Confronti gennaio 2017 (parziale)

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MENSILE DI RELIGIONI · POLITICA · SOCIETÀ

6 EURO TARIFFA R.O.C.: POSTE ITALIANE SPA - SPED. IN ABB. POST. D.L. 353/2003 (CONV. IN L. 27/02/04 N.46) ART.1 COMMA 1, DCB

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Confronti | gennaio 2017

Non una di meno!

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ANNO XLIV NUMERO 1 Confronti, mensile di religioni, politica, società, è proprietà della cooperativa di lettori Com Nuovi Tempi, rappresentata dal Consiglio di Amministrazione: Nicoletta Cocretoli, Ernesto Flavio Ghizzoni (presidente), Daniela Mazzarella, Piera Rella, Stefania Sarallo (vicepresidente). DIRETTORE

Claudio Paravati CAPOREDATTORE

Mostafa El Ayoubi IN REDAZIONE

Luca Baratto, Alice Corte, Antonio Delrio, Franca Di Lecce, Filippo Gentiloni, Adriano Gizzi, Giuliano Ligabue, Michele Lipori,

Rocco Luigi Mangiavillano, Anna Maria Marlia, Daniela Mazzarella, Carmelo Russo, Luigi Sandri, Stefania Sarallo, Lia Tagliacozzo, Stefano Toppi. COLLABORANO A CONFRONTI

Stefano Allievi, Massimo Aprile, Giovanni Avena, Vittorio Bellavite, Daniele Benini, Roberto Bertoni, Dora Bognandi, Maria Bonafede, Giorgio Bouchard, Stefano Cavallotto, Giancarla Codrignani, Gaëlle Courtens, Biagio de Giovanni, Ottavio Di Grazia, Jayendranatha Franco Di Maria, Piero Di Nepi, Monica Di Pietro, Piera Egidi, Mahmoud Salem Elsheikh,

Giulio Ercolessi, Maria Angela Falà, Giovanni Franzoni, Pupa Garribba, Daniele Garrone, Francesco Gentiloni, Gian Mario Gillio (direttore responsabile), Svamini Hamsananda Giri, Giorgio Gomel, Laura Grassi, Bruna Iacopino, Domenico Jervolino, Maria Cristina Laurenzi, Giacoma Limentani, Franca Long, Maria Immacolata Macioti, Anna Maffei, Dafne Marzoli, Cristina Mattiello, Lidia Menapace, Adnane Mokrani, Paolo Naso, Luca Maria Negro, Silvana Nitti, Enzo Nucci, Paolo Odello, Enzo Pace, Gianluca Polverari,

Paolo Ricca, Carlo Rubini, Andrea Sabbadini, Brunetto Salvarani, Iacopo Scaramuzzi, Daniele Solvi, Francesca Spedicato, Debora Spini, Valdo Spini, Patrizia Toss, Gianna Urizio, Roberto Vacca, Vincenzo Vita, Cristina Zanazzo, Luca Zevi.

PROGETTO GRAFICO E ART DIRECTION

Sara Turolla COLLABORANO A QUESTO NUMERO

P. Attanasio, G. Battaglia, M. Correggia, A. Linchi, C. Lopez Curzi, F. Mill Colorni, A. Pioli, M.A. Polichetti, S. Russo, A. Tinozzi.

Publicazione registrata presso il Tribunale di Roma il 12/03/73, n. 15012 e il 7/01/75, n.15476. ROC n. 6551. CONTATTI tel. 06 4820 503 www.confronti.net info@confronti.net @Confronti_CNT

ABBONAMENTI, DIFFUSIONE,

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PUBBLICITÀ

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E COORDINAMENTO

(copertina e pagina 7);

PROGRAMMI

Claudio Paravati

RISERVATO

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(pagine 3, 10, 27, 28, 30,

AGLI ABBONATI

31, 33 e 38); AMMINISTRAZIONE

Gianfranco Uber

Riccardo Tomassetti

(pagina 11); Andrea Sabbadini

PROGRAMMI

(pagina 17);

Alice Corte, Michele Lipori

Luca Zevi (pagine 19 e 20); MUCIV-MNAO

REDAZIONE TECNICA E GRAFICA

Daniela Mazzarella

(pagina 43).

Chi fosse interessato a ricevere, oltre alla copia cartacea della rivista, anche una mail con Confronti in formato pdf può scriverci a: info@confronti.net


le immagini

TODO CAMBIA?

Le foto che illustrano questo numero sono state scattate in occasione del viaggio a Cuba organizzato da Confronti a settembre del 2015.

Confronti | gennaio 2017

Con la morte di Fidel Castro, il 25 novembre 2016, molte cose sono destinate a cambiare a Cuba, sia all’interno sia nelle relazioni internazionali, specie dopo l’elezione di Trump alla presidenza degli Stati Uniti.

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il sommario

il sommario GLI EDITORIALI

Ragionare al di là dei nostri recinti nazionali

Biagio de Giovanni 6

Violenza sulle donne: la manifestazione “invisibile” Gianna Urizio 7

Alcuni anniversari importanti del 2017 Luigi Sandri 8

Aleppo: una svolta nella guerra in Siria?

Mostafa El Ayoubi 9

I SERVIZI EUROPA 11 Sessant’anni di Europa

e settantadue di pace Felice Mill Colorni

LE NOTIZIE

LE RUBRICHE

Bahrein

Ricordo Scusi, ma lei è ebreo o cristiano?»

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Qatar 34

CITTADINANZA 13 I muri di pietra e quelli mentali Paolo Attanasio

Israele

15 La legge che ancora non c’è Corallina Lopez Curzi

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Immigrazione Diritti umani 36

MEMORIA 18 La “scatola nera” della Shoah (intervista a) Luca Zevi

MEDITERRANEO

21 I motivi dell’eccezione tunisina (intervista a) Abdelaziz Essid

INDIA 23 L’affermazione dello hindutva Gino Battaglia

CUBA

27 Come conciliare “revolución”

e pluralismo? Luigi Sandri

29 Fidel Castro: 90 anni

vissuti pericolosamente

Marinella Correggia - Stefania Russo 32 Quale futuro per Cuba (intervista a) Silvio Platero

Tortura 36

Pluralismo 37

Lutto 37

Daniele Garrone 39

Diario africano La strage silenziosa che il mondo non vede Enzo Nucci 40

In genere Ritratto “liberato” di Artemisia Gentileschi Alice Corte 41

Arte e religioni Il dharma del Buddha e l’arte spirituale Massimiliano A. Polichetti 42

Note dal margine Adesso no all’ora di religione cattolica

Giovanni Franzoni 44

Spigolature d’Europa Lo scandalo: la galera se denunci lo scandalo

Adriano Gizzi 45

Opinione I contrasti sui gay nella Chiesa cattolica David Gabrielli 46

LE IMMAGINI

La manifestazione invisibile Daniela Mazzarella copertina

Todo cambia?

Claudio Paravati 3


invito alla lettura

Buon anno nuovo! Claudio Paravati

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are amiche e cari amici di Confronti, ci è sembrato doveroso incominciare questa nuova annualità con un numero fortemente rivolto al mondo, a ciò che sta accadendo qua e là, tra le sponde del Mediterraneo, nel Vicino Oriente e dall’altra parte dell’Oceano Atlantico. Come dice Biagio de Giovanni nel suo editoriale, «non si può continuare a ragionare solo all’interno dei nostri recinti nazionali» (pagina 6). La copertina l’abbiamo dedicata alla manifestazione delle donne del novembre scorso, “Non una di meno”, passata nella quasi totale indifferenza mediatica nonostante l’ottima riuscita della stessa, e la grande partecipazione di donne di ogni generazione, e di uomini di ogni generazione. Anche dalla nuova elaborazione intellettuale, sociale e politica delle donne (vedi editoriale di Gianna Urizio, pagina 7) passerà la costruzione del futuro prossimo del nostro Paese. Ci lasciamo alle spalle gli ennesimi attacchi terroristici in Europa, e una vera ecatombe nel Vicino Oriente e in Africa. Ci impegniamo anche quest’anno nel proporre analisi, approfondimenti e riflessioni che vadano oltre la pura sensazionalità delle nostre emozioni, certo legittime, ma irrazionali: paura, rabbia, frustrazione. Solo l’analisi razionale può tenerci dritti, per pretendere dalle politiche nazionali ed europee una nuova stagione geopolitica all’insegna della pacificazione. La squadra Confronti è pronta per un nuovo anno di lavoro, non fateci mancare il vostro supporto, anche con abbonamenti rinnovati e, perché no, donati ad amici e amiche. Confronti continua con forze nuove, perché Gioia, la nostra storica amministratrice, è andata in pensione. Se Gioia pensa di essersi così tolta il peso delle varie faccende di rendicontazione, si sbaglia. Noi tutti continueremo a sentirla e chiamarla, a cercare i suoi consigli e, sobriamente, a chiederle aiuto. Gioia, grazie per tutto quello che hai fatto in questi decenni di lavoro a Confronti. Se siamo qui, è anche grazie a te.


gli editoriali

Ragionare al di là dei nostri recinti nazionali

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rospettiva oscura per l’Italia. Certo, la democrazia cammina per i suoi sentieri, un equilibrio si dovrà ritrovare, in un certo senso si è già provato a trovarlo, ma lo sviluppo delle cose non promette nulla di buono; intanto per una ragione di cui anche nel recente scontro referendario non si è tenuto conto a sufficienza: non si può continuare a ragionare solo all’interno dei nostri recinti nazionali come se lì dentro si esaurisse tutto. Siamo sotto osservazione partecipando a una sia pur problematica comunità di stati, e ci troviamo tutti in una curiosa situazione, per dir così, incompiuta: la situazione di tutti è nazionale e sovranazionale, e questo dato fa sì che ciò che decidiamo e ciò che facciamo riguarda, in forme diverse, noi come tali e la nostra collocazione in uno scenario più ampio; le due cose sono strettamente connesse e spesso conflittuali.

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Da ciò consegue che non possiamo permetterci assenze e vuoti, alchimie e grovigli che sanno di vecchio, ma dobbiamo camminare lungo una prospettiva chiara, leggibile, in grado di rispondere ai problemi che si affollano oltre ogni dire, sia nel nostro vecchio recinto nazionale sia oltre di esso. Bisogna sapere che l’Italia è il paese più in bilico dell’Unione BIAGIO DE GIOVANNI europea: qualcufilosofo, no, autorevole, già già parlamentare prevede la sua uscieuropeo ta forzata dall’euro, e professore emerito per il convergere, di Filosofia in unico fuoco, di politica un enorme debiall’Università to pubblico, una Orientale di Napoli. sostanziale inca-

pacità di attuare riforme, il crollo delle culture politiche e dei partiti e dunque la gran confusione che avanza sotto il cielo. Per atteggiamento mentale e formazione, personalmente tendo, spinozianamente, a capire, non a piangere sulle cose o a disprezzare ciò che avviene, ma questo atteggiamento non può azzerare lo spirito critico, ed esso ci mette in stato di notevole preoccupazione. Proviamo a vedere perché. La crisi postreferendaria non ha costruito un’alternativa politica. Un referendum non ha questo per compito, si può subito osservare con verità, ma la particolare intensità politica della campagna elettorale e del risultato che ne è seguito – che ha costretto il governo Renzi alle dimissioni – mostra un quadro politico di grande incertezza, forse (o senza “forse”) senza precedenti: il Pd scisso al proprio interno in due partiti, inutile negarlo, anche se non so prevedere gli esiti possibili di questa separazione conflittuale in casa che francamente non mi pare componibile; il Movimento cinque stelle, che appariva (e forse ancora appare) come candidato principale al prossimo governo, è oggi dilaniato e diviso dal caso Roma, che non so quanto possa incidere sul consenso accumulato – forse poco – ma di certo apre questioni fino a poco tempo fa imprevedibili; il centro-destra non esiste più come nucleo unitario di un possibile governo, diviso anch’esso, e per evidenti ragioni non più federabile come ai tempi di Berlusconi. Insomma, un quadro un po’ inquietante, sempre immaginando che un equilibrio si dovrà trovare, ma che non è più chiaro o prevedibile come pareva fino a poche

Biagio de Giovanni

settimane fa; e nulla aggiungo sul mio modo di giudicare l’esito referendario, ormai acquisito. Si noti poi che siamo senza legge elettorale che possa condurre al voto, che è pur sempre il luogo fondativo del processo democratico, soprattutto quando esso si è imballato. E siccome, stando così le cose, tutto lascia prevedere un sistema a dominante proporzionale, si capiscono bene le inquietudini che tutta la prospettiva fa nascere. Torno a dire, come se fossimo nei tempi antichi, chiusi nei nostri recinti nazionali! Ma siccome non è così, il dilemma diventa

DOPO IL REFERENDUM E LA FORMAZIONE DEL NUOVO GOVERNO, L’ITALIA MOSTRA ANCORA UN QUADRO POLITICO DI GRANDE INCERTEZZA aspro. E non so immaginare che cosa, nel merito, avverrà, anche se mantengo sempre una certa fiducia nelle risorse imprevedibili della democrazia che, oltre un certo punto, se non vuole rovesciarsi nel proprio contrario, qualche risposta deve poterla trovare. Ma, salvo fatti nuovi, che possono emergere, mi sembra, dall’inevitabile chiamata anticipata al voto, che l’affossamento quasi certo di ogni ipotesi maggioritaria porrà la questione di una coalizione. Ma tra chi? Sembra incredibile, ma siamo di nuovo a questo, come se l’Italia, per ragioni che attengono profondamente alla sua storia, ai suoi malesseri e divisioni costituzionali, tornasse di continuo a girare in tondo finché il mondo che lo circonda glielo consentirà.


gli editoriali

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erdersi in una marea di donne e non solo. Cartelli, striscioni, slogan, danze e musica hanno camminato il 26 novembre nel lungo percorso da piazza della Repubblica di Roma alla storica piazza di San Giovanni, testimone di tante grandi manifestazioni operaie, da quella oceanica in risposta all’attentato a Togliatti del 1948, agli scioperi di altri anni del Primo Maggio, alla piazza con Berlinguer, fino ai più recenti concerti on-demand.

IL 26 NOVEMBRE HANNO SFILATO A ROMA CENTINAIA DI MIGLIAIA DI DONNE MA I MEDIA QUASI NON NE HANNO PARLATO In un’epoca di manifestazioni da club dei francobolli, in cui ci si ritrova tra amici del bar, una manifestazione di 200mila persone dichiarate dalla Questura (ma non serve giocare con i numeri per chi c’era) ha fatto addirittura saltare le luci della ribalta dei media, che l’hanno praticamente oscurata. Dopo le rituali commemorazioni del 25 novembre contro la violenza esercitata sulle donne, una cascata di dati statistici conditi con interviste ad esperte (ed esperti) ovvero con “vittime” sopravvissute, viene da chiedersi se i media (o chi li muove) abbiano avuto paura di un evento così inusuale. Nessuna sigla politica o sindacale, nessuna “alleanza” strategica se non quella di donne con donne, nessun battage mediatico hanno portato per le strade di Roma tante persone, soprattutto donne, ma anche uomini. A quanto pare, così tanti da averne paura e cancellare l’evento.

Eppure. Eppure bisogna domandarsi come e perché. Ed è questo che è interessante, oltre alla proiezione verso il futuro che le organizzatrici hanno già pensato. Tutto è nato in sordina. Da maggio, ma anche da prima, si è cominciato negli sparuti gruppi di donne a parlare di fare qualcosa di speciale per il 25 novembre: basta le celebrazioni di rito o per le poche aficionadas che non perdono una manifestazione (sono tra queste?). E poi c’era anche una chiamata internazionale, «Ni una menos», dall’Argentina. La voglia, dopo anni, di provare a denunciare i legami forti tra la violenza di genere e la società patriarcale, contro la narrazione mediatica della violenza, per non parlare degli effetti che la crisi ha sulle donne, non solo in famiglia, ma anche nel lavoro, dove si evidenzia sempre più una nuova disparità di retribuzione di genere che talvolta sfiora il 50%, pur dentro una legislazione che dal 1969 l’ha cancellata. Altro che tetto di cristallo! Le donne da tempo, anche insieme agli uomini, si stavano interrogando sulle scelte politiche ed economiche che hanno trasformato il lavoro in lavoro sempre più precario di cui sono le prime vittime. E ancora si sentono gli scricchiolii che minacciano le architravi su cui si basa il nostro sistema sanitario e previdenziale, per non parlare della “buona” scuola. Insomma, l’ipotesi era quella di porre le donne al centro, di partire da sé e dalle proprie esperienze per affrontare tematiche che toccano tutti e tutte e il nostro futuro. Quale società vogliamo essere o diventare. E così è stato. Nel corso dell’estate una strategia è stata messa a punto. Tre percorsi diversi si sono incontrati: quello delle “donne giovani”, espressione di un nuovo femminismo post-femminista (toccherà tornarci su), le donne dell’Udi (Unione donne in Italia),

Gianna Urizio

che tengono alta la memoria di altre lotte, di altri anni, di altre speranze, e la Rete nazionale dei centri antiviolenza Dire, che da tempo denuncia le inadempienze del piano nazionale contro la violenza. Varie assemblee romane hanno sviluppato i temi su cui ci si voleva confrontare, un’assemblea nazionale ai primi di ottobre con più di 500 donne aveva definito le strategie e modalità (no alle bandiere dei partiti, no alle strumentalizzazioni politiche, sì ad un’organizzazione dal basso) e poi un nuovo strumento di mobilitazione ha “fatto bingo”: la mobilitazione sui social. Di questa forma di organizzazione abbiamo già vari esempi, dall’elezione di Obama a quest’ultima di Trump, ma anche Podemos in Spagna e varie mobilitazioni: Cina, Iran, primavere arabe... La trama, spesso sommersa, delle donne è emersa con forza il 26 novembre, è proseguita il 27 novembre con i tavoli tematici e si ritroverà il 4-5 febbraio a Bologna per costruire un’agenda politica GIANNA URIZIO da proporre al no- giornalista, stro attuale confu- già presidente della Federazione so mondo politico. delle donne Sarà vero? Forse evangeliche in saranno le con- Italia, impegnata traddizioni di vita al Centro antiviolenza attuali a spingerla “Donna LISA” in avanti. di Roma.

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Violenza sulle donne: la manifestazione “invisibile”

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gli editoriali

Alcuni anniversari importanti del 2017

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gni nuovo anno che inizia rinvia al centenario, o pluricentenario, di eventi passati, importanti per il proprio paese, per l’Europa, per il mondo, per le religioni. La segnalazione di questi “linkages” è soggettiva e, tuttavia, alcuni di essi si impongono, perché furono uno spartiacque tra un “prima” e un “dopo”. In questo scandaglio ci piace segnalare il 1417, il 1517, e il 1917.

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Il Grande scisma d’Occidente. Alla morte di Gregorio XI, nel 1378, un contrasto tra cardinali portò a eleggere due successori, ciascuno dei quali considerava l’altro antipapa: il “romano”, Urbano VI, e l’“avignonese”, Clemente VII. S’avviò così il Grande scisma d’Occidente. Sperando di porre fine alla drammatica situazione che, oltre la Chiesa, vedeva divisa l’Europa politica, nel 1409 fu convocato un Concilio a Pisa, ove, deposti i due papi contendenti, ne fu eletto uno – Alessandro V – che doveva regnare da solo. Ma il “romano” Gregorio XII e l’“avignonese” Benedetto XIII respinsero la decisione: si ebbero così tre papi in contemporanea. Nel 1410, morto Alessandro, fu eletto suo successore Giovanni XXIII, da molti ritenuto il “vero” papa. Questi, spinto dall’imperatore Sigismondo, convocò un Concilio a Costanza (Germania). Iniziata nel 1414, l’Assemblea l’anno seguente proclamò il Concilio, in materia di fede e di autorità, superiore anche al papa; “dimissionò” i tre papi; poi l’11 novembre 1417 elesse pontefice il cardinale Oddone Colonna, Martino V, che tutta la Chiesa latina, e l’intera l’Europa, considerarono il vero ed unico papa. Si concludeva così il Grande scisma d’Occidente. È impensabile, nell’attuale situazione

ecclesiale, un conflitto analogo. Tuttavia, malgrado la siderale distanza di oggi da quel periodo, sarebbe proficua, a sei secoli da Costanza, una ponderata riflessione storica e teologica su quell’evento. Esso insegna che, di fronte a problemi giganteschi e inediti, la Chiesa cattolica sa che il rimedio è un Concilio. Lo fu allora; perché non potrebbe esserlo anche oggi? La protesta di Lutero. Il 31 ottobre 1517 Martin Lutero fece affiggere sulla porta della chiesa del castello di Wittenberg le sue 95 tesi contro il traffico delle indulgenze. Da allora, si aprì con Roma un aspro contrasto che infine, con la Confessio augustana del 1530, portò alla nascita della Chiesa evangelica. Il 31 ottobre scorso, a 499 anni da quel primo evento, papa Francesco è stato a Lund, in Svezia, per commemorare, insieme con la Federazione luterana mondiale, i 500 della Riforma (vedi Confronti 12/2016). Oltre che il dovere del ricordo di quanto accadde allora, non sarebbe giunto il momento, nelle Chiese evangeliche e in quella romana, di qualche concreto gesto teologicamente ed ecclesialmente audace per rendere vivo, in un tempo culturalmente diversissimo da allora, il buon seme seminato? La rivoluzione sovietica. Il 25 ottobre del 1917 (in Russia vigeva il calendario giuliano; ma in Europa occidentale, con quello gregoriano, era già il 7 novembre) a Pietrogrado scoppiò la rivoluzione sovietica, guidata da Lenin che, riuscendo nel suo intento, prenderà infine il potere, e il 30 dicembre 1922 porterà poi alla creazione dell’Unione delle Repubbliche socialiste sovietiche. Quegli accadimenti non toccarono solo il paese (i paesi) ove

Luigi Sandri

si verificarono, ma coinvolsero il pianeta. Sappiamo della spietatezza dello stalinismo; della Seconda guerra mondiale, quando l’alleanza dell’Urss con gli occidentali fu decisiva per battere Hitler; di Khrusciov e di Brezhnev; della “perestrojka” di Gorbaciov, della pacifica insurrezione dell’Europa orientale, del collasso dell’Unione nel 1991... e dell’arrivo, poi, della “nuova” Russia, e di Putin. Riflettere su quanto accadde un secolo fa, sulla rivoluzione comunista e il suo esito, ci pare appuntamento da non perdere.

QUEST’ANNO SI RICORDA LA CONCLUSIONE DEL GRANDE SCISMA D’OCCIDENTE (1417), L’INIZIO DELLA “PROTESTA” DI MARTIN LUTERO (1517) E L’AVVIO IN RUSSIA DELLA GRANDE RIVOLUZIONE D’OTTOBRE (1917). Tanta carne al fuoco, dunque, in questo 2017. Oltre che del passato, dovremo – certo! – occuparci del presente, in Italia e nel mondo, e quindi di speranze deluse, di nodi geopolitici e sociali difficili da sciogliere, di traguardi raggiunti. Lo faremo insieme. Buon anno!

LUIGI SANDRI vaticanista, redazione Confronti.


gli editoriali

L

a ripresa di Aleppo all’inizio del mese di dicembre scorso da parte dell’esercito siriano, sostenuto da quello russo, ha segnato una fase nuova nella guerra in Siria che dura da circa 6 anni e che ha provocato la morte di oltre 300mila persone e costretto alla fuga oltre 11 milioni tra sfollati e profughi (su una popolazione di circa 23 milioni nel 2013). La zona est della seconda più importante città del Paese fu occupata nel 2012 dai jihadisti di al Qaeda anche con il sostegno logistico del governo turco. Diversi elementi hanno provato che intere fabbriche della città più industrializzata del Paese sono state smantellate e i macchinari venduti nel mercato clandestino turco con la tacita complicità dell’autorità di Ankara. Come da copione, i media mainstream hanno bollato l’evento “la resa” di Aleppo, come se la città fosse di un altro Paese e non come parte integrante del territorio siriano che gli estremisti jihadisti venuti da oltre 80 paesi (ceceni, pakistani, cinesi, arabi europei, americani ecc.) hanno invaso con il sostegno dei Paesi arabi del Golfo e della Turchia. I terroristi di al Qaeda hanno occupato la sua parte orientale e lanciato attacchi senza successo – ma con danni gravi in termini di morti e feriti – sul resto della città rimasta sotto il controllo del governo siriano. Ma su quest’ultimo aspetto i media hanno mantenuto un profilo basso, nonostante gli appelli lanciati dai cittadini e dalle comunità religiose musulmane e anche cristiane, come ci ha rivelato l’arcivescovo di Aleppo Joseph Tobji in un’intervista esclusiva alla nostra rivista (vedi Confronti 11/2016). Ora il governo di Damasco controlla le città che costituiscono la colonna vertebrale della Siria: Damasco, Aleppo,

Hama e Homs. Ed è probabile che nei prossimi mesi, se non settimane, si possa assistere ad una vasta operazione militare congiunta tra Siria, Russia, Iran e Hezbollah per liberare Idlib, der Ezour e Tadmur (Palmira). E quindi il progetto della frammentazione della Siria, per la quale ha lavorato intensamente l’alleanza guidata dagli Stati Uniti, sembra ormai fallito. I rapporti di forza ora pendono a favore della coalizione guidata da Mosca. Per di più la mancata elezione di Hillary Clinton, la quale avrebbe assicurato una continuità della politica interventista adottata da Obama e prima ancora dai suoi predecessori, potrebbe essere un elemento in più a favore del ripristino di un certo grado di stabilità in Siria, Iraq, Libia, Yemen e nel resto del mondo arabo. Il primo ostacolo resta tuttavia quello dei gruppi jihadisti di al Qaeda e del suo derivato Daesh, molto ramificati e capillari in gran parte del Medio Oriente, del Maghreb, nel Sahel e in forme di cellule dormienti anche nel vecchio continente, compresa la Russia. L’unico Paese che sembra oggi fuori pericolo reale sono gli Usa, il cui governo in passato ha favorito la creazione di al Qaeda come la stessa Clinton ha ammesso in un suo recente libro autobiografico. Inoltre vari documenti wikileaks e email della stessa Clinton trapelati negli ultimi tempi hanno dimostrato che questo legame non ha mai cessato di esistere. Ora l’incognita con la quale si avvia il nuovo anno è quella relativa alla ancora non rivelata strategia del nuovo inquilino della Casa Bianca, Donald Trump, il quale durante la sua campagna elettorale ha annunciato di voler adottare una nuova politica estera che non contempla l’interventismo americano abroad. Se il nuovo presidente

Mostafa El Ayoubi

manterrà la sua parola, Washington e Mosca potranno giungere ad un accordo che garantisca una ripartizione formale del Medio Oriente in zone d’influenza che soddisfino entrambe le potenze e salvaguardino le sovranità dei Paesi colpiti dal terrorismo salafita, come la Siria e l’Iraq. Uno scenario simile, da un lato, potrebbe contribuire a debellare il flagello del terrorismo e arginare l’influenza delle reazionarie petromonarchie che lo diffondono e dall’altro lato avviare un nuovo equilibrio mondiale multipolare basato sul rispetto del diritto internazionale e favorire una riforma radicale dell’Onu che consenta ad essa di gestire e mediare in modo imparziale i conflitti internazionali. Un primo segnale incoraggiante che va in questa direzione è l’avvicinamento tra Mosca e Ankara sigillato dall’incontro nell’agosto scorso a San Pietroburgo tra Putin e Erdogan. Un avvicinamento che sembra di sostanza: ha di fatto consentito ai russi di chiudere la partita di

6 ANNI DI GUERRA, 300MILA MORTI, 11 MILIONI TRA SFOLLATI E PROFUGHI Aleppo; ha inoltre superato ciò che solo 40 anni fa avrebbe potuto provocare una guerra su scala mondiale, ovvero l’uccisione dell’ambasciatore russo in Turchia, nel dicembre scorso. Ancora una volta il Cremlino ha dato prova di lungimiranza e pragmatismo geopolitico. Ora toccherà a MOSTAFA EL AYOUBI Washington fare caporedattore altrettanto! di Confronti.

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Aleppo: una svolta nella guerra in Siria?

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i servizi

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i servizi

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EUROPA

Sessant’anni di Europa e settantadue di pace Felice Mill Colorni

Il 25 marzo si celebreranno i sessant’anni dalla firma dei trattati di Roma, con i quali si istituiva la Comunità economica europea. Dove va oggi quest’Europa? Avviamo qui una riflessione che proseguirà con altri interventi nei prossimi numeri.

roprio un secolo fa l’Europa tramortita dalla Grande Guerra si interrogava sul possibile “Tramonto dell’Occidente”. A farlo era soprattutto quella parte della cultura europea, specialmente tedesca ma non solo, che la guerra l’aveva voluta, che, ben più della politica, vi aveva perfino visto un’occasione di rigenerazione, e che alla fine ne era stata travolta. Anziché per un tardivo ripensamento, quella parte del mondo intellettuale europeo vi avrebbe trovato ragioni per perseverare testardamente nella propria follia. Ebbe molta fortuna in quegli anni un erudito e verboso librone di Oswald Spengler che recava proprio quel titolo. Benché il suo autore non avesse aderito, e avesse anzi preso le distanze dal nazismo, in molti lo considerarono uno dei suoi ispiratori. Il “Tramonto dell’Occidente” Spengler lo individuava proprio in quel che costituisce il nucleo centrale dei valori della nostra contemporaneità: nella libertà di pensiero, nel rigetto dell’autoritarismo, nella critica della tradizione, nella democrazia liberale. In buona sostanza, in quel che Karl Popper avrebbe definito la «società aperta». Proprio questo è quel che sembrano rigettare oggi decine di milioni di nostri concittadini elettori in tutte le democrazie occidentali e ormai anche una parte crescente e corriva del mondo politico e della cultura. All’opposto di quel che sosteneva Spengler, è proprio questo, credo, il vero segno del “tramonto dell’Occidente”. Come per tutti i fenomeni storici, ci si può sbizzarrire nella ricerca di una periodizzazione confacente. Forse sono stati proprio i referendum concernenti l’integrazione europea (o a questa più o meno arbitrariamente associati) a segnare i punti di svolta più significativi. Il progetto europeo nasce, o per meglio dire rina-

sce, come il progetto progressista di un gruppo di confinati antifascisti, con il Manifesto di Ventotene, redatto in piena guerra da Spinelli, Rossi e Colorni; ma si ricollega a una tradizione illuminista, cosmopolita e pacifista, che risale almeno a Kant. Se non si fosse totalmente perduta quasi ovunque (tanto nel dibattito pubblico, quanto nella coscienza civile dei cittadini, quanto ormai anche nei processi educativi e di formazione alla cittadinanza) ogni dimensione e prospettiva storica, non dovrebbe essere poi così difficile cogliere come i più di settant’anni di pace e collaborazione fra paesi europei che bene Vignetta vincitrice dell’edizione 2013 del concorso “Una vignetta per l’Europa”, organizzato dalla Rappresentanza in Italia della Commissione europea con Internazionale e VoxEurop. © Gianfranco Uber, “La testa prego”, © Commissione europea

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EUROPA

o male abbiamo vissuto – e anche, e nonostante la stessa grave e lunga crisi che stiamo attraversando, di diffusione mai prima sperimentata dall’umanità di benessere economico e civile – siano stati un’esperienza assolutamente straordinaria nella storia dell’Europa, dell’Occidente e del mondo. Proprio l’inaudita durata di questa pace europea sta facendo smarrire agli europei il senso del suo valore e della sua novità. Il fatto è che ormai la stragrande maggioranza degli europei non ha sperimentato altro nella propria vita o comunque di altro non ha (o ha smarrito) memoria.

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Così l’idea che la condivisione della sovranità e l’interdipendenza politica ed economica siano la migliore – se non la sola possibile – garanzia della pace sembra ormai a molti un’idea perfino bizzarra. Pace, democrazia, libertà individuali e diritti umani appaiono a gran parte dei nostri contemporanei non conquiste e lezioni apprese a carissimo prezzo dalle generazioni precedenti, ma lo stato “naturale” delle società umane: almeno finché qualche malefico elemento esterno non intervenga a perturbarlo. Il vento è girato da circa un quarto di secolo: se si vuole un riferimento temporale preciso, nell’arco dei pochi mesi che hanno separato il momento in cui il presidente francese François Mitterrand pensò di indire il referendum del 1992 sul trattato di Maastricht (per ottenere una facile rilegittimazione della propria autorità sull’onda di un consenso che si prevedeva generale e plebiscitario) e quello della sua risicatissima approvazione dopo una difficilissima campagna referendaria.

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Il suo successore Jacques Chirac, costretto tredici anni dopo a indire un altro referendum sul progetto di trattato “costituzionale”, aveva preferito cautelarsi, offrendosi di rispondere pubblicamente soltanto alle domande di una platea di ragazzi: a questi che, smarriti e diffidenti, esprimevano con le loro domande quasi tutte fuori tema solo una grande apprensione per il proprio futuro, il presidente non aveva trovato di meglio che spiegare come fosse necessaria un’Europa meglio “organizzata”. Chirac non era stato in grado di spiegare neppure a se stesso le ragioni dell’Europa. Come non sembrano esserlo oggi tutte le classi politiche dell’Europa. La “costituzione” europea fu bocciata, benché tutte le critiche del fronte contrario vertessero non sulla parte innovativa, e moderatamente più democratica, bensì su quella già vigente, e più tecnocratica, dei trattati, che il referendum non avrebbe intaccato. Eppure in un mondo globale dove singole città cinesi giungono ormai a pesare – non più solo demograficamente, ma anche economicamente, tecnologicamente, e quindi alla lunga politicamente e in termini

di soft power – quanto ciascuno dei maggiori paesi europei, il solo modo di poter riconquistare capacità di autodeterminazione democratica sarebbe quello di esercitare davvero in comune una sovranità altrimenti, ormai, solo nominale: non certo attraverso l’attuale Europa ancora essenzialmente intergovernativa, ma attraverso una vera democrazia federale. E questo dovrebbe essere considerato ancor più essenziale proprio da chi intende cambiare i paradigmi consolidatisi dell’economia globale: ben più che da chi ancora confida nella capacità di autoregolazione dei mercati come garanzia della maggiore possibile diffusione del benessere. Invece il populismo ha fiducia soltanto nella democrazia di stretta prossimità e nei propri simili e pari. E, diffidando del grande mondo, di ogni diversità e di ogni sapere, non si avvede che è il grande mondo esterno, improntato a concezioni ben più autoritarie di quelle europee, che finisce così per imporsi. Così la selezione delle classi politiche funziona alla rovescia. Il più grande paese dell’Occidente si affida alle cure di un multimiliardario che promette di rilanciare l’economia americana a spese di quelle altrui, con misure protezionistiche analoghe a quelle che concorsero a preparare entrambe le guerre mondiali. Fra esplicite strizzate d’occhio al razzismo, e all’insegna di uno slogan – America first – che fu la bandiera dei gruppi filonazisti americani negli anni Trenta. Identiche sindromi si avvertono nel Vecchio Continente, fra elezioni politiche e referendum di vario segno, e anche in paesi che si potevano ritenere immuni da tentazioni autoritarie, razziste o xenofobe. Tira una bruttissima aria. Anche chi scrive, che non ha risparmiato sforzi in difesa delle garanzie delle libertà costituzionali nel recente referendum italiano, sa di dovere la propria vittoria, per larga parte, non alle proprie buone ragioni, ma a malmostosi e generici sentimenti anti-establishment che potranno forse dare risultati opposti in un futuro prossimo. Ma è vano attendersi che una risposta all’avvitamento della crisi ormai quasi decennale, che ha impoverito ceto medio e classi subalterne e generato il dissenso populista, possa venire da classi politiche nazionali – tradizionali o alternative – che semplicemente non dispongono degli strumenti e della dimensione necessaria per intervenire sui paradigmi dell’economia globale, e disinnescare il ripudio populista delle conquiste democratiche dell’Europa liberatasi settant’anni fa dal nazifascismo. E che cosa succederà quando gli elettori, rincorsi in questa regressione da una classe politica sempre più incolta e irresponsabile, si rivolgeranno a droghe più pesanti del populismo spesso folkloristico che dilaga nelle televisioni e nei social media occidentali?


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CITTADINANZA

I muri di pietra e quelli mentali Paolo Attanasio

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78mila contro 154mila. Ai più queste due cifre (entrambe riferite al 2015) diranno poco o nulla, se non adeguatamente contestualizzate. La prima indica il totale (per difetto) degli stranieri diventati italiani nel corso dell’anno, mentre la seconda si riferisce agli arrivi (i cosiddetti “sbarchi”) di migranti sulle coste italiane. Il fatto che quest’ultimo dato sia stato molto più presente del primo nel discorso pubblico, ci dà la misura del cono d’ombra che ancora avvolge la questione della cittadinanza nel nostro paese. In questo intervento ci concentreremo soprattutto sulla situazione riguardante il trend delle naturalizzazioni in Italia, e dunque sulla cittadinanza intesa sotto il profilo storico-giuridico. La questione della cittadinanza però, oltre agli aspetti formali e alle loro radici storiche, si allarga ormai fino a ricomprendere tutta una serie di altre manifestazioni che prescindono dal possesso di un determinato passaporto: sempre più, infatti, si parla di cittadinanza sostanziale, che si esprime nelle opportunità di partecipazione (associativa, politica, sindacale) e nella PAOLO concreta fruizione di quei ATTANASIO diritti che la società garantiesperto di fenomeni sce a tutti. Non a caso il Parmigratori, lamento europeo già da molti redattore del anni ha elaborato e utilizzato Dossier statistico la definizione di «cittadinanimmigrazione Idos/Confronti. za di residenza» per indicare

la necessità che gli stati membri riconoscano finalmente diritti (in primo luogo il diritto di voto) derivanti dalla quotidiana condivisione di un territorio rispetto ad astratte appartenenze suppostamente etniche. La nozione di cittadinanza di residenza è anche alla base dello status di lungoresidente dell’Unione europea che, pur in mancanza della cittadinanza piena, garantisce, a determinate condizioni, la fruizione di una serie di diritti riconducibili alla cittadinanza stessa. Al di là di queste posizioni “aperturiste”, però, la cittadinanza continua a costituire, per gli stati nazionali, un baluardo fondamentale nella definizione di quel confine interno che separa il “noi” dagli altri. E dunque, mentre «la cittadinanza tende a disaggregarsi in componenti almeno in parte autonome e ad assumere orizzonti cosmopoliti» (Maurizio Ambrosini, “Cittadinanza formale e cittadinanza dal basso. Un rapporto dinamico”, in SocietàMutamentoPolitica, vol. 7, n. 13, pp. 83-102, 2016, pag. 84), gli stati nazionali tornano ad erigere muri. Non si tratta soltanto di barriere fisiche all’ingresso di nuove persone (cui siamo stati purtroppo abituati negli ultimi tempi), ma anche di demarcazioni immateriali che corrono internamente al territorio e alla società, trasformando i diritti in privilegi. CITTADINANZA Paolo Attanasio Corallina Lopez Curzi

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Confronti | gennaio 2017

La risposta alle migrazioni – lo vediamo ogni giorno di più – sono i muri. Non solo barriere fisiche, ma anche ostacoli all’acquisizione della cittadinanza: un fossato sempre più profondo tra un “noi” da conservare e un “loro” da respingere.

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CITTADINANZA

L’Italia purtroppo non fa eccezione a questo stato di cose: come è noto, la cittadinanza è ancora regolata da una legge di un quarto di secolo fa (la n. 91 del 5 febbraio 1992), tardiva per tutelare le comunità nazionali all’estero e poco lungimirante nel considerare il fenomeno dell’immigrazione straniera, che a quell’epoca contava meno di 400mila residenti, ma era comunque in piena espansione. La legge, in chiara controtendenza con il concetto di cittadinanza di residenza illustrato sopra, accorda infatti una marcata preferenza ai discendenti di italiani e ai cittadini Ue nell’acquisizione per naturalizzazione: se infatti nella legge precedente (del 1912) il tempo di residenza regolare era indistintamente di cinque anni, con la legge del 1992 questo raddoppia per i residenti non comunitari, mentre si abbrevia di un anno per i comunitari e addirittura di due per gli stranieri di origine italiana (Giovanna Zincone, a cura di, Familismo legale. Come (non) diventare italiani, Laterza, Bari 2006, pp. 115-116). Un chiaro riflesso condizionato in cui un Paese, nel frattempo divenuto chiaramente terra di immigrazione, si ostina a guardare indietro, cercando, come tutti i Paesi di emigrazione, di tenere unita la propria diaspora all’estero, senza troppo curarsi di una realtà interna al proprio territorio che cambia di anno in anno. Da diversi anni è ormai in corso un dibattito per una riforma che, con il passare del tempo, si fa sempre più improcrastinabile. Va purtroppo constatato che la battaglia per adeguare al presente la legislazione sul diritto di cittadinanza in Italia (condotta anche da diverse realtà associative nazionali) trova sulla propria strada anche l’ostacolo rappresentato dal particolare clima storico-politico internazionale. Mentre da una parte, con la disastrosa gestione del fenomeno dei richiedenti asilo, l’Europa sta dando prova di un preoccupante stato di disgregazione interna, dall’altra il ripetuto verificarsi di indiscriminati attacchi terroristici provoca quel pericoloso cortocircuito fra i due fenomeni e quel semplicistico sillogismo “migranti=richiedenti asilo=terrorismo” che certo non giova alla causa dell’affermazione dei diritti dei migranti e dell’integrazione. Proprio il dilagare di queste ipersemplificazioni (spesso non del tutto innocenti) impone la necessità

di riconoscere in positivo, attraverso la concessione di diritti certi, la presenza di persone che hanno scelto di puntare sull’Italia per il futuro proprio e dei propri figli, senza frustrare inutilmente (e pericolosamente) la loro legittima aspirazione ad un’integrazione tangibile e costruttiva. La riforma (contenuta nel ddl 2092; su questo si veda anche l’articolo seguente, ndr) è ovviamente frutto di un compromesso, e si concentra essenzialmente sui bambini nati in Italia o che vi siano giunti entro il 12° anno di età. Per quanto riguarda i primi, sarà sufficiente che almeno uno dei genitori sia titolare di un permesso di soggiorno Ue per soggiornanti di lungo periodo, mentre per i secondi la soluzione prospettata è stata battezzata “ius culturae”: l’acquisto della cittadinanza sarà subordinato alla regolare frequenza (in Italia) di un ciclo scolastico di tre o quattro anni. Se si tratta di scuola primaria, è necessario anche averlo concluso con successo. Nessuna novità si prevede invece per coloro che arrivano in Italia oltre i 12 anni di età, che continueranno quindi ad essere soggetti alla residenza almeno decennale in Italia per poter presentare richiesta di naturalizzazione. Nonostante la riforma sia attualmente bloccata al Senato, la crescita delle acquisizioni di cittadinanza in Italia prosegue a passo di carica e nel 2015 ha raggiunto, come si diceva in apertura, il traguardo di 178.035 naturalizzati (di cui 158.891 non comunitari), che porta i nuovi cittadini italiani ad un totale di circa 1.150.000. Prosegue così il trend fortemente positivo iniziato nel 2013 (con un passaggio da circa 63mila ad oltre 100mila acquisizioni di cittadinanza rispetto al 2012; si veda la tabella sotto), e che ha portato il numero dei nuovi cittadini a quasi triplicarsi nel giro di tre anni. In mancanza di dati aggiornati ulteriormente disaggregati (ad esempio per genere, età, anzianità di residenza sul territorio) è certo difficile cercare di stabilire con certezza le cause di questa crescita. Rimane però indiscutibile che ci troviamo di fronte ad una domanda crescente di rafforzamento e consolidamento dei propri diritti e di quelli dei propri familiari, e dunque di una stabilizzazione sul territorio, non garantita altrimenti. Una domanda che a nessun governo deve essere consentito di eludere.

Confronti | gennaio 2017

ACQUISIZIONI DI CITTADINANZA NELL’UNIONE EUROPEA

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2012

2013

2014

UE-28

822.100

981.000

889.100

Italia

65.383

100.712

129.887

Spagna

94.142

225.793

205.880

Francia

96.051

97.276

105.613

Regno Unito

193.884

207.496

125.605

Germania

114.637

111.910

110.610

(Fonte: elaborazione su dati Eurostat)


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CITTADINANZA

La legge che ancora non c’è Corallina Lopez Curzi

U

n “plebiscito”: così è stato definito il referendum costituzionale del 4 dicembre, quando gli italiani si sono recati in massa alle urne, con un’affluenza da record (quasi il 70%). Non proprio tutti, però, hanno potuto esprimere la propria preferenza sulla proposta di riforma costituzionale: nella concitazione pre-elettorale, tra le polemiche sul voto degli italiani all’estero ed il delirio sulle matite cancellabili, è passata quasi inosservata l’esclusione dal voto di una consistente fetta di popolazione. Sono gli “italiani senza cittadinanza”, figli di una patria che non li riconosce: sono circa un milione, tra cui molti che avrebbero voluto votare ma non hanno potuto perché, pur essendo nati o cresciuti in Italia, tutto quello che hanno è un permesso di soggiorno rinnovabile.

Ora il ddl 2092 (“Modifiche alla legge 5 febbraio 1992, n. 91, e altre disposizioni in materia di cittadinanza”) è infine tornato in calendario alla Commissione Affari costituzionali del Senato, ma resta da capire se la riforma sarà praticabile dopo i cambiamenti nello scenario politico seguiti al referendum. Con il rischio che quella legge (insieme a tante altre, come quella sulla tortura) slitti ancora, a chissà quando. E che, intanto, ancora una volta si vada a votare negando a tanti italiani il fondamentale diritto al voto.

IN ITALIA CI SONO UN MILIONE DI PERSONE NATE E CRESCIUTE QUI CHE PERÒ HANNO SOLO UN PERMESSO DI SOGGIORNO RINNOVABILE. DA TEMPO SI ATTENDE L’APPROVAZIONE DI UNA RIFORMA DELLA LEGGE SULLA CITTADINANZA.

ITALIANI SENZA CITTADINANZA, ITALIANI SENZA VOTO

«In questa fase di incertezza ai vertici – commenta, Paula Baudet Vivanco (#Italianisenzacittadinanza) – siamo preoccupati per il futuro della riforma, ma siamo sempre determinati a far capire ai parlamentari quanto sia fondamentale dimostrare che i bambini dell’Italia sono uguali, che nessuno deve essere considerato secondario e che quindi vanno tutti tutelati con pieni diritti, cominciando con quello di non essere espulsi dal proprio Paese. Vogliamo garanzie in questo senso, iniziando dall’accesso al diritto al voto per difendere democraticamente i valori della nostra Costituzione». CITTADINANZA: COM’È OGGI E COME SAREBBE CON LA RIFORMA

Per fare il punto, andiamo con ordine. Innanzitutto, come funziona l’attuale legge sulla cittadinanza italiana? Nel nostro paese la cittadinanza è disciplinata dalla legge n. 91 del 1992, secondo cui è sempre riconosciuta iure CORALLINA LOPEZ CURZI sanguinis: si diventa insom- Coalizione italiana ma cittadini italiani innan- Libertà e diritti zitutto per nascita, e cioè se civili (Cild).

Confronti | gennaio 2017

Come spiega Xavier Palma del movimento #Italianisenzacittadinanza, «escludere i giovani dal referendum è una politica suicida, che taglia la coscienza al proprio futuro, noi giovani “Italiani senza cittadinanza”: un milione tra bambini, adolescenti e adulti, giudicati esclusivamente in base alle scelte migratorie dei nostri genitori. Impedirci di votare dovrebbe essere considerato antidemocratico». Una campagna sui social media ha cercato di sollevare l’attenzione sulla intollerabile esclusione, chiedendo a tutti di metterci la faccia per chiedere l’immediata calendarizzazione della tanto attesa riforma della legge sulla cittadinanza. Ma intanto il 4 dicembre a quelle centinaia di migliaia di italiani è stato negato il diritto di votare e, ancora peggio, le cose non paiono affatto prossime a cambiare. Come è potuto succedere? Il disegno di legge sulla riforma, approvato alla Camera in prima lettura già nell’ottobre 2015, è da allora bloccato alla Commissione Affari costituzionali del Senato, sepolto sotto una coltre di emendamenti (oltre 7000, quasi tutti presentati dalla Lega Nord). Con buona pace dell’ex premier Renzi, che aveva definito l’approvazione della riforma come priorità «in cima al programma dei mille giorni».

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