Cantieri d'alta quota - PREVIEW

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Luca Gibello

Cantieri d’alta quota

Quanti sono i rifugi e bivacchi delle Alpi? Ben più di un migliaio. O probabilmente ben più del doppio. Ma in realtà, che cos’è un rifugio alpino? Se, di getto, quasi tutti diremmo che è una struttura costruita per ospitare gli alpinisti, occorre però intendersi circa l’identità di costoro e, allargando il cerchio, occorre capire che cosa ognuno di noi intenda per alpinismo. Infatti, il termine «rifugio» è una galassia che comprende sia i cosiddetti «punti d’appoggio» a bassa quota e le strutture servite dal prospiciente e spazioso parcheggio auto, sia i manufatti incustoditi che ricevono la visita, quando va bene, d’una decina d’anime l’anno. Di fronte a una sostanziale mancanza di pubblicazioni e ricerche sistematiche, il libro rappresenta il primo organico tentativo di restituire le vicende che hanno portato alla costruzione dei rifugi, analizzando le motivazioni della committenza, le tecniche e i materiali edilizi, le figure dei progettisti, i valori simbolici e politici, gli immaginari collettivi; il tutto inquadrato all’interno degli accadimenti storici generali e delle evoluzioni sociali. Dal 1750 ai giorni nostri, dai prodromi dell’alpinismo ai modestissimi ripari degli eroici scalatori ottocenteschi, dal fenomeno dei rifugi-osservatorio a quello dei rifugi-albergo, dall’alpinismo e dall’escursionismo di massa fino alle opere recenti che si fanno segno forte nel territorio e rompono con l’immagine della baita. Grazie anche a un ricco apparato iconografico, vengono passati in rassegna circa 190 rifugi e 20 bivacchi in Italia, Francia, Svizzera, Germania, Austria e Slovenia. Il libro è destinato non solo agli addetti ai lavori ma soprattutto agli appassionati della montagna, affinché cresca la consapevolezza di un patrimonio che tutti siamo chiamati a rispettare e valorizzare. Per capire che dietro le «pietre» dei rifugi vi sono le storie delle persone che li hanno immaginati e costruiti; operando, con ogni tipo di ristrettezza di mezzi, in ambienti estremi, sempre oltre i 2000-2500 metri di quota, laddove non arrivano strade e funivie e il cantiere è agibile solo nei mesi estivi, quando il meteo lo consente. In appendice, due approfondimenti di natura storica e progettuale: sui punti d’appoggio legati alla conquista e alle prime salite del Monte Bianco (Pietro Crivellaro); sulle tendenze e problematiche che informano la costruzione dei ricoveri nel XXI secolo (Roberto Dini).

Luca Gibello (Biella, 1970), laureato in Architettura al Politecnico di Torino nel 1996, consegue nel 2001 il dottorato di ricerca in Storia dell’architettura e dell’urbanistica. Svolge attività di ricerca sui temi della trasformazione delle aree industriali dismesse in Italia. Presso il Politecnico ha tenuto corsi di Storia dell’architettura contemporanea e di Storia della critica e della letteratura architettonica. Dal 2004 è caporedattore de «Il Giornale dell’Architettura», per il quale scrive regolarmente. È autore di saggi critici e storici in libri e riviste di settore. Con Paolo Mauro Sudano ha pubblicato Francesco Dolza. L’architetto e l’impresa (Celid, 2002) e Annibale Fiocchi architetto (Aión, 2007); ha inoltre curato Stop&Go. Il riuso delle aree industriali dismesse in Italia. Trenta casi studio (con Andrea Bondonio, Guido Callegari e Cristina Franco; Alinea, 2005), 1970-2000. Episodi e temi di storia dell’architettura contemporanea (con Francesca B. Filippi e Manfredo di Robilant; Celid, 2006) e Il Cineporto della Film Commission Torino Piemonte. Un’opera di Baietto Battiato Bianco (Celid, 2009). È stato coordinatore scientificoredazionale del Dizionario dell’architettura del XX secolo (Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma 2003). È appassionato di alpinismo classico ed escursionismo. Ha salito 45 degli 82 quattromila delle Alpi.

Luca Gibello

Cantieri d’alta quota Breve storia della costruzione dei rifugi sulle Alpi prefazione di Enrico Camanni

€ 20,00

ISBN 978-88-95734-94-1

9 788895 734941

Roberto Dini (Aosta, 1977), è architetto e dottore di ricerca. In seno allo IAM (Istituto di Architettura Montana) del Dipartimento di Progettazione Architettonica e di Disegno Industriale del Politecnico di Torino, svolge attività di ricerca sui temi delle trasformazioni insediative del territorio e del paesaggio alpino contemporaneo. È docente a contratto presso la I e la II Facoltà di Architettura del Politecnico di Torino e svolge attività professionale occupandosi della progettazione e del recupero di edifici in montagna. È appassionato di alpinismo e di montagna, la studia nei suoi tanti aspetti e la percorre in tutte le stagioni dell’anno. Tra le sue pubblicazioni inerenti il territorio alpino: Guardare da terra. Immagini da un territorio in trasformazione. La Valle d’Aosta e le sue rappresentazioni (Tip. Valdostana, 2006), Passeggiate in Valle d’Aosta (Blu ed., 2010), La trasformazione del territorio alpino e la costruzione dello Stato. Il secolo XIX e la contemporaneità in Valle Susa (Graffio, 2011).

contributi di Pietro Crivellaro Roberto Dini

Pietro Crivellaro (Padova, 1950), giornalista, storico dell’alpinismo e accademico del CAI, scrive da un ventennio sul supplemento domenicale de «Il Sole 24ore». Per Einaudi ha tradotto L’invenzione del Monte Bianco di Philippe Joutard (1993). Ha studiato la fondazione del CAI da parte di Quintino Sella, ristampando Una salita al Monviso (Tararà 1998). Dirigendo per un decennio la collana «I licheni» (CDA&Vivalda), ha curato riedizioni di Dumas, Henriette d’Angeville, Leslie Stephen, Mummery, Daudet, De Amicis, Lammer, Gervasutti, Heckmair, Desmaison, e traduzioni di Yasushi Inoue, Ballu e Berhault. Per il Teatro Stabile di Torino, dove dirige il centro studi, la scuola e le pubblicazioni, ha firmato tra l’altro il catalogo degli spettacoli 1955-2005.


Luca Gibello

Cantieri d’alta quota

Quanti sono i rifugi e bivacchi delle Alpi? Ben più di un migliaio. O probabilmente ben più del doppio. Ma in realtà, che cos’è un rifugio alpino? Se, di getto, quasi tutti diremmo che è una struttura costruita per ospitare gli alpinisti, occorre però intendersi circa l’identità di costoro e, allargando il cerchio, occorre capire che cosa ognuno di noi intenda per alpinismo. Infatti, il termine «rifugio» è una galassia che comprende sia i cosiddetti «punti d’appoggio» a bassa quota e le strutture servite dal prospiciente e spazioso parcheggio auto, sia i manufatti incustoditi che ricevono la visita, quando va bene, d’una decina d’anime l’anno. Di fronte a una sostanziale mancanza di pubblicazioni e ricerche sistematiche, il libro rappresenta il primo organico tentativo di restituire le vicende che hanno portato alla costruzione dei rifugi, analizzando le motivazioni della committenza, le tecniche e i materiali edilizi, le figure dei progettisti, i valori simbolici e politici, gli immaginari collettivi; il tutto inquadrato all’interno degli accadimenti storici generali e delle evoluzioni sociali. Dal 1750 ai giorni nostri, dai prodromi dell’alpinismo ai modestissimi ripari degli eroici scalatori ottocenteschi, dal fenomeno dei rifugi-osservatorio a quello dei rifugi-albergo, dall’alpinismo e dall’escursionismo di massa fino alle opere recenti che si fanno segno forte nel territorio e rompono con l’immagine della baita. Grazie anche a un ricco apparato iconografico, vengono passati in rassegna circa 190 rifugi e 20 bivacchi in Italia, Francia, Svizzera, Germania, Austria e Slovenia. Il libro è destinato non solo agli addetti ai lavori ma soprattutto agli appassionati della montagna, affinché cresca la consapevolezza di un patrimonio che tutti siamo chiamati a rispettare e valorizzare. Per capire che dietro le «pietre» dei rifugi vi sono le storie delle persone che li hanno immaginati e costruiti; operando, con ogni tipo di ristrettezza di mezzi, in ambienti estremi, sempre oltre i 2000-2500 metri di quota, laddove non arrivano strade e funivie e il cantiere è agibile solo nei mesi estivi, quando il meteo lo consente. In appendice, due approfondimenti di natura storica e progettuale: sui punti d’appoggio legati alla conquista e alle prime salite del Monte Bianco (Pietro Crivellaro); sulle tendenze e problematiche che informano la costruzione dei ricoveri nel XXI secolo (Roberto Dini).

Luca Gibello (Biella, 1970), laureato in Architettura al Politecnico di Torino nel 1996, consegue nel 2001 il dottorato di ricerca in Storia dell’architettura e dell’urbanistica. Svolge attività di ricerca sui temi della trasformazione delle aree industriali dismesse in Italia. Presso il Politecnico ha tenuto corsi di Storia dell’architettura contemporanea e di Storia della critica e della letteratura architettonica. Dal 2004 è caporedattore de «Il Giornale dell’Architettura», per il quale scrive regolarmente. È autore di saggi critici e storici in libri e riviste di settore. Con Paolo Mauro Sudano ha pubblicato Francesco Dolza. L’architetto e l’impresa (Celid, 2002) e Annibale Fiocchi architetto (Aión, 2007); ha inoltre curato Stop&Go. Il riuso delle aree industriali dismesse in Italia. Trenta casi studio (con Andrea Bondonio, Guido Callegari e Cristina Franco; Alinea, 2005), 1970-2000. Episodi e temi di storia dell’architettura contemporanea (con Francesca B. Filippi e Manfredo di Robilant; Celid, 2006) e Il Cineporto della Film Commission Torino Piemonte. Un’opera di Baietto Battiato Bianco (Celid, 2009). È stato coordinatore scientificoredazionale del Dizionario dell’architettura del XX secolo (Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma 2003). È appassionato di alpinismo classico ed escursionismo. Ha salito 45 degli 82 quattromila delle Alpi.

Luca Gibello

Cantieri d’alta quota Breve storia della costruzione dei rifugi sulle Alpi prefazione di Enrico Camanni

€ 20,00

ISBN 978-88-95734-94-1

9 788895 734941

Roberto Dini (Aosta, 1977), è architetto e dottore di ricerca. In seno allo IAM (Istituto di Architettura Montana) del Dipartimento di Progettazione Architettonica e di Disegno Industriale del Politecnico di Torino, svolge attività di ricerca sui temi delle trasformazioni insediative del territorio e del paesaggio alpino contemporaneo. È docente a contratto presso la I e la II Facoltà di Architettura del Politecnico di Torino e svolge attività professionale occupandosi della progettazione e del recupero di edifici in montagna. È appassionato di alpinismo e di montagna, la studia nei suoi tanti aspetti e la percorre in tutte le stagioni dell’anno. Tra le sue pubblicazioni inerenti il territorio alpino: Guardare da terra. Immagini da un territorio in trasformazione. La Valle d’Aosta e le sue rappresentazioni (Tip. Valdostana, 2006), Passeggiate in Valle d’Aosta (Blu ed., 2010), La trasformazione del territorio alpino e la costruzione dello Stato. Il secolo XIX e la contemporaneità in Valle Susa (Graffio, 2011).

contributi di Pietro Crivellaro Roberto Dini

Pietro Crivellaro (Padova, 1950), giornalista, storico dell’alpinismo e accademico del CAI, scrive da un ventennio sul supplemento domenicale de «Il Sole 24ore». Per Einaudi ha tradotto L’invenzione del Monte Bianco di Philippe Joutard (1993). Ha studiato la fondazione del CAI da parte di Quintino Sella, ristampando Una salita al Monviso (Tararà 1998). Dirigendo per un decennio la collana «I licheni» (CDA&Vivalda), ha curato riedizioni di Dumas, Henriette d’Angeville, Leslie Stephen, Mummery, Daudet, De Amicis, Lammer, Gervasutti, Heckmair, Desmaison, e traduzioni di Yasushi Inoue, Ballu e Berhault. Per il Teatro Stabile di Torino, dove dirige il centro studi, la scuola e le pubblicazioni, ha firmato tra l’altro il catalogo degli spettacoli 1955-2005.


progetto scientifico Luca Gibello Roberto Dini Giorgio Masserano

Libro realizzato con il contributo di:

progetto grafico segnidartos® – Biella www.segnidartos.it impaginazione Giorgio Masserano Maria Carola Saccoletto stampa Tipolitografia Botalla srl Gaglianico (Bi)

©2011 Luca Gibello Proprietà letteraria, artistica, tecnica riservata

Associazione Nazionale Alpini Sezione di Torino

Impresa Edile - Sordevolo (Biella) Specializzata in lavori di montagna

Con il patrocinio di:

Club Alpino Italiano

ISBN 978 88 95734 94 1

LINEADARIA® Editore Via Gustavo di Valdengo, 1 – 13900 Biella www.lineadaria.it lineadaria@libero.it Skype: ldaedit Registro Editori Prefettura Biella 394.16–4/5/2 Gab


Luca Gibello

Cantieri d’alta quota Breve storia della costruzione dei rifugi sulle Alpi

prefazione di Enrico Camanni contributi di Pietro Crivellaro Roberto Dini


Š2011 Fondazione Sella, Biella


INDICE Prefazione.................................................................................................................................. 8 Introduzione Sopra i 2.500 metri (circa)........................................................................................................ 10 I parte: 1750-1900 Prima dell’alpinismo................................................................................................................. 16 Alpinisti eroici........................................................................................................................... 22 Alla ricerca del «comfort»......................................................................................................... 36 Julius Becker-Becker: razionalismo elvetico ante litteram......................................................... 44 In vetta, in vetta!...................................................................................................................... 50 II parte: 1900-1943 I rifugi albergo.......................................................................................................................... 58 Heimatschutz: la tradizione della baita..................................................................................... 67 Politica e guerra....................................................................................................................... 69 I primi bivacchi fissi.................................................................................................................. 73 Architetti e sperimentazioni d’avanguardia............................................................................... 77 Giulio Apollonio e il Piano quadriennale di lavori alpini.............................................................. 85 III parte: 1943-1991 Tra distruzioni e ricostruzione................................................................................................... 90 Arriva l’elicottero! Prefabbricazione in Francia.......................................................................... 94 Bivacchi II: navicelle spaziali..................................................................................................... 98 Jacob Eschenmoser: l’architetto dei rifugi................................................................................ 100 I transatlantici degli «anni di cemento»..................................................................................... 103 IV parte: 1991- ... La preoccupazione ambientale................................................................................................ 108 Immagine e landmark.............................................................................................................. 110 Ampliamenti............................................................................................................................ 120 Bibliografia essenziale.............................................................................................................. 126 Contributi Pietro Crivellaro Il primo rifugio. Appunti sul sito dei Grands Mulets e la nascita dell’alpinismo.......................... 127 Roberto Dini L’architettura dei rifugi alpini contemporanei. Elementi per il progetto....................................... 134


Credo che questo primo serio tentativo di scrivere la storia dei rifugi alpini sia non solo importante, ma necessario. In passato gli storici dell’alpinismo hanno abbozzato alcune trame dal punto di vista degli utilizzatori, che da quasi due secoli interpretano il rifugio come un trampolino per le ascensioni in quota o un ricovero in caso di necessità. Nient’altro. Gli escursionisti non se ne sono mai occupati fino in fondo, forse ritenendo il tema priorità degli alpinisti. Gli storici del turismo considerano il rifugio come l’avamposto di un turismo di nicchia, o come semplice surrogato dell’albergo di valle. Gli architetti, infine, hanno generalmente visto nel rifugio una costruzione troppo essenziale (spartana, primitiva) per giustificare l’impiego dell’analisi storica, senza spingersi oltre i tecnicismi del caso e alcune discussioni di carattere concettuale. Invece scopriamo che proprio nella semplicità non voluta dai costruttori ma imposta dalle rigidità ambientali, sta lo straordinario interesse dei rifugi, o bivacchi, o capanne d’alta montagna, dove l’estro dei progettisti non si misura tanto con la tradizione o con l’estetica, quanto con la necessità di ospitare delle persone fragili, a volte a centinaia, nei luoghi meno abitabili dell’Europa abitata. La progettazione di un rifugio d’alta quota è stata e resta una sfida evidente all’intelligenza e alla creatività degli architetti, più che mai in un tempo in cui il tema dell’abitare si allarga dalla città all’altrove, perché il «centro» riconosciuto della vita sociale non esiste più: al tempo di internet tutto è centro e tutto è altrove. Per i cacciatori e i pastori che per millenni hanno attraversato le Alpi, rifugio era soltanto uno spiovente di granito per difendersi

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dal temporale o un tetto di calcare dove far dormire le greggi. Per le milizie romane costrette loro malgrado ad affrontare le montagne, rifugio era un ricovero militare sulle vie degli eserciti, luogo coatto da abbandonare al più presto per ritrovare vera protezione in pianura. Per i monaci e i viandanti medievali rifugio era un posto in cui riposare e meditare al riparo del mondo. Poi arrivano l’alpinismo e il turismo, e se si leggono le cronache ottocentesche del Montenvers o del passo di Grimsel si scopre che il rifugio, o meglio la notte alpina, diventano il primo motivo di fascinazione per la gente di città. Di giorno la montagna è bella, ma di notte è magica. «Tutta quella sterminata notte carica d’abissi», scrive lo scrittore francese Samivel, «ruotava intorno alla minuscola conchiglia di latta dove riposavano gli uomini. Là dentro c’era uno spazio addomesticato, ancora fremente di gesti umani… Nient’altro che cuori amici, una particolare tenerezza delle cose fatte per essere usate dall’uomo… La capanna navigava, come un’arca carica di tepore e di vita, tra le lunghe onde del silenzio e della morte». È l’immagine romantica del rifugio alpino, che per quasi due secoli regge ai tentativi sacrileghi d’innovazione e ancora oggi alberga nei retroterra psichici di chi dorme a tre o quattromila metri. Eppure il rifugio ai tempi di internet è ormai un edificio abbastanza paragonabile agli hotel di fondovalle, con camere, docce, ristorante e vetrate che si affacciano sul mondo esterno. Gli architetti non concepiscono più il rifugio come un romantico spazio di ricovero in attesa della scalata, piuttosto come luogo di passaggio e di scambio. Per questo utilizzano materiali, arredi e soluzioni abitative funzionali al turismo intensivo,

guardando sempre più alla valle che sale e sempre meno alla montagna che sta su. Al contempo il rifugio acquisisce nuovi significati, diventa simbolo del turismo leggero, rispettoso, consapevole, innanzitutto perché di solito ci si sale a piedi, mischiando sudore e curiosità, guadagnandosi un piatto di pasta o una fetta di crostata. Poi perché il rifugio tende a essere autosufficiente dal punto di vista energetico e presidia i posti più belli, alti, panoramici, luoghi anche metaforicamente lontani dall’inquinamento luminoso delle città e vicini alla luce delle stelle. È ancora la notte che fa del rifugio un posto speciale, quando il silenzio avvolge la montagna e ci si trova finalmente soli con il rumore del vento e le voci degli animali. Infine c’è un altro significato che appartiene al rifugio moderno, un lato interessante. Il ruolo più innovativo del rifugio contemporaneo è probabilmente quello del posto tappa, che accoglie e rifocilla l’escursionista alla fine della sua giornata di cammino e gli permette di attraversare montagne, colli, genti, paesi, riconoscendo le comunanze e le diversità dell’ambiente alpino senza mai scendere a valle. Si tratta di un turismo veramente «capace di futuro» perché non conquista la montagna ma la unisce: le persone s’incontrano in rifugio non per sfidarsi ma per conoscersi. Una bella immagine per le Alpi che verranno. Speriamo. Enrico Camanni

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I parte: 1750-1900

Prima dell’alpinismo

1753 Marc Antoine Laugier, frontespizio dell’Essai sur l’architecture 1741 La «Pierre des anglais» a Montenvers, presso Chamonix (1913 m), in una veduta di Rodolphe Töpffer del 1844

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Nel 1753 l’abate francese Marc Antoine Laugier pubblica l’Essai sur l’architecture (Saggio sull’architettura). Si tratta di uno dei testi fondativi delle teorie architettoniche nell’età dell’Illuminismo, basate sulla razionalità dei principi. L’immagine riportata nel frontespizio è un’allegoria dell’architettura; una giovane donna addita a un fanciullo il modello che sta alla base dell’arte del costruire: una rudimentale struttura a telaio composta da tronchi dal fusto irregolare, malamente scortecciati. La capanna è dunque l’archetipo, il principio che sta alla base di qualsiasi architettura e che si trova in nuce nella natura. Ma «capanna» è anche, talvolta, il sostantivo generico cui si affianca il nome proprio del rifugio. Nella lingua tedesca è la traduzione stessa del termine rifugio (hütte). Il concetto di rifugio alpino sembra dunque incarnare la matrice stessa dell’architettura. I primi ricoveri «alpinistici» che ci restituisce l’iconografia sono vere e proprie capanne. Laddove fin dal 1741 è documentata la presenza di un riparo sotto un masso chiamato «Pierre des anglais», nel 1779 il ginevrino d’origine britannica Charles Blair dona quattro ghinee per l’edificazione della prima capanna che registreranno le fonti6. Costruita 6  Secondo William Augustus Brevoort Coolidge (Swiss Travel and Swiss Guide-Books, Longmans, Green & C., Londra 1889) è stata in funzione fino al 1812. Fonti novecentesche riportano invece, come data di costruzione, il 1773. Tra i rari studi sistematici recenti, per la storia degli esordi è degno di nota il saggio introduttivo del volume di Christine Schemmann, Wol-


in legno e chiamata enfaticamente «hotel» (o «hopital»), riporta il motto «Utile Dulci» sopra la porta d’ingresso e sorge a Montenvers (1913 m, laddove dal 1909 giungerà il noto trenino), per ospitare fin da allora i primi «turisti» che salgono a Chamonix per contemplare da vicino le sublimi meraviglie del Monte Bianco, con le sue aiguilles e la Mer de glace: tra gli altri, Goethe, il 5 novembre 1779. Dopo soli due anni, il modestissimo «hotel» è immortalato da una veduta del pittore di paesaggio Carl Hackert che diventerà subito un cliché: da allora in poi nessun pittore o cronista potrà esimersi dal raffigurare l’immagine canonica della valle di ghiaccio circondata dai baluardi montuosi; l’inquadratura è sempre la medesima con, a destra in secondo piano, la piccola capanna, la sua emula e tutti i manufatti che verranno dopo. Nel 1794-95, lo scrittore e viaggiatore elvetico Marc-Théodore Bourrit (1739-1819) costruisce infatti nei pressi – ma astutamente davanti, per coloro che arrivano! – il «Temple de la Nature». Alcuni documenti lo descrivono dalla forma quasi ottagonale: un salone con due finestre, caminetto e specchio con due sedie e quattro brande. Verrà saccheggiato e poi restaurato7; acco-

1779 L’«hotel» di Charles Blair a Montenvers in una veduta di Carl Hackert del 1781 1795 Due vedute del «Temple de la Nature» di Marc-Théodore Bourrit a Montenvers

kenhäuser. Alpenvereinshütten in alten Ansichten und ihre Geschichte, Hugendubel, Monaco di Baviera 1983. 7  «Sebbene [la costruzione] fosse chiusa a chiave, ed il locandiere sempre disposto a concederla a chiunque la chiedesse, i viaggiatori hanno distrutto tutto, utilizzando i mobili per far fuoco, tanto che nel 1803 era ridotta in condizioni pietose. Fu ristrutturata da Le Doulcet Pontécoulant, e la chiave affidata al Couteran, gestore dell’Hôtel d’Angleterre a Chamonix. Vi fu anche collocato un “Livre des Amis” o “Travellers’ Book”». William Augustus Brevoort Coolidge, Ospizi e antiche locande alpine (ed. or. Mountain Inns in Switzerland and the adjacent districts, 1889), Fondazione Enrico Monti, Anzola d’Ossola 1997.

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Thomas Ender (Vienna, 1793-1875), Visita della nobiltà alla Gamskarkogelhütte in Gastein (2467 m), e il rifugio oggi

glierà le imperatrici francesi Giuseppina di Beauharnais nel 1810 e Maria Luisa d’Asburgo-Lorena nel 1814. Le successive costruzioni alberghiere (nel 1840, per volontà del Comune di Chamonix, e nel 1879) lo condanneranno all’oblio, ma nel 1923 è riattato come rifugio storico. Le cronache coeve testimoniano l’arditezza dell’impresa di Bourrit, portata a termine in tre mesi e mezzo, sebbene a una quota che oggi ci fa sorridere. È un viaggiatore tedesco a darne conto: «[...] questa casa è nel luogo più straordinario dell’universo: quella del San Bernardo è più elevata, ma non è come a Montenvers circondata da ghiacci eterni. [...] è gradevole trovare un buon alloggio e un grande fuoco. L’ospizio è di un aspetto veramente alpino [...]. Un pastore ne è il guardiano. Il latte e la crema che ci offrì furono gradevoli, e trovammo Bourrit occupato alla decorazione della casa, mentre la sua giovane signora [...] sistemava una specie di terrazza. Abbiamo contemplato questo ospizio con ammirazione, e abbiamo appreso con il più vivo interesse, le fatiche occorse per costruirlo: eccetto le pietre, tutti gli altri materiali sono stati portati da lontano; gli operai erano oppressi dalle fatiche; i loro occhi s’infiammavano; le loro labbra divenivano livide, e la pelle delle loro mani era lacerata per l’aria rarefatta che respiravano. Per svariati giorni si vedeva lungo il nuovo tragitto come una processione di donne e bambini carichi di cose necessarie, mentre i muli vi portavano il gesso e la calce. Infine il signor Bourrit che ha presieduto a tutta questa opera, non s’è risparmiato egli stesso»8. Un’iniziativa simile si registra nei domini dell’Impero asburgico, dove nella zona del Grossglockner (la sommità più elevata dell’Austria) il principe Francesco Altgraf fa costruire una baracca, poi trasformata in vero e proprio rifugio in pietra. Le capanne ricorrono anche nelle rappresentazioni artistiche dell’Alpe, dove il registro della scena può variare dai toni del bucolico a quelli del 8 Marc-Théodore Bourrit, Description des cols ou passages des Alpes, Manget, Ginevra 1803.

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II PARTE: 1900-1943

I rifugi albergo La crescente diffusione dell’alpinismo come pratica sportiva implica una sempre maggiore frequentazione delle vette e, di conseguenza, dei relativi punti d’appoggio per le ascensioni. All’inizio del nuovo secolo il Cai ne conta 98 (di cui 20 in Valle d’Aosta), a fronte di 5.400 soci (con un rapporto di un rifugio ogni 55 soci, il più alto dei vari paesi transalpini); nel 1913 salgono a 122 per 9.036 iscritti (ma il rapporto scende a 1/74). Nel 1900 il Cas ne possiede invece 64, a fronte di 6.750 membri (1/105), mentre il Doav nel 1904 ne vanta addirittura 224, però a fronte di 56.000 soci (1/250). Indietro la Francia, che al volger del secolo conta 46 rifugi per 6.500 soci (1/141); come già ricordato, molti di questi sono del genere «primordiale». Emblematica, in tal senso, è la scelta del sito in cui, dal 1904, sorgerà il Couvercle, nel gruppo del Bianco (2700 m): in carta catramata, il tetto del piccolo parallelepipedo in pannelli di legno gode anche del riparo del caratteristico lastrone di pietra proteso nel vuoto48. Agli scalatori si affianca una più ampia clientela legata all’attività delle guide alpine che va ben oltre la ristretta cerchia di aristocratici inglesi. Ciò dipende anche dal proselitismo svolto dai vari sodalizi alpinistici sfrut48  Il rifugio verrà raddoppiato nel 1911, portando la capienza a 25 posti. Nel 1932 sarà affiancato da una nuova costruzione in pietra da 80 posti letto (non più ospitata sotto il caratteristico riparo), poi sostituita nel 1952 da una più grande su progetto degli architetti René Bouvier e Henry Chevallier.

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tando uno straordinario strumento di promozione e divulgazione che, a partire dalla metà dell’Ottocento e per almeno un secolo, quasi non conoscerà forme di crisi: le grandi esposizioni, regionali nazionali o internazionali, tematiche o generali. I rifugi entreranno in questi circuiti sia come «case di rappresentanza» delle istituzioni, sia come illustrazione verosimile delle strutture realizzate alle quote alte: un’occasione unica per richiamare l’attenzione del grande pubblico, «educandolo» ai valori e all’ambiente della montagna. Si tratta di un’azione di sensibilizzazione ancor più efficace rispetto all’assemblaggio del rifugio nei fondovalle alpini, perchè si può intercettare la popolazione delle grandi città che ospitano le rassegne. Gli allestimenti possono riguardare modelli ideali di rifugi presentati in scala reale (come nel 1882 a Salisburgo o nel 1894 all’Esposizione dello sport alpino di Milano), oppure soluzioni più o meno sperimentali di prefabbricazione che, una volta conclusa la manifestazione, prevedono lo smontaggio della struttura e il suo riassemblaggio in un sito montano: tra gli altri, è il caso della Dammahütte in Uri (2430 m), del 1915, presentata alla Mostra dei territori a Berna nell’anno precedente; o del rifugio Avérole in Vanoise (2200 m), proveniente dal «Villaggio alpino» dell’Esposizione di Lione del 1914 e montato in sito solo nel 1919, per via della guerra49; o della capanna Vallot sul Monte Bianco, che dal 1938 rimpiazzerà quella originaria del 1892 dopo esser stata presentata al Centro rurale dell’Esposizione internazionale delle arti e tecniche nella vita moderna, tenutasi a Parigi nel 1937; o ancora della Leutschach49  Il rifugio sarà chiuso nel 1973 per ragioni di sicurezza e sostituito da una nuova struttura.

1904-11 Rifugio Couvercle nel Monte Bianco (2700 m)

1915 Dammahütte in Uri (2430 m)

hütte in Uri (2208 m), presentata all’Expo nazionale svizzera del 1939 e montata in loco l’anno seguente50. L’allargamento degli interessi e del pubblico va di pari passo con la fine dell’alpinismo eroico, prerogativa di pochi ardimentosi: di qui la necessità di offrire sempre maggiori agi 50  Ampliata nel 1963 e nel 2009.

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(o minori disagi, se guardati dall’ottica odierna) per l’ospitalità alle alte quote. Si mette così a punto la tipologia ibrida – sebbene in certi casi la denominazione sia forse un po’ troppo enfatica – dei rifugi-albergo. Il principale progresso riguarda l’offerta dei servizi, legati alla presenza stabile, nei periodi estivi, del custode. Sul fronte edilizio crescono le dimensioni (che debbono prevedere un ambiente privato per il gestore), cambiano le tecniche costruttive (quasi sempre in solida muratura portante di pietrame reperito in loco) ma, soprattutto, il fabbricato si eleva su più livelli: un aspetto non da poco considerate le difficoltà e l’impossibilità di disporre dei mezzi meccanici di sollevamento solitamente presenti nei cantieri ordinari. La presenza del custode è argomento che richiede una digressione. La collocazione dei rifugi oltre il limite dei territori antropizzati suscita in alcuni osservatori la convinzione che essi rappresentino dei «luoghi franchi» immuni dalle storture della società; dietro ciò sta l’idea che l’innalzamento spirituale che dovrebbe connotare la pratica alpinistica si riverberi virtuosamente sui comportamenti di coloro che frequentano i monti. Si veda, ad esempio, che cosa sostiene nel 1902 Giuseppe Cesare Abba, scrittore e garibaldino, nella sua Descrizione delle Alpi: «Fuori di mano, a grandi altezze, dove non vanno che gli alpinisti per vaghezza o studio, stanno già molti altri piccoli edifizi, e sempre ne vengono sorgendo di nuovi. Ma nessuno dimora in essi. L’alpinista, che vi giunge, v’entra come in casa sua e vi trova da farsi fuoco e da dormire. Chiunque egli sia può usar d’ogni cosa che stia là dentro e riposarvisi a piacer suo; ma poi, nel partirsi per compiere la sua salita, vi lascia tanto da

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rimettere almeno la legna che ha consumata. Luoghi più sicuri non si potrebbero immaginare. Non avvenne forse mai che un tristo ignorante sia andato a toccar nulla di ciò che vi si trova; e lasciati così, senza guardi, quegli edifici si guardano da sè. Forse in quei silenzi altissimi della montagna, neppure i cattivi possono essere cattivi». In realtà, ben più prosaici accadimenti confutano l’ingenuità di simili posizioni: i vandalismi, perpetrati soprattutto da bracconieri e contrabbandieri, sono all’ordine del giorno. Saranno gli svizzeri, proprio intorno al passaggio del secolo, a introdurre per primi la figura dei guardiani, regolarmente retribuiti proprio per garantire l’incolumità delle costruzioni e dei loro beni mobili durante i periodi di apertura. Questa è dunque la ragione prima della loro presenza, mentre rappresenta un fattore conseguente l’offerta di servizi di ristorazione e di gestione pseudoalberghiera, necessari per la remunerazione del custode, il quale a fine stagione spranga la magione e riporta a valle la maggior parte degli arredi mobili. Dei 224 rifugi austro-tedeschi, 144 funzionano come alberghetti, anche perchè molti di essi sorgono a quote modeste (e lo stesso discorso vale per le aree dolomitiche). In Italia, spicca ancora la sezione torinese del Cai che, sul volgere del secolo, ne erige ben tre. Nel 1899-1900 è la volta del rifugio Torino, che sorge presso il Colle del Gigante (3300 m), poco più in basso rispetto alla vecchia capanna regina Margherita. Progettato da Alberto Girola51, si sviluppa su due 51  Cui si deve, come già visto, l’ampliamento della capanna regina Margherita nonché, nel 1912, il rifugio Amianthe in Valpelline (2979 m), costruito in legno dalla ditta Michele Ferrua di Torino in forme identiche al coevo rifugio del Rocciamelone


1900 Alberto Girola, rifugio Torino al Colle del Gigante (3300 m)

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III parte: 1943-1991

Tra distruzioni e ricostruzione Se, come abbiamo visto, la Prima guerra mondiale ha avuto rilevanti conseguenze soprattutto sullo stato giuridico dei rifugi, il Secondo conflitto invece si ripercuoterà in maniera ben più drammatica sulla condizione fisica dei manufatti, che diventano uno dei principali teatri della lotta partigiana di liberazione, su tutto il versante italiano (Appennini compresi) e su quello francese (dove occasionalmente alcuni sono anche trasformati in ospedali, trasferendovi le popolazioni dei villaggi in fuga dai bombardamenti alleati o dalle rappresaglie naziste). Se infatti la brevità delle operazioni belliche sul fronte occidentale nel 1940 permette ai rifugi di superare quasi indenni la minaccia, non altrettanto si può dire dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943. «[Ne] derivarono distruzioni in operazioni di rappresaglia, saccheggi da parte di truppe e di valligiani, manomissioni e abbandono per lungo periodo, in zone dove i gestori furono spesso impediti di eseguire la loro opera di custodia. Anche dopo il 25 aprile 1945 non furono pochi gli atti di vandalismo; nè le forze preposte all’ordine pubblico seppero mettere riparo a questo stato di cose. Furono totalmente distrutti 81 rifugi appartenenti a 35 sezioni; parzialmente distrutti, ossia con buona parte delle strutture murarie utilizzabili, 19 rifugi appartenenti a 11 sezioni; subirono danni parziali al fabbricato e agli arredi 156 rifugi [pari al 64% degli stabili facenti capo al Cai]. Per il complesso sono calcolabili danni ai fabbricati per lire 72 milioni ai valori del 1943. Le asportazioni

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e le distruzioni di arredi di proprietà delle sezioni ammontarono, secondo le denunce, a lire 44 milioni presumibilmente, ridotto ai valori del 1943 [...], a cui vanno aggiunti i deperimenti successivi e gli ulteriori danni per saccheggi. Agli inizi della stagione estiva del 1945 i danni totali subiti dalle sezioni del Cai per i soli rifugi si potevano ritenere quindi assommanti a lire 440 milioni (valuta del 1945)»84. L’opera di ricostruzione parte subito con grande animosità, privilegiando le strutture essenziali di appoggio per la pratica alpinistica. Al termine dell’estate 1947 il Cai ha già stanziato 72 milioni: i rifugi integralmente ricostruiti sono 7, mentre 10 sono in cantiere; quelli danneggiati e nuovamente operativi sono 53 e 31 quelli in corso di ripristino. In base ai trattati di pace, sono invece 17 le strutture cedute a nazioni confinanti. «Le sezioni del Cai hanno fatto fronte alle spese ricorrendo a sottoscrizioni volontarie fra i soci, a mutui con enti finanziari o sotto forma di società immobiliari, a finanziamenti con contratti a scadenza alquanto lunga con i gestori, in cambio del canone di affitto, con l’affidare alle sottosezioni più operose un rifugio e integrando i casi precedenti con prestazioni personali dei soci, sotto forma di trasporto, mano d’opera. Le denunce presentate per il risarcimento dei danni di guerra, secondo i dati raccolti dalla Sede centrale, assommano a lire 120 milioni, in base alla legge del 26 ottobre 1940 n. 1543, redatta sulla illusoria concezione che la guerra sarebbe durata non più di tre mesi, motivo per cui si aveva come base il criterio dell’immutabilità del prezzo della cosa danneggiata, e questo riferito al mese di giugno del 1940. Gli uffici tecnici erariali avrebbero dovuto fissare l’indennizzo con il prezziario da quelli stabiliti provincia per provincia, in base ai prezzi di listino di tale epoca. Il volume delle pratiche divenne di tale mole che alla distanza di più di venti anni non si è ancora arrivati alla liquidazione totale»85. La ripresa del dopoguerra implica anche un ripensamento della gestione dell’intero patrimonio edilizio. Si punta ad esempio sul criterio di prossimità geografica evitando di affidare, come era avvenuto nel primo dopoguerra nel caso dell’Alto Adige, gestioni di rifugi a sezioni lontane, le quali li avevano nel corso degli anni ceduti quasi tutti alle sezioni locali. Accanto alla ricostruzione, tuttavia si registra anche la 84 Relazione dell’ingegner Giovanni Bertoglio al LIX Congresso degli alpinisti italiani, tenutosi a Viareggio nel 1958; in Silvio Saglio, op. cit., cui si rimanda nuovamente per una ricostruzione dettagliata della vicenda. 85  Ibid.

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1949 Nuovo rifugio Payer all’Ortles (3029 m)

1952 Remo Locchi, nuovo rifugio-albergo Torino al Colle del Gigante (3370 m)

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costruzione di strutture ex novo: nello stesso frangente dell’immediato dopoguerra se ne contano 31, in maggioranza bivacchi. Il lento ritorno alla normalità nel secondo dopoguerra porta alle riflessioni sul ruolo dei rifugi e sulla loro differente clientela tra Alpi occidentali e orientali, sui sistemi di custodia, sulle tariffe da applicare. Nonostante molte remore, soprattutto legate alle ristrettezze economiche, l’ottimismo e la fiducia nella ricostruzione danno slancio allo spirito d’iniziativa. Tra i casi più emblematici, la riedificazione del rifugio Payer all’Ortles (3029 m), nel 1949, massiccio baluardo in pietra che si erge su ben quattro piani e, ancora una volta, replica il modello dell’albergo di montagna. Nel 1950 viene ampliata, su progetto dell’ingegner Ugo Martinola, la capanna Marinelli al Bernina (2813 m), che rimarrà per anni una delle strutture più moderne e attrezzate di tutte le Alpi. In tal senso, tuttavia, l’opera più rilevante è la costruzione, nel 1949-52 al posto dell’antica capanna regina Margherita, del nuovo rifugio-albergo Torino al Colle del Gigante (3370 m), il più imponente tra quelli d’alta quota, finanziato dal Cai Torino e dalla Regione Valle d’Aosta: quattro piani, 150 posti letto, 250 posti diurni. Dal 1946-47 è infatti in funzione la nota funivia dei ghiacciai voluta dal conte Dino Lora Totino, imprenditore emulo di Guyer Zeller che aspirava a portare tutti addirittura in punta al Monte Bianco grazie alle prodezze della tecnica. Il rifugio è un grande monolito quadrangolare con gigantesco tetto a capanna, collocato in maniera del tutto incurante rispetto al sito: le finestre si aprono indifferentemente su tutti e quattro i fronti, anche laddove la vista è preclusa dal ponderoso scavo di sbancamento.


IV parte: 1991- ...

La preoccupazione ambientale Il 7 novembre 1991 viene firmata dai sei Stati membri della Commissione internazionale per la protezione delle Alpi (Cipra) la Convenzione delle Alpi. Obiettivo del documento è la protezione e lo sviluppo sostenibile di un territorio che si estende ad arco per 1.100 km dal Mar Ligure all’Adriatico, attraversando sette nazioni: le vallate e le pendici dei monti ospitano 13 milioni di abitanti98. È il segno, recepito a livello politico, di una mutata sensibilità verso i temi dell’ambiente e dello sviluppo territoriale. Varie istanze di contenimento dei consumi e degli sprechi nello sfruttamento delle risorse naturali implicano la necessità di un ripensamento degli stili di vita. Finalmente ci si accorge che lo stesso suolo è una risorsa limitata, non così facilmente «riciclabile» una volta trasformato. In ambito alpinistico, già in precedenza si erano levate voci contrarie all’eccessiva antropizzazione, allo sfruttamento turistico massiccio che cingeva d’assedio i giganti di pietra e ghiaccio. Ad esempio, dal 1987 il movimento «Mountain Wilderness», sotto la spinta di Reinhold Messner, anche grazie a una serie di azioni dimostrative che attirano l’attenzione dei media, chiede lo smantellamento di alcuni impianti di risalita meccanica e la fruizione della montagna recuperando un rapporto più diretto tra uomo e natura 98  La Slovenia firmerà la Convenzione il 29 marzo 1993.

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selvaggia (wild). Sul banco degli imputati finiscono ovviamente anche i rifugi, in particolare i «transatlantici» costruiti nel passato recente per attirare un pubblico sempre più ampio e sempre meno consapevole: l’accusa è di favorire un’eccessiva «industrializzazione» e artificializzazione dell’alpinismo. Viene dunque definitivamente messa in discussione l’opportunità di proseguire la politica di costruzione di nuove strutture, consolidando una tendenza ormai chiara anche ai vertici delle istituzioni alpinistiche: le parole d’ordine diventano «recupero», «trasformazione», «riqualificazione», «ottimizzazione» o, se impossibile agire diversamente e se realmente necessario, «ricostruzione» e «ampliamento». Anche le normative, sempre più stringenti (legate alle direttive della Comunità europea), dettano le operazioni di adeguamento: contenimento dei consumi energetici, certificazione dei materiali, sicurezza, gestione e smaltimento dei rifiuti. Un tema, quest’ultimo, già percepito come problema negli anni cinquanta, se Cereghini così ammoniva coloro che intendevano costruire un rifugio: «Si rinunci a possedere quella vicina zona variopinta di scatolami ruggini ed altro di peggio, di cui quasi tutti i visitatori sanno fare abbondante omaggio»99. Ne conseguono azioni di bonifica dei siti (ma anche di sostituzione di materiali da costruzione tossici ormai fuorilegge), accompagnate da campagne di sensibilizzazione dei frequentatori («I rifiuti portateli a valle!») onde ridurre le rotazioni degli elicotteri. La prima applicazione di sistemi per ricavare energia «pulita» (rimpiazzando o almeno affiancando gli inquinanti e rumorosi gruppi elettrogeni a carburante) risale ancora al decennio che aveva conosciuto la crisi petrolifera: nel 1979 in Francia vengono installati i primi pannelli solari, al già citato rifugio delle Evettes (2590 m). Nel 1982, Jean Zanassi, architetto impegnato sul tema – all’epoca di assoluta avanguardia – della costruzione ecocompatibile, per la trasformazione dell’Adèle Planchard nel Delfinato (3173 m) realizza una parete con il «muro di Trombe», un sistema passivo

1982 Jean Zanassi, trasformazione del rifugio Adèle Planchard nel Delfinato (3173 m); a destra il «muro di Trombe»

99  Mario Cereghini, op. cit.

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1989 Yves Jeanvoine, ampliamento del rifugio all’Aiguille du Goûter (3817 m)

(ovvero funzionante senza l’ausilio di apporti energetici) per l’accumulo di calore. Nel 1989 Yves Jeanvoine firma l’ampliamento del Goûter concependo un sistema a energia solare che fonde la neve retrostante: oltre ad avere acqua, ciò impedisce lo scivolamento verso il basso dell’edificio per effetto della spinta della massa ghiacciata. La strada verso l’autosufficienza energetica ricorrendo all’uso di fonti rinnovabili è tracciata.

Immagine e landmark 1993 Michel Troillet, nuova Cabane du Vélan (2643 m) Foto Giorgio Masserano

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Nel 1993 viene inaugurata la nuova Cabane du Vélan (2643 m), che sostituisce quella costruita nel 1944 e bruciata nel 1991. L’edificio, che in pianta assume la forma di una mandorla, si sviluppa in altezza svettando grazie al suo rigoroso volume prismatico e allo scintillante rivestimento in lastre di zinco-titanio che lo rendono ben individuabile a distanza. Il progetto, dell’elvetico Michel Troillet, è sintomo di un mutato atteggiamento che riecheggia anche nelle remote terre alte. Nel panorama internazionale, infatti, dalla fine degli anni ottanta diventa sempre più forte l’esigenza che gli edifici siano rappresentativi attraverso forme in grado d’imprimersi nella memoria di chi li osserva. Nell’epoca dell’immagine, l’architettura diventa un importante «biglietto da visita» e uno strumento del marketing per l’autopromozione della committenza (sebbene talvolta dietro la «facciata» non vi siano particolari valori simbolici da comunicare). Così, anche per i rifugi, l’architettura non è più un aspetto marginale. Cresce infatti l’atten-


Il primo rifugio. Appunti sul sito dei Grands Mulets e la nascita dell’alpinismo Pietro Crivellaro

Sul taccuino del dottor Michel-Gabriel Paccard, l’uomo a cui spetta il merito di aver inaugurato l’alpinismo risolvendo a fine Settecento il cruciale problema della prima ascensione al Monte Bianco, si trovano anche annotazioni utili a mettere a fuoco la questione dell’origine dei rifugi alpini. Il prezioso manoscritto fu riscoperto a fine Ottocento dall’alpinista e storico inglese Charles Edward Mathews che lo acquistò per dieci sterline da Adolphe Balmat, pronipote del dottore. Dopo essersene servito per la sua fondamentale monografia The Annals of Mont Blanc (Londra, 1898), Mathews lo cedette alla biblioteca dell’Alpine Club che da allora lo custodisce, accontentandosi di otto sterline quando avrebbe potuto ottenerne almeno cento volte tanto. Registrando il tentativo di ascensione al Monte Bianco dal versante di Saint Gervais compiuto da Horace Bénédict de Saussure intorno a metà settembre 1785, il dottore scrive: «L’11 settembre 1785 Marie Couttet, Jean Michel Tournier, François Folliguet sono partiti per andare a costruire una capanna a Pierre Ronde, col brutto tempo. La sera nei pressi della capanna è caduta della neve e il maltempo è continuato lunedì fino a mezzogiorno. Quel giorno hanno finito la

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­­ L’architettura dei rifugi alpini contemporanei. Elementi per il progetto Roberto Dini

I numerosi articoli che vengono periodicamente pubblicati sulle riviste di alpinismo e sui bollettini del Cai in cui sostenitori e detrattori del moderno si confrontano, e l’acceso dibattito sulla legittimità e sulla forma delle costruzioni in alta quota, sono il segno che quello dell’architettura dei rifugi alpini è un tema che suscita un grande interesse non solo tra i progettisti ma soprattutto tra i non addetti ai lavori che condividono la passione per la montagna. Molte volte però il dibattito si limita a un’acritica contrapposizione tra tradizionalisti e innovatori dalla quale emergono immaginari sterili e superficiali. Da un lato l’immagine sostenuta dai tradizionalisti, fatta di edifici mimetici che scimmiottano le baite, e dall’altro vere e proprie macchine high tech super-efficienti, corrispondenti invece all’idea supportata da coloro che sposano le ragioni del progresso a ogni costo. Ecco allora che si riesumano le concilianti parole del famoso architetto viennese del secolo scorso Adolf Loos, con le quali esortava dal non costruire in modo pittoresco ma al contrario invitava a rispondere in modo spontaneo ma critico alle domande progettuali poste dalla contemporaneità. Anche le recenti affermazioni di Mauro Corona sembrano andare in questa direzione. Per inserirsi nel terri-

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forme prismatiche dei cristalli di roccia, caratteristica che le è valsa la denominazione di «Bergkristall». L’edificio si presenta come un prisma sfaccettato e riesce, grazie alle sue forme e alla posizione particolarmente aerea, a diventare l’occasione per reinventare un paesaggio: una sorta di presenza metafisica che ridisegna lo scenario glaciale del Gornergrat. Il rivestimento metallico ne accentua il carattere di oggetto «minerale» ed è interrotto soltanto in corrispondenza di una lunga apertura a nastro che come un taglio orizzontale ricalca il percorso di salita interno delle scale. Anche il nuovo ampliamento del rifugio Gonella sulla storica via dei Papi sul versante italiano del Monte Bianco diventa un elemento del paesaggio: l’edificio rinuncia alla sua autonomia formale per diventare parte dell’architettura stessa della cresta rocciosa. Questa modalità dialettica d’interazione con il paesaggio si sviluppa anche in un rimando tattile alla natura circostante attraverso i materiali dell’involucro esterno. L’uso di rivestimenti dall’aspetto «freddo» come la lamiera, l’acciaio, il Cor-ten, il Rheinzink, permette di creare una sorta di guscio che, senza scadere nel mimetismo, s’integra bene con gli elementi inerti dei territori d’alta quota. L’aspetto esterno contrasta invece con il trattamento degli spazi interni che si presentano in genere come ambienti dal carattere «caldo» e accogliente attraverso l’uso di rivestimenti e pavimentazioni in legno. Vi è inoltre una serie di rifugi realizzati in Svizzera e nel Vorarlberg austriaco che muovono da una rivisitazione dell’architettura razionalista e dell’International Style, e che guardano tanto alla contemporaneità quanto alle tradizioni

Bearth & Deplazes e altri, nuova Monterosahütte (2883 m) Foto Giorgio Masserano Hans-Jörg Ruch, ampliamento della Tschiervahütte al Bernina (2593 m) Foto Filippo Simonetti

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Luca Gibello

Cantieri d’alta quota

Quanti sono i rifugi e bivacchi delle Alpi? Ben più di un migliaio. O probabilmente ben più del doppio. Ma in realtà, che cos’è un rifugio alpino? Se, di getto, quasi tutti diremmo che è una struttura costruita per ospitare gli alpinisti, occorre però intendersi circa l’identità di costoro e, allargando il cerchio, occorre capire che cosa ognuno di noi intenda per alpinismo. Infatti, il termine «rifugio» è una galassia che comprende sia i cosiddetti «punti d’appoggio» a bassa quota e le strutture servite dal prospiciente e spazioso parcheggio auto, sia i manufatti incustoditi che ricevono la visita, quando va bene, d’una decina d’anime l’anno. Di fronte a una sostanziale mancanza di pubblicazioni e ricerche sistematiche, il libro rappresenta il primo organico tentativo di restituire le vicende che hanno portato alla costruzione dei rifugi, analizzando le motivazioni della committenza, le tecniche e i materiali edilizi, le figure dei progettisti, i valori simbolici e politici, gli immaginari collettivi; il tutto inquadrato all’interno degli accadimenti storici generali e delle evoluzioni sociali. Dal 1750 ai giorni nostri, dai prodromi dell’alpinismo ai modestissimi ripari degli eroici scalatori ottocenteschi, dal fenomeno dei rifugi-osservatorio a quello dei rifugi-albergo, dall’alpinismo e dall’escursionismo di massa fino alle opere recenti che si fanno segno forte nel territorio e rompono con l’immagine della baita. Grazie anche a un ricco apparato iconografico, vengono passati in rassegna circa 190 rifugi e 20 bivacchi in Italia, Francia, Svizzera, Germania, Austria e Slovenia. Il libro è destinato non solo agli addetti ai lavori ma soprattutto agli appassionati della montagna, affinché cresca la consapevolezza di un patrimonio che tutti siamo chiamati a rispettare e valorizzare. Per capire che dietro le «pietre» dei rifugi vi sono le storie delle persone che li hanno immaginati e costruiti; operando, con ogni tipo di ristrettezza di mezzi, in ambienti estremi, sempre oltre i 2000-2500 metri di quota, laddove non arrivano strade e funivie e il cantiere è agibile solo nei mesi estivi, quando il meteo lo consente. In appendice, due approfondimenti di natura storica e progettuale: sui punti d’appoggio legati alla conquista e alle prime salite del Monte Bianco (Pietro Crivellaro); sulle tendenze e problematiche che informano la costruzione dei ricoveri nel XXI secolo (Roberto Dini).

Luca Gibello (Biella, 1970), laureato in Architettura al Politecnico di Torino nel 1996, consegue nel 2001 il dottorato di ricerca in Storia dell’architettura e dell’urbanistica. Svolge attività di ricerca sui temi della trasformazione delle aree industriali dismesse in Italia. Presso il Politecnico ha tenuto corsi di Storia dell’architettura contemporanea e di Storia della critica e della letteratura architettonica. Dal 2004 è caporedattore de «Il Giornale dell’Architettura», per il quale scrive regolarmente. È autore di saggi critici e storici in libri e riviste di settore. Con Paolo Mauro Sudano ha pubblicato Francesco Dolza. L’architetto e l’impresa (Celid, 2002) e Annibale Fiocchi architetto (Aión, 2007); ha inoltre curato Stop&Go. Il riuso delle aree industriali dismesse in Italia. Trenta casi studio (con Andrea Bondonio, Guido Callegari e Cristina Franco; Alinea, 2005), 1970-2000. Episodi e temi di storia dell’architettura contemporanea (con Francesca B. Filippi e Manfredo di Robilant; Celid, 2006) e Il Cineporto della Film Commission Torino Piemonte. Un’opera di Baietto Battiato Bianco (Celid, 2009). È stato coordinatore scientificoredazionale del Dizionario dell’architettura del XX secolo (Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma 2003). È appassionato di alpinismo classico ed escursionismo. Ha salito 45 degli 82 quattromila delle Alpi.

Luca Gibello

Cantieri d’alta quota Breve storia della costruzione dei rifugi sulle Alpi prefazione di Enrico Camanni

€ 20,00

ISBN 978-88-95734-94-1

9 788895 734941

Roberto Dini (Aosta, 1977), è architetto e dottore di ricerca. In seno allo IAM (Istituto di Architettura Montana) del Dipartimento di Progettazione Architettonica e di Disegno Industriale del Politecnico di Torino, svolge attività di ricerca sui temi delle trasformazioni insediative del territorio e del paesaggio alpino contemporaneo. È docente a contratto presso la I e la II Facoltà di Architettura del Politecnico di Torino e svolge attività professionale occupandosi della progettazione e del recupero di edifici in montagna. È appassionato di alpinismo e di montagna, la studia nei suoi tanti aspetti e la percorre in tutte le stagioni dell’anno. Tra le sue pubblicazioni inerenti il territorio alpino: Guardare da terra. Immagini da un territorio in trasformazione. La Valle d’Aosta e le sue rappresentazioni (Tip. Valdostana, 2006), Passeggiate in Valle d’Aosta (Blu ed., 2010), La trasformazione del territorio alpino e la costruzione dello Stato. Il secolo XIX e la contemporaneità in Valle Susa (Graffio, 2011).

contributi di Pietro Crivellaro Roberto Dini

Pietro Crivellaro (Padova, 1950), giornalista, storico dell’alpinismo e accademico del CAI, scrive da un ventennio sul supplemento domenicale de «Il Sole 24ore». Per Einaudi ha tradotto L’invenzione del Monte Bianco di Philippe Joutard (1993). Ha studiato la fondazione del CAI da parte di Quintino Sella, ristampando Una salita al Monviso (Tararà 1998). Dirigendo per un decennio la collana «I licheni» (CDA&Vivalda), ha curato riedizioni di Dumas, Henriette d’Angeville, Leslie Stephen, Mummery, Daudet, De Amicis, Lammer, Gervasutti, Heckmair, Desmaison, e traduzioni di Yasushi Inoue, Ballu e Berhault. Per il Teatro Stabile di Torino, dove dirige il centro studi, la scuola e le pubblicazioni, ha firmato tra l’altro il catalogo degli spettacoli 1955-2005.


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