuti internazionalmente come gruppi terroristici.

DOPO LA RISOLUZIONE ONU SUL CESSATE IL FUOCO TRA GOVERNO E OPPOSIZIONI ARMATE, SI È TENUTA IN KAZAKISTAN UNA CONFERENZA PER AVVIARE UN PROCESSO DI RICONCILIAZIONE.

Il trio è riuscito ad indire il 23 e 24 gennaio ad Astana, capitale del Kazakistan, una conferenza sulla Siria della quale hanno fatto parte rappresentanti del governo di Damasco, guidati dall’ambasciatore siriano all’Onu, ed esponenti dell’opposizione “moderata”, che comprende diverse milizie armate e membri della Coalizione nazionale siriana, che opera a partire da Istanbul. È da osservare che la delegazione dell’opposizione era guidata da Mohamed Allouche, capo del movimento salafita armato Jaysh alIslam (Esercito dell’islam), legato all’Arabia Saudita, una dei grandi assenti, assieme a Qatar e Usa (e all’Ue ovviamente!), a questo appuntamento... Ma non per propria scelta! Paesi che – ormai è noto – hanno favorito la diffusione del terrorismo in Siria per provocare un “regime change” a proprio favore.

La Russia e l’Iran in effetti sono alleati con il governo siriano, mentre Turchia Usa, Ue e petro-monarchie del Golfo escogitano dal 2011 piani per far cadere al Assad. Inoltre le relazioni diplomatiche tra Mosca e Ankara si erano molto deteriorate dopo il caso dell’aereo militare russo abbattuto dai turchi nel novembre 2015 (ma poi normalizzate a partire dalla metà dell’anno scorso). E anche tra Ankara e Teheran non corre buon sangue. La Turchia è membro della Nato, che da 38 anni porta avanti una spietata guerra diplomatica, mediatica, economica e culturale alla repubblica islamica iraniana, dipinta come «nemico dell’Occidente». Per di più l’establishment turco – legato ai Fratelli MOSTAFA musulmani, sunniti EL AYOUBI – considera gli iracaporedattore niani degli eretici, di Confronti.

Il team dell’opposizione al governo di Damasco, scelto in prevalenza da Ankara, è dominato da una presenza di esponenti dei Fratelli musulmani. Ciò fa pensate che l’Akp, il partito islamista oggi al potere in Turchia, vorrebbe piazzare i suoi cugini della fratellanza all’interno di un ipotizzabile futuro governo di unità nazionale. Ciò gli consentirebbe di eserci-

Mostafa El Ayoubi

tare qualche influenza sullo Stato siriano. A differenza della Conferenza di pace di Ginevra sulla crisi siriana, quella di Astana ha un connotato più militare che politico. Il suo obiettivo è mettere in pratica la risoluzione 2336, cioè porre fine allo scontro armato e avviare un processo di riconciliazione tra lo Stato siriano e i gruppi armati. E poi eventualmente, se Astana darà i suoi frutti, si riaprirà a Ginevra il negoziato politico tra i siriani. Il documento finale della Conferenza di Astana ha sottolineato la sovranità dello Stato siriano, impegnando le parti in conflitto a rispettare il cessate il fuoco e a favorire il lavoro umanitario. A fare da garanti in questo nuovo processo saranno Russia, Iran e Turchia. Teoricamente, questa nuova strada sembra lineare, ma praticarla non sarà facile perché le incognite sono diverse. Come si comporteranno Arabia Saudita e Qatar, che hanno speso una fortuna per inondare la Siria di jihadisti? Tutto dipende da ciò che gli Usa faranno in Medio Oriente. Trump ora si trova tra le mani una patata bollente: un suo eventuale disimpegno in Siria rischia di mettere in crisi l’Arabia Saudita (il suo principale luogotenente) e Israele, perché la questione palestinese tornerà a galla con la stabilizzazione della Siria e la conferma dell’Iran come potenza regionale. L’eventuale riconoscimento di Gerusalemme come capitale israeliana è una concessione in cambio di tale disimpegno? E la Nato come si comporterà nei confronti della Turchia, che ora si trova con i piedi in scarpe diverse? Di fronte a tutte queste incognite, il fatto che il summit di Astana abbia avuto luogo è già un miracolo!


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i servizi

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MEDIO ORIENTE

Le molte nuvole nel cielo di Gerusalemme Luigi Sandri - Michele Lipori

Mentre il Consiglio di sicurezza dell’Onu proclama “illegali” gli insediamenti, il presidente Trump annuncia l’intenzione di trasferire l’ambasciata statunitense da Tel Aviv a Gerusalemme. Continuano, sul terreno, atti di violenza che arroventano il clima. Fatah e Hamas a Mosca per riconciliarsi.

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er una serie di fortuite coincidenze, il viaggio di studio di dieci giorni compiuto attorno a Capodanno a Gerusalemme e dintorni da un gruppo di Confronti, è stato preceduto, accompagnato e seguito da importanti eventi – di geopolitica, o anche di cronaca – riguardanti, direttamente o indirettamente, il conflitto israelo-palestinese. Perciò il nostro racconto si mescola inevitabilmente con quegli avvenimenti, alcuni dei quali di portata storica; e si arricchisce con interviste a personalità incontrate laggiù: Pierbattista Pizzaballa, francescano, dal 2004 al maggio 2016 Custode di Terra santa, e poi nominato dal papa amministratore apostolico sede vacante del patriarcato latino di Gerusalemme; e Munib Younan, a Gerusalemme vescovo della Chiesa evangelica luterana in Giordania e Terra Santa e, dal 2010, presidente della Federazione luterana mondiale. In quanto tale il 31 ottobre 2016 ha accolto a Lund, in Svezia, Francesco venuto a commemorare, insieme alla Flm, i cinquecento anni della Riforma (vedi Confronti 12/2016).

Confronti | febbraio Confronti 2017 | febbraio 2017

L’ONU, CON GLI USA, CONDANNA GLI INSEDIAMENTI ISRAELIANI

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Il 23 dicembre il Consiglio di sicurezza dell’Onu, con la risoluzione n. 2334, ribadendo sue decisioni del passato, ha definito “illegali” gli insediamenti israeliani in Cigiordania e a Gerusalemme-est. Il testo è passato con quattordici “sì” e – novità! – un’astensione decisiva: quella degli United States of America (che, con il veto, avrebbero potuto bloccarlo). Dunque, a meno di un mese dalla fine del suo mandato, Barack Obama ha deciso per un “sì” che MEDIO ORIENTE Luigi Sandri Pierbattista Pizzaballa (intervista) Munib Younan (intervista)

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negli otto anni della sua presidenza non aveva, in casi analoghi, mai voluto pronunciare. Spiegando al Palazzo di vetro le ragioni dell’astensione del suo Paese, l’ambasciatrice Samantha J. Power aveva precisato: «Non è possibile continuare la politica degli insediamenti e, insieme, volere la Two-State solution [la creazione di uno Stato di Palestina accanto allo Stato di Israele]». Afferma, la risoluzione 2334: «Il Consiglio di Sicurezza - Condannando ogni atto di violenza contro i civili, comprese le azioni terroristiche, così come ogni atto di provocazione, incitamento e distruzione, - Reiterando la propria visione di una regione in cui due Stati democratici, Israele e Palestina, vivano uno di fianco all’altro in pace all’interno di frontiere sicure e riconosciute [...], 1. Riafferma che la costruzione da parte di Israele di insediamenti nei Territori Palestinesi Occupati dal 1967, compresa Gerusalemme Est, non ha validità legale e costituisce una flagrante violazione del diritto internazionale e un gravissimo ostacolo per il raggiungimento della soluzione dei due Stati e di una pace giusta, duratura e completa; 2. Ripete la richiesta che Israele interrompa immediatamente e completamente ogni attività di insediamento nei Territori Palestinesi Occupati, compresa Gerusalemme Est, e che rispetti totalmente tutti i propri obblighi a questo proposito; 3. Sottolinea che non riconoscerà alcuna modifica dei confini del 4 giugno 1967, comprese quelle riguardanti Gerusalemme, se non quelle concordate dalle parti attraverso negoziati [...]; 6. Chiede passi immediati per evitare ogni atto di violenza contro i civili, compresi atti di terrorismo, così come LUIGI SANDRI ogni azione di provocazione redazione e distruzione, chiede che i re- Confronti.


sponsabili vengano chiamati a risponderne, e invoca il rispetto degli obblighi in base alle leggi internazionali per rafforzare i continui sforzi per combattere il terrorismo, anche attraverso l’attuale coordinamento per la sicurezza, e la condanna esplicita di ogni atto di terrorismo [...]». Aspra la risposta del premier israeliano Benjamin Netanyahu: non solo egli, con il suo governo, ignorerà la risoluzione 2334, ma avvierà la realizzazione di un piano per costruire, intanto, 566 nuovi appartamenti a Gerusalemme-est e poi 2.500 nella Cisgiordania. E, nei giorni della nostra permanenza nella “Città santa”, abbiamo potuto leggere, sui quotidiani israeliani in inglese, reazioni furiose, del premier e del suo gabinetto, contro Obama, considerato un “traditore” della causa di Israele. Durissimi, poi, i commenti di politici e movimenti legati ai coloni (che sono circa mezzo milione), e poi di militari, intellettuali, gente comune. Al contrario, grande la gioia dell’altro fronte: il presidente palestinese Mahmud Abbas (Abu Mazen) ha considerato la 2334 come il “Sì” del mondo alla causa palestinese, ma – ha aggiunto – sarà ben arduo costringere Israele ad attuare quella risoluzione. IL CASO DEL SERGENTE AZARIA E IL CAMION CONTRO I SOLDATI

In questo clima geopolitico già sovraeccitato, è accaduto un fatto “interno” che, secondo il quotidiano Haaretz, «ha provocato uno dei più dibattuti casi giudiziari nella storia di Israele». Il 4 gennaio la Corte militare a Tel Aviv – mentre all’esterno gruppi estremisti di destra si scontravano con la polizia – aveva proclamato “colpevole” il sergente Elor Azaria, ventenne, che il 24 marzo 2016 ad Hebron (Cisgiordania) aveva sparato ad un assalitore palestinese, ormai ferito, a terra e disarmato, e lo aveva ucciso.

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MEDIO ORIENTE

Il “quanto della pena” che potrebbe comportare fino a vent’anni di carcere, sarebbe stato definito poche settimane dopo. La decisione ha irritato moltissimo il governo: Netanyahu (tra parentesi, questi è sotto accusa per presunte vicende di corruzione), e il ministro dell’Educazione e capo de “La Casa ebraica”, il partito dei coloni, Naftali Bennett, hanno definito “inconcepibile” la condanna e, comunque, chiesto al presidente della Repubblica, Reuven Rivlin, di concedere subito la grazia. Ma, sottolineando che Israele è uno Stato di diritto, sui giornali sono apparse anche voci che ritenevano giusta la condanna di Azaria, avendo egli compiuto un omicidio colposo. Poi... l’8 gennaio, a Gerusalemmme est, con un grosso camion un palestinese ha gettato a terra e, poi, retrocedendo, schiacciato quattro soldati (tre ragazze e un giovane, tutti/e sui vent’anni). In un momento in cui, dopo la risoluzione 2334, l’Onu aveva dato un forte appoggio alla causa dei palestinesi, questo attentato terrorista è arrivato con una puntualità sospetta, fatto quasi apposta per discreditarli, e indurire Israele. Netanyahu ha subito collegato l’attentato all’Isis/Daesh, anche per la dinamica – un camion lanciato sulla folla – che lo rendeva simile agli attentati che a Nizza, il 14 luglio scorso, avevano provocato 87 vittime (tra le quali l’attentatore), e il 19 dicembre, a Berlino, dodici. Ma, per ora, non ci sono prove di tali collegamenti. Né ha rivendicato alcuna paternità Hamas, il Movimento di resistenza islamico: che, però, si è «rallegrato per l’azione eroica» compiuta dal «martire» che ha dato la morte a quattro soldati israeliani. CONFERENZA DI PARIGI: LA GRAN BRETAGNA SI SFILA

Il 15 gennaio, a Parigi, si è finalmente tenuta la Conferenza di pace per il Medio Oriente, preannunciata dal presidente François Hollande già nel giugno scorso: ad essa hanno preso parte settan-

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MEDIO ORIENTE

tacinque paesi (Italia compresa). Mentre Abbas valutava positivamente l’iniziativa, Netanyahu era fermamente contrario (perché – ribadiva – spetta a Israele, in trattative dirette con l’Autorità palestinese, trovare una soluzione al conflitto. Trattative che Abbas si rifiuta di riprendere fino a che non sia posto termine all’ampliamento degli insediamenti). E, mentre in Francia si apriva l’evento, il premier giudicava “futile” la Conferenza, precisando: «Essa è stata concordata dai francesi con i palestinesi allo scopo di cercare di imporre ad Israele condizioni inconciliabili con i nostri interessi nazionali. Essa riflette gli ultimi battiti del mondo di ieri. Il domani avrà un altro aspetto, e il domani è molto vicino». Il “domani” era... il 20 gennaio, quando Trump sarebbe divenuto effettivamente presidente degli Usa. La Dichiarazione finale della Conferenza ricalca, in sostanza, la 2334 – il pieno appoggio alla Two State solution – ma, in alcune parti, quasi addolcendola, per tener conto delle pressioni israeliane; e senza esprimere un qualche rammarico sull’annuncio di Trump di voler trasferire l’ambasciata Usa da Tel Aviv a Gerusalemme. Essa «condanna l’attività dei coloni e gli incitamenti ad atti di violenza e di terrore». Perciò Angelino Alfano – alla sua prima uscita, come ministro degli Esteri, sulla scena internazionale – ha commentato: «La questione non si

può risolvere solo con gli insediamenti israeliani, c’è [anche] il tema di chi incita alla violenza e chi considera eroi o martiri i terroristi. Finché sarà così, non ci sarà pace e sicurezza in Israele... Israele è l’unica democrazia in quell’area [del Medio Oriente] ed è interesse del mondo salvaguardarla. La Conferenza non tifava Palestina, ma era equilibrata». Il testo di Parigi è stato accolto da tutti i Paesi partecipanti al summit, con due eccezioni: Australia e Gran Bretagna. Londra è sembrata così allinearsi all’atteggiamento filo-israeliano di Trump. Hollande, da parte sua, rivendicando il tradizionale ruolo della Francia in Medio Oriente, ha inteso far sapere al mondo arabo che, in Occidente, vi sono differenti visioni politiche per risolvere il conflitto israelo-palestinese, e non solo quella del nuovo inquilino della Casa Bianca. PUTIN SPINGE AL-FATAH E HAMAS A COLLABORARE

Il 17 gennaio, a Mosca, è accaduto un fatto molto significativo, riguardante la questione mediorientale: grazie ai buoni uffici del presidente russo Vladimir Putin, al-Fatah (il partito di Abbas) e Hamas hanno trovato un accordo per formare un governo di unità nazionale. Dieci anni fa, con un colpo di mano militare il Movimento di resistenza islamico aveva preso il potere a Gaza, estromettendo dalla Striscia la pre-

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senza di al-Fatah. Da allora, Hamas ha contrastato il potere di Abbas, rifiutando di accettare – in linea di principio – ogni suo eventuale accordo con Israele. Più volte ripetuti, ma esili, erano stati i tentativi di superare il contrasto scoppiato nel 2007 (ma in incubazione dal 2006, quando al-Fatah aveva rifiutato, di fatto, di accettare il responso delle elezioni legislative, che aveva visto la vittoria di Hamas): anche l’esecutivo oggi al potere a Ramallah, guidato da Rami Abdallah, è sì sostenuto dall’esterno dai due partiti, che però in realtà continuano a contrapporsi. Permane insomma, in pratica, una diarchia (al-Fatah governa la Cisgiordania, e Hamas Gaza) che mina alla radice l’autorevolezza dell’Autorità palestinese e la depotenzia rispetto al governo israeliano. Inoltre, soprattutto nella Striscia, negli anni più recenti sono cresciuti gruppi simpatizzanti dell’Isis/Daesh che, con il tempo, avrebbero potuto travolgere le attuali leadership palestinesi. Abbas e Khaled Meshal, il leader di Hamas, hanno dunque preso atto che la loro perdurante lotta intestina sarebbe stata rovinosa per la causa palestinese. E così nel 2016 vi erano stati pourparler tra le due parti, e anche con altre forze palestinesi, laiche e islamiste, e poi un incontro con il ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov: da tutto questo lavorio è emersa una bozza di accordo che infine, a metà gennaio, con la pressione decisiva di Putin, è arrivata in porto. Il Cremlino – già impegnatissimo con la crisi siriana – aggiunge così un altro anello alle iniziative per risolvere, in un modo che salvaguardi gli interessi russi, i conflitti che ardono in Medio Oriente, e che Stati Uniti e Unione europea non sono affatto riusciti a districare. Se l’accordo intra-palestinese di Mosca reggerà – non poche, e non piccole, infatti, sono le rivalità da superare! – dovrebbe esserci al più presto un nuovo governo palestinese e, poi, finalmente, elezioni per scegliere il nuovo presidente e il nuovo Parlamento (ambedue tuttora in carica ben al di là del loro mandato). In giugno saranno cinquant’anni dalla Guerra dei sei giorni al termine della quale, a parte il Sinai egiziano e il Golan siriano, Israele nel 1967 occupò la Striscia, la Cisgiordania e Gerusalemme-est. Sarà, quell’anniversario, uno spartiacque decisivo per le sorti dello Stato della Palestina che deve nascere? TRUMP TRASFERISCE L’AMBASCIATA DA TEL AVIV A GERUSALEMME?

Nel suo discorso di insediamento, il 20 gennaio, quando ha martellato il ritornello America first – l’America, prima di tutto – Donald Trump, parlando dei “nemici”, ha citato solo un nome: «Noi rafforzeremo le vecchie alleanze, e ne formeremo di nuove, e uniremo il mondo civile contro il terrorismo islamico radicale, che sradicheremo totalmente della faccia della terra». Ma, nel suo orizzonte

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sui problemi del mondo, invece, nulla ha detto di esplicito sul Medio Oriente e, in particolare, su Gerusalemme, tema sul quale pochi giorni prima aveva pur fatto “anticipazioni”. Tutte le ambasciate in Israele hanno la loro sede a Tel Aviv, perché tutti i paesi, d’accordo con l’Onu, ritengono “illegale” la decisione della Knesset (parlamento) che nel 1980 proclamò l’intera Gerusalemme capitale «indivisibile» di Israele; da parte loro, i palestinesi rivendicano la parte est della città come capitale del loro costituendo Stato. In tale contesto, se adesso Trump attuerà quanto promesso quasi alla vigilia dell’inizio del suo mandato, straccia la risoluzione 2334 dell’Onu, sfida i palestinesi e compie un gesto provocatorio verso quasi tutti i paesi arabi e musulmani, con il rischio di innescare imprevedibili conseguenze. D’altra parte, “pro memoria” per Trump!, il presidente cinese Xi Jinping – visitando, nella terza decina di gennaio, Egitto, Arabia Saudita ed Iran – ha espresso il suo sostegno ad uno Stato di Palestina entro i confini del 1967 e con Gerusalemme-est come capitale. Intanto, il 2324 gennaio ad Astana (Kazakhstan) si è tenuta, voluta da Russia, Iran e Turchia, una conferenza sulla Siria: si è deciso – senza però il Sì di alcuni gruppi islamisti contrapposti al regime di Assad – di confermare l’attacco militare all’Isis/Daesh ma, per il resto, mantenere la tregua, stabilita il 29 dicembre, e riprendere poi le trattative a Ginevra, due settimane dopo. Il groviglio di problemi che riguardano Gerusalemme e dintorni non era e non sarà, dunque, sul tappeto; ma il “quando” e il “come” avrà fine il caos siriano potrà, indirettamente, facilitare la soluzione del conflitto israelo-palestinese o, forse, aggrovigliarlo ancor più.

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Una comunità internazionale distratta intervista a Pierbattista Pizzaballa

[a cura di Michele Lipori]

Qual è oggi la situazione israelo-palestinese? Non è il momento dei grandi gesti e delle grandi speranze. La politica non è in grado di fare i passi necessari per avviare un vero processo di pace. Spero di essere smentito, ma con i cambiamenti a Washington la situazione sarà più tesa. La comunità internazionale è in questo momento distratta, non siamo nell’agenda dei media internazionali: se si parla di Terrasanta è perché è successo qualcosa di grave. Un palestinese ucciso, un attentato ormai non fanno più notizia.

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Quali gli aspetti più importanti su cui impegnarsi? Quello che, per noi, è davvero necessario fare è lavorare con la gente, sul territorio attraverso le istituzioni che la Chiesa fornisce, dando un supporto alla popolazione per quanto riguarda l’istruzione e il raggiungimento di uno standard di vita migliore. La maggioranza dei palestinesi è sotto i 30 anni e c’è un tasso di disoccupazione altissimo.

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Quali spiegarci come si svolge il suo lavoro al Patriarcato latino? Io non sono un patriarca, ma un amministratore apostolico e quindi sono stato scelto per sanare una situazione di difficoltà in cui si trova il Patriarcato latino, soprattutto sul piano economico: un ruolo molto delicato. Naturalmente c’è molto altro. Basti pensare che i paesi che afferiscono al Patriarcato latino di Gerusalemme sono Giordania, Israele, Palestina e Cipro: quattro paesi con dinamiche e contesti sociali completamente diversi. Fra le questioni più delicate a cui far fronte c’è quella dell’allontanamento dei giovani dalla Chiesa, cosa che accomuna il Medioriente ad altre zone del mondo. Altro fattore importante in questa fase è il fenomeno dell’immigrazione: molte persone soprattutto dalle Filippine, ma anche dall’India, sono immigrati cristiani che vengono in Terrasanta per motivi di lavoro. In Europa si è diffidenti verso i musulmani, mentre qui sono i cristiani a far paura, perPIERBATTISTA ché in queste terre (in cui gli PIZZABALLA arcivescovo. ebrei e i musulmani sono la

maggioranza) è il cristiano ad essere “il diverso”, con tutto quello che ne consegue. In questa complessità come si può costruire un dialogo fra le diverse religioni e le componenti delle società? La parola “dialogo” qui in Terrasanta andrebbe evitata, soprattutto per il modo retorico in cui è stata utilizzata nel corso degli anni. Il dialogo – ne sono convinto – non è qualcosa che può essere raccontato o teorizzato, nasce piuttosto dalla vita in comune: si potrebbe dire che esso somigli di più al dialogo che avviene durante una riunione di condominio, dove c’è la necessità reale di trovare un modo di convivere, piuttosto che al dialogo raccontato nei convegni con discorsi sui massimi sistemi. Quali sono le difficoltà più comuni? C’è spesso un’ambiguità nel rapporto fra cristiani, ebrei e musulmani, perché i rapporti cambiano in base alle questioni che affliggono le comunità locali. È facile che i rapporti siano più tesi in luoghi in cui le tensioni dovute all’occupazione israeliana sono più acute e questo non ha nulla a che fare con questioni teologiche. Comunque è più facile creare circostanze in cui stare insieme in contesti più “piccoli”, meno istituzionalizzati, mentre a livelli più alti, che coinvolgono la politica, è molto più difficile. È in contatto con i cristiani in Siria? La comunità cristiana è ridotta al lumicino: ad Aleppo è stata dimezzata, da 100mila a 50mila persone. La configurazione delle comunità in Siria è completamente saltata. All’interno del paese nessuno si fida di nessuno e in particolare i cristiani nel paese sono odiati perché sono supportati da Assad e quindi c’è l’equazione cristiano=regime. È una situazione molto complessa, di difficile risoluzione.

«IL DIALOGO NON PUÒ ESSERE RACCONTATO O TEORIZZATO: NASCE PIUTTOSTO DALLA VITA IN COMUNE».


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L’unità delle Chiese e il nodo del Medio Oriente intervista a Munib Younan

[a cura di Michele Lipori]

Recentemente ha incontrato papa Bergoglio. Cosa è scaturito da tale incontro? Nel nostro incontro in Svezia abbiamo firmato un documento il cui cuore è una dichiarazione di unione fra le due Chiese. È un passo molto importante perché l’unità delle Chiese non è da considerarsi come un’attività qualsiasi, non è un corollario, bensì l’essenza del cristianesimo. Quello che ci unisce è il battesimo che ci incarna come corpo di Cristo. Quello che ci divide è l’accezione dei ministeri e anche la concezione dei sacramenti, ma stiamo trovando una strada. In questi tempi così difficili, soprattutto qui in Terrasanta, dobbiamo concentrarci su ciò che ci unisce, ovvero il 95% della nostra dottrina. Purtroppo ci sono delle frange che tendono a sottolineare quel 5% che ci divide. Quanti sono i cristiani in quelle terre? Al giorno d’oggi i cristiani in Terrasanta sono meno del 2% dell’intera popolazione. In passato eravamo fra il 15 e il 20% della popolazione. Perché i cristiani stanno lasciando queste terre? Ci sono diversi motivi. Il primo è la mancanza di una prospettiva di pace nella zona, ma ci sono anche altri problemi, come le conseguenze dell’occupazione militare israeliana. Parlando di occupazione non mi riferisco solo ai checkpoint, ma anche alla

costante espansione delle colonie, nonché alle politiche legate al ricongiungimento familiare. Faccio un esempio: se una persona con un documento che attesta la sua cittadinanza di Gerusalemme sposa una persona con un documento di identità dell’Autorità palestinese, le autorità israeliane tenderanno ad estendere la cittadinanza palestinese e non quella di Gerusalemme, il che comporta notevoli limitazioni di movimento e di diritti per il nuovo nucleo familiare. Per questo molte famiglie decidono di abbandonare la Terrasanta. Altro motivo molto grave è la disoccupazione, che raggiunge picchi del 33% fra MUNIB YOUNAN i giovani. Infine un motivo da vescovo non sottovalutare è la costan- della Chiesa te crescita di una mentalità evangelica luterana estremista, e questo avviene in Giordania e Terra Santa. sia in Palestina che in Israele.

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Essendo da sempre impegnato su questo fronte, le chiedo innanzitutto a che punto è il dialogo ecumenico? La domanda che, come Chiese, ci stiamo ponendo è: vogliamo continuare ad essere separate o vogliamo trovare una strada per l’unità? Naturalmente sappiamo che ci sono delle differenze teologiche fra le varie denominazioni cristiane, differenze che si ripercuotono sul riconoscimento dei luoghi sacri. Parlando della Terrasanta, nello specifico, ci sono problemi anche perché tutte le Chiese vogliono avere un posto a Gerusalemme e questo, spesso, genera tensioni.

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