Confronti di giugno 2015 (parziale)

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6,00 EURO - TARIFFA R.O.C.: POSTE ITALIANE SPA - SPED. IN ABB. POST. D.L. 353/2003 (CONV. IN L. 27/02/04 N.46) ART.1 COMMA 1, DCB

Armenia 1915-2015

GIUGNO 2015

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CONFRONTI 6/GIUGNO 2015

WWW.CONFRONTI.NET Anno XLII, numero 6 Confronti, mensile di fede, politica, vita quotidiana, è proprietà della cooperativa di lettori Com Nuovi Tempi, rappresentata dal Consiglio di Amministrazione: Nicoletta Cocretoli, Ernesto Flavio Ghizzoni (presidente), Daniela Mazzarella, Piera Rella, Stefania Sarallo (vicepresidente). Direttore Claudio Paravati Caporedattore Mostafa El Ayoubi In redazione Luca Baratto, Antonio Delrio, Franca Di Lecce, Filippo Gentiloni, Adriano Gizzi, Giuliano Ligabue, Michele Lipori, Rocco Luigi Mangiavillano, Anna Maria Marlia, Daniela Mazzarella, Carmelo Russo, Luigi Sandri, Stefania Sarallo, Lia Tagliacozzo, Stefano Toppi. Collaborano a Confronti Stefano Allievi, Massimo Aprile, Giovanni Avena, Vittorio Bellavite, Daniele Benini, Dora Bognandi, Maria Bonafede, Giorgio Bouchard, Stefano Cavallotto, Giancarla Codrignani, Gaëlle Courtens, Biagio De Giovanni, Ottavio Di Grazia, Jayendranatha Franco Di Maria, Piero Di Nepi, Monica Di Pietro, Piera Egidi, Mahmoud Salem Elsheikh, Giulio Ercolessi, Maria Angela Falà, Giovanni Franzoni, Pupa Garribba, Daniele Garrone, Francesco Gentiloni, Gian Mario Gillio, Svamini Hamsananda Giri, Giorgio Gomel, Laura Grassi, Bruna Iacopino, Domenico Jervolino, Maria Cristina Laurenzi, Giacoma Limentani, Franca Long, Maria Immacolata Macioti, Anna Maffei, Fiammetta Mariani, Dafne Marzoli, Domenico Maselli, Cristina Mattiello, Lidia Menapace, Adnane Mokrani, Paolo Naso, Luca Maria Negro, Silvana Nitti, Enzo Nucci, Paolo Odello, Enzo Pace, Gianluca Polverari, Pier Giorgio Rauzi (direttore responsabile), Josè Ramos Regidor, Paolo Ricca, Carlo Rubini, Andrea Sabbadini, Brunetto Salvarani, Iacopo Scaramuzzi, Daniele Solvi, Francesca Spedicato, Valdo Spini, Patrizia Toss, Gianna Urizio, Roberto Vacca, Cristina Zanazzo, Luca Zevi. Abbonamenti, diffusione e pubblicità Nicoletta Cocretoli Amministrazione Gioia Guarna Programmi Michele Lipori, Stefania Sarallo Redazione tecnica e grafica Daniela Mazzarella

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Armenia, 1915-2015 • G. Pantosti e G. Giannini, copertina Per non dimenticare • Gianna Pantosti e Giampaolo Giannini, 3 Questa buona scuola a molti non piace • Simonetta Salacone, 4 Rom, sinti, immigrati: il razzismo elettorale • Santino Spinelli, 5 Netanyahu, vittoria di Pirro? • David Gabrielli, 6 Se il gioco si fa duro, i duri fanno le regole • Adriano Gizzi, 8 «Una riforma utile e necessaria» • (intervista a) Stefano Ceccanti, 11 Non aprire la strada ad avventure autoritarie • (int. a) Giulio Ercolessi, 13 Se il nontiscordardimé simboleggia il genocidio • Luigi Sandri, 15 Due narrazioni inconciliabili • L. S., 18 L’affanno dell’accoglienza • Antonio Ricci, 20 Giovani stranieri e religione • Roberta Ricucci, 24 Multiculturalismo, nuove tecnologie e religione • (int. a) Jos de Mul, 26 Ma la LegaCoop cos’è, senza solidarietà? • Giuliano Ligabue, 29 Calano di poco le spese militari nel mondo, 31 Amnesty denuncia i crimini ai danni dei migranti, 31 Riforma del «sistema asilo»: un’occasione persa, 31 La Giornata mondiale delle vittime dell’amianto, 32 La Corte di giustizia Ue sugli omosessuali donatori di sangue, 32 Un seminario dell’Associazione Italia-Iraq, 33 «Europa e cultura europea: le religioni come sistemi educativi», 33 I protestanti francesi a favore della benedizione di coppie gay, 34 Il Vaticano riconosce lo «Stato di Palestina», 35 Breaking the silence denuncia il comportamento dei militari israeliani, 35 Il convegno di «Chiesadituttichiesadeipoveri», 36 Quando la xenofobia è «made in Africa» • Enzo Nucci, 37 Procreazione: la legge continua a perdere pezzi • Anna Maria Marlia, 38 Chiesa cattolica e maschilismo • Giovanni Franzoni, 39 I testimoni di Geova esortano a imitare Gesù • Antonio Delrio, 40 Il cibo nella tradizione induista • Svamini Hamsananda Giri, 41 Niente coalizioni, siamo inglesi • Adriano Gizzi, 42 Agar, figura di liberazione • Stefania Sarallo, 43 Il Congo, una terra meravigliosa e martoriata • Patrizia Larese, 44 45

Publicazione registrata presso il Tribunale di Roma il 12/03/73, n. 15012 e il 7/01/75, n.15476. ROC n. 6551. Hanno collaborato a questo numero: S. Ceccanti, J. de Mul, P. Larese, V. Maggio, A. Ricci, R. Ricucci, A. Romele, S. Salacone, S. Spinelli.

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LE IMMAGINI

PER NON DIMENTICARE

Le foto che illustrano questo numero sono state scattate in occasione del viaggio dell’inviato di Confronti in Armenia per assistere, il 24 aprile, alle celebrazioni per il centenario dell’inizio del «Metz Yeghern» («Grande Male»), il genocidio del popolo armeno (si veda il servizio a pag. 15). Le foto sono di Gianna Pantosti e Giampaolo Giannini.

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GLI EDITORIALI

Questa buona scuola a molti non piace Simonetta Salacone l 19 maggio 2014 il ddl 2994 denominato «La buona scuola» ha concluso il suo iter alla Camera dei deputati, apprestandosi ad affrontare quello in Senato, dove il cammino sarà più in salita. Al di là delle critiche ai singoli articoli e nonostante le modifiche apportate durante il dibattito parlamentare, ciò che non convince è la filosofia che sta dietro il ddl. Viene infatti stravolto il modello di scuola disegnato dalla Costituzione, perché ai valori di inclusività e di uguaglianza si sostituisce la competizione fra scuole, docenti, alunni. Per ottenere i risultati migliori, le scuole – per esse i dirigenti scolastici – dovranno impegnarsi nella selezione dei migliori docenti, all’interno delle graduatorie di territorio, non si sa bene con quali competenze e sulla base di quali criteri. Sono evidenti i rischi di discrezionalità, di pressioni clientelari, di compressione della libertà di insegnamento. Ogni singola scuola potrà godere delle risorse direttamente provenienti da privati: è stato scorporato dal testo il finanziamento del 5 per mille, ma resta lo «school bonus», cioè il credito di imposta del 65% delle erogazioni che potranno essere volontariamente versate da persone fisiche ed enti direttamente alla scuola scelta. È evidente che le risorse finanziarie più consistenti arriveranno alle scuole frequentate da alunni di famiglie benestanti. Le famiglie che vorranno servirsi delle scuole paritarie, otterranno un bonus di 400 euro l’anno, mentre queste scuole continueranno a godere dei finanziamenti di Stato. Oltre alla necessità di reperire risorse economiche, al dirigente scolastico è affidata la valutazione dei docenti e l’eventuale dispensa dal servizio per giudizio negativo, «sentito il comitato di valutazione», integrato con la presenza di genitori e alunni. Non basta: all’interno delle scuole i singoli docenti saranno chiamati a competere e i migliori potranno accedere a premi stipendiali, sulla base della valutazione del solito dirigente scolastico.

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La riforma voluta dal governo Renzi attribuisce molto potere al dirigente scolastico, al quale verrà affidata la valutazione dei docenti, con tutti i prevedibili rischi di discrezionalità e di pressioni. Senza contare poi che questo favorirà la creazione di una forte competizione fra colleghi all’interno delle scuole. Lo «school bonus», inoltre, finirà ovviamente per favorire le scuole frequentate da alunni di famiglie benestanti. Sono molte poi le problematiche della scuola che non vengono affrontate da questo disegno di legge.

Simonetta Salacone è stata dirigente scolastica della scuola «Iqbal Masih» di Roma.

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Vengono depotenziati gli organi collegiali, ridotti ad una funzione consultiva, e vengono introdotti al loro interno soggetti economici del territorio. Le risorse restituite dopo i tagli feroci della Gelmini sono poche e sul medio-lungo periodo gli investimenti rispetto al Pil diminuiscono, restando comunque notevolmente inferiori alla media di quelli dei Paesi dell’Unione europea. Il problema precari è affrontato dividendo la platea degli aventi diritto a diverso titolo, ma soprattutto senza un piano pluriennale chiaro che preveda i tempi per l’esaurimento delle attuali graduatorie. «La buona scuola» non tratta di revisione dei cicli, di innalzamento dell’obbligo scolastico, di ripristino di modelli di tempo pieno e tempo prolungato, di revisione dei Programmi in linea con le innovazioni e con l’assetto sempre più multiculturale della nostra società. Su troppi argomenti di natura organizzativa e di merito sono affidate deleghe in bianco al governo. Nel ddl è espressa un’idea di autonomia che, anziché servire a realizzare esiti simili in situazioni difformi, con la possibilità di interventi perequativi dello Stato, ratifica le disuguaglianze e frantuma l’unitarietà del sistema di istruzione. L’idea di scuola che dagli anni ’70 molti di noi hanno coltivato e tentato di realizzare è quella di un luogo ricco di relazioni, in cui l’istruzione non è separata dall’educazione, in cui gli alunni crescono e apprendono in forma collaborativa e vengono valutati non solo su «performance» di tipo strumentale, dove anche i docenti sono stimolati a migliorare le proprie capacità professionali, ad aggiornarsi, a praticare la collegialità e a diventare, tutti, più competenti. La scuola disegnata nel ddl, invece, toglie spazi alla collaborazione, isola, induce a valutare i docenti sulla base dei risultati conseguiti dagli alunni e non sui percorsi svolti per ottenerli. L’idea contenuta nel ddl sembra la stessa che caratterizza il riformismo del governo Renzi: quello che privilegia le decisioni dell’esecutivo rispetto al coinvolgimento degli organi della partecipazione democratica. Ciò provoca lo scontro con coloro che i cambiamenti dovranno poi gestire e applicare. Non è un caso che docenti titolari, anche anziani e addirittura in pensione, abbiano partecipato in massa, accanto a colleghi pre-


GLI EDITORIALI

cari, a genitori e studenti, alla manifestazione del 5 maggio e che le iniziative di mobilitazione proseguano quotidianamente in tutto il Paese: tutti avvertiamo il rischio grave di una deriva mercantilista e di privatizzazione della istituzione a cui è affidato il futuro della formazione delle nuove generazioni.

Rom, sinti, immigrati: il razzismo elettorale Santino Spinelli l razzismo e la xenofobia sono tornati ad essere dilaganti in Italia e fomentati da politici, articoli di giornali e trasmissioni televisive discutibili che incitano all’odio razziale. A questo si aggiunge la disinformazione e, spesso, anche l’informazione farlocca a fini elettorali e propagandistici, facendo leva sulla strumentalizzazione artefatta delle notizie. Davvero qualcosa di inaudito che sottolinea il momento di profonda crisi morale che stiamo vivendo. A farne le spese i più deboli, su cui si accaniscono gli opportunisti e su cui si fa sciacallaggio politico e giornalistico. E ciò che è più preoccupante è che i razzisti hanno una grande copertura mediatica ed istituzionale. Si può dire e fare qualsiasi cosa su immigrati, rom e sinti. Così si rischia una deriva pericolosa. L’informazione è inquinata e talvolta arriva ad istigare all’odio razziale, come nel caso vergognoso della falsificazione di un servizio ad opera della trasmissione «Quinta colonna». In piena campagna elettorale per le scorse elezioni regionali, la macchina propagandistica ha usato i capri espiatori ideali. In questo contesto non c’è informazione ma solo strumentalizzazione mediatica. Non si fanno trasmissioni culturali o interculturali, ma solo propaganda contro rom, arabi, immigrati o le fasce deboli della società e si fa passare per normale ciò che è disumano. Il tutto per raccattare voti o per arricchirsi, visto che il business sui rom ed immigrati è immenso come Roma Capitale ha dimostrato. La propaganda romfobica si basa, in particolar modo, sulla disinformazione proprio per creare stereotipi funzionali. I mass media e i politici a cui essi fanno capo hanno una grossa responsabilità. Le istituzioni, con il loro silenzio, sono conniventi.

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Come sempre, sotto elezioni si moltiplica la propaganda xenofoba che finisce per criminalizzare alcune categorie «deboli» della società, strumentalizzando il disagio e parlando alla «pancia» degli italiani. Le responsabilità politiche, mediatiche ed istituzionali di fronte a scandali come quello definito «Mafia capitale», mentre prosegue la politica dei campi nomadi e della segregazione razziale.

Santino Spinelli è musicista, poeta e docente di Lingua e cultura romaní all’Università di Chieti.

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È da quasi trent’anni, dalla fine degli anni ‘80, che denuncio Ziganopoli. Basta leggere i miei articoli o i miei libri. Oggi mi meraviglio di chi si stupisce di aver scoperto Mafia Capitale, con così tanto ritardo. Non si è voluto intervenire prima. Ci sono responsabilità politiche, mediatiche ed istituzionali. Tutti hanno preferito guardare dall’altra parte. Il tutto sulla pelle di donne, bambini e anziani inermi. Ora che tutti sanno cos’ è Ziganopoli=Mafia Capitale, cos’è cambiato? Assolutamente nulla. La politica dei campi nomadi e della segregazione razziale continua e nessuno fa nulla, tantomeno le istituzioni. Il «magna magna» continua, in barba all’opinione pubblica. Alcuni politici approfittano della crisi economica e del disagio sociale per parlare alla pancia degli italiani e non alla loro testa. Allora occorre creare i capri espiatori ideali: l’alterità nemica e minacciosa, lo straniero pericoloso, l’immigrato e i rom portatori di ogni male. La realtà è che si cerca di coprire la vera corruzione e le incapacità di politici inadeguati e truffaldini. Si fa leva sull’insicurezza dei cittadini altrettanto inermi per fomentare una guerra fra poveri. Un sistema disumano e perverso. La crisi economica e morale favorisce questo sistema e


GLI EDITORIALI

i razzisti e xenofobi, che nella normalità sarebbero delle nullità, diventano protagonisti e punti di riferimento, riescono così ad emergere con i facili consensi, hanno una grande visibilità mediatica. I rom e sinti non sono mai stati nomadi per cultura ma la mobilità è sempre stata coatta, conseguenza di persecuzioni e di repressioni. I campi nomadi sono una forma orrenda di segregazione razziale che arricchisce mafie, associazioni di pseudo-volontariato e politici corrotti. I rom non hanno nessun problema a vivere nelle case come nel resto d’Europa e del mondo. Certamente esistono forme di emarginazione molto gravi, ma sono situazioni sociali, non culturali. Fortunatamente il mondo romanò è fatto anche di ben altro: cultura, arte, teatro, letteratura, tradizioni, lingua, sport, moda, cinematografia e tanto altro. L’apporto musicale e strumentale dei rom, sinti, kale, manouches e romanichals all’Europa e al mondo è considerevole ma sconosciuto. Occorre spostare lo sguardo e la politica dal piano sociale a quello culturale. I rom non sono un problema sociale (seppur così presentato da chi deve speculare) ma una grande ricchezza umana e culturale. Questo il passaggio fondamentale e significativo ancora da acquisire per iniziare una seria politica d’inclusione al di là degli stereotipi negativi e delle politiche speculative. Ma si vuole realmente?

Netanyahu, vittoria di Pirro? David Gabrielli Il quarto governo Netanyahu, appena varato, ha una risicatissima maggioranza di 61 seggi sui 120 della Knesset (parlamento monocamerale israeliano), ed un programma tutto di destra. Saranno possibili, ora, vere trattative di pace con i palestinesi, mentre continua l’espansione delle colonie nei Territori occupati? L’ira del nuovo esecutivo contro la Santa Sede che ha riconosciuto lo «Stato di Palestina».

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1 su 120: può reggere un governo che alla Knesset ha una maggioranza così risicata, e tale perché possibili alleati si sono defilati non ritenendo il nuovo esecutivo abbastanza energico nella sua opposizione ai palestinesi? Eppure su tale lievissimo vantaggio si basa il nuovo esecutivo, di destra-destra, di Benyamin Netanyahu che, a metà maggio, guidando per la quarta volta un governo, ha ottenuto la fiducia al parlamento monocamerale israeliano. Dalle elezioni del 17 marzo il premier uscente era risultato vincitore e il suo partito, il Likud, aveva ottenuto 29 seggi, contro i 24 dell’Unione sionista dominata dai laburisti, e i 14 della coalizione dei partiti arabi, diventati terza forza politica (che, per contare, dovrà però operare alleanze politiche decisive). Il Likud, alla precedente consultazione del 2013, aveva ottenuto 31 seggi, ma si era presentato unito con Yisrael Beitenu (Israele nostra casa), che ora ha ottenuto sei seggi; tuttavia il suo leader, Avigdor Lieberman, finora ministro degli Esteri, si è rifiutato di entrare nel nuovo Gabinetto, accusando il premier di essere remissivo (sic!) nei confronti dei palestinesi e debole nella difesa della «ebraicità» dello Stato. È vero che una maggioranza di 61 voti non è inedita in Israele; tale era anche quella di Yitzhak Rabin – assassinato da un ebreo israeliano nel 1995 – però allora il contesto era diverso, ed egli si reggeva con l’appoggio di partiti arabi. Seppure incombano molti problemi di politica interna – come le crescenti disuguaglianze sociali che creano tensioni – è sempre la questione palestinese a gravare, almeno indirettamente, sulla formazione dei governi israeliani. Cruciale, in proposito, il nodo degli insediamenti nella Cisgiordania occupata dal 1967. Anche se, a norma del diritto internazionale, Israele non dovrebbe costruirli, a poco a poco molti dei minuscoli insediamenti sono diventati cittadine; essi sono stati voluti e protetti anche da governi di centrosinistra ma, soprattutto, da governi di centrodestra, e in particolare da quelli guidati da Netanyahu. Il quale, oggi, non potrebbe governare senza quei partiti (soprattutto Ha-

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GLI EDITORIALI

bayit Hayehudi – Focolare ebraico – di Naftali Bennett) che rappresentano gli interessi dei coloni – 400mila, sparsi in 150 insediamenti, e senza quelli che garantiscono gli interessi dei religiosi. Il governo del 61 seggi (su 120) è poi contrarissimo al possibile accordo tra Washington e Teheran sulla limitazione della potenza nucleare iraniana; infatti, mentre il presidente Barack Obama è convinto che esso (siglato ai primi di aprile, e che dovrebbe essere definitivamente varato a fine giugno) permetta, sì, all’Iran di sviluppare l’energia nucleare, ma solamente a scopi civili e non militari, il premier ritiene invece che, a causa dell’inaudita debolezza statunitense, proprio alla bomba atomica infine il regime iraniano arriverà. Tale questione, e l’avanzata dell’Isis – il cosiddetto Califfato reo di delitti efferati – distolgono quasi del tutto l’attenzione delle Cancellerie occidentali dal problema palestinese; e distolgono anche l’attenzione dei regimi arabi o islamici mediorientali, interessati solo a quanto accade in Siria ed in Iraq. In questa tenaglia i palestinesi rischiano di rimanere incastrati; comunque la loro Autorità nazionale ha giudicato «estremista... basata sull’avversione alla pace» la nuova coalizione israeliana. In effetti, per quanto ora favorevole, a parole, alla «Soluzione dei due Stati», Netanyahu immagina la futura Palestina come una specie di Bantustan, e amputata il più possibile della sua terra; e si è ben guardato, ora, dal prospettare uno stop agli insediamenti. Da parte sua, dopo anni di latitanza, negli ultimi mesi ogni tanto Obama ha protestato contro questa politica, ma infine senza mai costringere l’alleato a desistere da un espansionismo bellicoso. Vi è da aggiungere – guardando al fronte palestinese – che l’effimera pacificazione, mai giunta fino in fondo, tra al-Fatah, il partito del presidente Mahmud Abbas (Abu Mazen), che «controlla» la Cisgiordania, con Hamas, il movimento di resistenza islamico

che governa nella Striscia di Gaza (ancora gravata dalle tremende conseguenze dell’operazione israeliana «Margine protettivo» di un anno fa: vedi Confronti 10/2014), indebolisce alla radice la stessa causa palestinese. Anche papa Francesco non poteva uscire indenne dal groviglio di Gerusalemme, dopo che il 13 maggio (vedi questo stesso numero, pagina 35) con limpida coerenza la Santa Sede aveva riconosciuto lo «Stato di Palestina»; e dopo che il 16 maggio, ricevendo il presidente palestinese Mahmud Abbas lo aveva invitato ad essere un «angelo di pace». Al che un giornalista israeliano su Ynet ha chiosato: «Sua Santità è una persona molto ingenua, oppure non ha la minima idea di quello che accade in Medio Oriente». Ma il commento – indiretto – più importante è quello di Netanyahu, il quale da sempre sostiene che la Palestina potrebbe chiamarsi «Stato» solo se, e quando, si arriverà ad una positiva conclusione delle trattative con Israele. Un traguardo che, guardando al passato antico e recente, si potrebbe prospettare in tempi... biblici.

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POLITICA

Se il gioco si fa duro, i duri fanno le regole

Adriano Gizzi

Dopo aver fatto approvare la legge elettorale a colpi di fiducia, contro tutte le opposizioni e una parte del proprio stesso partito, Renzi affronta ora la lunga battaglia per far passare anche le riforme costituzionali, a cominciare dal ridimensionamento del Senato che diventerà organo di rappresentanza delle istituzioni territoriali. hi fa le porzioni della torta non deve scegliere per primo la fetta: lo prevede una regola elementare di buon senso, proprio per evitare che poi possa scegliere per sé la più grande. Così dovrebbe essere anche per le regole del gioco democratico. Non solo per correttezza nei confronti degli avversari, ma perché anche chi stabilisce le regole ha interesse a evitare che venga dato troppo potere al vincitore delle elezioni, sapendo che quello stesso potere che oggi è nelle mani di uno domani potrebbe finire nelle mani di un altro. «Er popolo è boja e cambia gabbana: stasera t’onora, domani te sbrana», ammoniva una canzone di un vecchio film di Luigi Magni. Tutti ripetono sempre che le leggi elettorali andrebbero votate con la più ampia maggioranza possibile, poi però questo non succede mai. Non è accaduto il 4 maggio con l’Italicum, approvato definitivamente dalla Camera con 334 voti a favore, 61 contrari e quasi tutti i deputati delle opposizioni fuori dall’aula. 334 voti potrebbero sembrare pochi, ma il costituzionalista Stefano Ceccanti (lo abbiamo intervistato in questo stesso servizio) ha fatto notare che in realtà le altre leggi elettorali sono state approvate con maggioranze ancora inferiori: 323 voti per il cosiddetto «porcellum», 287 per la legge Mattarella per l’elezione della Camera e addirittura solo 248 per quella che serviva ad eleggere il Senato. Il Partito democratico, che alle elezioni del 2013 con un quarto dei voti aveva ottenuto quasi la metà dei seggi (legittimamente, s’intende, grazie al premio di maggioranza previsto dal porcellum), ha sempre detto di non voler abusare della propria posizione dominante. Per questo motivo, Renzi aveva tenta-

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to – con il famigerato patto del Nazareno – di approvare la legge elettorale almeno con una parte delle opposizioni (quella guidata da Berlusconi, che al momento appariva più disponibile al dialogo... o allo scambio), ma poi quando l’accordo è venuto meno non si è perso d’animo ed è andato avanti comunque, con chi ci stava. Più o meno la maggioranza «crescente» che appoggia il suo governo, ma con decine di parlamentari del Pd che hanno finito per votare contro, aprendo una frattura politica che pesa ancora molto.

Dal porcellum all’Italicum, passando per il consultellum Dopo la sentenza della Corte costituzionale che a dicembre 2013 aveva dichiarato illegittime alcune parti del porcellum, l’approvazione di una nuova legge elettorale si era resa necessaria. Ma la sentenza della Consulta aveva in un certo senso già prodotto una legge, il cosiddetto «consultellum», che poi non è altro che il porcellum depurato delle parti che aveva dichiarato illegittime: in particolare il premio di maggioranza troppo distorsivo, perché attribuito senza alcuna soglia minima, e il fatto che le liste bloccate composte di molti nomi rendessero praticamente impossibile per l’elettore conoscere i candidati che votava. Anche se il Parlamento ha dato il via libera all’Italicum, c’è una «clausola di salvaguardia» che ne fissa l’entrata in vigore a luglio 2016. Nel caso in cui si dovesse andare al voto prima, la legge vigente sarebbe appunto il consultellum: un proporzionale con soglia di sbarramento al 4% e senza alcun premio di maggioranza per chi arriva primo. Questa clausola è stata inserita per dare il tempo al Parlamento di approvare la riforma costituzionale (il ddl Boschi) che, tra le altre cose, prevede il superamento del bicameralismo paritario. Con la trasformazione del Senato in organo di rappresentanza delle istituzioni territoriali (sarà composto da 100 membri: 74 consiglieri regionali e 21 sindaci, tutti decisi dai consigli regionali, più i cinque senatori a vita di nomina presiden-


i servizi

giugno 2015

confronti

POLITICA

ziale), resterà infatti alla sola Camera dei deputati la titolarità del rapporto di fiducia. In parole povere, al governo basterà avere la fiducia della Camera e quindi – grazie al premio di maggioranza previsto dall’Italicum – il partito vincente potrà governare da solo, senza bisogno di alleati. Ma per vedere approvata la riforma costituzionale Renzi dovrà pazientare ancora molto. Il Senato – dove la maggioranza di governo è molto più traballante, soprattutto tenendo conto della minoranza del Pd – si appresta ad esaminare di nuovo il ddl Boschi. La prima volta l’aveva approvato nell’estate del 2014, ma siccome poi la Camera l’ha modificato, questa nuova lettura sarà considerata come se fosse la prima. Un particolare non da poco, considerando che le leggi di riforma costituzionale necessitano di una doppia approvazione sia da parte della Camera sia da parte del Senato dello stesso testo: ogni ramo del Parlamento – prevede l’articolo 138 della Costituzione – si deve pronunciare due volte (a distanza minima di tre mesi), per un totale di quattro passaggi parlamentari. Ma se c’è una modifica, anche piccolissima, si riparte da zero. Secondo le speranze del governo, il Senato dovrebbe a breve approvare il testo già licenziato a marzo dalla Camera, per poi procedere alla seconda votazione della Camera a ottobre e alla seconda del Senato entro dicembre. Per riuscire a chiudere tutto entro la fine dell’anno, però, occorre appunto che non ci siano modifiche. Ma Renzi, dopo la prova di forza dell’Italicum, si è mostrato molto più disponibile al dialogo verso la minoranza del proprio partito, consapevole del fatto che in Senato la strada è più in salita. Come si fa, però, a immaginare delle modifiche senza che il conteggio delle quattro votazioni torni inesorabilmente al punto di partenza? In ogni caso, essendo escluso che le due camere approvino il testo a maggioranza di due terzi dei componenti, lo stesso articolo 138 prevede la possibilità di un referendum confermativo. E sarà lì che si giocherà la battaglia finale. Oltre all’eliminazione della competenza legislativa concorrente tra Stato e Regioni, con la correzione della riforma del titolo V della Costituzione (quella voluta dal centrosinistra nel 2001, nella speranza di «disinnescare» le spinte secessioniste), la riforma costituzionale introduce lo statuto delle opposizioni, stabilisce che la funzione legislativa

Essendo escluso che le due camere approvino il testo di riforma costituzionale a maggioranza di due terzi dei componenti, l’articolo 138 prevede la possibilità di un referendum confermativo. E sarà lì che si giocherà la battaglia finale.

sia esercitata collettivamente dalle due Camere solo in materia costituzionale ed elettorale (oltre che su altre questioni di grande rilevanza), introduce in Costituzione il principio dell’equilibrio di rappresentanza tra donne e uomini e abbassa il quorum che consente a un referendum abrogativo di essere considerato valido. Fino ad ora è necessario che alla consultazione partecipi almeno la metà degli aventi diritto al voto, mentre con la riforma sarà sufficiente – ma solo nel caso in cui siano state raccolte 800mila firme – che partecipi la maggioranza degli elettori che avevano votato alle ultime elezioni politiche. Infine, si alza il quorum per l’elezione del presidente della Repubblica: dal quarto scrutinio servirà la maggioranza dei tre quinti dell’assemblea (deputati più senatori) e dal settimo in poi la maggioranza dei tre quinti dei votanti.

Governabilità e rappresentatività: due esigenze difficili da conciliare La legge elettorale appena approvata è partita dal principio che si dovesse seguire la linea tracciata dalla Corte costituzionale, senza però rinunciare al premio di maggioranza che assicura la «governabilità». Come si sa, nessuna legge elettorale può garantire allo stesso tempo il massimo della rappresentatività e il massimo della governabilità. Con il proporzionale della cosiddetta prima Repubblica la rappresentanza era altissima e la governabilità bassissima. Con il porcellum, limitatamente alla Camera, avevamo il massi-

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