Imprese e Territorio

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M A G A Z I N E D I I N F O R M A Z I O N E D I C O N FA R T I G I A N AT O I M P R E S E VA R E S E

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editoriale

DALL’ANNO DEI CAMBIAMENTI AL NUOVO ANNO DEL “SAPER FARE” Si chiude l’anno dei “cambiamenti” e si apre l’anno del “saper fare”. Con la mobilitazione #QuelliDelSì, organizzata nel mese di dicembre per illustrare al Governo e al Paese la nostra visione dell’Italia, abbiamo ribadito che le Pmi sono pronte ad accogliere cambiamenti in grado di garantire la massima espressione del “saper fare” attraverso il riconoscimento della dignità della persona nella sua totalità, una tassazione giusta, regole chiare, forme di innovazione semplici e commisurate alle dimensioni di impresa, processi di internazionalizzazione efficaci e sostenuti da una buona infrastrutturazione. Cambiamenti che vogliamo affrontare attingendo a una formazione qualificata e qualificante, alla competitività garantita dalle grandi opere - anche digitali - e a forme di lavoro non per forza “garantito” ma umano, costruttivo e capace di far esprimere l’intelligenza e la sensibilità di ciascuno. Un lavoro che troviamo riprodotto nelle Piccole e Medie Imprese, al punto da connotarle come elemento di valore in un Paese che, su questo valore, deve saper investire con politiche formative, di sostenibilità ambientale e semplificazione fiscale per favorire lo sviluppo di una economia sana, riconoscibile nel contesto internazionale, innovativa nei settori che meglio hanno saputo esserlo o che hanno in sé le premesse per diventarlo. E, soprattutto, sensibile al ruolo della produzione e della manifattura. Si chiude un anno di cambiamenti e se ne apre uno nuovo, dunque, che dovrà essere “l’anno del saper fare” bene e utilmente. Nel 2019 dovrà maturare una nuova consapevolezza a cominciare dal ruolo che, nel saper fare, ha la persona. Dobbiamo recuperare il valore e l’importanza delle competenze, in una chiave di filiera. Le piccole e medie imprese, in provincia di Varese, hanno assunto una dimensione di cluster, assecondando la distribuzione delle grandi industrie o disegnando specifici comparti, spinte dalla peculiarità di ogni singo-

la zona della provincia. Identità di territorio, talvolta ridimensionate dalla crisi (si pensi al tessile) o rilanciate dai cambiamenti del mercato (meccanica e chimica-gomma plastica), sulle quali investire, valorizzando i naturali legami tra imprese e considerando le opportunità che tali specializzazioni offrono nelle nicchie che il mercato globale riserva alle alte specializzazioni e alle elevate competenze. Su questo bisognerà focalizzare gli sforzi collettivi, recependo i cambiamenti e incentivando la coniugazione delle eccellenze produttive con l’incremento della produttività, del livello di integrazione di rete, del tasso di innovazione e della qualità dell’offerta. In quest’ottica ha operato Confartigianato Varese nel 2018, guardando avanti per affrontare al meglio le sfide. Come quella del welfare aziendale, strada di non ritorno insieme alla conciliazione vita-lavoro in conseguenza della recessione del welfare statale e dell’invecchiamento della popolazione. La stessa formazione potrà fare la differenza nella qualificazione, nell’attrattività e nel mantenimento del valore e delle competenze in azienda, al pari del welfare aziendale. E che dire dell’autoimprenditorialità, che oggi rappresenta una delle migliori politiche attive per l’occupazione e per ricostruire il tessuto economico locale? In questo Paese un po’ impaurito – per usare le parole del Censis toccherà a noi fare in modo che il cambiamento sia portatore di interventi attivi (e non di mero sussidio) in grado di stimolare la collaborazione tra pubblico e privato. Mi riferisco al Paese ma non dimentico il territorio, uscito ammaccato da più di un’analisi congiunturale: di questo non possiamo attribuire colpe ad “altri”, ma dobbiamo assumerci la responsabilità di analizzare le criticità e di superarle insieme.

SOMMARIO

DAVIDE GALLI PRESIDENTE CONFARTIGIANATO IMPRESE VARESE

imprese e territorio | 3


SOMMARIO Editoriale

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Staffette in azienda La strategia si chiama affiancamento generazionale e investe sugli junior

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La felicità è produttività

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Lo smart-working entra nelle piccole e diventa un modello di nuova competitività

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L’euro innovazione

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Nuove alleanze tra Pmi e ricerca Proviamoci

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Avremo una vita più comoda. Ma sarà per tutti?

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Milano La capitale delle smart cities è dalla parte delle imprese

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Le radici curano la fiducia e rigenerano la società

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Il nuovo influencer non è un “vip” è il dipendente

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Dialogo, formazione e soprattutto passione per cambiare nella continuità

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La lezione della new generation Investire in tempo di crisi

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Flessibilità, premio e contrattazione Tutti i pilastri del cambiamento

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Cultura finanziaria, si può fare meglio: non si entra in banca solo con i sogni

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Troppe speculazioni La vera i4.0 è servizio

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Il robot piace all’impresa ma resta l’incognita sul futuro del lavoro

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Cinque città e le azioni per semplificare

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Regione Lombardia e i piani su misura Lavoriamo sulle imprese e ripartiamo dalle Pmi

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Infrastrutture tante priorità ma (per ora) pochi fatti

Sua maestà Google Strumenti da conoscere per sfidare (bene) la rete

NEL PROSSIMO NUMERO incere la sfida V del digitale in Italia Lombardia autonoma: cosa cambierà? Infrastrutture e territori: le grandi incompiute Tasse, a che punto siamo Dove ci porterà il 5G

Magazine di informazione di Confartigianato Imprese Varese. Viale Milano 5 Varese Tel. 0332 256111 - www.asarva.org INVIATO IN OMAGGIO AD ASSOCIATI E ISTITUZIONE Autorizzazione Tribunale di Varese n.456 del 24/1/2002 Direttore Responsabile - Mauro Colombo Presidente - Davide Galli Caporedattore - Davide Ielmini Progetto grafico - Confartigianato Imprese Varese Impaginazione - Geo Editoriale - www.geoeditoriale.it Stampa Litografia Valli Tiratura, 8.600 copie - Chiuso il 20 dicembre 2018 Il prezzo di abbonamento al periodico è pari a euro 28 ed è compreso nella quota associativa. La quota associativa non è divisibile. La dichiarazione viene effettuata ai fini postali


PRIMOPIANO

DIALOGO, FORMAZIONE E SOPRATTUTTO

PASSIONE PER CAMBIARE NELLA CONTINUITÀ

Luca Petoletti - partner di The European House Ambrosetti e responsabile dell’area “Imprese Familiari e Governance”

EMANUEL DI MARCO

L’analisi dell’esperto di The European House Ambrosetti completa l’indagine sui passaggi generazionali iniziata nel penultimo numero «I fattori critici? La mancanza di dialogo e di regole per stare insieme»

Un passo spesso fisiologico, quello del ricambio generazionale alla guida dell’azienda, ma di non facile gestione. Governare al meglio la fase della successione rappresenta un fattore determinante, per garantire la continuità dell’impresa in primis, ma anche per favorirne lo sviluppo dinanzi alle nuove sfide imposte dai competitor e dal mercato, oltre che per costruire un’immagine positiva verso i propri dipendenti. Studi sviluppati a livello europeo riferiscono che solamente un terzo delle imprese familiari (il 32%) arriva con successo alla seconda generazione, mentre circa il 15% giunge alla terza. In un Paese, l’Italia, in cui il 96% delle aziende risulta di natura familiare, l’argomento non può non rappresentare un punto focale per la competitività dell’intero sistema. A fornire una serie di chiavi di lettura è Luca Petoletti, dal 2011 Partner di The European House Ambrosetti nonché responsabile dell’area “Imprese Familiari e Governance”. Il ricambio generazionale tra titolari di azienda, all’interno di una medesima famiglia, può ancora rappresentare un valore aggiunto per l’impresa? Oppure si tratta di un fattore limitante? Dal nostro punto di vista il tema centrale non è se il ricambio generazionale possa essere interno o esterno alla famiglia, ma risiede

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QUANDO CHIESERO A UN IMPRENDITORE COME FOSSE POSSIBILE CONIUGARE LA SUA PREPARAZIONE FORTEMENTE PRATICA CON QUELLA, STRUTTURATA E ACCADEMICA, DEL FIGLIO, LA RISPOSTA FU: «LUI CONOSCE LE REGOLE, IO LE ECCEZIONI»

piuttosto in tre elementi. In primis le qualità, le caratteristiche e la preparazione del giovane in questione, e aggiungo la passione. Fare impresa in questa epoca storica è complicato, ci vogliono vocazione, attitudini e caratteristiche caratteriali. In secondo luogo, qualora si tratti di più di una persona, la presenza di regole e meccanismi per stare insieme che siano chiare e condivise. Inoltre, una buona comunicazione tra le diverse generazioni. In presenza di tali condizioni, è sicuramente un valore aggiunto il fatto di avere come prosecutore un membro della famiglia, tanto più quando si tratta di piccole e medie imprese. In assenza di questi elementi, invece, si rischia potenzialmente un danno. Quali passaggi intermedi, in termini di formazione e apprendimento della “filosofia” aziendale da parte dei futuri titolari, sono necessari per poter dar vita a un passaggio generazionale reale e produttivo? Ciò che suggeriamo è prima di tutto curare bene la formazione, che non riguarda solamente l’educazione scolastica, certamente importante, ma anche le esperienze di vita, per esempio internazionali o in associazioni, il volontariato, lo sport, e non meno le conoscenze linguistiche. Un altro passaggio rilevante riguarda il cercare, per quanto possibile, di non iniziare subito a lavorare nell’attività di fa6 | imprese e territorio

miglia. Un’esperienza in un’altra realtà aziendale non rappresenta sicuramente la panacea di tutti i mali, ma offre un aiuto importante per vari motivi: osservando ambienti diversi si possono ottenere spunti da portare nella propria attività; si può osservare la cosiddetta “erba del vicino”, che non sempre è più verde; infine, perché provare a lavorare in un’azienda senza il condizionamento dato dall’essere il figlio o la figlia del titolare è certamente utile. Quali sono le maggiori differenze tra i ricambi generazionali nelle Pmi e nelle aziende più strutturate? Secondo la nostra esperienza, il “cosa” fare è abbastanza comune. Cambia in modo significativo il “come”. E muta in base a due fattori: sicuramente la dimensione dell’impresa, ad esempio una grande realtà ha dalla propria la possibilità di managerializzare anche in modo spinto l’azienda, lasciando gli eredi o buona parte di essi a fare esclusivamente i soci o azionisti, il che almeno in linea teorica rende più facile il ricambio generazionale. Per una realtà artigiana di piccole o piccolissime dimensioni, chiaramente, l’idea di managerializzare la gestione risulta più complicata. Tra gli elementi da considerare c’è anche la struttura della famiglia, con riferimento al numero dei figli presenti. Qualora fossero più di uno, importante è andare d’accordo.


PRIMOPIANO

Da valutare anche la differenza di età tra le persone, e ancora l’influenza che coniugi o compagni/compagne possono avere in questa tipologia di dinamiche. Può citarci qualche caso critico relativo a una piccola impresa familiare? Esistono alcuni errori che possiamo ritenere più frequenti. E mi riferisco, per citarne alcuni, al non rispetto dei ruoli operativi, alla mancata distinzione tra dinamiche familiari e aziendali oltre che a quella tra i ruoli della proprietà e della gestione. Capita anche che, per non toccare equilibri delicati, si decida di rinviare la discussione di temi importanti. La carenza di dialogo, anche legato al futuro, rappresenta un ulteriore errore da evitare. Ci sono delle strategie per combinare le mentalità degli uscenti e degli entranti, spesso confliggenti? Racconto un aneddoto, con al centro l’azienda di un imprenditore veneto ultrasettantenne, che ha frequentato le scuole dell’obbligo, ha lavorato sotto padrone e quindi ha creato, mettendosi in proprio, una realtà positiva e ben funzionante. Ha avuto tre figli: uno di loro ha studiato ingegneria, si è recato negli Stati Uniti e a seguire, una volta tornato in Italia, ha iniziato a lavorare con il padre.

Quando chiesero all’imprenditore come fosse possibile coniugare la sua preparazione fortemente pratica con quella, strutturata e accademica, del figlio, la risposta fu: «Lui conosce le regole, io le eccezioni». Ciò che intendo dire è che occorre fare leva sull’esperienza acquisita dal titolare, e fonderla con l’energia e gli approcci moderni della nuova generazione. Come deve approcciarsi il nuovo titolare d’azienda con i dipendenti? Quali strategie deve adottare per “posizionarsi” nel modo giusto e non imporre la propria autorità per mere ragioni di appartenenza familiare, ma piuttosto conquistarla “sul campo”? Distinguo questo processo di inserimento in tre fasi. La prima impone al nuovo arrivato di farsi accettare: occorre essere umili, avere volontà di ascolto e generosità, essere disponibili facendosi carico di compiti anche molto operativi, supportando gli altri. Essenzialmente, farsi voler bene. Se la prima fase ha esito positivo, scatta quella successiva, cioè il farsi valere: bisogna essere consapevoli che si hanno dei propri traguardi da conseguire, e in modo garbato e motivato occorre anche saper dire anche qualche “no”, per rispondere al meglio alle priorità e agli obiettivi assegnati. Infine, bisogna farsi seguire. Qui, insomma, entra in gioco la leadership. imprese e territorio | 7


focusprimo piano

STAFFETTE IN AZIENDA LA STRATEGIA SI CHIAMA

AFFIANCAMENTO GENERAZIONALE

Fabio Quarato - lectured all’Università Bocconi e Managing Director della Cattedra AIdAF-EY di Strategia delle Aziende Familiari

E INVESTE SUGLI JUNIOR

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Il passaggio di competenze, in azienda, chiama in causa variabili diverse tra loro. Alla base, una certezza: occorre una progettualità chiara, che guardi al medio-lungo periodo. «Si tratta di un tema particolarmente complesso - sottolinea il professor Fabio Quarato, lectured presso l’università Bocconi e managing director della cattedra AIdAF-EY di Strategia delle Aziende Familiari - e difficilmente misurabile attraverso i dati, ma comprensibile principalmente mediante i racconti degli stessi imprenditori. Si riscontrano differenze importanti tra le imprese. Vi sono ad esempio realtà che hanno sempre puntato fortemente sul made in Italy, investendo in innovazione e competenze, e altre che hanno avviato un processo di reshoring, rientrano nel Paese in quanto qui esistono ancora competenze forti che oc-

corre curare e far crescere, per far sì che queste vengano trasmesse ai più giovani». La soluzione più efficace, stando a quanto riscontrato, è rappresentata dall’affiancamento: «In tutte le funzioni aziendali, una buona prassi di governance è costituita dalla creazione di un piano di affiancamento che possa condurre verso l’avvicendamento di tutte quelle figure che hanno superato una certa soglia di età, portatori spesso di conoscenze specifiche e soft skills. I giovani, d’altro canto, possono portare un valore aggiunto in termini di superiori conoscenze tecnologiche, le quali devono comunque essere sostenute da competenze di prodotto e di tradizione». Una questione, quella dell’affiancamento, che sta assumendo una valenza crescente: «Sempre più spesso - prosegue Quarato si parla di programmi di ricambio generazio-


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nale non solo a livello apicale. La nuova generazione può fornire una spinta in più per avviare percorsi di crescita, ma senza un adeguato affiancamento si rischia di perdere per strada qualcosa. Conosco personalmente piccole e medie imprese nelle quali lavorano oggi persone con una buona preparazione universitaria, con competenze digitali e quindi brave a rapportarsi con un mondo che viaggia velocemente, ma non è mai stata messa in secondo piano la conoscenza di prodotto e del mercato. Parlo di un patrimonio intrinseco, che può essere trasmesso dalle generazioni precedenti». Si discute spesso di alternanza scuola-lavoro. Una reale opportunità? «Sicuramente, seppur ancora poco sfruttata. Ci sono imprese nelle quali lavorano part-time dei giovani proprio attraverso progetti di alternanza, un’opportunità su cui l’azienda ha investi-

to perché mossa da imprenditori aperti e disponibili, che credono in questo strumento». Sostanzialmente, serve una visione di medio-lungo periodo, «la disponibilità a investire in piani di crescita di persone anche molto junior. Questo processo può essere visto come un costo nell’immediato, oppure come un investimento in presenza di un progetto di inserimento non a sei mesi, ma a due-tre-cinque anni. Le aziende hanno capito che questo è l’unico modo per assicurarsi nel medio periodo competenze che stanno sparendo». Infine, la questione pensioni: la confusione che sta animando la materia non aiuta certo in fase di programmazione: «Questo è evidente, e viene confermato dagli imprenditori. Ma la capacità di vincere determinate sfide - chiude il professor Quarato - risiede nel concentrare i propri sforzi sulle opportunità esistenti». E. D. M.

LA NUOVA GENERAZIONE PUÒ FORNIRE UNA SPINTA IN PIÙ PER AVVIARE PERCORSI DI CRESCITA MA È NECESSARIO UN AFFIANCAMENTO ADEGUATO

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focusprimo piano

LA LEZIONE DELLA NEW GENERATION

INVESTIRE IN TEMPO DI CRISI Simone Mazzilli – titolare dalla Lavena Graniti

GABRIELE NICOLUSSI

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«Abbiamo fatto una riunione di famiglia e abbiamo capito che bisognava affidarsi a Simone e alle sue idee». Da lì sono arrivati nuovi investimenti, un nuovo nome, una nuova sede e nuove attività: storia della Lavena Graniti

Splende il sole sul lago di Lugano quando Simone Mazzilli, 35 anni, ci apre le porte della sua azienda a Lavena Ponte Tresa, al confine con la Svizzera. Nove dipendenti (inclusi il padre e il fratello), un capannone nuovo fiammante e macchinari di ultima generazione che lavorano senza sosta tagliando e levigando lastre di granito, marmo, pietre e materiali sintetici che diventeranno bagni, piani cucina, pavimenti, caminetti. La Lavena Graniti è un classico esempio di cambio generazionale virtuoso. Cresciuta negli anni e passata di mano in mano tra padre e figlio, nel 2013, in piena crisi, ha deciso di mutare letteralmente pelle. Sotto la guida di Simone ha cambiato sede, ha lanciato nuovi prodotti (come il piano cucina con carica batterie wireless per lo smartphone) e ha investito in nuovi macchinari e nel marketing, con la convinzione che solo scommettendo sul presente, si possa riuscire a vincere le sfide del futuro. «Eravamo piccolini. Non dico che ci lasciavamo scivolare le cose come andavano, ma ci andava tutto bene così. La paura di non riuscire a offrire qualcosa di diverso e quindi di rimanere tagliati fuori da un mercato che si stava assottigliando, ci ha portato in un periodo di crisi a investire». Fondata nel 1977 da nonno Marino con il nome di Lavena Marmi, l’azienda era passata nelle mani del padre Giorgio nell’89, che a sua vol-


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ta l’aveva trasforma in Mazzilli Marmi e Graniti. Dopo 20 anni, è arrivato il momento di dare un’altra sterzata. «Abbiamo fatto una vera e propria riunione di famiglia – si lascia sfuggire Giorgio Mazzilli – e abbiamo capito che bisognava affidarsi a Simone e alle sue idee». Il ragazzo, allora trentenne, prende così le redini della situazione. Poco dopo li raggiungerà anche Davide, il fratello minore. «Abbiamo deciso di cambiare nome – spiega Simone - in onore della lungimiranza del nonno e da Lavena Marmi siamo diventati Lavena Graniti». La spinta, dicevamo, l’ha data un momento di difficoltà e immobilismo. Anche se non si può parlare di vera e propria crisi, perché l’azienda è a due passi dal confine con la Svizzera, che rappresenta circa il 75% del suo fatturato. «Oltre confine la crisi si è sentita di meno – spiega Mazzilli – ma qualche problema sta pian piano arrivando anche là». I passi da fare sono stati tre. «Il primo è stato innanzitutto allargarsi e cambiare sede. Poi comprare macchinari che sapessero mangiare molto lavoro, come la “taglio ad acqua” e il centro di lavoro. Infine, trovare qualcuno che desse da mangiare a quei macchinari». Si sente spesso raccontare di molte aziende, soprattutto durante il boom economico degli anni ’70-’80, “costrette” a comprare nuove macchine per star die-

tro a commesse sempre crescenti. In questo caso, al contrario, gli investimenti sono stati fatti per crearsele, quelle commesse. La differenza, all’apparenza sottile, è in realtà sostanziale. E come accaparrarsi nuovo lavoro? La risposta, nel 2015, è stata Sheila Mingozzi. Laureata in marketing e comunicazione d’impresa, in azienda il suo compito è quello di “dare da mangiare” alle nuove macchine. «Abbiamo deciso di assumere una persona che si occupasse di sviluppo aziendale e gestione dei clienti, ma soprattutto che fosse in grado di procacciare nuovo lavoro». Una scelta anomala per una realtà ancora piccola (ai tempi erano in cinque) e per un settore chiuso come quello del marmo. «Noi marmisti vogliamo pensare a tutto, gestire tutto. Abbiamo paura che nessuno riesca a fare le cose come le vorremmo fare noi. Abbiamo difficoltà a credere nell’arte del delegare. E delegare in un aspetto così importante come quello del cliente, e quindi poterlo seguire nella maniera adeguata, coccolarlo, non è stato facile. Soprattutto per mio papà, che non era pronto a tutti questi cambiamenti repentini». Un papà che, comunque, ha avuto la lungimiranza di scommettere su idee rivoluzionarie e di abbracciare i cambiamenti, dolorosi o azzardati che fossero. imprese e territorio | 11


APPROFONDIMENTI

NEL BETTER LIFE INDEX L’OCSE HA MISURATO IL TASSO DI CONCILIAZIONE NEL MONDO. L’OLANDA BATTE TUTTI, ARRANCA ISRAELE. GLI UOMINI TRASCORRONO IN AZIENDA PIÙ TEMPO DELLE DONNE. QUINDICI LE ORE DEDICATE IN MEDIA A CURA DELLA PERSONA E TEMPO LIBERO RICCARDO SAPORITI

LA

FELICITÀ È PRODUTTIVITÀ

Quando l’equilibrio tra vita e lavoro diventa un investimento per l’impresa L’Italia si colloca a metà classifica È ormai un dato assodato la correlazione tra la felicità dei dipendenti e la loro produttività. Per le aziende, questo significa investire per migliorare la qualità del posto di lavoro. Questo sforzo, però, potrebbe non essere del tutto sufficiente. Già, perché a incidere sulla felicità dei dipendenti c’è anche il bilanciamento tra il tempo del lavoro e quello della vita. Più questi due fattori si trovano in equilibrio, più i dipendenti saranno soddisfatti. E, di conseguenza, anche più produttivi. Ma come si fa a misurarlo? Ci ha pensato l’Ocse che, nell’ambito del suo rapporto Better life index, ha prodotto un indicatore definito proprio Equilibrio lavoro vita. Un indicatore che vede il nostro Paese piazzarsi a metà 12 | imprese e territorio

classifica. Il punteggio che l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico assegna all’Italia è infatti 7,5. Il dato migliore lo ottiene l’Olanda, con 9,3, il più basso Israele, che deve accontentarsi di un 4,3. Ora, l’elaborazione di questo indice tiene conto di diversi fattori. Il primo riguarda la quantità di tempo che si trascorre in azienda. Più tempo si passa al lavoro, ovviamente, meno se ne ha da dedicare alla famiglia. Non solo: orari lavorativi molto lunghi danneggiano la salute, generano stress e possono anche compromettere la sicurezza sul luogo di lavoro. Ora, a livello Ocse una persona su otto lavora per 50 o più ore la settimana. Tenen-


do conto di una settimana lavorativa composta da cinque giorni, si tratta di dieci ore al giorno. Due oltre la normale giornata composta da otto ore. Il dato peggiore riguarda la Turchia, dove più di una persona su tre si trova in queste condizioni. La buona notizia è che in Italia questa situazione riguarda appena il 3,9% dei lavoratori. In altre parole, uno su 25. Quella cattiva è che la tendenza è quella di un incremento medio annuo dello 0,1%. Come a dire che il mondo del lavoro italiano sta lentamente evolvendo verso una condizione non positiva per quanto riguarda l’equilibrio tra il lavoro e la vita. Da segnalare che questi orari eccessivi riguardano soprattutto gli uomini. Fatto 1 il valore che rappresenta il perfetto equilibrio, l’Italia ottiene infatti un punteggio di 2,41. Significa che sono soprattutto i lavoratori maschi a fare straordinari, per usare un’espressione colloquiale. Il record spetta ai Paesi Bassi con 7,47: qui la tendenza a vedere gli uomini, più delle donne, fare tardi in azienda è ancora più marcata che in Italia. In media, a livello Ocse, è il 16% degli uomini a trascorrere più di 50 ore la settimana al lavoro, contro un 8% delle donne. L’altro elemento preso in considerazione dall’Ocse per misurare l’equilibrio tra il tempo del lavoro e quello della vita fa riferimento al tempo libero e alla cura della persona. Si tratta in altre parole di misurare il tempo trascorso fuori dal lavoro. Dedicandolo alla cura personale, ovvero per mangiare e per dormire, o al tempo libero. Ad esempio trascorrendolo in famiglia o con gli amici, coltivando il proprio hobby, giocando, usando il computer, guardando la televisione. Non bisogna inoltre dimenticare che questo indicatore tiene conto anche del tempo dedicato al sonno. Ebbene, sotto questo profilo l’Italia è decisamente in media con il resto dei Paesi che fanno parte dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo internazionale.

A livello Ocse, infatti, si trascorrono 15 ore al giorno per la cura personale e il tempo libero. In Italia siamo a 14,9 ore giornaliere. Il che significa comunque che il 62% di ogni giornata viene trascorsa o prendendosi cura di sé stessi o dedicandosi a quelle attività che rendono l’esistenza più piacevole. Anche in questo caso permane un tema di disuguaglianza di genere, anche se meno marcato. L’indicatore è infatti a 1,06, decisamente più vicino al punto di equilibrio fissato a 1. Dunque, gli italiani hanno un buon bilanciamento tra i tempi del lavoro e quelli della vita. Anche se la tendenza all’aumento della quota di persone che lavora per 50 o più ore la settimana rimane un dato che non deve essere sottovalutato.

IN CIFRE

7,5 3,9 14,9

Punteggio che l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico assegna all’Italia per l’equilibrio vita-lavoro. Il dato migliore lo ottiene l’Olanda, con 9,3, il peggiore Israele, con 4,3 Percentuale di italiani che trascorre 50 o più ore alla settimana sul posto di lavoro. Un dato che dal 2005 ad oggi ha visto un aumento dello 0,1% ogni anno Ore che gli italiani dedicano quotidianamente alla cura della persona (mangiare e dormire) e al tempo libero. La media, nei Paesi che fanno parte dell’Ocse, è di 15 ore al giorno imprese e territorio | 13


focusprimo piano

FLESSIBILITÀ, PREMIO E CONTRATTAZIONE

TUTTI I PILASTRI CAMBIAMENTO DEL

Flessibilità organizzativa «Riteniamo la risorsa tempo una risorsa dal valore incommensurabile, che supera la questione denaro». Questa la ragione principale che ha spinto Aldo Pedrioli, titolare della società di consulenza A&P Consulting, ad adottare la flessibilità organizzativa nella sua azienda. L’esperienza è appena iniziata e sarà applicata per il momento a due dipendenti, che avranno la possibilità di lavorare anche a distanza, senza per forza recarsi in ufficio. «La decisione è nata da un’esigenza pratica. Un collaboratore vive a 70 chilometri di distanza dalla nostra sede e ci mette più di un’ora per venire al lavoro. L’altro ha una bambina piccola e ha bisogno di starle vicino. Per il nostro lavoro di consulenti bastano uno smartphone e un pc. Perché obbligarli a venire sempre in ufficio, anche se non serve?». Il primo passo è stato quello di redigere un regolamento aziendale, seguito da un regolamento ad personam, per formalizzare i diritti e i doveri dei lavoratori. «Il cambiamento deve essere fatto nella testa di chi gestisce l’azienda. È complicato, perché vuol dire fidarsi delle persone, e questo spesso si fa fatica a farlo. Però bisogna cambiare marcia, perché il benessere dei dipendenti è fonte di benessere e crescita anche per l’azienda». La possibilità di lavorare a distanza è però vincolata alla mansione che si deve svolgere. Un operatore specializzato che usa il tornio, per esempio, non potrà mai lavorare da casa. Ma anche nel manifatturiero ci sono alcuni casi di flessibilità organizzativa. Ne è un esempio AF Maglieria, una piccola azienda a gestione familiare, che ha deciso di permettere a una dipendente di fare smart working un pomeriggio alla settimana. «Con Angela lo facevamo già da prima, ma ora abbiamo formalizzato il tutto», spiega il titolare, Simone Alberini. «Una delle sue mansioni è quella di assemblare le etichette che verranno cucite ai vestiti che creiamo. Lo può fare benissimo da casa, mentre controlla che la figlia faccia i compiti». Per Angela questo è fondamentale: «Il tempo che si passa con la propria famiglia non ha prezzo».

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focusprimo piano

Premio di risultato i welfare È ormai assodato che offrire un premio di risultato ai propri dipendenti è un grande stimolo per la crescita di un’azienda. A rovinare tutto pensa però la tassazione, che ne riduce l’efficacia. Prendiamo un premio di produzione pari a 100 euro e applichiamolo a un lavoratore che ha un reddito medio di 36 mila euro all’anno e un’aliquota Irpef del 28%. Su quei 100 euro, l’azienda dovrà pagarne in aggiunta 30 di versamento Inps e 7 di Tfr, per un totale di 137 euro. Il dipendente invece ne perderà 35 tra Irpef e Inps, avendo così in busta paga un netto di soli 65 euro. Ci perdono tutti. Convertendo il premio in welfare, invece, l’azienda non avrà costi aggiuntivi e il lavoratore percepirà l’importo netto, perché detassato. «Quando abbiamo chiesto ai nostri dipendenti di convertirlo in welfare, hanno detto subito sì. Negli anni passati quello che ricevevano era nettamente inferiore, questo per colpa delle tasse. Veniva a mancare il fine aziendale: incentivare e motivare la persona». A parlare è Simone Pasqualotto, titolare di Setecs Engineering. L’azienda, specializzata in lavorati in materiale plastico e composito, per il premio di produzione si è affidata alla piattaforma welfare di Confartigianato Imprese Varese, attraverso cui il lavoratore può scegliere come spendere il proprio premio. «Ci sono esempi molto interessanti, come il rimborso delle spese per i familiari e per la baby sitter, un versamento a un fondo pensione, ticket per servizi, viaggi on demand, tempo libero e cura della persona. È un incentivo al benessere, a star meglio, a far sì che il frutto del lavoro venga speso in servizi che possono migliorare la qualità della vita». I dipendenti di Setecs hanno preso con entusiasmo questa decisione. Ce ne dà conferma Ester Saracchi, che è in azienda da ormai 10 anni. «Lavorando in amministrazione vi posso assicurare che il dipendente prende di più. Ci sono molti benefici. Io per esempio uso il premio per le spese universitarie di mia figlia. Ho deciso di investire nella cultura».

Contrattazione territoriale e accordi di secondo livello «Nei reparti produttivi vediamo molta energia. C’è interesse ad aderire a questo programma, che sta dando una grande spinta motivazionale ed emotiva». Il premio di risultato, è innegabile, dà una spinta notevole ai dipendenti. Meglio ancora se rientra in una contrattazione di secondo livello, che si pone come garanzia per entrambe le parti: azienda e lavoratori. Lo conferma Marco Mollica Poeta, Finance & Hr manager di De Götzen, produttrice di macchinari biomedicali, che a partire da ottobre ha inserito il premio di risultato per sopperire alla richiesta del gruppo di aumentare notevolmente la produzione. «Con il nostro consulente del lavoro – continua Mollica - abbiamo pensato che la contrattazione di secondo livello fosse il percorso più adeguato da seguire. L’accordo interconfederale regionale dell’artigianato definisce uno schema chiaro su come deve essere impostato, con criteri di chiarezza, completezza, trasparenza e maggiore garanzia per il dipendente». L’accordo è vantaggioso anche dal punto di vista fiscale, perché permette un’aliquota Irpef agevolata del 10% per il dipendente, che non vede intaccato il proprio reddito e non rischia di perdere il bonus da 80 euro se rientra nei 26mila euro all’anno. Nello specifico l’accordo adottato da De Götzen prevede un premio vincolato a degli obiettivi specifici (numero di macchine prodotte) e a scaglioni. Presuppone inoltre che il dipendente garantisca la presenza in azienda necessaria per il raggiungimento del risultato. Un accordo vantaggioso e facoltativo, che è stato accolto dalla quasi totalità dei dipendenti a cui è stato proposto (i lavoratori della produzione). Dice Silvio Albertella, responsabile del magazzino: «Ha deciso di aderire anche chi, in 20 anni, non aveva mai fatto straordinari». Perché? «Perché il premio è alto e l’accordo è molto vantaggioso».

GABRIELE NICOLUSSI

imprese e territorio | 15


focus primo piano

LO

SMART-

WORKING entra nelle piccole e diventa un modello di nuova competitivitĂ

NICOLA ANTONELLO

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USCIRE DALLE MURA PER LAVORARE DA REMOTO È UN CAMBIAMENTO PRIMA DI TUTTO CULTURALE CHE NON INTERESSA SOLO L’INDUSTRIA. PEZZETTI (CENTRO DI RICERCA SMARTER): «IN FUTURO COMPETENZE, CERVELLI E SUCCESSI DIPENDERANNO ANCHE DAI TERRITORI» Quando si pensa al lavoro manifatturiero, sia esso quello di una grande impresa o di una Pmi, l’immagine è quella del lavoratore che si reca in azienda, svolge le sue ore e torna a casa. Un modello che, sostanzialmente, non si è modificato anche nel corso di decenni in cui nell’economia è successo di tutto ed è cambiato tutto. In futuro, invece, questo modello potrebbe cambiare? Il sistema dello smart-working potrebbe coinvolgere anche la produzione nelle piccole e medie imprese? Lo ipotizza la professoressa Roberta Pezzetti, direttore scientifico del centro di ricerca Smarter dell’università degli studi dell’Insubria: «Nelle multinazionali e nelle Pmi più innovative – afferma la docente – ci sono già sperimentazioni in tal senso. Lo smart-working e il lavorare per obiettivi precisi può cambiare il modello del recarsi necessariamente nel perimetro del laboratorio o dell’azienda per lavorare. Chiaramente nel reparto di produzione ciò è complicato da immaginare e da mettere in pratica, ma la tendenza in molti ambiti volge al cambiamento dell’impiego per otto ore al giorno nello stesso posto di lavoro». Il motivo? «Con l’innovazione dei processi – aggiunge Roberta Pezzetti – sarà fisiologica anche l’innovazione delle modalità di lavoro, con attività che potranno essere svolte comodamente anche al di fuori dei capannoni. Lo dimostrano i reparti e i settori che stanno già vivendo questo cambiamento, ossia gli staff impiegatizi, l’information technology e i creativi del processo produttivo e di prodotto». Di pari passo, servirà una radicale modifica della cultura dell’imprenditore, che preferisce avere i collaboratori a portata di mano: «La trasformazione digitale portata dalla

digitalizzazione e dalle nuove leve di tecnici altamente specializzati – afferma la professoressa – dovrà necessariamente contaminare anche la cultura imprenditoriale e i modelli educativi». Insomma, non vi è rivoluzione industriale senza una rivoluzione culturale che la preceda e la sposi. E ciò riguarderà anche le Pmi. «Per la prima volta – aggiunge la direttrice del centro di ricerca Smarter – i cambiamenti impatteranno subito anche sulle piccole e medie imprese. In passato, infatti, le innovazioni raggiungevano prima la grande industria e poi coinvolgevano pure le piccole e medie imprese. Ora, invece, la dimensione non sarà più un muro. Lo vediamo ogni giorno, con la nascita di nuove filiere produttive, dove i confini settoriali non sono più definiti». «Non esiste più la meccanica in quanto tale, ma ormai si opera sulla meccatronica dove interagiscono meccanica, elettronica e informatica. Vale anche per il tessile, dove le nanotecnologie permettono, ogni giorno, di produrre nuovi tessuti». L’innovazione si declinerà su tre livelli: prodotto, processi produttivi e modelli di business «ma l’altra grande innovazione profonda e che spesso le imprese non hanno ancora compreso riguarda lo spostamento della competizione». Una volta la lotta era fra impresa e impresa, ora invece è fra i territori: «Per questo – conclude Pezzetti – bisogna agire affinché i territori si diano una chiara visione di specializzazione produttiva e, in questo modo, attraendo imprese, competenze e cervelli. In tal senso è fondamentale dialogare con i centri di ricerca sul territorio e favorire un sistema di innovazione dove le imprese sono fra le protagoniste, ma non sono le uniche».

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approfondimenti

CULTURA FINANZIARIA, SI PUÒ FARE MEGLIO: NON SI ENTRA IN BANCA SOLO CON I SOGNI

TOMASO BASSANI 18 | imprese e territorio

Dai primi di dicembre Carlo Crugnola è il nuovo direttore generale della Banca di Credito Cooperativo di Busto Garolfo e Buguggiate dopo che negli ultimi 15 anni è stato responsabile dell’Area Finanza e vice direttore generale. Raccoglie il testimone da Luca Barni che ha lasciato la Bcc per salire di livello e assumere l’incarico di responsabile di tutta la divisione Retail del Gruppo bancario cooperativo Iccrea. Crugnola è varesino, di anni ne ha 59 dei quali ben oltre la metà passati lavorando in banca. Conosce bene le dinamiche economiche del territorio e come queste si innestano nel quadro più ampio del mondo finanziario, due aspetti che il più delle volte vedono la banca fare da perno con il delicato compito di reperire capitali e fare credito alle imprese. Conosce bene le virtù dell’impresa varesina ma mette in guardia: «La cultura finanziaria di chi produce deve crescere ancora per dare respiro al sistema economico». Carlo Crugnola cosa intendiamo per cultura finanziaria e quanto è diffusa tra imprese e cittadini? Purtroppo, il nostro Paese è messo molto male. Ci sono studi della Banca Mondiale che ci vedono nei posti più bassi: al penultimo posto nella zona Euro, addirittura se si allarga il campo siamo dopo lo Zambia. Siamo un popolo poco educato sugli aspetti e le dinamiche del mondo della finanza e questo nasce dall’assenza di programmi educativi che purtroppo parte già dalle scuole. Per fortuna da qualche anno qualcosa ha cominciato a muoversi e si sta sviluppando qualche programma. La cultura finanziaria è fondamentale, nei paesi dove c’è maggiore conoscenza di questi aspetti si contengono da un lato i casi di scorrettezza delle banche e degli operatori, dall’altro i cittadini hanno molta più consapevolezza dei propri investimenti. Oggi questo problema si riflette pesantemente nel rapporto che si è creato tra le banche e il tessuto sociale ed economico.


approfondimenti

Carlo Crugnola – direttore generale Banca di Credito Cooperativo di Busto Garolfo e Buguggiate

Un problema che riguarda da vicino anche le imprese? Purtroppo sì. Spesso ci si rivolge alla banca solo in fase di emergenza quando si ha bisogno di finanziamenti per coprire problemi di operatività oppure per finanziare progetti che non hanno un solido piano industriale alle spalle. Una banca per fare il proprio lavoro deve guardare molto da vicino i numeri e i bilanci di un’impresa che sono centrali per la concessione di credito. Purtroppo, o per fortuna, il nostro imprenditore medio è molto concentrato su quello che fa, sul prodotto che realizza, ma poco consapevole dei numeri del proprio bilancio e noi siamo costretti a fare i conti con questo. Perché dall’altro lato anche le banche, oggi, hanno una regolamentazione che si sta stringendo sempre di più. Noi per ogni euro che diamo in prestito dobbiamo accantonare una somma sempre più rilevante e questo immobilizza parte del nostro capitale. Il cliente queste dinamiche non le sa e arriva in banca con un bisogno, e a volte anche con un sogno, che non possiamo accontentare. Tutto sarebbe diverso con una maggiore e più diffusa cultura finanziaria.

mo strumento che un’azienda solida può utilizzare e che sarà sempre più importante nel futuro. Se un’azienda si presenta bene può trovare anche un mondo enorme di capitali pronti ad investire. Quanto una corretta educazione finanziaria può incidere anche sull’organizzazione interna di impresa? Dipende dalla grandezza dell’impresa. La cosa veramente importante è che ci sia una forte consapevolezza sui temi della finanza, poi la soluzione si trova. Ci deve essere la volontà dell’imprenditore di imparare i propri fondamentali: lo può affiancare un professionista, lo affiancano già le associazioni di categoria come Confartigianato Imprese Varese e, naturalmente, lo facciamo anche noi in banca che nell’erogare i servizi manteniamo un dialogo costante con la clientela fatto spesso di indicazioni e consigli.

LA CRISI HA FATTO UNA DOLOROSISSIMA OPERA DI “PULIZIA”, CHI È RIUSCITO A RESISTERE OGGI PUÒ ESSERE NELLA CONDIZIONE PATRIMONIALE PER INVESTIRE

Quanto ha contato questo aspetto negli anni della crisi e sulla capacità di investimento delle imprese? Moltissimo. In questo la crisi ha fatto una dolorosissima opera di “pulizia”. Chi è riuscito a resistere oggi può essere nella condizione patrimoniale per poter investire e lo sta già facendo oppure sta aspettando il momento giusto per farlo. Il territorio produce segni positivi da un po’ di tempo e attraverso una più corretta cultura finanziaria si potrebbe anche dire che oggi chi produce si trova in una buona posizione: una variabile in più per gli imprenditori che è nata in questi ultimi anni è l’accesso ai mercati al dettaglio. Ci sono tante aziende che oggi possono raccogliere finanziamenti direttamente dai risparmiatori: penso ad esempio ai mini bond, un otti-

Il suo incarico al vertice della Bcc è cominciato da poco. La preoccupa lo scenario internazionale? Crede che possa arrivare una nuova stretta al credito? Secondo me no. Faccio un esempio banale: l’Europa purtroppo è nata in modo sbagliato, partendo dall’unione monetaria ma con singole esigenze dei paesi molto diverse fra loro. Ci sono popoli come quello tedesco che chiedono che i tassi si alzino e altri nel resto dell’Europa chiedono il contrario. Io però vedo che nonostante l’immissione di liquidità l’Europa non è davvero ripartita. Non penso che saranno tolti tutti i sostegni proprio adesso. Noi come banca durante la crisi non abbiamo mai tolto il nostro sostegno al territorio e abbiamo continuato a crescere costantemente di anno in anno e prevediamo di continuare a farlo. Posso dire che non prevede una inondazione di liquidità ma di sicuro un nuovo lavoro di sostegno alla crescita. imprese e territorio | 19


development director Microsoft

Roberto Filipelli - cloud&enterprise partner

APPROFONDIMENTI

L’EURO INNOVAZIONE Se abbiamo un po’ di soldi dove li investiamo? La provocazione di Roberto Filipelli (Microsoft): anche le Pmi possono investire nel modo giusto MARILENA LUALDI 20 | imprese e territorio


APPROFONDIMENTI

Non tutti i dilemmi sono sfacciatamente amletici. Quello che pone Roberto Filipelli, Cloud &Enterprise partner development director di Microsoft, è più intrigante e di facile risposta per una piccola impresa, quindi con minore disponibilità economiche ma non per questo minori opportunità. «Abbiamo un euro – è la domanda - lo spendiamo per fare lo stesso prodotto a un costo più basso o lo investiamo per un prodotto più innovativo?».

DUE ANNI DI INVESTIMENTI IN MANIFATTURA 4.0 NON SONO DI FATTO CORRELATI AI VERI RISULTATI DI INNOVAZIONE CHE OTTENIAMO IN ITALIA

Insomma, prima c’è l’idea, poi il capitale. Le Pmi stanno investendo sempre di più e lo certificano i dati Istat. Il 51% delle piccole imprese con attività innovative sviluppa nuovi prodotti e anche processi, puntando anche su innovazioni organizzative o di marketing: +7,5% nel triennio 2014-2016. Non solo, sempre le piccole attività con taglio innovativo ritagliano un investimento per addetto pari a 8.900 euro. Le dimensioni insomma non scoraggiano, anzi. La spesa per innovazione per addetto di una piccola impresa supera del 15,6% quella delle grandi. Soprattutto per macchinari, attrezzature, software e fabbricati finalizzati all’innovazione. Filipelli induce però a fare attenzione. E cita anche due recenti articoli del “Corriere Innovazione” che fanno esplodere la contraddizione. Nel primo, emerge la preoccupazione che – dopo l’acquisto delle macchine con Industria 4.0 – si compia un passo indietro, anche per la mancanza di tecnici. Il secondo dà invece una medaglia inattesa all’Italia. Di qui la sintesi di Filipelli: «Da un lato siamo manifattura 3.5, dall’altro ci stupiamo di essere in quinta posizione tra i Paesi Ocse. Quello che appare chiaro è che due anni di investimenti in manifattura 4.0 non sono di fatto correlati ai veri risultati di innovazione che otteniamo in Italia». Oggi le piccole attività stanno spendendo molto – prosegue – «e vedo cose molto interessanti e tentativi low cost, come se non avessero mai perso la capacità di fare le startup». Uno specchio dei tempi (innovativi) è il Salone del Mobile di Milano. Gli arredi connessi non sono futuro, bensì presente conclamato, con l’in-

novazione che fiorisce con il design: «Qui – rileva Filipelli – c’è la voglia di fare. L’ecosistema, proprio dell’esperienza dei distretti, è quello dove ognuno dà il meglio di sé». Così – ricorda – quando il presidente Mattarella ha visitato il Salone, tra gli stand è andato a colpo sicuro in quello di Tecno, che ha due caratteristiche. Da una parte, aver puntato su io.T, un sistema intelligente di arredi connessi ed integrabili a sistemi informativi, device, hub. Questo per offrire informazioni e soluzioni in real time ai proprietari e gestori degli smart building e agli utilizzatori finali. Dall’altra l’acquisizione di Zanotta, quindi l’ecosistema appunto.

Qualche consiglio, dunque: l’analisi del core business è fondamentale, prima di investire sull’innovazione, come in ogni altra decisione cruciale dell’azienda. Ma non basta. Altro requisito speciale? «L’umiltà – assicura Filipelli – A partire da quella di capire che qualcuno anche da fuori può avere un quid in più, quello che ti permette di fare l’investimento giusto». Occhio dunque a un atteggiamento diffuso: faccio tutto io, so già io. Conseguenza naturale, l’ecosistema di cui già parlava: «Bisogna crearne per poter evolvere insieme». Piccoli? Nessun problema. Ma isolati, no. E per questa partita non c’entra l’età, ma l’atteggiamento: «Tantissime persone sanno identificare l’attaccante e il difensore in campo. Quante che hanno fatto impresa per molti anni, avrebbero fiuto per capire buone idee e creare associazioni». Altra avvertenza: non cercare alibi, neanche nella disponibilità economica appunto. «C’è un software che gira il video di una stanza, la mappa nel Cad e io posso trasformare in pezzetti di Lego il mobilio del locale, compresi i colori – racconta – Immaginate che cosa può fare un mobiliere di Lissone con gli occhiali della realtà virtuale. Costo? Duecento euro. Non serve andare nelle banche a prendere cinque milioni… Le idee ci vengono regolarmente, come italiani. Non blocchiamole». Insomma, non bisogna per forza anticipare un capitale pazzesco. Ma avere l’idea per spendere il giusto, programmandolo. imprese e territorio | 21


FOCUSinchieste

TROPPE SPECULAZIONI LA VERA I4.0 È

Matteo Suma - responsabile della Business Unit di Abb a Ossuccio

SERVIZIO

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Vendere la digitalizzazione non vuol dire vendere ciò che si ha, ma iniziare ad ascoltare il cliente e costruire con lui la soluzione. Difficile trovare un’azienda che abbia tutto, ma creare una partnership è possibile

Nessun timore, nessuna superbia. La piccola impresa può cogliere l’onda rigenerante della digitalizzazione. Ne è persuaso Matteo Suma, responsabile della Business Unit di Abb a Ossuccio. Un gruppo leader tecnologico all’avanguardia nelle reti elettriche, nei prodotti per l’elettrificazione, nell’automazione industriale, nella robotica e nel controllo di movimento: oggi serve clienti molto vari, nelle utility, nell’industria, nei trasporti e nelle infrastrutture a livello globale. Parliamo di una big, che opera in oltre 100 Paesi con 147mila dipendenti. Come vede le piccole aziende? Sulla via di una retta digitalizzazione o disorientate, anche di fronte all’offerta? «Oggi si specula molto sull’impresa 4.0 – afferma Suma – E soprattutto si è molto orientati a pensare che sia legata ai prodotti, mentre bisognerebbe riferirsi a un concetto di servizio. In questo senso siamo riusciti ad aggiudicarci contratti nel mondo delle multiutilities, con il servizio orientato al cliente, quasi al consumatore finale. Invece nel business to business si è più legati ai finanziamenti produttivi e all’ottimizzazione dei processi. Non c’è un link diretto al cliente finale». Qual è la richiesta più forte in questa fase? «Quello che stiamo osservando – spiega – dalle Pmi è che vogliono i sensori attorno ai quali costruiscono il prodotto». Ciò comporta poca standardizzazione, fenomeno molto italiano. Tuttavia, le Pmi in questo momento possono giocare un ruolo più incisivo, strategico: merito della loro flessibilità e velocità, sottolinea Su-


inchieste

ma. Ma c’è un altro elemento, già messo in luce da Microsoft, che emerge.

FONDAMENTALE NELLE PMI È FARE ATTENZIONE AL TALENTO IN CASA, CHE MAGARI HA UNA PASSIONE E UNA COMPETENZA CAPACI DI FARE LA DIFFERENZA IN AZIENDA

La valorizzazione passa dall’unire le forze: «Vi facciamo un esempio, nel settore dell’acqua – ricostruisce il manager – riscontriamo fenomeni di raggruppamenti di aziende medie e piccole, dal controllo delle perdite alla valorizzazione delle acque reflue. Queste realtà hanno già una soluzione integrata e cercano prodotti con accuratezza per poter misurare dati e integrarne con altri. Casi molto innovativi». E qui si fa strada un’altra considerazione: «Vendere la digitalizzazione non vuol dire vendere ciò che si ha, ma iniziare ad ascoltare il cliente e costruire con lui la soluzione. Difficile trovare un’azienda che abbia tutto, ma creare una partnership sì». In Veneto molto si sta muovendo in questa direzione, in Lombardia un esempio forte riguarda appunto il settore del water. Quello della digitalizzazione è però un incontro e richiede due requisiti. Dall’azienda: «Il cliente deve aprirsi e parlarmi dei suoi problemi. Facciamo ancora l’esempio dell’acqua. Andare da un cliente e dire che ha delle perdite nel sistema di distribuzione non è facile. Occorre creare un rapporto di intimità e fiducia tra cliente e fornitore». Bisogna poi uscire dalla logica del prodotto, come si accennava, e in questo ci sono dei maestri pronti: «I giovani. Occorre avere il coraggio

di ascoltarli, loro hanno una visione fuori dagli schemi. Mi indicano dov’è il trend, quindi il futuro».

Anche a Suma chiediamo due errori da non commettere: «Due grandissimi. Il primo, avere paura di non approcciarsi a un discorso digitale. Della serie, non affronto il problema perché non mi sento preparato. Se non conoscete l’argomento, parlatene cercando di capire». E l’altro? «Quello opposto – risponde – diventare cioè saccenti. Così si arriva a vendere quello che nella realtà non si ha: ci sono anche multinazionali che si sono lanciate per prime nel mondo del digitale e poi hanno perso il ruolo». Secondo Suma, ancora una volta, l’ascolto è la via. E partendo dalla propria azienda, dove si possono scoprire dei talenti insospettabili in materia. «Noi stiamo lanciando un progetto con l’obiettivo di analizzare le competenze digitali – spiega – Dalla nostra analisi sugli operai in fabbrica, ci sono quelli che usano la stampante 3D o sanno programmare i droni. Oggi sono i nostri operai, domani quelli con simili caratteristiche possono essere i nostri driver». Insomma, anche nelle piccole imprese occhio al talento in casa, che magari fuori dalle mura dello stabilimento ha una passione e una competenza capaci di fare la differenza in azienda: bisogna saperla intercettare. Ma. Lu. imprese e territorio | 23


approfondimenti

NUOVE ALLEANZE TRA PMI E RICERCA

PROVIAM EMANUEL DI MARCO

L’intelligenza artificiale? Esiste la possibilità di inserirne alcuni aspetti nel ciclo d’impresa, come i task specializzati, un ambiente misto nel quale le macchine possano svolgere singoli compiti in maniera performante, lasciando curare all’umano la componente più creativa

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«L’avvenire è la porta, il passato ne è la chiave». È mutuando le parole di Victor Hugo che possiamo meglio comprendere la valenza che l’Intelligenza Artificiale può assumere per le piccole e medie imprese. Un vero e proprio nuovo boom tecnologico, che attraverso un’accelerazione impressa nel corso degli ultimi anni si pone all’attenzione non più dei soli addetti ai lavori, ma della comunità nel suo complesso. Tecnologie all’avanguardia, sì, ma con applicazioni pratiche. In passato impensabili, relegate semmai a visioni cinematografiche che non è certo la prima volta - hanno assunto nel tempo i caratteri della realtà. È tuttavia impossibile, per le realtà piccole e medie, non avere sullo sfondo un valore imprescindibile: l’esperienza. Che, oggi come in passato, fa rima con creatività. «Imprese e ricerca devo stringere un’alleanza - sottolinea Piero Poccianti, presiden-

te dell’Associazione Italiana per l’Intelligenza Artificiale (AI*IA) - perché è solo agendo in sinergia che possiamo dare un futuro reale a queste nuove tecnologie». Ma a che punto siamo, oggi? «I grandi successi attuali, in questo campo, riguardano un elemento in particolare, che è quello della percezione. Le macchine, finora, sono state in grado di fare ragionamenti logici e anche di sviluppare attività di planning. Ma la capacità di riconoscere oggetti, parlato e pattern era ancora scarsa. Ci aspettiamo grandi risultati su questo fronte, ma ci troviamo dinanzi a problemi rilevanti, come la spiegabilità di determinate azioni». Semplificando, risulta ancora difficile chiedere alla macchina di spiegare il perché di una precisa operazione. «Ma stiamo iniziando ad avere macchine capaci di comprendere il parlato, pensiamo agli assistenti virtuali presenti anche sugli smartphone, oppure in grado di riconoscere l’espressione del volto o di capire


Piero Poccianti approfondimenti presidente dell’Associazione Italiana per l’Intelligenza Artificiale

MOCI le emozioni. Esistono tuttavia dei limiti, siamo lontani dalla cosiddetta Artificial general intelligence. Vi sono macchine che superano le capacità dell’uomo, ma solo limitatamente a un determinato compito». Sul fronte delle piccole e medie imprese, la parola ad Amedeo Cesta, già presidente dell’Associazione oltre che ricercatore per il Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr): «Esiste la possibilità di inserire alcuni aspetti legati all’Intelligenza Artificiale nel ciclo d’impresa, per migliorare specifiche prestazioni. Penso a task specializzati, un ambiente misto nel quale le macchina possano svolgere singoli compiti in maniera altamente performante, lasciando curare all’umano la componente più creativa, che è poi una carattere distintivo dell’artigianalità».

«Dieci anni fa - racconta Poccianti - un fornaio londinese mise in piedi un sistema, rudimentale, che lo aiutava a predire quanto pane avrebbe venduto in giornata. Pensiamo al tema del deperimento del cibo: si tratta di un contributo per nulla banale. Un sistema di IA, per esempio, potrebbe operare in supporto a particolari decisioni. Per essere però realmente utile a un’impresa, è bene che un sistema simile possa esaminare variabili come la stagionalità, la presenza di festività, le condizioni meteo. Per creare il sistema adatto a determinate categorie di operatori, insomma, sarebbe importante stringere alleanze con le associazioni di categoria». Ancora sull’aspetto creativo: «Porre sul medesimo piano macchina e creatività può apparire un ossimoro, in realtà oggi

disponiamo di strumenti che creano musica, che dipingono... se sono contrario a definirli artisti, in quanto attualmente si tratta di macchine che mescolano stili di pittori esistenti, ma si tratta di tecnologie che, se messe a frutto, possono condurci lontano».

L’Intelligenza Artificiale può altresì fornire un contributo in materia di marketing e di profilazione dell’utenza. «La piccola impresa, che non può magari permettersi un contratto con specialisti del settore, potrebbe ottenere giovamento da uno strumento che gli consenta di comprendere meglio la nicchia di mercato in cui operare. Potrebbe essere interessante studiare servizi centralizzati di IA per le aziende, consentendo a ogni singolo attore di preservare il proprio know-how creativo». Si sente spesso affermare che l’avvento di nuove tecnologie possa condurre verso un aumento della disoccupazione. È così? «Osservato le precedenti rivoluzioni industriali - spiega Poccianti - si possono notare cambiamenti, sì, ma anche un miglioramento delle condizioni dei lavoratori. Il futuro dipende da noi: è chiaro che le macchine potranno svolgere lavori oggi in capo agli uomini, ma questi ultimi avranno la possibilità di fare altro, magari dedicandosi a progetti creativi. Si tratta di capire in quale direzione vogliamo indirizzare la nostra economia». Il futuro, quindi, è una splendida strada da varcare. E la chiave giusta ha nomi ben precisi: artigianalità, competenza, passione.

Amedeo Cesta ricercatore per il Consiglio nazionale delle ricerche

OGGI SUPERIAMO

LIMITI IMPENSATI L’Associazione Italiana per l’Intelligenza Artificiale promuove dal 1988 lo studio e la ricerca sull’IA e coordina l’attività del settore in Italia. La mission primaria è quella di accrescere la conoscenza dell’Intelligenza Artificiale, incoraggiarne l’insegnamento e promuovere la ricerca teorica e applicata nel campo attraverso seminari, iniziative mirate e sponsorizzazione di eventi. L’AI*IA è inoltre membro della European Association for Artificial Intelligence EurAI (precedentemente ECCAI), fondata nel 1982. «L’Intelligenza Artificiale - sottolinea Piero Poccianti - nasce come denominazione nel 1956, e i primi embrioni dell’IA moderna sono addirittura datati 1943. Nel corso dei decenni abbiamo assistito a diversi momenti caratterizzati da un grande entusiasmo, seguiti da fasi di disillusione. Oggi stiamo vivendo un periodo senza dubbio positivo legato alle reti neurali, che stanno superando i limiti ai quali ci eravamo abituati». imprese e territorio | 25


Focus approfondimenti

IL

ROBOT DEL

PIACE ALL’IMPRESA MA RESTA L’INCOGNITA SUL FUTURO

LAVORO 26 | imprese e territorio


Focus approfondimenti

È l’ignoto che spaventa di più. Le aziende che già hanno fatto esperienza di robot, sono molto più tranquille a proposito del loro impatto, mentre chi è indietro, nutre maggiori sospetti. Questa la diagnosi della recente indagine Doxa sull’automazione in Italia e sulle reazioni che desta. Un dato preliminare è che per l’89% delle aziende i robot e l’intelligenza artificiale non potranno mai sostituire in toto il lavoro delle persone. Piuttosto, sapranno migliorare la loro vita. L’altra faccia della medaglia è che un rischio concreto per alcuni lavori esiste: quelli manuali e a basso contenuto professionale. Sono appunto dati nel primo rapporto Aidp-Lablow 2018 elaborato da Doxa su robot, IA e lavoro in Italia. La rivoluzione 4.0, quindi, avanza tra speranze e sospetti. Il 61% delle aziende italiane è pronto a introdurre sistemi di intelligenza artificiale e robot nelle proprie organizzazioni, afferma l’indagine. Soltanto l’11% si dichiara totalmente contrario. Diverse le ragioni di chi spinge per il sì: la convinzione che il loro utilizzo renda il lavoro delle persone meno faticoso e più sicuro (93%), accresca l’efficienza e la produttività (90%) e abbia portato a scoperte e risultati un tempo impensabili (85%). Guardando al futuro, vince la persuasione che l’intelligenza artificiale permetterà di creare ruoli, funzioni e posizioni lavorative che prima non esistevano (77%). Ancora, saprà stimolare lo sviluppo di nuove competenze e professionalità (77%) e consentirà alle persone di lavorare meno e meglio (76%). Come si anticipava, l’apprensione c’è: sui lavori meno qualificati. Chi è meno scolariz-

zato e qualificato, corre maggiori pericoli: quindi la visione di un calo di posti c’è, per il 75% degli intervistati. Lavorare con un automa però non è male, ripercorrendo l’esperienza. Per il 56% delle aziende l’impiego di queste tecnologie è stato a supporto delle persone: un’estensione delle attività umane e non una loro sostituzione. Di più: per il 33%, questi sistemi sono stati impiegati per svolgere attività nuove mai realizzate in precedenza. Per il 42% delle aziende, hanno sostituito mansioni prima svolte dai dipendenti.

L’ATTEGGIAMENTO DA PARTE DELLE AZIENDE ROBOTIZZATE È PIÙ POSITIVO RISPETTO ALLE ALTRE: CHI NON HA INNOVATO TENDE A SOVRASTIMARE LE CONSEGUENZE NEGATIVE Quali sono i vantaggi testimoniati da chi lavora nelle aziende? L’intelligenza artificiale e i robot – è la tesi – migliorano molti aspetti del lavoro dipendente perché «favoriscono una maggiore flessibilità dell’orario di lavoro in entrata e in uscita (38%), la riorganizzazione degli spazi di lavoro/uffici (35%), la promozione di servizi di benessere e welfare per i lavoratori (31%), il lavoro a distanza e lo smart working (26%) e, addirittura, la riduzione dell’orario di lavoro (22%)». Ecco che il rapporto evidenzia la distanza

tra chi deve affrontare l’ignoto e chi già ci naviga. Va ricordato che impresa 4.0 è un’espressione maturata in Germania, ma che ci sono aziende artigiane italiane che hanno macchinari in azione la notte, ad esempio, senza controllo umano, da anni. L’atteggiamento da parte delle aziende robotizzate è più positivo (75%), rispetto alle altre (47%). Infatti, le imprese che non hanno introdotto sistemi di robot e intelligenza artificiale tendono a sovrastimare – si afferma – le conseguenze negative che l’esperienza sul campo delle aziende robotizzate smentisce con i fatti. E questo suscita una riflessione a commento dell’indagine, da parte di Isabella Covilli Faggioli, presidente di Aidp (Associazione italiana per la direzione del personale): «I risultati della ricerca fanno capire che la digitalizzazione non è mai solo una questione tecnologica ma strategica. Nulla succede se le persone non lo fanno accadere. Sono le persone a fare la differenza, sempre e comunque, ottimizzando le innovazioni e dando loro il ruolo che hanno, un ruolo di supporto e di miglioramento della qualità della vita di ognuno di noi. Sono tre secoli che il rapporto uomo-macchina è complicato perché basato sulla paura. Paura che le macchine, in questo caso i robot, possano sostituire le persone. Mentre si è poi sempre verificato – conclude – il contrario, ovvero un miglioramento della qualità della vita dei singoli e, ancora, la creazione di nuove professionalità». Questo porta a guardare in modo differente alla nuova corrente tecnologica, anche dal punto di vista di nuove relazioni industriali. Questo comporterà anche un approccio che va oltre la dimensione aziendale e l’orario di lavoro. Ma. Lu. imprese e territorio | 27


focus approfondimenti

AVREMO UNA VITA

LA COMUNICAZIONE È CRUCIALE: IL PROGRESSO, SE METTE IN DUBBIO VISIONI E PERCORSI STRUTTURATI, PUÒ SPAVENTARE, COME PUÒ SPAVENTARE LA PERDITA DI POSTI DI LAVORO

PIÙ COMODA MA SARÀ PER TUTTI?

Dopo il caso della driverless car di Uber, sono molti gli interrogativi sull’evoluzione dell’Intelligenza Artificiale Ha fatto scalpore il caso della prima vittima sulla strada di una “driverless car”, la sperimentazione di Uber di un’automobile senza conducente. A Tempe, in Florida, il suv Volvo di Uber, con a bordo un autista deputato ad assumere i comandi in caso di problemi, non è riuscito a evitare l’impatto con una donna che si era improvvisamente messa ad attraversare la strada nel buio della notte. E subito il dibattito sui rischi delle “auto-robot” si è acceso. In merito all’episodio Antonio Sileo, research fellow presso l’Iefe dell’università Bocconi e direttore dell’Osservatorio sull’innovazione energetica dell’Istituto per la Competitività (I-Com), ha ricordato che «le auto autonome in futuro saranno comunque più sicure di un conducente attento». E non solo. 28 | imprese e territorio

C’è il rischio che l’emotività del caso della Florida possa frenare la sperimentazione? La perdita di una vita umana è un fatto grave che non può lasciare indifferenti; innanzitutto i politici che devono dar conto a opinioni pubbliche senza dubbio non insensibili all’emotività. Tuttavia, andrebbe chiarito che l’obiettivo sociale da perseguire è avere il minor numero possibile di vittime nelle strade. Questo obiettivo può includere la cosiddetta guida autonoma, ma non credo quest’ultima sia un fine quanto piuttosto un mezzo. Bisogna poi anche tener conto che sulla guida autonoma, come sull’intelligenza artificiale e sull’apprendimento automatico, in parecchi, negli Stati Uniti in particolare, sembrano molto propensi a investire o scommettere.

Già oggi, e sempre più in futuro, l’intelligenza artificiale controllerà molti macchinari, ma anche strumenti della vita quotidiana. Vede più opportunità che rischi? È un tema ampio e piuttosto complesso. Già la locuzione “intelligenza artificiale”, oggi molto di moda, può voler dire molte cose. Nel suo significato proprio si tratta di una macchina in grado di pensare, una macchina in grado di superare il test elaborato da Alan Turing già nel 1950, vale a dire interagire, comportarsi come un essere umano. Una macchina come HAL 9000, il celebre Supercomputer di “2001: Odissea nello spazio”, capace di governare l’astronave Discovery, giocare a scacchi con gli astronauti e molte altre cose contemporaneamente. Con l’aumento delle potenze di calcolo e della digitalizzazione, il ruolo delle macchine


è destinato inevitabilmente ad aumentare tanto che davvero si andrà verso un mondo nuovo. Semplificando, potremmo dire che ci aspetta una vita più comoda: la vera sfida sarà che di questa migliore qualità della vita beneficino il maggior numero di individui. C’è un tema di come comunicare correttamente all’opinione pubblica gli effetti e le opportunità di queste innovazioni tecnologiche per evitare che si diffondano allarmismi che possano mettere a rischio il progresso tecnologico? Sicuramente, quello della comunicazione è un aspetto cruciale: il progresso, specie se mette in dubbio visioni e percorsi che ci si era immaginati, può spaventare, come può spaventare la perdita di posti di lavoro per l’arrivo delle macchine. Come dimostra la

proposta di introdurre una tassa sui robot, arrivata addirittura da Bill Gates, fino ad ora le innovazioni tecnologiche hanno contribuito non poco a portare (in media) a ogni generazione un tenore di vita superiore a quello della generazione precedente. Oggi, come del resto è sempre stato, è difficile prevedere come sarà l’evoluzione tecnologica e quindi il domani. Sappiamo, però, che la tecnologia o meglio il suo utilizzo – immediato l’esempio del coltello – può essere buono o cattivo, ma questo dipende dall’uomo e dipenderà da esso ancora per un bel po’ di tempo. Sta a noi darci le giuste regole per il futuro e anche gli adeguati strumenti per non arrivarci da sprovveduti. L’attenzione crescente, però, che viene posta sui temi dell’innovazione, è proprio il primo passo per comprenderli. A. Ali.

L’UTILIZZO DELLA TECNOLOGIA PUÒ ESSERE BUONO O CATTIVO, DIPENDE DALL’UOMO E DIPENDERÀ DA ESSO ANCORA PER UN BEL PO’ DI TEMPO. STA A NOI DARCI LE GIUSTE REGOLE

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FOCUSapprofondimenti

CINQUE CITTÀ

E LE AZIONI PER SEMPLIFICARE

VARESE

BUSTO ARSIZIO

Pratiche veloci e aree dismesse “facili”

Un Manifesto e meno burocrazia

A favore delle Pmi, a Varese si sta svolgendo «un lavoro costante per velocizzare e sburocratizzare i processi – dice Davide Galimberti, sindaco del capoluogo – che, in questi due anni di amministrazione, sta intervenendo in diversi settori determinanti per lo sviluppo e la crescita di una città. A partire dalle oltre 146 pratiche edilizie ferme da anni, di cui un terzo è già stato smaltito, mentre il resto sarà evaso entro marzo 2019». E ancora, «con la riduzione per tutto il 2018 dell’80% sulla perequazione per la rigenerazione e riutilizzo di spazi abbandonati. Una manovra che ha accelerato l’inizio di interventi di riqualificazione fermi ormai da decenni. Un esempio è l’avvio dell’intervento di abbattimento e riqualificazione dell’ex segheria di via Carcano o di un edificio in viale Borri». 30 | imprese e territorio

A Busto Arsizio, storica patria della produzione del Varesotto, le azioni avviate a favore della sburocratizzazione nei confronti delle Pmi hanno riguardato, per esempio, «la promozione della Scrivania telematica – dice il sindaco Emanuele Antonelli – e della corretta alimentazione del Fascicolo informatico d’impresa, attraverso la chiusura positiva di più dell’80% delle pratiche». «Inoltre, stiamo portando avanti il “Manifesto per Busto”, con cui il Comune si impegna a interventi di semplificazione, di incentivazione economica e fiscale, come l’esenzione della Tari per il primo anno e successive riduzioni per i primi cinque anni di vita dell’azienda, di promozione delle opportunità localizzative e di assistenza all’investitore».


Un totem-consulente gratuito per chi vuole aprire un’azienda e tasse al minimo per le piccole e medie imprese. Sono le due principali azioni messe in campo durante il mandato del sindaco di Gallarate Andrea Cassani. L’ultima in ordine temporale è, fra l’altro, ideata assieme a Confartigianato imprese Varese: «Abbiamo posizionato in un municipio – dice il primo cittadino – un totem che, per un anno, permetterà a chi vuole aprire un’azienda a Gallarate di ricevere gratuitamente tutte le informazioni necessarie». Inoltre si è agito sulla leva fiscale: «La Tari per le pmi – aggiunge Cassani – è stata ridotta al minimo, mentre per la grande distribuzione organizzata, le banche e le sale slot è stata porta al massimo».

Spesso per aprire un’impresa uno degli scogli più duri da superare riguarda l’urbanistica. Tomi di leggi che, spesso, confliggono fra loro, con il risultato di avere tante carte da preparare, rivedere, ripresentare. E così a Saronno hanno pensato di «standardizzare quanto più possibile – afferma il sindaco Alessandro Fagioli – in una serie di linee guida, le normative nazionali e regionali. In questo modo sarà molto più semplice interpretare le leggi, affinché gli interessati possano interloquire al meglio con gli uffici comunali. Un secondo provvedimento che realizzeremo a breve riguarda l’apertura di uno sportello di consulenza per i bandi, dedicato alle piccole partite Iva che faticano ad accedere a queste linee pubbliche di finanziamento».

Luino, città di frontiera dalle radici industriali, ha affrontato la crisi con costanza e determinazione, attraverso politiche di internazionalizzazione delle aziende, affermando alcuni marchi locali nel mercato globale. «Dal punto di vista burocratico – dice il sindaco Andrea Pellicini – abbiamo ridotto al minimo l’incidenza degli oneri di urbanizzazione per le attività produttive e turistico-ricettive». «Quindi abbiamo unificato il Suap e il Sue, che fanno capo al medesimo settore». «La scorsa estate, inoltre, abbiamo collaborato con Confartigianato e appoggiato il disegno di legge “aree di confine” per agevolare l’abbattimento del cuneo fiscale, oltre a partecipare all’Officina delle Idee».

GALLARATE

SARONNO

LUINO

Totem-consulente e mini tasse

Norme standard e uno sportello bandi

Meno oneri e “Aree di Confine”

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FOCUSAPPROfondimenti

MILANO LA CAPITALE DELLE SMART CITIES È DALLA PARTE DELLE IMPRESE

Marco Granelli - assessore alla mobilità del Comune di Milano

DAVIDE IELMINI

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Quando la mobilità si fa sostenibile e innovativa? L’assessore Granelli: «Alleggerendosi dei costi di manutenzione del parco macchine, l’azienda darà ai suoi collaboratori un’apprezzabile forma di welfare»

Nell’era della condivisione tutto può essere condiviso: gli attrezzi di un’officina e i suoi spazi, un ufficio ma anche un progetto, un diritto d’autore. Un’auto o una bicicletta. Le smart cities fanno della condivisione – efficiente e innovativa – un must: per il futuro, che non è poi così lontano, ma soprattutto per il presente. Milano è una città che, sotto questo punto di vista, si dimostra non solo curiosa ma anche operosa. Nel 2018, per il quinto anno consecutivo, si è aggiudicata il primo posto nell’ICity Rate, l’indicatore che analizza 107 Comuni capoluogo italiani impegnati in tutto quello che è smart. Per intenderci una città a misura d’uomo che sia sostenibile, sempre più vivibile, migliorabile. Green. La corona di “prima Smart City italiana”, però, Milano non la considera tanto un riconoscimento quanto uno stimolo ad insistere su una via che, secondo l’assessore alla mobilità del Comune Marco Granelli, «abbina i punti di forza dei modelli di Lione, Monaco di Baviera e Helsinki. Tre capitali europee all’avanguardia su trasporto pubblico e mobility service. Non solo per i cittadini ma anche per la movimentazione delle merci». Tre modelli che fanno leva – e questo è il progetto che si sta realizzando nel capoluogo lombardo – sulla diminuzione del traffico sulle strade urbane attraverso l’incentivazione dei mezzi pubblici, l’utilizzo dei trasporti eco-friendly (non solo car e bike sharing ma anche ferrovie regionali e metropolitane ad alta frequenza), l’acquisto di auto elettriche, il Park&Ride e il Bike&Ride. Per poter arrivare ad una “mobilità on demand” che, per esempio, entro il 2025 porterà nella città di Helsinki un


UN PROGETTO CHE POTREBBE CAMBIARE GLI SCENARI È IL CARGO SHARING: DA UN LATO LA ROTTAMAZIONE DEI MEZZI INQUINANTI E DALL’ALTRO – CON ENJOY – IL SERVIZIO CARGO

sistema integrato a pagamento di auto private e trasporto pubblico. Partendo dall’analisi della figura del “mobility manager”, il Comune di Milano è arrivato ad altro: «Con un protocollo sottoscritto con le rappresentanze imprenditoriali – ricorda Granelli – le imprese metteranno a disposizione dei loro collaboratori gli strumenti di mobilità tipici delle smart cities: dal car sharing alla condivisione di scooter o bici. Attraverso un contratto con la società che gestisce lo sharing, i dipendenti potranno utilizzare i mezzi non solo per gli impegni di lavoro ma anche per i tragitti casa-lavoro. Così la mobilità si fa sostenibile e innovativa: alleggerendosi dei costi di manutenzione del parco macchine, l’azienda darà ai suoi collaboratori anche un’apprezzabile forma di welfare». Il trasporto pubblico è un altro anello forte della catena “smart”. È per questo che le facilitazioni legate agli abbonamenti stanno assumendo grande importanza. «La finanziaria dello scorso anno – prosegue l’assessore – ha inserito la possibilità per le imprese di detrarre gli abbonamenti dalle tasse. Il Comune ha così realizzato alcuni pacchetti con sconti che vanno dal 10 al 20% a vantaggio dei loro dipendenti». Ma c’è di più: «Anche a Milano si sta ragionando sull’integrazione dei servizi: per esempio con buoni mobilità da utilizzare sia per il trasporto pubblico che per lo sharing. In base all’utilizzo che ne faccio, il gestore del servizio è in grado di individuare il servizio migliore che fa per me». Flussi, congestionamento, inquinamento, incremento demografico e iperurbanizzazione sono i problemi aperti delle città del XXI secolo. Temi dibattuti che pongono al centro dell’attenzione la persona e, come sua naturale conseguenza, il lavoro. Da qui la sperimentazione del Co-

mune di Milano del cargo sharing: «Un progetto che potrebbe cambiare gli scenari – interviene ancora Granelli – Da un lato i contributi (sul piatto ci sono 6 milioni di euro) a favore delle piccole imprese per la rottamazione dei mezzi inquinanti e l’acquisto di quelli Gpl, ibridi, elettrici e dall’altro – con la società Enjoy – il servizio Cargo. Che permette ai piccoli imprenditori di avere a loro disposizione un mezzo per poter raggiungere anche quelle zone interessate dalle misure anti-inquinamento». Il funzionamento di Enjoy Cargo, questo il nome del servizio, è semplice: il proprio mezzo viene lasciato nelle aree coperte dal servizio e se ne “adotta” uno a propulsione tradizionale o bi-fuel che, probabilmente, nel prossimo futuro potrà anche essere elettrico. La gestione del servizio avviene tramite App». L’elettrico, insomma, è la nuova frontiera, ma in caso di low battery? L’eventualità di una batteria un po’ scarica non è così remota, ma l’importante è non farsi prendere dal panico. Il Comune di Milano ha pensato anche a questo: «Lo chiamano “biberonaggio” – conclude l’assessore – ed è una ricarica che due carri-gru possono portare ovunque sul territorio del comune per poter far ripartire la macchina o il furgoncino elettrici. Al servizio è possibile abbonarsi (con una App si può ricaricare automaticamente il veicolo) e, inoltre, si possono sincronizzare i tempi: mentre un piccolo imprenditore sta terminando il proprio lavoro (penso ad un impiantista idraulico o ad un elettricista), si rigenera la batteria. In questo caso non è lui a dover raggiungere le colonnine per la ricarica (anche se a Milano ce ne saranno sempre di più), ma è la colonnina ad andare da lui». imprese e territorio | 33


approfondimenti

REGIONE LOMBARDIA E I PIANI

SU MISURA LAVORIAMO SULLE IMPRESE E RIPARTIAMO DALLE PMI

Alessandro Mattinzoli - assessore allo Sviluppo Economico di Regione Lombardia

ANDREA ALIVERTI

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Artigianato, la doppia sfida di Regione Lombardia: «Europa e competitività». A tracciare la linea per un nuovo “round” di confronto con il sistema economico lombardo per il 2019 è l’assessore regionale allo Sviluppo Economico Alessandro Mattinzoli che coglie la palla al balzo per ribadire come «la persona debba sempre essere sempre al centro e che questo è fondamentale e non c’è un’altra via». E riflette a proposito di politiche che siano attuate su misura del tessuto economico lombardo, composto perlopiù da piccole e medie imprese. Assessore, in questo senso la piccola e media impresa è un modello a cui fare riferimento? Penso che sia fondamentale nell’impresa mettere la persona al centro, perché dietro a un’impresa ci sono le persone, le relazioni, un territorio. In una fase come questa di totale rivoluzione nel sistema econo-

mico, non si può pensare che non sia necessaria anche una rivoluzione nel sistema sociale. Cosa può fare Regione Lombardia di fronte a questo scenario? Regione Lombardia ha di fronte due sfide importanti: la prima è quella europea, della programmazione comunitaria, in cui è fondamentale che vengano considerate anche le caratteristiche del nostro tessuto socio-economico, e la seconda è quella del confronto, della creazione di tavoli operativi per il confronto con i corpi intermedi, come quello dedicato alla competitività. In merito alla sfida europea che cosa si aspetta in particolare per le piccole imprese? La prima sfida, come dicevo, è quella della Programmazione Comunitaria di lungo periodo riferita al Settennato che va dal 2021 al 2027, e che ci vede in dovere di crea-


L’INNOVAZIONE DEVE ESSERE ACCOMPAGNATA SEMPRE DALLA TRADIZIONE, CHE DOBBIAMO USARE PER DIVENTARE INNOVATIVI CON LA CREATIVITÀ DI SEMPRE

re le condizioni per far sì che bandi e incentivi abbiano una connotazione che corrisponda, ritagliati come un vestito su misura, a quello che è il nostro tessuto sociale e economico. Un tessuto che è basato sulla piccola e media impresa: questa è una partita fondamentale e su questo Regione Lombardia sta lavorando molto.

are tavoli operativi e di confronto come quello della competitività, e che siano veramente operativi, perché credo che il dialogo con i corpi intermedi sia assolutamente fondamentale. Essi ci forniscono i dati necessari per applicare le nostre misure che meglio si adattano ad una situazione che subisce una continua evoluzione.

Dalla seconda sfida, quella del confronto con i corpi intermedi, cosa si attende invece? C’è un impegno di programmazione 2019 con il sistema Camerale che ritengo stia producendo dei risultati interessanti e importanti perché lo stesso ente è la “casa dell’impresa”, dove poi trovare, con il confronto, risposte. Abbiamo la volontà di cre-

Si parla molto del tema dell’innovazione, sempre più necessaria per la piccola e media impresa... Credo che l’innovazione debba esser accompagnata sempre dalla tradizione. Noi non dobbiamo dimenticarci della tradizione, e dobbiamo usarla per diventare innovativi con la nostra genialità e creatività, con il nostro artigianato, per vincere le sfi-

de che stanno arrivando. Come Regione Lombardia dobbiamo creare le condizioni per creare un tessuto economico e sociale sano e di conseguenza un’impresa in salute che sia in grado di cogliere queste sfide e opportunità. Continuerete a veicolare le opportunità per le piccole e medie imprese attraverso lo strumento dei bandi, utilizzato più di frequente? Ci sono alcuni bandi che funzionano. E se occorre fare dei cambiamenti, c’è bisogno di essere rapidi per capire quali siano le nuove forme di bando, di incentivi, di misure, di accesso al credito, che possono essere utili per sostenere il nostro sistema imprenditoriale. imprese e territorio | 35


LE RADICI CURANO

LA FIDUCIA

E rigenerano la società

«La fiducia? È il lubrificante del sistema sociale, ma si consuma facilmente». E le imprese artigiane, che «hanno il vantaggio della prossimità», sono un luogo privilegiato per la creazione di fiducia. Concetti espressi da Vittorio Pelligra, PhD, professore associato in economia all’Università di Cagliari, dove ha anche l’incarico di delegato del Rettore per la cooperazione e lo sviluppo del Dipartimento di Economics and Business dell’ateneo e del Berg, Behavioural Economics Research Group, in cui i comportamenti economici vengono studiati attraverso il dialogo con la psicologia cognitiva e le neuroscienze. Il futuro è davvero perduto? Da accademici, le nostre domande di ricerca sono: è possibile invertire la tendenza? Come reagire a questa logica tragica? Una risposta è che bisogna avere cura delle radici. È nelle radici che ha luogo il processo di rigenerazione della fiducia e, dunque, della nostra società. 36 | imprese e territorio

Lei parla di reputazione, reciprocità, gratuità, team thinking, minoranze profetiche, come elementi che le nostre istituzioni dovrebbero avere e come leve per una nuova antropologia. Ma in questo momento è proprio la fiducia uno dei problemi del nostro tempo. Come mai siamo arrivati a questo punto? Partiamo da una premessa: è la fiducia a rendere migliori le persone. E da un dato fondamentale, che unisce la presenza di un clima di fiducia con quella di un ecosistema nel quale le imprese funzionano meglio, perché dove c’è fiducia ci sono meno complicazioni e meno costi di transazione. La fiducia è quella che un premio Nobel dell’economia, Ken Arrow, chiamava “il lubrificante del sistema sociale”. Perché è vero che il sistema sociale, con le sue regole, con i contratti, con tutti i meccanismi di enforcement, funziona anche senza fiducia, ma è come un motore senza lubrificante, che per un po’ continua a sprigionare potenza ma dopo un po’ si blocca.


APPROFONDIMENTI

Vittorio Pelligra - professore associato in economia all’Università di Cagliari

È dunque indispensabile per far girare il motore dell’economia? La fiducia serve a rendere più efficace il funzionamento di questi meccanismi per produrre maggiore crescita, oltre a tutta un’altra serie di performance macroeconomiche e non solo. Perciò è importante preservare questa risorsa. Il problema qual è? Che la fiducia si consuma. Si consuma molto facilmente e si produce molto difficilmente. E quindi dobbiamo interrogarci su quali sono le ragioni e su quali strategie intraprendere per rigenerare questo capitale sociale.

DOVE C’È FIDUCIA CI SONO MENO COSTI DI TRANSAZIONE. LA FIDUCIA È QUELLA CHE UN PREMIO NOBEL DELL’ECONOMIA, KEN ARROW, CHIAMAVA “IL LUBRIFICANTE DEL SISTEMA SOCIALE”. PER LE IMPRESE È DECISIVA

L’economia umana è la risposta? Innanzitutto, chiediamoci perché distruggiamo fiducia. Perché abbiamo costruito sistemi economici, fatti di organizzazioni, norme e regole, sulla base di un modello antropologicamente sbagliato, quello dell’homo oeconomicus, inteso come un decisore razionale, autointeressato, che persegue solo le sue finalità individuali. È un modello antropologico che ha prodotto regole e istituzioni, che hanno minato alcune delle caratteristiche e risorse di cui hanno bisogno, tra cui la fiducia reciproca, la fiducia tra i cittadini e le istituzioni. E allora da dove dobbiamo ripartire? Da una visione antropologica differente, e più complessa, che è quella che in questi ultimi decenni anche gli economisti, dialogando con la psicologia e l’antropologia, hanno riscoperto in qualche modo. E alla luce di questa visione più complessa di agente economico possiamo pensare a nuove organizzazioni, che siano in qualche modo più rispettose di ciò che noi siamo realmente, dell’essere umano nella sua integrità. L’impresa artigiana e la piccola impresa, da questo punto di vista, in quanto organizzazioni più a misura d’uomo e più legate ai rapporti interpersonali e spesso familiari, possono rappresentare un modello da cui ripartire, sulla base di queste sue considerazioni sull’economia umana? Sicuramente. Qual è il vantaggio competitivo di queste imprese? È la prossimità, che significa una relazione più diretta. Uno degli aspetti che maggiormente impatta sulla creazione di fiducia è la possibilità di crearsi una reputazione. Allora in queste imprese artigiane, nelle quali abbiamo interazioni ripetute nel tempo, gli interessi delle parti tendono a convergere anziché trovarsi in conflitto, e questa è una dimensione importante. A. Ali. imprese e territorio | 37


inchiesta parte 1/ GALLARATE E MALPENSA

INFRASTRUTTURE ANDREA ALIVERTI

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TANTE PRIORITÀ MA (PER ORA) POCHI FATTI


inchiesta parte 1/ GALLARATE E MALPENSA

Accessibilità a Malpensa, ma non solo. La cartina geografica della zona tra Gallarate e l’aeroporto è ormai da svariati lustri attraversata da una serie di progetti infrastrutturali volti al miglioramento viabilistico e ferroviario, in gran parte legati agli interventi per l’accessibilità di Malpensa, a più riprese oggetto di finanziamenti da parte dei governi che si sono succeduti. Ma lo scenario è ancora molto fluido: tante opere progettate, alcune incompiute, poche effettivamente realizzate. Fatta salva la Pedemontana, che meriterebbe un discorso a parte, e che nel tratto che si dirama dalla A8 a Cassano Magnago fino alla tratta B1 che arriva a Lentate sul Seveso, è stata messa in esercizio, la cartina delle infrastrutture riporta ancora molte opere tratteggiate, in attesa di compiersi. Teniamo conto che l’unica, tra le opere infrastrutturali stradali ad aver visto la luce tra quelle che nel lontano 1999, all’indomani dell’apertura del nuovo scalo di Malpensa 2000, venivano definite prioritarie per l’accessibilità all’aeroporto è il Raccordo Malpensa-A4, la cosiddetta “Boffalora”, il prolungamento della superstrada 336 che congiunge Malpensa Ovest con la Milano-Torino all’altezza di Boffalora e con la SS11 a Magenta, inaugurata nel 2007 dal ministro Antonio Di Pietro. In rampa di lancio, con l’Anas che dovrebbe far partire i lavori entro il 2019 (lo ha recentemente affermato in commissione trasporti l’assessore regionale alle infrastrutture Claudia Terzi), è la “bretella di Gallarate”, una striscia d’asfalto di 2,3 chilometri tra lo svincolo di Pedemontana sull’Autolaghi e lo svincolo della 336 di Samarate, primo lotto della variante alla statale 341, finanziata dal Cipe a febbraio 2018 con 118 milioni di euro. Da reperire invece le risorse (altri 140 milioni circa) che mancano per il secondo lot-

RESTANO ANCORA MOLTE INCOGNITE SULLE OPERE CONSIDERATE STRATEGICHE ALL’APERTURA DI MALPENSA 2000 to della nuova 341, la “variante di Samarate”, che si riconnette alla Malpensa-Boffalora a Vanzaghello. In alto mare tutte le altre opere “prioritarie” del piano d’area Malpensa del ‘99: in primis l’attesissima Tangenziale Nord di Somma Lombardo, la cui ultima versione costava 130 milioni di euro: un’opera che connetterebbe i due svincoli della A26 di Besnate e Vergiate passando per la via Giusti a Somma. Anche quest’ultima, trafficatissima arteria che collega la città dei Tre Leoni fino alla 336 verso Malpensa, attende da anni l’allargamento e la messa in sicurezza: il progetto lo sta curando direttamente Sea. E ancora, sono finite nel dimenticatoio la Besnate-Malpensa (dall’uscita della A26 allo svincolo di Case Nuove della 336) e la Tangenziale Ovest di Gallarate, prolungamento della variante alla Sp28 di Cardano (tra il Novotel e Cascina Costa di Samarate), dal costo stimato, nel 2012, di 15 milioni di euro, con un primo tratto tra il Novotel e l’ex Nautilus e un secondo fino alla rotonda di largo Beethoven a Gallarate, sulla Sp26. Tra le opere progettate e mai realizzate c’è anche la pista ciclabile tra Cardano al Campo e il Terminal 2 di Malpensa, alternativa di mobilità dolce che oggi non esiste per chi da Gallarate, Cardano e Casorate volesse andare in aeroporto con le due ruote a pedale.

Spostandoci da Malpensa verso il Gallaratese, la grande incompiuta è la strada di sottocosta della Valle dell’Arno, che dovrebbe correre ai piedi della collina tra gli svincoli autostradali di Solbiate Arno e di Gallarate, per evitare il passaggio nei centri abitati. Realizzata in un breve tratto, tra Santo Stefano, Cavaria (zona Cantalupa, dove si collega al centro artigianale) e Cassano Magnago nord, è stata per anni al centro di una diatriba tra i Comuni di Cassano Magnago, che l’ha fortemente voluta e finanziata, e di Gallarate, che l’ha sempre osteggiata perché sbocca nel pieno dell’abitato del rione di Cedrate, fino ad essere stata di fatto resa ininfluente da un divieto di accesso piazzato da Gallarate, che rende impraticabile l’accesso allo svincolo autostradale della A8. A Gallarate invece l’asse da decongestionare è viale Milano, unica vera alternativa urbana di collegamento con Busto Arsizio: la strada dalla zona industriale di Sciarè (viale dell’Unione Europea) è già pronta come svincolo della nuova “bretella di Gallarate”, mentre nella variante al Piano di Governo del Territorio attualmente in discussione è prevista una nuova arteria parallela a viale Milano che correrà vicino alla ferrovia. E poi c’è il capitolo delle opere ferroviarie. Al centro della scena, in questo caso, c’è soprattutto il collegamento tra la linea del Sempione a Gallarate e il Terminal 2 di Malpensa: appena iniziata la conferenza di servizi, è un’opera da circa 200 milioni di euro che, in prospettiva (e in combinazione con il potenziamento della Rho-Gallarate, di cui si ipotizza il raddoppio dei binari tra Rho e Parabiago e la realizzazione del terzo binario tra Parabiago e Gallarate), dovrebbe consentire di spostare il Malpensa Express sulla linea di Rfi e di incrementare le frequenze dei treni verso l’aeroporto. imprese e territorio | 39


Approfondimenti

IL NUOVO

INFLUENCER NON È UN “VIP” È IL

DIPENDENTE EMANUEL DI MARCO

La figura del testimonial è vecchia come la pubblicità stessa. E ha attraversato tutti i mezzi di comunicazione, per approdare al web e soprattutto ai social, assumendo le sembianze dell’influencer. Cioè chi, grazie al grande seguito acquisito nel tempo, consente ad aziende grandi o piccole di raggiungere quella massa di potenziali consumatori rappresentata dai propri follower. Ma qualcosa sta cambiando, sotto i nostri occhi: «Siamo davanti a un tema caldo – afferma Paolo Iabichino, esperto dei linguaggi del web, che al tema degli influencer ha dedicato un intero capitolo del suo “Scripta Volant” (Codice Edizioni) – perché il giochino dei macro-influencer si è in qualche modo rotto. Questi ragazzi hanno perso credibilità, il che ha costretto le aziende a ripensare il modello». D’altronde, riferisce Iabichino nella sua pubblicazione, recenti ricerche evidenziano un vero e proprio calo di credibilità dei cosiddetti influencer verso il pubblico dei millennial, che tuttavia «continua a decretare un largo seguito alle star della rete più seguite. Seguono cioè i loro contenuti, ma se ne allontanano quando questi sono infarciti da messaggi pubblicitari». L’influencer medio ha un buon seguito sui propri canali, «ma ha costruito la propria reputazione proprio grazie alla bontà neutrale dei contenuti. Nel momento in cui questi vengono periodicamente accompagnati da testimonianze pubblicitarie non è difficile pensare che possa in qualche modo venir meno una certa credibilità. Il punto è che la cosiddetta fan base continua a seguire il beniamino di turno, semplicemente ha imparato a ignorare il contenuto promozionale». Non sorprende, insomma, la tendenza crescente legata all’utilizzo da un lato dei cosiddetti micro-influencer, cioè soggetti che pur senza smuo-

vere le grandi masse hanno assunto una rilevanza in un settore specifico, dall’altro degli stessi dipendenti o collaboratori per veicolare l’immagine della propria azienda. In principio, quindi, furono i vip, poi si passò agli imprenditori, ora si approda alla linfa vitale stessa delle imprese: i propri lavoratori. In tal senso, un dato rilanciato nei mesi scorsi da Forbes sottolinea come ben l’82% dei consumatori di un preciso brand si fidi maggiormente di un testimonial interno piuttosto che “calato dall’alto”. «Si tratta di due argomenti da affrontare separatamente - precisa Iabichino - il micro-influencer è un tema a mio modo di vedere rilevante nella misura in cui l’azienda si trova a sfruttarne la componente editoriale e verticale. Diverso il coinvolgimento della comunità interna, il cosiddetto employer branding. Che può essere certo visto in una logica di influencing, ma il rischio è quello di strumentalizzare un coinvolgimento che invece dovrebbe essere spontaneo». Il compito dell’impresa, perciò, deve essere quello di creare le premesse affinché il senso di partecipazione del dipendente nasca come virtuosa conseguenza: «Una forma di orgoglio che ritengo possa essere efficace se comunicata in maniera naturale, e non attraverso programmi scritti a tavolino, che finiscono spesso per snaturare la produzione dei contenuti». I valori prima di tutto, per una narrazione che possa essere reale: «E per le realtà artigiane questo è ancora più valido. Usando il linguaggio dello storytelling, nel lavoro artigianale ci sono componenti poetiche evidenti. Stiamo assistendo a un ritorno di fiamma verso la componente umanistica delle aziende». L’anima stessa del sentire artigiano, in sintesi, come elemento distintivo per la valorizzazione del proprio brand. Anche sui social.

LO HA RILEVATO FORBES: L’82% DEI CONSUMATORI DI UN BRAND SI FIDA DI UN TESTIMONIAL INTERNO

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Approfondimenti

ATTENZIONE ALLE REGOLE RIMANE UNA PUBBLICITÀ Narrare al meglio la propria realtà rappresenta un fattore potenzialmente decisivo a prescindere dal canale utilizzato. Ma attenzione: quando si parla di comunicazione pubblicitaria, anche gli influencer non possono considerarsi esenti dalla regolamentazione in materia. «Quella online altro non è che una forma di pubblicità come le altre – interviene Vincenzo Guggino, segretario generale dello Iap, l’Istituto di Autodisciplina Pubblicitaria – e in questa direzione va il percorso da noi intrapreso nel 2016, con la stesura della prima versione della Digital Chart (disponibile online, ndr), una sorta di vademecum per aziende e influencer su come rendere riconoscibile la comunicazione pubblicitaria sul web». Un documento, quindi, che raccoglie le indicazioni affinché anche la comunicazione commerciale online rispetti il Codice di Autodisciplina. Sono in vigore, infatti, regole di trasparenza, ma anche relative ai contenuti: «Per questo, in quanto organo “terzo”, oltre a intervenire in maniera repressiva in caso di violazione del codice, operiamo a livello preventivo, fornendo pareri sulla correttezza del messaggio

prima di questi vengano diffusi». E tra le realtà che dal primo gennaio 2019 saranno associate allo Iap, si registra anche Tbs Crew, la società fondata e guidata da Chiara Ferragni, tra le maggiori influencer a livello planetario e un engagement di oltre 40 milioni di utenti mensili.

PREVENITE I RISCHI: VERIFICATE PRIMA LA CORRETTA MODALITÀ DEI MESSAGGI

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SOCIALFOCUS

SUA MAESTÀ

GOOGLE Strumenti da conoscere per sfidare (bene) la Rete

Con Roberto Fuso Nerini, esperto di comunicazione web e media digitali, scopriamo alcuni strumenti gratuiti della rete in grado di fornire, sui mercati locali e internazionali, ampi criteri per conoscere gli interessi dei consumatori, i prodotti più ricercati online, i mercati più competitivi e dati utili per il marketing. Partiamo da Google Analytics: quali sono le sue potenzialità? Google Analytics è la piattaforma di Google che permette di tracciare il traffico degli utenti sul sito di una azienda. L’informazione basilare di quanti utenti entrano nel sito, usata in tutto il suo potenziale e con le soluzioni messe a disposizione, permette di capire da dove vengono e quali canali li hanno portati ad arrivare sul quel sito (motore di ricerca, pagina social o link da articolo in rete). Dalle parole chiave ricercate si comprende quali siano le più efficaci ed efficienti per attrarre l’utente. Scoprire quali pagine del sito sono state visitate, quali hanno ricevuto le visite più lunghe e per quanto tempo e quanti hanno trasformato la loro visita in un atto di acquisto può influire sulla strategia di marketing. Il fine è ottimizzare struttura e contenuti del proprio sito e valutare quali siano gli strumenti più efficaci per portarli nel mio sito. È uno strumento gratuito non semplicissimo da utilizzare che necessita di competenza ed esperienza, ma ha molto potenziale. È necessario registrarsi sulla piattaforma e far istal42 | imprese e territorio

lare dal web master il codice html che si genera. In quale altro modo questi dati sono utili per un’impresa? Oltre alle pagine più visitate e alle parole più cercate, possono indirizzare lo sforzo produttivo dell’azienda, che può puntare maggiormente sulla merce più ricercata. Serve per capire cosa in quel momento, ma in relazione al mio sito, sta cercando l’utente. Poi esistono altri strumenti che possono servire a vedere quali sono le ricerche principali.

L’INFORMAZIONE DI QUANTI UTENTI ENTRANO NEL SITO PERMETTE DI CAPIRE DA DOVE VENGONO E QUALI CANALI LI HANNO PORTATI DA NOI Quali ad esempio? Google Trend “ragiona” sulle ricerche on line e permette di conoscere le tematiche e le parole più ricercate sul motore di ricerca in uno specifico momento e analizzarne l’an-

damento in Italia o nel Paese di interesse. Se prendiamo come esempio le parole “mountain bike” e “bicicletta a scatto fisso”, lo strumento – che ragiona su 12 mesi – mostrerà la parola più cercata, ma anche la tendenza dei picchi di ricerca. Scoprendo d’avere un picco a luglio, in periodo più vacanziero, per “mountain bike” e uno a settembre per quella a scatto fisso, per le quali c’è un utilizzo più urbano, si palesano discriminanti importanti che posso influire sull’orientamento alla stagionalità. Ovviamente questi dati vanno non solo integrati, ma anche comparati coi dati economici per capire quali sono le tendenze delle vendite. Quale strumento focalizza il comportamento dei consumatori? Consumer Barometer: sia durante la ricerca online, sia durante l’acquisto. Serve anche a sapere come si usa la rete per cercare informazioni, qual è la presenza dell’e-commerce o quanti gli e-shopper in un determinato Paese. Coi dati ottenuti si può creare una strategia per orientare un’adeguata presenza online all’estero. E Global Market Finder? Individua il mercato più adatto ad una attività o prodotto, il grado di competitività e fornisce informazioni per analizzare il mercato globale, dando la possibilità – con una valutazione di opportunità e costi – di indirizzare una campagna pubblicitaria strategica. Chiudiamo con i social… Audience Insight, funzionalità interna a Facebook, permette, per esempio, di analizzare chi mostra interesse per uno specifico argomento, così scopriamo quanti sono interessati, il loro profilo demografico, ma anche i loro interessi e quali pagine social o siti visitano. Se calcoliamo che in Italia Facebook ha 30 milioni di utenti, possiamo dire di aver lavorato su un campione ampio e significativo che genera dati e informazioni sui propri interessi e comportamenti sulla base delle interazioni e delle relazioni all’interno della piattaforma. L. Bot.


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