La notte dell'erba cremisi - Mario Erminio Bussini

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Mario Erminio Bussini LA NOTTE DELL’ERBA CREMISI

Casini Editore


Š 2011 Valter Casini Edizioni www.casinieditore.com ISBN: 978-88-7905-190-3


A Maddalena, lei lo sa A HP e Stephen



Ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante tu possa sognare nella tua filosofia. — William Shakespeare, Amleto Come molti scienziati — alcuni dei quali sono reputati “giganti” della scienza — che si sono presi la briga di indagare in maniera sistematica sull’aldilà, anch’io sono giunto alla conclusione assodata che sopravviviamo alla morte fisica. — Victor Zammit, Un avvocato presenta il caso dell’aldilà



1.

Mi accorsi ben presto di non essere un individuo comune. Non che fossi migliore o peggiore degli altri, ma ero diverso. Che ci fosse qualcosa di strano in me era evidente, tanto che chiunque mi conoscesse finiva per notarlo, presto o tardi. A parte un’evidente difficoltà a relazionarmi con il mondo, a stabilire un dialogo con i miei coetanei, a condurre una vita che si possa definire “comune” e ad affrontare tante situazioni che le persone considerano “normali”, mostrai presto un’acuta sensibilità verso aspetti dell’esistenza che per altri risultavano invece insignificanti o superflui, e una forte predisposizione all’isolamento, all’introspezione. Tutto questo fu incomprensibile anche a me stesso fino a quando un trauma non mi aprì gli occhi e finalmente riconobbi la mia strada. Le differenze tra la definizione classica di medium e ciò che io sono, vedo e percepisco sono molteplici. Il medium è per definizione un tramite, mentre io non sento di esserlo. O meglio, sono qualcosa di diverso, non mi limito ad ascoltare e riferire, ma interagisco. Ho persino una sorta di autorità


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su alcuni spiriti, e su diverse entità che appartengono all’Infinito Regno del Non Visibile. Inoltre non prevedo il futuro, quantomeno non nel modo classico, e subisco delle visioni (subire è il verbo giusto). Ma cercherò di essere più chiaro strada facendo. Come per l’aspetto fisico, in cui le diverse combinazioni di DNA determinano ogni minima caratteristica, così per la nostra mente e la nostra personalità le attitudini e le variabili ambientali sono talmente numerose da aver fatto sviluppare in noi capacità uniche e peculiari. Così nascono campioni assoluti di nuoto o di baseball, geni della pittura, dell’arte, premi Nobel per l’economia o la letteratura. Alcune persone hanno una vista o un udito acutissimo, o un senso del gusto o dell’olfatto estremamente sviluppato. Dicono che gli Apache fossero in grado di distinguere un animale da tre chilometri di distanza. Anticamente, e anche oggigiorno presso alcune popolazioni, alcuni bambini erano considerati portatori di un particolare “dono”, una predisposizione verso la sfera del non visibile, e venivano istruiti per diventare degli sciamani. Come io sia diventato ciò che sono resta un mistero. Purtroppo la mia vita ha avuto una brusca interruzione, un buco di circa tre anni di cui non conosco e non ricordo nulla, se non che mi ha reso la persona che sono oggi. Ma anche di questo vi racconterò meglio in seguito. Spero che abbiate intenzione di proseguire. Per ora mi preme spiegare che, mio malgrado, ho sviluppato tutta una serie di capacità molto particolari con cui devo obbligatoriamente convivere e che mi esaltano e mi rendono la vita impossibile al tempo stesso. Se siete pronti partiamo, vi avverto però che le cose si faranno complicate.


2.

Detesto essere disturbato mentre sto mangiando. Venditori telefonici, imbonitori, rappresentanti, sondaggisti, parenti vicini e lontani, colleghi di lavoro o sconosciuti, tutti sembrano possedere una telecamera puntata sulla sedia di fronte al mio tavolo e un talento straordinario per far squillare il telefono nel preciso momento in cui mi siedo o porto alla bocca il primo assaggio del mio pasto, o magari appena entro nella doccia. Per questo motivo anni fa rinunciai ad avere un telefono fisso in casa, perché il telefono fisso non è controllabile. Non posso prevedere quando suonerà, né chi sarà a telefonarmi. Non mi piacciono gli oggetti sui quali non posso esercitare un controllo. Nella vita sono già troppe le variabili che non si riescono a controllare e nella maggior parte dei casi non portano neanche a nulla di buono. Per questo preferisco avere soltanto un telefono cellulare, e spegnerlo prima di sedermi a tavola, e lasciare il mondo fuori. Il guaio è che una telefonata inaspettata non è l’unica fonte di disturbo che possa manifestarsi.


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Era una tiepida mattina di aprile in cui i raggi del sole filtravano tra le tendine della finestra e illuminavano la cucina di traverso, conferendo all’intero ambiente un senso di pace e di ottimismo. Mi ero appena seduto per fare colazione, latte ben caldo e una scatola di cereali. Preferisco qualcosa di caldo la mattina, scioglie quel leggero senso di freddo che la notte mi lascia addosso. Sollevai il primo cucchiaio della mia colazione quando con la coda dell’occhio scorsi un movimento sotto la gamba del tavolo. Riconobbi subito lo scarpone da montagna, marrone e con i lacci neri e gialli, la punta consumata e l’odore del cuoio ingrassato. Mi apparve un po’ sfocato. Sbattei il cucchiaio sul tavolo con un gesto di stizza e alzai gli occhi al cielo. — Cristo Santo, possibile che non ci sia modo di tenerti lontano? — quasi gridai. Colin si lasciò cadere sulla sedia di legno, allargò le gambe e si torse le mani. Poi abbassò la testa risentito. Una ciocca di capelli biondi gli spiovve sul viso. Non bestemmio mai, ma talvolta nomino Gesù di proposito perché so che a Loro dà fastidio. E quando parlo di Loro intendo gli spiriti, le anime dei trapassati. Come quella di Colin. — Io non so come cazzo fai, oltretutto. Ho piazzato protezioni ovunque, intorno alla casa. Colin scosse un po’ la testa e si grattò l’incavo del braccio sinistro. Alcuni spiriti lo fanno ancora: conservano nell’altra vita la gestualità di chi possiede un corpo fisico.


La notte dell’erba cremisi

Le protezioni (doppie, intorno alla zona notte) sono necessarie, altrimenti entrano di continuo, a ogni ora del giorno e della notte. Non è simpatico avere degli spiriti inquieti che girano per casa. Non perché mi facciano paura, non me ne fanno più ormai da molto tempo, ma vorrei essere lasciato in pace. Per strada ne scorgo in continuazione: sugli autobus, nei negozi, ovunque. Ma l’idea di averne qualcuno che mi guarda mentre dormo o mentre faccio la doccia mi infastidisce molto. E non basta ammonirli, e neanche minacciarli: si presentano lo stesso. Però il caso di Colin è differente. Ormai ci conosciamo da anni, è quasi un mio coinquilino. Tuttavia, non mi va che si presenti se non invitato. E lui lo sa. E poi, entrare in casa mia con tutte le protezioni di cui l’ho disseminata deve avergli procurato dei disagi enormi. Le altre anime infatti se ne tengono alla larga. Insomma, deve esserci una buona ragione. Un’ottima ragione. — Dai, ok, non fare così adesso. Colin alzò la testa, ancora un po’ risentito. — Che cosa succede? — insistetti. Con l’indice destro indicò il mio telefono cellulare poggiato sul davanzale della finestra, immerso nella luce del sole. — Certo, io spengo il telefono per non farmi rompere le scatole, ma a che serve? Ho il mio avviso di chiamata personale! — lo ammonii di nuovo. Colin scosse ancora la testa con aria colpevole. Misi in bocca un altro cucchiaio di cereali. Il latte ormai si era raffreddato. Mi alzai e raggiunsi il cellulare.


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Lo accesi e lo infilai in tasca. Ovviamente squillò dopo neanche dieci secondi. Lessi sul display che era Williamson. Alzai gli occhi al cielo. — Pronto? — Ehm, Wes, sono Williamson — rispose la voce di Willie. Quell’«ehm» è il suo esordio classico. È il suo modo per dirmi: «So già che i colleghi mi prenderanno per il culo, ma se non ti chiamo non so come uscirne». — Eh, sì, fin lì c’ero arrivato… — lo pungolai. — Casini grossi? — Sì — rispose sempre imbarazzato. — Sono tra la ventinovesima e Southend, quando mi puoi raggiungere? Sbuffai. — Dammi una mezz’ora, arrivo. In fondo non mi dispiaceva. Come consulente del dipartimento di polizia, mi posso permettere di lavorare pochi giorni al mese e vivere di rendita il resto del tempo. Tuttavia, quando mi chiamano in causa è sempre per qualche caso estremamente importante e complicato, con annesso corollario di cadaveri, sangue ed efferatezze varie che si tramuta per me in incubi e mal di stomaco. — Beato te che sei morto — dissi a Colin. — Almeno non hai più di questi problemi — aggiunsi, accendendomi una sigaretta. Aprii la porta d’ingresso e raccolsi il giornale dai gradini, allargando poi le braccia e stiracchiandomi con un gemito di piacere. L’aria del mattino sapeva di erba, di acqua e di pulito. L’acquazzone della nottata aveva dato al mondo una bella ripulita. Sarebbe stato bello fare un giro in moto, una colazione al bar, magari incontrare qualche bella ragazza con cui flirtare.


La notte dell’erba cremisi

La cameriera dell’Hot & Spicy, per esempio. Mi faceva impazzire, con quelle belle forme sode e abbondanti. Invece no. Squartamenti, morti ammazzati, sangue e crudeltà. Ma andava bene, in fondo è sempre meglio che lavorare, no? Misi il giornale piegato sotto il braccio. — Ehi, bell’uomo! — feci a Colin, ancora seduto al suo posto. — Vado in bagno. Non mi seguire. Qualsiasi cosa succeda, tu non mi seguire. Altrimenti ti ficco in una bottiglia per sei mesi, ok? E sai che posso farlo. Colin alzò una mano, inclinando leggermente il capo.


3.

Durham è una città di circa duecentomila abitanti situata sulla costa ovest. Un tempo il suo porto era un riferimento importante per le navi in transito nel Pacifico e le sue acciaierie erano rinomate in tutto il Paese, ma a partire dagli anni Novanta una pesante crisi economica ha bruciato alcuni quartieri come un furioso incendio, provocando migrazioni e abbrutimento della popolazione. Il centro in qualche modo si è salvato, ma il degrado ha devastato le periferie, estendendosi come un morbo secondo un processo che a oggi pare ancora irreversibile. La Harley produce un rumore assordante, ma a volte è la musica più bella del mondo. Adoro andare in moto con l’aria fresca e pulita della primavera e senza troppo traffico, il vento in faccia e la potenza sotto il sedere. Avrei voluto avere ancora i capelli lunghi fin sotto le spalle. Ma ormai erano andati per non tornare mai più. Con i capelli lunghi sarebbe stato il massimo. Diciamo che così eravamo al novantanove per cento.


La notte dell’erba cremisi

Imboccai la Sunset, uno dei miei piccoli paradisi dello shopping, e lanciai un’occhiata al Mr. Burger, regno di squisiti otturatori di arterie e croccanti patatine. Passai accanto all’MM13, rivendita di abbigliamento militare e oggettistica per bikers dove ogni mese versavo gran parte del mio onorario nelle mani di Tommy il Bastardo. Svoltai all’angolo con la ventinovesima e superai il VirtualWorld, il must assoluto del virtuale ludico e dei paradisi al silicio, un piccolo varco spazio–temporale racchiuso in quattro mura di pesante cemento dipinto di rosso in cui anche il più grigio impiegato di mezza età può ritornare bambino. Non è un piacere da poco sbattersi qualche ora sul divano davanti a un bel 42 pollici su cui far girare l’ultimo grido in fatto di caccia agli zombie, per lasciare il mondo col suo carico di ulcere, casini e rotture di palle fuori dalla porta. Mi accorsi in quel momento di non avere con me il lettore mp3. Peccato, i Place of Skulls mi avrebbero reso fantastico il momento, ma con il rumore dell’Harley non avrei sentito nulla comunque. Mi sentivo davvero bene, anche se sapevo di correre incontro a un nuovo orrore. Quello che non immaginavo era che sarebbe stato peggio di molte altre volte, e che mi avrebbe cambiato la vita per sempre. Percorsi il bel viale alberato della ventinovesima quando vidi il blocco della polizia all’incrocio con la Southend, come indicatomi da Willie. Dieci metri prima del blocco un agente incanalava il traffico sulla corsia più a sinistra, mentre le altre due erano sbarrate. Mi fermai e mi identificai. Spostò una transenna e mi fece passare. Parcheggiai la moto accanto a un albero.


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Williamson mi venne incontro. — Ciao Wes, cerchiamo di fare in fretta, Fraser sarà qui a momenti. Fraser era il superiore di Willie, un capitano di polizia alto e magro, un trombone di mezza età drogato di lavoro e leccaculismo, tanto falso quanto pallone gonfiato, inutilmente pignolo e inguaribilmente rompicoglioni. Willie aveva l’aria di chi ha dormito in macchina: il solito impermeabile giallino tutto spiegazzato, il nodo della cravatta scura allentato sul colletto aperto della camicia bianca, la barba lunga e la chioma bionda, già ingovernabile di per sé, più spettinata del solito. — Mmm… notte brava, eh? — Non me ne parlare — rispose. — Se non dormo entro dieci minuti svengo sull’asfalto, così l’ambulanza porta via anche me. — Prova a togliere l’impermeabile, o ce l’hai tatuato addosso? Diamine, ci saranno venti gradi… Sorridendo mi mostrò il dito medio e poi lo usò per tirarsi gli occhiali sul naso. Osservai la scena: alla mia destra, dietro l’agente che faceva defluire il traffico, tre transenne bianche e rosse e due auto della polizia. Altre due alla mia sinistra, sulla strada, a una ventina di metri di distanza. In mezzo, uno spazio vuoto di una ventina di metri. Mi slacciai il casco e lo sfilai, poi tolsi il sottocasco grattandomi il cranio rasato e tatuato. Il casco mi fa sempre prudere i tatuaggi. — Allora, Williamson. Non sono mai stato un grande osservatore, ma non vedo né sangue né cadaveri, perché mi hai chiamato? Per tutta risposta mi prese per un braccio. — Vieni. Da questa parte.


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Mi guidò verso il centro della strada e a circa due metri dallo spartitraffico alberato vidi l’oscuro quadrato di un tombino aperto. — Che diavolo… — Vieni, avvicinati — ripeté Williamson, indicando il tombino. Mi accovacciai e poggiai le mani sull’asfalto ancora leggermente umido per la pioggia della notte precedente. Mi sporsi appena per guardare nell’apertura. Scorsi una piccola chioma nera. Una scarmigliata, disordinata chioma di bambino. — Cristo Santo! — esclamai, prendendomi la testa tra le mani. — Lo so… — rispose Williamson. Mi sporsi un altro po’. Al di sotto della testa si scorgevano chiaramente le spallucce e la trama del piccolo gilet a quadrettini sopra una camicina bianca. — Ma è solo un bambino… — dissi con voce rotta. La pena era indescrivibile. — Sì — rispose Williamson. — Sapete già di chi si tratta? — chiesi. — Siamo abbastanza sicuri, almeno stando alla descrizione del piccolo e del suo abbigliamento. Willie estrasse un taccuino dalla tasca interna dell’impermeabile, lo aprì e iniziò a leggere. — Dovrebbe trattarsi di Billy Mason, sette anni, la madre ne ha denunciato la scomparsa dalla sua casa di Celtenham Avenue ieri sera alle 19.45. Lo stavamo cercando. Stamattina alle 6.30 un ciclista di passaggio ci ha segnalato un tombino aperto e pericoloso proprio in mezzo alla strada. Williamson indicò alla mia destra. Un ragazzo alto in perfetta tenuta da ciclista parlava con due agenti, i colori del giorno creavano incredibili varietà di riflessi sui suoi occhiali da sole.


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Mi alzai in piedi, avvicinandomi al tombino e guardandoci dentro. — Non lo abbiamo ancora spostato, proprio come ci hai chiesto le altre volte. Ovviamente ci siamo accertati che fosse deceduto — disse Willie. — Ovviamente… — ripetei mormorando. — No, avete fatto bene… Non capisco, però, perché mi avete chiamato. Per quanto terribile fosse l’accaduto, in genere non venivo interpellato per casi del genere. Williamson si avvicinò. Si guardò dietro le spalle, accertandosi che nessuno ascoltasse. Poi parlò a voce bassissima. — Siamo davvero nella merda, Wes, questo è il secondo… — Il secondo? — chiesi allarmato. — Sì, il secondo, purtroppo… — riaprì il taccuino. — Il primo è stato Patrick Fisher, giovedì scorso, 6 anni, scomparso anche lui da quattordici ore e rinvenuto in un tombino tra la quattordicesima e Varney. Quindi c’era in giro un maniaco che rapiva i ragazzini e li gettava dentro dei tombini, che mondo di merda. Un piccolo esserino innocente trattato come un sacco di spazzatura da qualche figlio di puttana depravato che l’aveva usato per i suoi porci comodi e poi se n’era liberato senza neanche degnarsi di dargli un minimo di sepoltura. Brutto pezzo di merda, avrei dato via con felicità tutto il mio conto in banca pur di averlo tra le mani per dieci minuti. Magari sarebbe anche potuto succedere. — Willie, per favore, dimmi almeno che non abusa di loro… Willie scosse la testa. — No, per fortuna no — sospirò. — Però li ammazza di botte. Il piccolo Patrick è morto per le fratture e le emorragie causate dai traumi, in parte inferti con le mani e in parte causati da un corpo contundente, probabilmente un bastone. — Gesù… — mormorai. — Uccisi a bastonate.


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— Già — aggiunse Willie. — E dopo che l’ha ucciso lo ha completamente dissanguato. — Dissanguato? — fissai Williamson. Forse poteva trattarsi di un omicidio rituale. Diedi un’altra occhiata al piccolo nel tombino. La testa lievemente inclinata sulla spalla destra lasciava intravedere un po’ di pelle bianca come il latte. — Sospetti, indizi? — chiesi. — Niente, ovviamente si sta ancora indagando, ma finora non è venuto fuori niente di niente. Nessuna traccia, e le persone coinvolte hanno alibi facilmente riscontrabili. Per questo ti abbiamo chiamato. Non abbiamo in mano nulla, e oltretutto questo bastardo procede alla media di due cadaveri in cinque giorni, finora… — Deve essergli scesa la catena — dissi. — Come? — Ha perso la testa, deve essere arrivato al punto di rottura e non riesce più a controllarsi né a fermarsi. — Sì — rispose Williamson. — Sarà così. Annuii. — Ovviamente poi voglio vedere anche l’altro ragazzino. — Certo — rispose. — Magari domani. Stiamo ancora facendo delle analisi. — Ok, domani. Bene. Anzi, male. Malissimo. L’inferno aveva sputato sulla terra qualche essere immondo che rapiva e ammazzava di botte dei bambini. D’accordo, allora. Priorità Uno. Avrei trovato quel bastardo a costo di andarlo a prendere davvero all’inferno. Con un po’ di fortuna avrei avuto anche l’opportunità di passare un po’ di tempo con lui, prima di consegnarlo alla polizia. Oh sì, mi sarebbe piaciuto, davvero.


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— Ok — dissi ancora a Williamson. — Vediamo cosa si può fare, lasciami un po’ di spazio. — Certo — rispose allontanandosi verso i suoi colleghi.






I libri cambiano il mondo

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Casini Editore Via del Porto fluviale, 9/A – 00154 Roma www.casinieditore.com info@casinieditore.com Finito di stampare nel mese di luglio 2011 Stampato per Casini Editore dalla Arti Grafiche La Moderna — Roma



― Billy, aspetta. ― Cercai di toccargli un braccio, ma il piccolo si voltò e si mise a correre in quello strano movimento lento ma fluido che appartiene all’altra dimensione, quasi un muoversi in un liquido rarefatto ma viscoso.

Un thriller psicologico ricco di suspense e tensione. Il talento visionario e spirituale di Mario Erminio Bussini vi terrà col fiato sospeso fino al folgorante colpo di scena finale.

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