Arte e città. Arte e spazio pubblico. Alcune considerazioni. Intervista a Francesca Guerisoli.

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Arte e città. Arte e spazio pubblico. Alcune considerazioni. Intervista a Francesca Guerisoli. di Claudio Zecchi

Jochen Gerz and Esther Shalev-Gerz, Monument against Fascism, Hamburg-Harburg, Germany 1986, Courtesy Jochen Gerz and Esther Shalev-Gerz

Francesca Guerisoli è, insieme a Matteo Colleoni, l’autrice del libro La città attraente. Il libro affronta il tema dell’arte nella e della città da due punti di vista: come elemento di attrazione per i flussi di visitatori, quale fattore di rigenerazione e di sviluppo urbano e come pratica che migliora la qualità sociale di luoghi specifici. L’arte di cui si parla è quella collocata o che avviene nello spazio urbano, al di fuori del museo. Ma quale e quanta arte nasce nella città e dalla città? Molta più di quanto a prima vista non ci verrebbe di rispondere: basti pensare all'architettura museale e dei nuovi spazi espositivi nati da riconversione di spazi e aree ex industriali; o alle installazioni interattive, alla video-arte e alle operazioni di Public Art che coinvolgono comunità specifiche sino, infine, alle superfici della città: i muri, di cui gli artisti si appropriano, a volte illegalmente altre sotto commissione. E quale arte funge da motore per l’attivazione di flussi turistici? Rispetto alla capacità della città di attrarre flussi turistici, il libro tratta il museo-icona, feticcio e oggetto d’arte al pari delle collezioni che espone; quelle mostre blockbuster, eventi che mirano ad attrarre un pubblico vasto attraverso progetti più o meno validi dal punto di vista culturale, e gli eventi urbani di grande richiamo come fiere, festival, notti d’arte. Gli spazi all'aperto della città, attraverso l’arte, possono divenire luoghi in grado di attivare dinamiche sociali particolari da un lato, e innescare reti di comunicazione che intercettano un pubblico non specifico dall'altro. L’arte ha avuto spesso un ruolo fondamentale nella rigenerazione di aree degradate all’interno dello spazio urbano avviando quel fenomeno che prende il nome di gentrificazione. Pensi che questo sia un ruolo benefico e positivo oppure no? Perché? Una premessa. Parliamo spesso di gentrification quando affrontiamo i temi legati all'arte nella città, ma non so se siamo davvero in grado, come storici dell'arte, di rispondere con cognizione di causa a questa domanda. Credo che sarebbe utile sottoporre la domanda ai sociologi urbani, a ricercatori che utilizzino

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strumenti e metodologie di analisi di cui non ci avvaliamo. Dello stesso concetto di gentrificazione e delle dinamiche del fenomeno spesso ne parliamo in modo parzialmente distorto. Sono frequenti i casi in cui viene aperta un'attività legata all'arte contemporanea per conferire un valore culturale a un'area riconvertita. Abbiamo visto spesso, anche in Italia, come musei, centri espositivi e gallerie siano stati realizzati in quartieri popolari in modo strumentale a operazioni di riqualificazione urbana, divenendo da operai a quartieri abitati dalla media borghesia. L'operazione di Milano Bicocca ne è un esempio, con Hangar Bicocca e il Teatro degli Arcimboldi. Singoli progetti d'arte o singoli spazi espositivi però non sono in grado di avviare da soli processi di gentrificazione. Per rispondere alla tua domanda, credo vada analizzato caso per caso e vedere innanzitutto se si tratti di un processo spontaneo o innescato dall'alto; se abbia a che fare con la produzione artistica oppure solo con l'esposizione. Successivamente, se e in che modo viene preservata la storia del quartiere e le relazioni sociali o al contrario ne viene snaturata l'identità storica, portando con sé anche sfratti e abbattimento di edifici. Interessante sul tema arte e gentrificazione è come l'arte possa opporsi a quelle strategie che portano a questo fenomeno. Il caso di Isola Art Center, nel quartiere Isola di Milano, è un esempio interessante per la modalità di azione, di discussione e di lotta condivisa tra artisti e abitanti del quartiere, anche se non ha portato alla soddisfazione delle richieste espresse dalla comunità. L'operazione divenuta “da manuale” sul tema della resistenza comunitaria verso le scelte di certe politiche pubbliche è quella di Park Fiction, ad Amburgo. Il collettivo Park Fiction, fondato nel 1994 dall'artista Christoph Schafer con un'associazione di residenti, si oppose a un grande progetto di trasformazione urbana che prevedeva l'edificazione dell'ultimo spazio ad uso pubblico di un quartiere popolare. Invece di protestare, il gruppo ha cominciato a fare picnic nell'area, dichiarando che quello spazio avrebbe presto ospitato un parco invece del previsto grattacielo adibito a uffici. Il gruppo invitò la comunità dei residenti a utilizzare il parco per farvi festival, mostre, incontri, incoraggiandoli a prendere il controllo del processo di pianificazione urbana senza chiederne il permesso alle autorità cittadine. Questa strategia d'uso del parco da parte della comunità si è dimostrata percorribile, costituendosi quale alternativa alla pianificazione dall'alto, e dopo dieci anni di urbanizzazione partecipata e lotte civili, iniziò la costruzione del parco, componendosi di diversi spazi (collina verde, campo di tulipani, teatro verde, isola delle palme, solarium, ecc.). 1 La comunità da consumatrice diviene autrice. Come sottolinea Marco Scotini: “L'importanza di Park Fiction consiste nel processo di pianificazione democratica che ha visto il passaggio del cittadino da consumatore urbano ad autore di un frammento di città”. 2 Pensi che l’arte, e nello specifico tutti noi che lavoriamo in questo ambito – artisti, curatori-critici, istituzioni – abbiamo una responsabilità oltre il nostro campo d’azione? Prima dovremmo chiederci qual è il nostro campo d'azione. E' prestabilito? Nei progetti che seguo il campo d'azione viene negoziato di volta in volta. Uscire nello spazio urbano, poi, pone ancora più questioni, agendo in uno spazio sociale percorso da dinamiche molto più complesse dello spazio del museo. Penso che oggi ogni cittadino, soprattutto in un tempo in piena crisi culturale, politica, sociale, economica, ecc., fatto di “emergenze cronicizzate”, abbia una responsabilità oltre il proprio campo d'azione. Cornelius 1

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Nato Thompson (a cura di), Living as Form. Socially Engaged Art from 1991-2011, MIT Press, Cambridge, Massachusetts-London, England 2012. Marco Scotini, “Park Fiction”, in Marco Scotini, Laura Vecere (a cura di), Dopopaesaggio. Spazio sociale e ambiente naturale nell'arte contemporanea, TraArtStrumenti, Regione Toscana, Firenze 2006, p. 210.

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Castoriadis scriveva che la democrazia è un “regime di autoriflessività collettiva”, dove la funzione critica dovrebbe essere esercitata da tutti. Esponendoci pubblicamente, come operatori dell'arte e della cultura, abbiamo un onere e un onore maggiore rispetto ad altri tipi di professioni in merito alla contribuzione dello sviluppo della funzione critica collettiva. Castoriadis, oltre trent'anni fa, metteva in guardia sulla perdita di essa,3 problema intrinseco alla nostra epoca che ha distrutto la funzione critica trasformandola in promozione commerciale. Se la cultura è fatta di offerte, vive di seduzione, di pubbliche relazioni, della creazione di nuovi bisogni – come notava Pierre Bourdieu – quale spazio di libertà ha ancora la critica? Credo che con il nostro lavoro possiamo cercare di contrapporci alla cultura mainstream del presente, che – dicendolo con Zygmunt Bauman – non ha persone da coltivare, ma clienti da sedurre. 4 Come operatrice del contemporaneo sento la necessità di ideare e promuovere progetti artistici in grado, in modo e livello diverso, di stimolare la riflessione critica. L'arte ha la capacità di produrre crepe nel panorama mediatico; l'arte può insinuare il dubbio e portarci a formulare domande in merito a fenomeni e situazioni che non vediamo, su cui siamo disattenti. Oggi l'arte è dunque sempre più coinvolta in quel difficile compito di creare delle “crepe”, delle fratture nel sistema preordinato. Un'arte che è critica, che “si propone di smascherare i meccanismi della dominazione, allo scopo di trasformare lo spettatore in un attore consapevole, capace di cambiare il mondo” (Jacques Rancière).5 Partendo dalla mostra curata da Fabio Cavallucci nel 2010, Post-monument, si può fare un'analisi del processo di trasformazione del monumento nell’era contemporanea. Il cambiamento del linguaggio artistico nella fase di passaggio da modernità a post-modernità ha decisamente contribuito al riconoscimento della scultura come espressione, in certi casi, di monumentalizzazione della storia. Oggi ci troviamo di fronte ad un processo di de-monumentalizzazione per cui il monumento tradizionale fatto di materiali che devono resistere al tempo e alla storia, non esiste più. Piuttosto il monumento, come dici anche tu nel tuo libro (La città attraente), scende dal suo piedistallo abbracciando addirittura l’intero ambiente e facendosi in taluni casi, architettura. Si tratta di quei lavori che nascendo da un processo partecipativo e connettivo col tessuto sociale vengono riconosciuti dalla comunità che li recepisce. Un po’ come avviene attualmente nel caso di alcune Istituzioni non ufficiali (non riconosciute da un protocollo politico ufficiale) che diventano tali se la collettività le riconosce come tali. Penso al MAAM – Museo dell’Altro e dell’Altrove della città di Metropoliz di Roma, dove l’arte diventa una sorta di barriera a difesa del diritto all’abitazione per la comunità di immigrati che vive gli spazi abbandonati della ex Fiorucci. Oggi, dunque, che le ideologie sono cadute; che non ci sono più né santi né eroi e in cui i valori sono così labili e transitori – vedi le polemiche scatenate dal lavoro commissionato dalla Galleria Civica di Trento a Gillian Wearing, Family Monument, con l’intento di celebrare la tipica famiglia trentina –

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Cornelius Castoriadis, “Trasformazione sociale e creazione culturale” in Id. Finestra sul caos. Scritti su arte e società, Elèuthera, Milano 2007, p. 17 (pubblicato per la prima volta in “Sociologie et sociétés”, vol. II, n. 1, aprile 1979). Z. Bauman, Capitalismo parassitario, Laterza, Roma-Bari 2011, p. 34. J. Jacques Rancière, Malaise dans l'esthétique, Editions Gaalilée, 2004 (trad. it.: Il disagio dell'estetica, Ets, Pisa 2009, p. 54).

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cosa celebra un monumento? O meglio, un monumento nasce ancora con lo scopo di celebrare qualcosa? Oggi, così come esiste ancora la scultura all'aperto, il monumento celebra ancora. Ma scende dal piedistallo, da verticale si fa orizzontale, non solo a livello spaziale. E spesso celebra i microeventi della quotidianità e ciò che compone la nostra vita di donne e uomini comuni, al posto di personalità illustri. L'esperienza di Family Monument di Gillian Wearing pone alcuni interrogativi sull'opportunità di realizzare un monumento che celebri la famiglia tipica quando il concetto di famiglia è oggi più che mai fluido, in cambiamento, e terreno di scontro tra conservatori e progressisti. Cristallizzare l'idea di famiglia come composta da padre, madre, due figli e un cane ha portato a un senso di esclusione di una parte della comunità. Immagino che, se in Italia non ci fosse questo scontro sul piano dei diritti delle coppie di fatto, probabilmente tale rappresentazione, frutto di un'indagine statistica sulla famiglia trentina prevalente, non avrebbe causato le proteste che si sono verificate. Mi piace pensare al progetto Ai nati oggi (1998) di Alberto Garutti come a un monumento alla nascita particolarmente calzante per il nostro tempo e alla condivisione dello spazio con altre culture, religioni, storie e memorie. Poetico, evanescente ma stabile, che non fa alcun riferimento al colore della pelle, alla provenienza, alla cultura o religione del nuovo nato e dei suoi genitori. Un monumento alla nascita che include, che avviene con la collaborazione dei cittadini. Il monumento continua anche a celebrare la memoria. Tra gli artisti che più si sono interrogati sul tema dei valori civici del monumento c'è Jochen Gerz, e un suo chiaro esempio è Monument against Fascism (19861996), realizzato con la moglie Esther ad Amburgo, su commissione comunale. Quando l'amministrazione della città gli propose di partecipare al concorso per la realizzazione del monumento, Gerz si dimostrò titubante: realizzare un monumento contro il fascismo “suonava male”, dice. L'artista accettò di partecipare al concorso perché la commissione annunciò che non voleva qualcosa che piacesse loro, né che fosse facile da mantenere, ma che tenesse aperta la ferita della memoria, 6 dimostrando in tale richiesta grande lungimiranza. La colonna di Monument against Facism realizzata da Jochen ed Esther, sprofondata nel suolo nell'arco di dieci anni, delega l'essere monumento ai singoli cittadini: “Nessuno può erigersi contro l'ingiustizia al nostro posto”. Noi siamo il monumento, noi abbiamo il compito di incarnare i valori civici demandati al monumento. Monumenti come il Grande Cretto (1984-1989) di Alberto Burri a Gibellina o il Memoriale per gli Ebrei vittime dell'olocausto in Europa (2003-2005) di Peter Eisenman sono anch'essi esempi che lasciano aperta la ferita della memoria. Una critica mossa all’eccessiva timidezza, o ipocrisia, da parte degli artisti nei confronti del monumento, viene da Angela Vettese, che dice che “celebrare è difficile, ma a volte ce n’è bisogno. È un modo per riconoscerci come comunità. Nell’assenza di artisti visivi che vogliano assumersi questa responsabilità, ecco che se la prendono gli architetti con le loro nuove forme simboliche”. 7 Infine vorrei citare Lara Favaretto, che con Momentary Monument (2009), a Trento, suscitò un acceso dibattito proprio sul tema del monumento. Attraverso il mascheramento temporaneo del monumento a Dante 6

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Giacinto Di Pietrantonio, Francesca Guerisoli, Gabi Scardi (a cura di), Perché non parli? Le discipline dell'arte contemporanea raccontate dagli autori, Silvia Editrice, Cologno M.se (MI) 2010, pp. 313-321. A. Vettese, “Scultura, nonostante tutto”, in G. Verzotti, A. Vettese (a cura di), Fondazione Arnaldo Pomodoro. La collezione permanente, Catalogo della mostra, Milano, 29 sett 2007-9 marzo 2008, Skira, Milano 2007, p. 26.

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(1896), simbolo della comunitĂ trentina, che indica la convivenza pacifica della lingua italiana e tedesca nella Contea del Tirolo, l'artista condusse un'operazione per riflettere sull'invisibilitĂ e l'assuefazione nei confronti di quel monumento specifico e dei

significati che veicola, cosĂŹ come sul monumento in generale. La

discussione sul monumento è estremamente complessa e inesauribile in questa sede. Abbiamo parlato di alcune forme di monumento, e potremmo citare anche azioni performative e videoinstallazioni urbane o, ancora, opere interattive.

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