ComunicAzione N°9

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n9 - 09/2015

I N N O VA T I VA

Immagini o testo Marketing sportivo App insegna ComunicAttori

Bill Bernbach



Sommario

Immagini o testo?

Focus

Può una sola immagine sostituire un lungo testo?

Il virtuale che emoziona

App insegna

ComunicAttori

Quanto serve investire sulla formazione dei dipendenti?

William Bernbach

Marketing sportivo

Brand affinity, tribù e storytelling

Tips

5 regole per essere più produttivi di mattina

ComunicAzione è un progetto editoriale di Tangherlini srl Direttore Editoriale: Mirco Tangherlini Direttore Responsabile: Riccardo Silvi Iscrizione nel registro dei giornali e periodici N°14/12 del 2 Luglio 2012 Redazione: Via Caduti del Lavoro, 2 - 60131 Ancona - 071.2802604 visita il sito di ComunicAzione a questo indirizzo: www.comunicazionemagazine.com


Design

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Editoriale

Eccoci di nuovo a "raccontare" novitĂ e curiositĂ sulla comunicazione. In questo numero proveremo a spiegare le strategie legate al marketing sportivo, le teorie rispetto all'utilizzo dei rendering e la nostra visione in merito a questo argomento. Si inizia con una disquisizione sulla forza di una buona immagine rispetto ad un testo lungo e noioso per poi proseguire con un'analisi sull'utilitĂ della formazione in azienda. Come al solito poi continuiamo la nostra carrellata sui grandi comunicatori descrivendo la carriera di William Bernbach. Ancora un numero che, a mio parere, saprĂ catturare il vostro interesse, e tornarvi utile sia che siate dei professionisti del settore che dei semplici curiosi. mirco@tangherlini.it



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Immagini o testo?

di Riccardo Silvi

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iciamolo subito, così da toglierci ogni tentazione di scriverlo più avanti. “Un’immagine vale più di mille C‘è immagine parole”. Luogo comune, frase oramai e immagine. abusata e allo stesso tempo un concetto reale e vero. Ma quanto “vale” veramente un'immagine nel mondo del marketing? La risposta è semplice: sempre di più.

“ ”

Argomento principe di questa riflessione è infatti l'importanza delle immagini e il loro diverso utilizzo nel mondo del marketing. Più dettagliatamente quanto e come l'utilizzo di un'immagine specifica possa realmente trasformarsi in un messaggio differenziante per un'azienda. Mettiamo subito dei punti fermi da cui partire. L'intelligenza dell'uomo è multidimensionale e legata ad una pluralità di esperienze sensoriali. Le parole e la scrittura sono un prodotto culturale e frutto di una convenzione fra più persone. La cultura occidentale mette le parole e la scrittura al centro del processo di apprendimento. La mente umana processa le immagini più velocemente di ogni altro tipo di contenuto. Bastano questi concetti, ormai noti, per giustificare la tesi iniziale e convincere chiunque ad abbandonare sterili testi e inutili parole per abbracciare infografiche, fotografie,

immagini accattivanti. Ma c'è immagine e immagine. Aggiungiamo un po' di dati. L'80% delle persone ricorda più facilmente ciò che ha visto rispetto a quello che ha letto (20%) o quello che ha sentito (10%). Il 75% dei contenuti condivisi dai brand è costituito da foto. L'87% delle interazioni con un contenuto su un social network coinvolge una fotografia. Le teorie del visual storytelling da tempo sono oramai diventate pane quotidiano per gli addetti ai lavori del mondo del marketing. Sempre più spesso infatti le strategie di comunicazione (personali e aziendali) abbracciano il mondo e gli strumenti legati alla produzione qualitativa di immagini per raccontare il mondo e i valori del proprio brand. È la “rivoluzione copernicana” delle immagini. Le teorie di visual storytelling non prevedono immagini belle ma fine a se stesse, sterili “contenitori” di fotografie, elenchi di scatti relativi al prodotto o alle sue possibili applicazioni. Si tratta di “immagini narranti”. Il mondo è fatto di storie e il marketing se ne è accorto da tempo.


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Il racconto di queste storie (spesso legate alla vita del consumatore) rende la comunicazione più interessante ed ogni strumento di successo oggi basa il proprio modello di contatto sulle storie (personali o pubbliche) del proprio target. Tutto questo ha decretato il successo di blog e social network ed è ciò che accade ogni giorno nei media mainstream (radio, tv e giornali) sotto le più diverse forme. Dai reality ai talent show, dalla crisi dell'editoria al successo della radio digitale. Chi fa marketing conosce queste regole e queste dinamiche, sa che è molto più facile ed efficace raccontare una bella storia che inventarsi una pubblicità nuova. Le strategie di comunicazione oggi integrano e incentivano le pratiche legate allo storytelling e cercano di far emergere i contenuti prodotti dagli utenti più interessanti. Che c'entra tutto questo con le immagini? Basta unire i puntini. Da una parte abbiamo la potenza della fotografia, la sua innata capacità di parlare direttamente al cervello delle persone, senza intermediazioni o convenzioni. Dall'altra la voglia e l'interesse verso le storie, verso racconti ricchi di contenuti veri. Ecco da dove nasce il Visual Storytelling. Se vogliamo cercare il DNA di questo trend comunicativo, possiamo

indagare la differenza fra capacità rappresentativa ed effetto di senso. La capacità rappresentativa di un'immagine rappresenta il grado di attinenza alla realtà che caratterizza la fotografia. L'immagine di un fiore che "rappresenta...il fiore". Tutt'altra storia è l'effetto di senso, dove l'immagine non deve mostrare il fiore in se, ma far percepire il suo profumo. “Se nel mirino della tua reflex vedi la persona lascia perdere. È il suo pensiero che devi ritrarre.” Raccontare una storia per immagini significa declinare le logiche tipiche del mondo della narrativa e interpretarle tramite foto o illustrazioni, a partire dalla sceneggiatura (la storia da raccontare), gli strumenti di immedesimazione e i momenti di tensione. Mai come in questo caso la teoria di Marshall McLuhan: il mezzo è il messaggio, trova il suo compimento. Il mezzo: la fotografia, attraverso la sua particolare natura, si fa messaggio e trasmette valori ed emozioni diverse. Molto più del suo tradizionale messaggio descrittivo. Ma quali errori si rischia di commettere quando si approccia ad una strategia marketing basata sulle immagini? Il primo errore è quello di muoversi senza una reale strategia, che inevitabilmente porta a quello che può essere definito il secondo errore


Immagini o testo?

strategico, creare immagini “solo” belle da vedere e non realmente significative per il brand che si intende promuovere. Un ulteriore errore, spesso visibile monitorando le varie strategie di comunicazione, è quello di creare lo stesso contenuto (immagine) per tutti i canali attivi. Ogni mezzo ha bisogno di un'immagine, e di un contenuto congruo. Infine è fondamentale non dimenticarsi mai del target e del relativo punto di vista (può succedere quando si dà più importanza all'aspetto estetico piuttosto che strategico della foto/illustrazione). Le immagini oggi rappresentano il “nuovo” testo, il paradigma comunicativo che permette di recuperare e veicolare nuovi sensi.


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Focus

Virtuale che emoziona di Mirco Tangherlini

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ià nel 1940 sono stati effettuati i primi esperimenti di computer grafica (in particolare da John Whitney), ma solo agli inizi del 1960 si è pensato al computer come strumento innovativo per fare grafica. Inizialmente si è usato per usi scientifici, tecnici e altri scopi legati alla ricerca, ma la vera sperimentazione artistica inizia a fare la sua comparsa verso la metà degli anni 1960. Nel 1990 anche gli home computer hanno implementato caratteristiche performanti utili all'utilizzo di software di grafica tridimensionale, permettendo anche ai grafici di specializzarsi nella realizzazione di mondi virtuali. La nostra Agenzia (tangherlini.it) già nel 2000, ha proposto, ad aziende leader nella produzione di mobili, l'utilizzo di tali strumenti per simulare realisticamente ciò che fino ad allora veniva "scattato", a costi spesso elevatissimi, presso prestigiosi studi fotografici. Sicuramente, in quel periodo, la qualità delle immagini virtuali non era del tutto all'altezza degli scatti fotografici, ma un catalogo realizzato con software di grafica 3d poteva costare anche 10 volte meno di uno contenente immagini reali. Nel tempo queste tecnologie si sono evolute sia nella velocità di realizzazione che nella qualità dell'immagine e nel

fotorealismo. Oggi parecchi studi (soprattutto di architetti) si sono specializzati nella realizzazione di rendering (questo è il termine con cui si definisce il risultato dato dal computer) più o meno interessanti. Anche i clienti hanno iniziato a capirne l'utilizzo strategico, ma sempre più spesso, si tende ad imitare in maniera esasperata la fotografia, dimenticando i vantaggi offerti da questa tecnologia che, senza costi aggiuntivi, è in grado di realizzare immagini fantastiche senza limiti di spazio e limiti fisici per il posizionamento di telecamere e luci. La nostra passione per la comunicazione borderline ci ha portato, nel tempo, a proporre immagini in cui il prodotto (un mobile, una porta, una cucina, ecc) non è più il re ma fa parte di un ambiente in cui chi guarda vorrebbe essere. Questo risultato si ottiene con luci che creano atmosfere cinematografiche, con oggettistica in grado di "raccontare" una storia e di far partire gli ingranaggi della fantasia del cliente. Solo così si arriva a comunicare con il nostro cervello antico, quello che decide se e cosa acquistare, quello che si emoziona, quello che agisce in modo inconsapevole. Il processo creativo non è sempre facile, prevede il contributo di chi pensa

alla storia, di chi si occupa dello studio della scena e dell'illuminazione e del tecnico in grado di dare forma alla magia dell'idea. A volte i clienti pretendono che il prodotto ritorni ad essere protagonista, ma il nostro impegno principale è quello di far comprendere la differenza fra un'immagine da "listino prezzi" e una in grado di scatenare un effetto subliminale. Un progetto che porta chi consulta il catalogo a sentirsi parte della storia e delle suggestione suscitate.



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Brand Affinity, tribù e storytelling: ecco il marketing sportivo

nuoto all'atletica, ma anche negli sport di squadra: basket e football americano, calcio e pallavolo. Ma cosa c'entra la predisposizione del mondo sportivo verso l'innovazione con il marketing? di Riccardo Silvi

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o sport è emozione, lo sport è coinvolgimento, lo sport è marketing. Da quando il mondo dello sport Le emozioni tendono ha preso una dimensione sempre a offuscare il processo più commerciale, le attività decisionale. sportive di massa e non solo hanno rappresentato per il marketing un terreno fertile, un ambito di lavoro dove poter sperimentare nuovi strumenti, nuove idee, nuove strategie.

“ ”

Lo sport rappresenta una delle attività principali dell'industria dell'intrattenimento, un settore che non conosce crisi e che supera con disinvoltura le vecchie logiche comunicative per abbracciare con convinzione i nuovi trend. Per citare qualche dato (fonte Unione Europea) l'industria dello sport ha un valore pari a 294 miliardi di euro nel solo continente europeo ed è un dato in continua crescita. Un settore che si è trasformato negli ultimi decenni in vera e propria industria, capace di produrre utili, posti di lavoro, storie da raccontare. Prime fra tutte le storie di innovazione. È infatti ormai noto come lo sport rappresenti il campo da gioco (è proprio il caso di dirlo) per testare nuove tecnologie, innovazioni digitali e non solo. Basta pensare all'importanza dell'high-tech negli sport di velocità. Dal ciclismo alla Formula 1, dal

C'entra eccome! Il marketing e la comunicazione da tempo sono settori con tassi di evoluzione rapidi e, a volte, imprevedibili. Dal marketing tradizionale alle versioni 2.0 in pochi anni, dal fax ai social network in qualche decennio, da una comunicazione top down ad un paradigma completamente basato sugli user generated content. Evoluzioni e rivoluzioni che inevitabilmente hanno coinvolto e stravolto anche il mondo dello sport. Marketing e sport da sempre hanno percorso strade comuni e spesso hanno intrecciato i loro destini. Emblematico esempio di questo rapporto è l'ormai famigerata storia di due aziende come Adidas e Puma, nate dalla genialità (e rivalità) dei fratelli Dasler e legate a doppio filo alla storia del velocista americano Jesse Owens. Un rapporto che si basa soprattutto su una chiara condivisione di obiettivi che Marketing comunicativo e Sport hanno in comune: creare emozione. Proprio questo filo conduttore infatti crea da sempre tutti i presupposti per una collaborazione proficua e innovativa che vede la comunicazione servirsi dello sport per sperimentare (e guadagnare) e lo sport usare la comunicazione per conquistare nuovo pubblico (e guadagnare). Mai come oggi infatti sport e marketing si muovono nella stessa


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direzione ed ambiscono insieme a creare esperienze di coinvolgimento diretto del target. Anche in questo caso è evidente come la nuova frontiera evolutiva che unisce questi due mondi trovi un percorso comune: mettere al centro di ogni strategia il target (o tifoso). È la nuova dimensione del marketing sportivo. Obiettivo dichiarato delle nuove strategie di marketing legato allo sport è infatti quello di creare esperienze di coinvolgimento diretto (e indiretto) del tifoso. In piena sintonia con il percorso che stanno facendo molte aziende nei più diversi settori merceologici, mettendo al centro delle proprie comunicazione i contenuti creati dagli utenti (o gli utenti stessi), così anche lo sport si sta evolvendo nel tentativo di rendere i fan protagonisti. Ancora di più. Parola d'ordine Brand Affinity Il brand si costruisce sulla relazione con il proprio target. Su questo principio, basilare per le nuove teorie di marketing, si strutturano le nuove strategie di comunicazione in ambito sportivo. L'obiettivo oggi non è più quello di creare “conoscenza” del proprio marchio (Brand Awareness) bensì costruire una relazione fra il proprio brand e i fan. E questo vale ancora di più in un ambito fatto di emozioni e condivisione, come quello sportivo. La “crisi degli stadi” per esempio, dove i comfort delle pay tv spingono i tifosi delle squadre di calcio (e non solo) ad abbandonare l'esperienza live a favore delle partite in televisione, parte da qui. In un mondo, quello di ieri, strutturato con una paradigma comunicativo top-down dove il cuore della comunicazione rimane meramente la prestazione sportiva e non l'esperienza ad essa connessa,

i “rischi” dello stadio sono visti assolutamente come degli ostacoli per il fan. “Perché un tifoso deve decidere di recarsi allo stadio con tutte le difficoltà che ne derivano (traffico, mancanza di servizi, nessun replay, prezzi elevati, ecc) quando può scegliere di guardare la partita sul divano di casa? 
 Perché una famiglia deve scegliere di investire una parte del proprio budget allocato al divertimento nello stadio invece che in una serata al cinema, una gita fuoriporta o una visita in un centro commerciale? 
 La risposta a queste due domande è molto semplice: chi si reca allo stadio lo fa per partecipare ad un’esperienza dal vivo unica fatta di emozioni. Lo stadio è la casa dei tifosi, luogo dove dimostrare la propria appartenenza alla comunità ma che deve essere caratterizzato da un contesto sicuro dove vivere momenti indimenticabili. ” (Manuale Obiettivo Pubblico Exeutive Summary – Lega di Serie B) Come si crea una relazione duratura con i propri tifosi? Ecco che incontriamo altri due concetti del “nuovo” marketing che trovano in questo scenario una collocazione perfetta. In primo luogo il marketing tribale (strategia di marketing non convenzionale che mira a creare una comunità collegata al prodotto o servizio che si intende promuovere). Mai come in ambito sportivo i tifosi di una squadra o gli appassionati di una disciplina sportiva assumono un carattere tipico delle “Tribù postmoderne”, compito del marketing

è quello di lavorare quindi per incentivare il senso di appartenenza attraverso vere e

proprie azioni identitarie della tribù. Un esempio su tutti è la rinnovata politica sul biglietto di ingresso allo stadio che ambisce a creare una sorta di “esclusività” per i tifosi più fidelizzati e invita i nuovi fan a seguire il percorso già fatto da altri. Un caso in cui la scontistica diventa una call to action razionale (mi abbono per spendere meno) mentre l'appartenenza alla “tribù” una call to action irrazionale. In seconda battuta il concetto di storytelling. Il marketing sempre più spesso basa le proprie strategie su regole che si allontanano dalla tradizione concezione di advertising, intesa come messaggio promozionale per mostrare i benefit di un prodotto. Sempre più spesso si creano


Ecco il marketing sportivo

emozioni.

veri e propri racconti, utilizzando metodologie proprie della narrativa. Il cuore di una strategia storytelling per il mondo dello sport deve strutturarsi attorno al cosiddetto “Big Show”, inteso come l'evento sportivo. Attorno a questo momento di massima aggregazione, capace di creare contenuti di ampio interesse va creato un vero e proprio racconto, strutturato su più canali e calibrato su diversi pubblici. Una storia che non deve essere narrata come mero racconto dell'evento, bensì come amplificatore di esperienza sportiva. Non è importante enunciare il risultato della partita, bensì far rivivere l'evento suscitando

Un esempio di assoluta efficacia porta la firma Google e Manchester United: un progetto Front Row dove alcuni tifosi (con le loro storie e le loro passioni) hanno assistito ad un match del Manchester da una posizione privilegiata, grazie alla tecnologia Google+. Un esperimento di assoluto interesse che ha acquistato ancora più valore nel momento in cui è diventato contenuto di comunicazione sui canali social e non solo della squadra di calcio. Si è trasformato in parte di un racconto (lo storytelling dell'evento) che ha mostrato la passione (e quindi il senso di appartenenza) dei tifosi del team inglese.

Entrando ancora più nello specifico: come possiamo impostare una strategia di comunicazione secondo i principi fino a qui elencati? Un aiuto ci arriva da una ricerca firmata SimplyCast dal titolo “How Football Teams drive Engagement”. Lo studio esamina, passaggio dopo passaggio, come una squadra di football può coinvolgere i propri tifosi. La base è creare un database di tifosi corretto, preciso e pulito. I tifosi infatti non sono tutti uguali, a differenziarli intervengono diversi livelli di passione, di partecipazione, di coinvolgimento. Il ricercatore Thomas Lind Thomsen, in una ricerca per la “School of Business and Social Science” della Aarhus University suddivide i tifosi in due macro categorie: coloro che sono

legati ai successi del club e quelli coinvolti dalla bellezza dell'evento sportivo. All'interno di queste due categorie possiamo trovare i “Partigiani” (disposti a seguire la squadra qualsiasi cosa accada), i “Campioni” (seguono la propria squadra sulla base dei successi raggiunti) e i “Reclusi” (appassionati della squadra ma restii nell'andare allo stadio). Per Paolo Bedin (Il Marketing delle Società Sportive) i tifosi possono essere suddivisi addirittura in 8 categorie: Fan (alta fedeltà comportamentale), Tifosi (fedeltà attitudinale), Tifosi Sfuggenti (discreta fedeltà), Simpatizzanti (bassa fedeltà), Appassionati (bassa fedeltà), Praticanti della disciplina (bassa fedeltà), Praticanti dello sport (bassa fedeltà, alta attitudine), Disinteressati (bassa fedeltà). In primo luogo quindi è necessario “Build your roster”, creare un database aggiornato e suddiviso per segmenti specifici. Il passo successivo sarà “Touching the Bases”, mettere in campo attività per “arrivare alla meta” come per esempio: iniziative di benvenuto, informazioni ed educazione dei contatti, dialogare con i fan, trasformare il “dialogo” in invito all'esperienza. Terzo passaggio, appunto il “Big Show”, il giorno dell'evento, con tutti gli strumenti e le occasioni per creare coinvolgimento con il fan-tifoso. Infine il quarto passaggio pre e post partita. Mettere in campo gli strumenti storyteller per coinvolgere i fan nel rivivere le esperienze dell'evento sportivo, attraverso i loro contenuti, i loro pareri e la loro partecipazione all'evento.


TANGHERLINI PRIDE

Le tavole del “Corriere Salute� per la prima volta riunite in una grande enciclopedia medica per tutta la famiglia. Dai bambini ai nonni, dalle giovani donne in attesa agli sportivi, un volume accurato ed efficace che informa e rassicura sullo stato di salute attraverso un quadro completo di profilassi, diagnosi, fattori di rischio e cure per ogni patologia rappresentata. L’appuntamento domenicale del Corriere della Sera diventa un prezioso strumento illustrato capace di guidare i lettori a riconoscere sintomi e possibili malattie e guidarli nella ricerca di controlli e terapie.




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App Insegna

di Roberta Rogante

Le aziende che fanno formazione investono gran parte delle risorse sui momenti meno formativi del dipendente, scegliendo soprattutto una formazione strutturale tradizionale anziché individuare tempi e modi di formazione differenti.

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a formazione di un dipendente è da sempre un fattore molto importante per un’azienda, un collaboratore formato professionalmente infatti è certamente sinonimo di crescita aziendale e di innovazione di prodotto. Ma sono diversi gli ostacoli da gestire in modo strategico per non pesare sull’operatività o sul tempo extra lavorativo.

dipendenti, per arrivare oltre il 50% nella grande industria. Il quadro che emerge è quello di una scarsa o quasi nulla fiducia nella formazione nelle piccole e medie imprese, a fronte di una maggiore convinzione e utilizzo nelle grandi aziende: il dato generale evidenzia inoltre un livello di arretratezza del nostro Paese rispetto ai paesi più avanzati ancora molto evidente”.

Nonostante la crisi e la difficile ricerca di risorse professionali formate in modo adeguato, soprattutto per settori altamente specializzati, si ritiene che all’incirca solo il 26% dei lavoratori si reputa soddisfatto dell’attenzione riposta dall’azienda verso la formazione del singolo dipendente.

Tuttavia oggi, nel contesto dell'economia della conoscenza e del sapere condiviso, si aprono nuove strade percorribili dalle aziende, per tornare a essere un centro di sviluppo e formazione, oltre che produttivo. Secondo quanto emerge da alcuni studi di Forrester e Aberdeen la maggior parte dell’apprendimento, (all’incirca il 70%) avviene lavorando, sviluppando i progetti e imparando dai risultati che si ottengono, il restante 30% è diviso tra l’apprendimento condiviso con i colleghi di lavoro e la formazione strutturata e formalizzata. Sembrerebbe una parte molto irrisoria e poco rilevante nella gestione dei budget aziendali, ma in realtà le aziende investono in quest’ultimo tipo di apprendimento spesso più di quanto previsto. Si potrebbe quindi parlare di una disconnessione tra ciò che serve concretamente all’impresa e ciò che invece viene effettivamente appreso. Le aziende che fanno formazione investono gran parte delle risorse

“La crisi sta tagliando ulteriormente la formazione professionale e in questo modo si compromette uno degli asset principali per il futuro delle nostre imprese e del mondo del lavoro - ha sottolineato recentemente Carlo Barberis, fondatore di Expo Training -. La percentuale delle aziende che fanno formazione e che intendono farla nel 2015 comunque sale (anche se non di molto) coll’aumentare della dimensione. Infatti, in quelle fra i 100 e i 300 dipendenti la percentuale di chi ha investito in questo campo si assesta al 15% mentre cresce al 26% in quelle medio-grandi (300-500 addetti), al 32% per quelle fino a mille


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sui momenti meno formativi del dipendente, scegliendo soprattutto una formazione strutturale tradizionale anziché individuare tempi e modi di formazione differenti. Se nelle modalità di istruzione e di formazione classiche il focus è sul docente e sul contesto, in un ambito di apprendimento più distaccato e meno formalizzato si possono ottenere dei risultati di maggiore comprensione in quanto apparentemente meno guidati. Prendete come esempio una figura commerciale aziendale con una ampia conoscenza dei plus aziendali e dei prodotti da promuovere, ma con una bassa disponibilità a livello di tempo da dedicare alla formazione a causa dei continui spostamenti e della difficile combinazione di orari e concentrazione. In realtà la formazione potrebbe essere sviluppata in quegli interstizi di tempo tra una riunione e una pausa, in quei tempi quasi forzatamente vuoti in cui la ricerca e la formazione potrebbe essere assimilata in modo più incisivo. L’innovazione e la tecnologia hanno quindi investito anche il settore della formazione, abbracciando queste esigenze e proponendo tempi e modi nuovi di apprendere. Esistono vere e proprie strategie e piattaforme di formazione basate, per esempio, sulla Gamification aziendale per motivare i venditori, oppure esperimenti di e-learning attraverso i Social Network come il caso di Lebu, la prima piattaforma per la formazione aziendale interamente online. Lebu funziona come un social network e ogni lezione dura quanto

una pausa caffè. Offre alle imprese la possibilità di formare i dipendenti all’interno di una piattaforma social, con un metodo basato sulla rapidità delle lezioni e sulla pratica diretta dei contenuti appresi. E non solo, da tempo si parla di un forte interessamento di LinkedIn, il social network per professionisti ed aziende, verso la piattaforma di formazione online lynda.com. social network, NetCompany e formazioni sempre più spesso trovano un terreno di sviluppo comune. Ed una delle nuove frontiere della formazione passa anche tramite le App. A favore di questo trend di “formazione innovativa”, infatti, è possibile intervenire con degli strumenti aziendali digitalizzati, non dei pdf sfogliabili ma delle vere e proprie App aziendali, che oltre ad amplificare le loro potenzialità di immediatezza, per la loro disponibilità istantanea, riescono ad essere fruiti in luoghi e contesti non vincolati dal qui ed ora. Documenti, video lezioni, infografiche, focus dettagliati, aggiornamenti di prodotto o listini, possono essere sviluppati dal reparto marketing e raggiungere in breve tempo tutta la rete commerciale senza ostacoli. Ma non solo, attraverso la formazione digitalizzata si hanno il doppio dei benefici per l’azienda e per il dipendente: da una parte si può monitorare quante volte l’app e i documenti sono stati scaricati, in modo sicuro attraverso la presenza di password, con un report mensile che permette di ottimizzare gli

invii e i contenuti diffusi, dall’altra si ha la possibilità di scaricare i contenuti formativi e approfondirli successivamente, offline, in un contesto meno aziendale e più libero da vincoli. In questo modo la conoscenza non risiede più esclusivamente nella figura del docente e nel materiale cartaceo a disposizione, ma nella possibilità di aggiornarsi costantemente attraverso l’accesso ai documenti caricati nell’app aziendale. La mobilità diventa la vera forza della formazione. Già nel 2011 sono comparsi i primi esperimenti di Applicazioni progettate per il mondo della formazione, come App-Lear, made in Firenze, o l’università Ca’ Foscari di Venezia, fra le prime a realizzare un App di formazione per i propri studenti. È anche doveroso segnalare il progetto firmato Adobe, Digital Publishing Suite, che permette di realizzare App

multidevice. Statistiche alla mano il maggior utilizzo della piattaforma Adobe è legato proprio alla produzione di manuali di formazione della forza vendita. Possiamo concludere con una


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citazione di George Siemens: «Conoscere oggi significa essere connessi. La conoscenza si muove troppo velocemente perché l’apprendimento possa essere solo un prodotto.

esistere nelle nostre teste, ma non possiamo più cercare di possedere tutta la conoscenza necessaria personalmente: dobbiamo custodirla nei nostri amici o all’interno della tecnologia che abbiamo a disposizione».

Siamo stati abituati ad acquisire conoscenza avvicinandola a noi stessi. Ci veniva detto di “possederla”, di farla

La maggior parte dell’apprendimento, all’incirca il 70% avviene lavorando, sviluppando i progetti e imparando dai risultati che si ottengono, il restante 30% è diviso tra l’apprendimento condiviso con i colleghi di lavoro e la formazione strutturata e formalizzata.


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William Bernbach

il più grande pubblicitario di tutti i tempi

di Isabella Silvestrini

Le regole sono ciò che gli artisti infrangono. La memorabilità non emerge mai da una formula

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illiam Bernbach, da tutti conosciuto come Bill Bernbach, nacque a New York, il 13 agosto 1911. Nel 1932 entrò come fattorino presso le Distillerie Schenley dove, oltre a consegnare la posta, Bill scrisse un annuncio per l'American Cream Whiskey, un prodotto delle Distillerie per le quali lavorava. L'annuncio apparve qualche tempo dopo, esattamente come l'aveva scritto, senza che il suo nome comparisse. Il presidente dell'azienda ordinò che a Bill Bernbach fosse subito dato un lavoro nel reparto pubblicità. Dopo la seconda guerra mondiale, iniziò la sua carriera come direttore creativo presso l’agenzia Grey Advertising e qui si rese conto dell’importanza del ruolo della creatività nel suo settore, elemento che porterà avanti con forte convinzione, tanto che sarà considerato uno dei principali pionieri della cosiddetta “Seconda rivoluzione creativa”. Verso la fine degli anni ’50,

nell’ambiente pubblicitario si parlava di insoddisfazione, stanchezza, conformismo, ripetitività, mediocrità delle idee e i giovani rivoluzionari pieni di energie e freschezza erano pronti al cambiamento. Bill Bernbach cominciò a mettere in pratica la sua filosofia controcorrente: per Bill impostare la pubblicità in maniera scientifica era un controsenso perché la pubblicità deve innovare, sorprendere e non può farlo se si basa su schemi e regole rigidi e prevedibili. Diffidava dagli scienziati della pubblicità, in quanto sosteneva che la pubblicità è persuasione e la persuasione è un'arte, non una scienza. Bernbach si adoperò per creare una nuova agenzia. Il primo giugno 1949 nacque la DDB (Doyle Dane Bernbach), l'agenzia che segnò il trionfo del talento creativo di Bill Bernbach. I cambiamenti che partono da Bill e dalla sua agenzia sono:

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Bernbach trasferisce copywriters e art directors nello stesso reparto, incoraggiando dunque scrittori ed illustratori a lavorare insieme. In questo modo tutti gli elementi di un annuncio vengono integrati in un'unica, significativa comunicazione e il messaggio che ne esce è intelligente e diretto. In questo modo ai creativi venne concessa sempre più libertà e

il contatto diretto con il cliente non fu solo permesso, ma bensì incoraggiato. Ai team creativi furono dati gli strumenti per riuscire a vendere e a produrre le proprie idee.

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Bernbach per la prima volta offre opportunità di lavoro anche a coloro capaci di dimostrare le opportune abilità e non solamente a quelli che frequentavano scuole del settore, in quanto, come afferma Bernbach molte cose sulla pubblicità le ha imparate non leggendo libri pubblicitari ma grazie a sociologia, filosofia, letteratura, poesia.

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I clienti stessi, attirati sempre più dall’impatto che le nuove campagne creative raggiungevano, iniziarono a chiedere alle proprie agenzie più creatività e a pretendere nuovi team creativi dedicati ai loro budget. Principio fondamentale: per l’efficacia di un messaggio pubblicitario la creatività è inversamente proporzionale alla ripetitività. Ciò significa che la qualità può limitare la quantità ottenendo gli stessi risultati. L’ agenzia DDB fu leader della rivoluzione creativa degli anni ’60. Anche le più grandi agenzie dovettero ormai riconoscere che la creatività fosse ormai la nuova forza


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William Bernbach

del business. Dalle idee della DDB nacquero poi nuove agenzie che raggiunsero un sostanziale successo. Le richieste di annunci alla DDB divennero frequenti e comuni, ma mai l’agenzia presentò annunci scontati anzi, costrinse ed educò i clienti stessi a chiedere una pubblicità migliore, obbligando così le loro agenzie a cambiare. Tratti distintivi del modo di far pubblicità di Bernbach furono: semplicità, originalità, memorabilità e l'impiego dell'intelligenza (intesa come complicità nei confronti del destinatario). Le pubblicità di Bernbach giocavano, infatti, sul piano dell'intesa, trattavano il consumatore mettendolo sullo stesso piano del pubblicitario (e questo non era affatto scontato in un'epoca in cui ancora si tendeva a trattare le persone come una massa uniforme). Fece un uso consistente della retorica, dell’umorismo, elemento quest'ultimo che si rivelerà con ogni probabilità una delle carte più vincenti e che contribuirà a rendere Bernbach il più grande pubblicitario di tutti i tempi. Bisogna precisare che la pubblicità di Bernbach non ha l’obiettivo di procurare risate e ilarità, quanto piuttosto generare un sorriso di complicità. Vuole stupire, ma senza esagerare. Vuole essere più che altro

Uno degli svantaggi del fare ogni cosa in modo matematico, secondo la ricerca, è che dopo un po' tutti lo fanno allo stesso modo. Se avete l'atteggiamento per cui una volta che avete scoperto cosa dire, il vostro lavoro è finito, in realtà la state dicendo allo stesso modo di chiunque altro, e avete perso completamente il vostro impatto

convincente, e non pretende di essere persuasiva. Alla base vi è la consapevolezza che la gente solitamente non ama la pubblicità, perché non ne sopporta l'intrusività. Cerca conseguentemente di evitarla. Secondo Bernbach una buona pubblicità è, quindi, una pubblicità in grado di compensare il destinatario per la sua attenzione e per la sua pazienza, regalandogli un sorriso per il tempo concesso. Occorre essere consapevoli, sempre, che la pubblicità non è la benvenuta, ed è quindi necessario comportarsi con la massima educazione. Vi è quindi, in definitiva, la massima valorizzazione dell'estetica e della

22 parte esecutiva, ma senza mai scordare l'intelligenza. Secondo Bernbach, il messaggio per essere accolto deve essere originale e attirare la curiosità. Fu così che diede vita non solo a una serie di memorabili campagne pubblicitarie, ma anche a un vero e proprio modus operandi, da lui definito Negative Approach. In poche parole, questo consisteva nel focalizzarsi, invece che su un aspetto positivo del prodotto, su un suo


23 apparente punto debole, per capovolgere però la situazione e rivelarne le caratteristiche desiderabili. Due esempi su tutti sono illuminanti a tal proposito. Il primo consiste nella celebre campagna pubblicitaria dedicata al maggiolone della Volkswagen, una utilitaria che doveva farsi largo nel mercato americano di autovetture in cui, più grandi e potenti erano, più venivano considerate desiderabili. Bill Bernbach stravolse questa prospettiva con una pubblicità a stampa in cui l’auto protagonista era messa in secondo piano, quasi sullo sfondo, lasciando spazio a un claim rivoluzionario che recitava: “Think Small”, ovvero “pensa in piccolo”. E giù ad elencare i vantaggi di avere una macchina meno grande: prezzo contenuto, minori consumi, nessun problema nel traffico e via dicendo. L’altro esempio riguarda la campagna per Avis, società specializzata nel noleggio di automobili, eterna seconda rispetto alla rivale Hertz.

Bill trasformò la posizione secondaria dell’ Avis attraverso il concetto “We try harder”, ossia “noi ci mettiamo più impegno”: siccome siamo secondi, potete stare sicuri che faremo tutto quanto al meglio, proprio perché abbiamo una posizione da recuperare (mentre chi si trova in testa alla classifica si curerà solo di mantenere la posizione e tuttalpiù di non commettere errori per evitare di essere raggiunta). Queste due, come altre idee di Bernbach, passarono alla storia. Non sempre, poi, il suo approccio fu considerato vincente, ma di sicuro se oggi le pubblicità sono divertenti e creative, in buona parte lo dobbiamo anche a lui. Nel 1964 la DDB realizzò per la campagna elettorale del candidato democratico alle elezioni presidenziali degli Stati Uniti, Lyndon B. Johnson, uno degli spot più importanti nella storia della propaganda politica televisiva. Nello spot si vede una bambina che sta giocando da sola: conta a stento i petali che strappa da una margherita. Ma arrivata al decimo inizia il count-down esatto e imperativo di una voce fuori campo: il conteggio viene scandito dall'inquadratura

che progressivamente si stringe sull'occhio della fanciulla. Alla fine del conto alla rovescia si vede un'esplosione atomica, e si sente Johnson che dice «Questa è la posta in gioco: fare un mondo in cui tutte le creature di Dio possano vivere, oppure sprofondare nelle tenebre. Ci dobbiamo amare gli uni con gli altri, oppure morire». La voce fuori campo conclude: «Vota Johnson il 3 novembre. La posta in gioco è troppo alta per restartene a casa». Johnson fu eletto trentaseiesimo presidente degli Stati Uniti d'America col 61,1% dei voti, conquistando 44 stati su 50. Ma si fa notare anche che Johnson fu il successore del democratico J.F. Kennedy, presidente statunitense assassinato l'anno precedente. Bill Bernbach, considerato la figura più influente nella storia della pubblicità del XX secolo, morì a New York nel 1982.

Si è efficaci nella misura in cui riesce ad essere originale ciò che si dice. Non è tanto rilevante ciò che si dice, ma come lo si dice


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Tips 5 Regole per essere più produttivi di mattina

Sia che tu sia mattiniero o ti piaccia fare tardi la sera, questi suggerimenti ti aiuteranno a ottenere il massimo dalla prime ore del mattino. È fin troppo facile andare a letto con buone intenzioni per il mattino successivo e poi passare la mattinata tergiversando mentre si attende il caffè. Ma con la giusta strategia è possibile essere più produttivi e creativi, al lavoro, nelle ore del mattino, prima del crollo pomeridiano. 1/ Evitare l'inerzia post-sonno Resistere alla tentazione di prolungare il sonno di qualche minuto. Non state facendo un favore a voi stessi quando premete il tasto "ritardo" della sveglia. Gli studi dimostrano che quando si interrompe il sonno, si estende "l'inerzia post-sonno". 2/ Non dormire di più durante il fine settimana Ti piace andare a letto tardi e dormire il mattino successivo? Fai fatica a svegliarti presto. Non disperare! È possibile riconvertire il ritmo del tuo corpo (ritmo circadiano), in modo da abituarsi ad un risveglio migliore. Evitare attività stimolanti prima di andare a dormire e usa la luce naturale per facilitare il risveglio. 3/ Prendi un succo d'arancia Sei soggetto a stress o ansia?

Bene, è dimostrato che al risveglio un bicchiere di succo d'arancia potrebbe aiutare a sentirti meglio e metterti sulla buona strada per una mattinata di successi e produttività. Il profumo degli agrumi è in grado di ridurre l'ansia e migliorare lo stato d'animo. 4/ Mangiare una mela Mentre la caffeina è una sferzata non sempre salutare, se sei alla ricerca di un'alternativa, una mela è la tua colazione. Gli zuccheri naturali in una mela possono dare un impulso essenziale e i suoi antiossidanti hanno benefici a lungo termine. 5/ Fate per prime le cose più difficili Se davvero volete essere più produttivi durante la mattina, non sprecatela per compiti facili. I ricercatori della Stanford University hanno scoperto che l'energia si scarica progressivamente durante il giorno. Ciò significa che potrebbe diventare più difficile ottenere buoni risultati nell'ultima parte della giornata lavorativa. Definisci le priorità assicurandoti di fare le cose più complicate durante le prime ore del mattino, quando la tua volontà è forte!

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