Questioni primarie n°2

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30 ottobre 2012

Le primarie: dalle regole alla rete………………………..………………..p. 1 Le regole per le primarie.……………………………………………………...p. 3 Dove Renzi ha già vinto o quasi…………………………………………….p. 5 Scetticismo di ritorno?.….………………………………………………..…..p. 11

Le parole al loro posto………………………………………………………p. 2 Ballottaggio a Stelle e Strisce……………………………………….…..p. 4 Come eravamo ……………………………………………………………….p. 8

Le primarie: dalle regole alla rete Fra realtà e luoghi comuni Luciano Fasano, Università di Milano e coordinatore di C&LS La campagna elettorale per le primarie è ormai entrata nel vivo, e gran parte del dibattito si concentra ancora sul tema delle regole, soprattutto per l'ossessione normativa che sembra aver colpito gli organizzatori, intenzionati a complicare piuttosto che a semplificare le procedure di voto. Le regole che disciplinano una consultazione di questo tipo contribuiscono a definire relazioni e confini all’interno di partiti e coalizioni, fra elettori e candidati. Il confronto di questi giorni sulle regole mette in luce una stridente contraddizione fra una gara che si intende aperta e contendibile dal punto di vista dell’elettorato passivo (candidati) e un confronto che sembra volersi circoscrivere e controllare dal punto di vista dell’elettorato attivo (elettori). Tutto ciò,

ovviamente, non giova alla partecipazione e rischia di rappresentare un problema qualora le annunciate primarie del centrodestra sollecitassero nell’opinione pubblica un giudizio comparato fra le regole adottate dai due schieramenti, favorendo quelle più inclusive. Gli elettori non portano sulla schiena un marchio di appartenenza. E innescare una competizione alla rovescia sulle regole rischia di imprimere ad entrambe le consultazioni un segno in evidente contrasto con la natura stessa delle primarie. In linea di principio, la ratio delle regole dovrebbe essere tale da favorire la massima partecipazione possibile. Senza andare troppo lontani, infatti, è sufficiente un confronto fra le procedure adottate dal centrosinistra in Italia e in Francia, per mettere

chiaramente in luce le eccessive e ingiustificate restrizioni che contraddistinguono la regolamentazione adottata per le primarie del 25 novembre. Una maggiore attenzione all’esperienza di altri paesi, sarebbe sufficiente anche per evitare di cadere vittima

di infondati luoghi comuni, come quello che identifica nel doppio turno con ballottaggio una modalità complicata e inusuale, quando in una realtà come gli Stati Uniti è il metodo adottato dalla larga prevalenza degli stati del Sud. Ma tant’è, in Italia troppo spesso politici ed osservatori parlano delle primarie senza cognizione di causa. O finiscono con l’essere vittima di incomprensibili pregiudizi, come quello di individuare ingiustamente nelle primarie le cause della degenerazione oligarchica dei partiti, quando semmai è proprio vero il contrario. Altro tema particolarmente dibattuto, ancora una volta in rapporto alle regole, è quello del presunto inquinamento delle primarie. Argomento usato sul piano regolamentare per giustificare una procedura di registrazione restrittiva, così come sul piano politico per rimproverare a Renzi il sostegno di elettori di centrodestra. Esaminando le primarie comunali di Firenze del 2009, vediamo però che soltanto il 13% dei selettori di Renzi aveva votato centrodestra alle politiche del 2008. Senza dimenticare che chi aveva votato Renzi si collocava in prevalenza nel centrosinistra, riconosceva nel Pd un partito di centrosinistra, collocava Renzi più a sinistra del suo stesso partito. Ma la campagna per le primarie non si esaurisce in una disputa sulle regole. Terreno inedito di una forma di democrazia digitale che già oggi rappresenta un significativo campo di contesa, l'analisi dell'andamento dei like e dei follower dei diversi candidati su Twitter e Facebook mette chiaramente in luce un primato di Renzi (seguito da Vendola), con Bersani che invece fatica ad affermarsi come protagonista attivo della rete. Qui l’elemento generazionale è sicuramente decisivo. E non si tratta di un luogo comune. Buona lettura

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LE PAROLE AL LORO POSTO Qualche coordinata Fulvio Venturino, Università di Cagliari e coordinatore di C&LS Durante “Porta a porta” di mercoledì 24 ottobre è andato in onda il consueto battibecco fra Democrats sulle regole delle primarie. Simona Bonafè lamentava le modifiche intervenute rispetto a primarie precedenti, a suo dire deliberatamente orientate a danneggiare Matteo Renzi per mezzo di una chiusura della partecipazione. Alessandra Moretti ribatteva che questa tesi sarebbe palesemente pretestuosa, come dimostrato dalla decisione dell’establishment del Partito Democratico di cambiare addirittura lo statuto per garantire maggiore apertura. E allora, apertura o chiusura? Il dilemma può meglio essere compreso con un po’ di vis polemica in meno e un po’ di teoria in più. Intanto, i termini corretti sono “inclusività” ed “esclusività”. Le primarie chiuse, dove votano solo gli iscritti ai partiti, sono (più) esclusive; le primarie aperte, dove votano tutti i cittadini, iscritti e no, sono (più) inclusive. Inoltre, le elezioni primarie vanno classificate sia in base alla possibilità di candidarsi (l’elettorato passivo) che secondo la possibilità di votare (l’elettorato attivo). Rispetto alla possibilità di candidarsi, il cambiamento dello statuto introdotto all’unanimità dall’Assemblea Nazionale dello scorso 6 ottobre ha certamente garantito un aumento di inclusività. Prima poteva candidarsi solo il Segretario, dopo potevano candidarsi in tanti, e alla fine si sono candidati in tre. Insomma, ha ragione Moretti. Rispetto alla possibilità di votare, almeno un punto non dovrebbe essere controverso. Con il ritiro del diritto di voto ai sedicenni le primarie del 25 novembre saranno più esclusive rispetto a tutte le primarie, nazionali e locali, organizzate dal centrosinistra da dieci anni a questa parte. Poi c’è la faccenda della preregistrazione. Che in verità non cambia nulla per quello che riguarda l’attribuzione dei diritti di partecipazione. Però evidentemente rende un po’ più complicato e costoso l’esercizio di quei diritti. Esattamente come dice Bonafè. Insomma, le primarie del 25 novembre (e magari del 2 dicembre) sono evolute in due modi. Rispetto allo Statuto del PD, sono diventate più inclusive per ciò che riguarda la possibilità di candidarsi. Qui non ci sono paragoni possibili con primarie precedenti, perché all’epoca delle “primarie di Prodi” il PD non era ancora nato. Invece rispetto al passato il 25 novembre avremo

certamente primarie più esclusive per ciò che riguarda la partecipazione.

Intanto, i termini corretti sono “inclusività” ed “esclusività”. Le primarie chiuse, dove votano solo gli iscritti ai partiti, sono (più) esclusive; le primarie aperte, dove votano tutti i cittadini, iscritti e no, sono (più) inclusive. Inoltre, le elezioni primarie vanno classificate sia in base alla possibilità di candidarsi (l’elettorato passivo) che secondo la possibilità di votare (l’elettorato attivo)

Ciò chiarito, si può tornare alle polemiche democratiche. Ci si potrebbe per esempio chiedere se la maggiore inclusività delle candidature sia un atto di liberalità di Bersani, oppure un gesto ineludibile costretto dalle circostanze, come sostenuto da Nicola Porro nel corso della trasmissione richiamata in apertura. E ci si potrebbe anche chiedere se le diverse modalità di partecipazione siano state escogitate per garantire la massima trasparenza delle procedure.

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Le regole per le primarie Cui prodest? Francesco Clementi, Università di Perugia La contendibilità delle primarie dipende, oltre che dagli attori politici, anche dalle regole perché naturalmente sono le regole a definire, nel determinare una procedura e nell’incentivare il potenziale elettorato verso la partecipazione, l’insuccesso o meno di questa consultazione pubblica. In fondo, dietro le regole alla fine c’è la voglia della politica di siglare un patto tra eletto ed elettore che, nella selezione, legittimi ulteriormente la scelta partitica. Dunque la domanda chiave è: le regole adottate mirano alla partecipazione degli elettori, potenziali “credenti”, o sono state adottate per privilegiare gli iscritti ai partiti, sicuri “fedeli”? Comparare con le regole adottate per le elezioni primarie in vista delle elezioni presidenziali francesi, vinte poi da Francois Hollande, può aiutare. Procediamo per punti, dall’elettorato attivo. Mentre in Francia si era previsto che fosse attribuito a tutti i maggiorenni e ai soli sedicenni già iscritti alla giovanile di un partito, le regole italiane prevedono che possano votare esclusivamente: i maggiorenni alla data del primo turno; i cittadini dell’Unione europea, residenti in Italia, infine, i soli cittadini di altri Paesi, in possesso del regolare permesso di soggiorno. La differenza maggiore riguarda naturalmente il voto dei sedicenni, che in Italia da sempre per le primarie è stato possibile; una scelta che -si licet- lascia molto dubbiosi, non sembrando voler premiare né evidentemente la partecipazione tout court né, vorrei dire, quell’apprendimento al senso civico-democratico che rappresenta il votare in sé. Passiamo alla registrazione, cioè all’iscrizione al voto. In Francia bastava aderire a una Carta dei valori che tuttavia non avrebbe dato luogo ad alcuna forma di banca dati; invece, a tutt’oggi le regole italiane prevedono che l’esercizio del diritto sia condizionato a tre obbligatori passaggi: una sottoscrizione di un “pubblico Appello di sostegno della Coalizione”, il rilascio di una dichiarazione di “riconoscersi” nella Carta d’intenti della coalizione e, infine, l’iscrizione del proprio nome ne “l’Albo delle elettrici e degli elettori della coalizione”. Basta assai poco per misurare che la scelta di sottoporre il potenziale elettore ad un processo di identificazione della sua identità personale e politica, penalizza molto la partecipazione aperta e popolare, soprattutto se questo processo di “accertamento” della volontà dell’elettore diviene, da un lato, così

burocratico imponendo all’elettore di iscriversi in un luogo distinto da dove si vota e, dall’altro, si aggiunge che sarà anche pubblicamente diffuso l’elenco di coloro che si sono recati al seggio, avendo aderito alla Carta d’intenti, conditio sine qua non per esercitare il voto. Il paradosso? Si vuole rendere noti al pubblico gli elettori ma si nascondono -da sempre- al pubblico gli elenchi degli iscritti ai partiti. Si aggiunga, altresì, sia il problema del trattamento dati personali dell’elettore e i conseguenti problemi di privacy posto che le opinioni politiche sono dati sensibili protetti (motivo della segnalazione al Garante della Privacy da parte del Comitato Renzi del 23 ottobre 2012), sia in caso di ballottaggio, sostanzialmente automatico in ragione di una soglia fissata al 50%, che la finestra per la registrazione è possibile fino al giorno prima (e non il giorno stesso) del secondo turno.

In fondo, dietro le regole c’è la voglia della politica di siglare un patto tra eletto ed elettore che, nella selezione, legittimi ulteriormente la scelta partitica. Dunque la domanda chiave è: le regole adottate mirano alla partecipazione degli elettori, potenziali “credenti”, o sono state adottate per privilegiare gli iscritti ai partiti, sicuri “fedeli”?

Infine, va sottolineato che, al momento, nessun provvedimento è stato adottato né per consentire il voto degli italiani all’estero (in Francia si può votare per corrispondenza) né per consentire il voto degli studenti e dei lavoratori domiciliati fuori dalla regione di residenza. Più di così, che dire? Che si è voluto un insieme di regole che rischiano di allontanare l'elettore mobile e che sembrano poter annullare dunque proprio quell’utile effetto-traino delle elezioni primarie sulle elezioni politiche. Auguri.

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BALLOTTAGGIO A STELLE E STRISCE Il doppio turno nella patria delle primarie Stefano Rombi, Università di Pavia Molte delle regole previste per le prossime primarie del centrosinistra suscitano ancora accese discussioni e veementi critiche da parte di (alcuni) competitor, osservatori, futuri selettori. Da questo punto di vista, il doppio turno non costituisce un’eccezione. Tuttavia, la critica deve essere informata e, soprattutto, ancorata alla realtà. Per esempio, si è sentito dire che negli Stati Uniti, patria delle primarie, il meccanismo del doppio turno non è contemplato: troppo complicato, il gioco non vale la candela e gli americani, che la sanno lunga, non sprecano energie inutili. Per la verità, le cose non stanno esattamente così. Negli USA, infatti, le runoff primaries (così le chiamano, di solito) sono impiegate in 11 stati per eleggere le cariche di livello statale, vale a dire governatori e senatori. Ciò, naturalmente, non significa affatto che il doppio turno sia cosa buona e giusta, significa soltanto che il critico ha mal criticato. Fatta la strabiliante scoperta, proviamo a guardarla da vicino. La prima curiosità è di natura geografica: Alabama, Arkansas, Georgia, Louisiana, Mississippi, South Carolina, North Carolina e Texas sono tutti stati del Sud e costituiscono circa il 73% dell’area del paese che utilizza primarie a doppio turno. Questa concentrazione territoriale è dovuta, prevalentemente e, in qualche misura, sorprendentemente, alla profonda frattura razziale che ha definito la dinamica sociale, prima ancora che politica, dell’American South per un lunghissimo periodo. Con il ricorso al secondo turno, infatti, i selettori bianchi avevano la possibilità di porre rimedio alla dispersione del primo turno aggregando i loro voti e impedendo, così, al candidato afroamericano – il quale, non troppo di rado, otteneva la maggioranza relativa al primo turno – di essere eletto. Le runoff primaries americane, oltreché ampiamente consolidate, sono anche molto variabili. Sebbene nella maggior parte dei casi il meccanismo sia quello classico– se nessuno raggiunge la maggioranza assoluta, si procede ad una sfida tra i primi due –, alcuni stati prevedono delle varianti: nel Vermont, per esempio, il ballottaggio si produce solo in caso di parità; in North Carolina e nel South Dakota, invece, per evitarlo è sufficiente che il primo raggiunga, rispettivamente, il 40% e il 35% dei consensi. Insomma, assistiamo ad una certa creatività regolatrice. Va, infine, segnalato che nella stragrande

maggioranza dei casi il doppio turno è associato a primarie aperte Al di là del suo funzionamento, l’elemento più interessante riguarda, ovviamente, gli effetti. In particolare: è vero che il doppio turno produce candidati più legittimati? In percentuale, certamente sì: necessariamente – a meno di improbabili pareggi – uno dei due candidati ottiene più del 50%. Ma possiamo dire altrettanto ragionando per valori assoluti? Una prima, generale, risposta è che tra il 1994 e il 2008, nel passaggio dal primo al secondo turno, si è registrato un calo medio della partecipazione di circa il 35%. Inoltre, osservando i dati delle 52 primarie (senatoriali e governatoriali) che, tra il 1980 e il 2002, si sono concluse al ballottaggio, solo 7 hanno attratto più selettori al secondo turno di quanto avessero fatto al primo. Questo è quanto succede dove le primarie a due turni si fanno da una cinquantina d’anni: è probabile che possa accadere anche nel Belpaese. In altre parole, ci si dovrebbe attendere una copiosa ritirata anche da parte dei selettori italiani. Ciò, naturalmente, non significa che il candidato eletto al secondo turno riceverà, necessariamente, meno voti rispetto al primo turno. Tuttavia, se il calo della partecipazione, che quasi certamente ci sarà, avesse dimensioni consistenti, allora questo scenario avrebbe serie probabilità di palesarsi minando l’argomento principale con il quale il doppio turno è stato sponsorizzato dai suoi promotori: massimizzare il supporto del candidato selezionato.

Negli USA, infatti, le runoff primaries (così le chiamano, di solito) sono impiegate in 11 stati per eleggere le cariche di livello statale, vale a dire governatori e senatori. Ciò, naturalmente, non significa affatto che il doppio turno sia cosa buona e giusta, significa soltanto che il critico ha mal criticato

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DOVE RENZI HA GIÀ VINTO (O QUASI) Twitter, Facebook e interesse sul web Giuliano Bobba, Università di Torino Quanto il web e i social network on line saranno determinanti nella definizione del risultato finale delle Primarie 2012 dipenderà da numerosi fattori primo fra tutti l’affluenza al voto. Se sarà molto elevata, è ipotizzabile che una componente consistente sarà rappresentata da un voto d’opinione mobilitato principalmente attraverso i media (e in particolare i new media). Se, al contrario, il selettorato sarà numericamente più modesto, il ruolo delle reti di attivazione dei partiti sarà più importante dei mezzi di comunicazione nel mobilitare iscritti ed elettori attivi. Che questo secondo scenario sia più favorevole a Bersani, mentre Renzi punti al primo non è un mistero. Ciò che l’analisi del web può aiutarci a chiarire riguarda la portata delle differenze tra i candidati, in relazione all’interesse che nei loro confronti si sviluppa su Twitter, Facebook e più in generale sulla rete. Ci permette, in altre parole, di dire chi occupa una posizione di centralità all’interno di questi particolari ambienti mediali. Questa posizione di preminenza non spetta indubbiamente né a Laura Puppato, né a Bruno Tabacci che, rispetto agli altri candidati, non hanno un’attività rilevante sui social network online (SNO) e, più in generale, riscuotono un interesse scarso sul web (per Tabacci, addirittura, il volume di ricerche è insufficiente per visualizzare i dati). La situazione di Nichi Vendola è invece paradossale. Primo in termini assoluti per numero di sostenitori on line (fig. 1), gode di una posizione di rendita in virtù di risultati raggiunti in altri tempi e per altre ragioni (principalmente la campagna per le regionali in Puglia e il suo ruolo di Presidente). I trend relativi alla corsa per le Primarie – malgrado lo sloga3n #oppurevendola sia nato con un intento virale – sono, infatti, non solo inferiori a quelli di Renzi, ma, per quanto riguarda i like su FB, addirittura negativi: -95 al giorno in media (fig. 4). Regge invece il dato relativo alle persone che interagiscono quotidianamente con i messaggi e le attività del candidato di SEL su FB (talking about this), facendo registrare il dato medio più elevato, oltre 26.700 (fig. 5). Che Pier Luigi Bersani, pur essendo attivo e presente sui SNO, non sia nel suo ambiente e che il web non sia il luogo in cui possa incontrare il suo “pubblico” emerge chiaramente dall’ampio distacco

che lo separa da Vendola e Renzi. Fra tutti, il dato relativo al talking about this è forse il più esemplificativo del ruolo giocato dal segretario sulla rete: a fronte di un bacino potenziale di oltre 80.000 sostenitori on line, le persone che quotidianamente interagiscono con i messaggi e le attività di Bersani sono una quota irrilevante se comparata a chi interagisce realmente con il proprio elettorato via web, in media poco più di 4.400 (fig. 5).

Ciò che l’analisi del web può aiutarci a chiarire riguarda la portata delle differenze tra i candidati, in relazione all’interesse che nei loro confronti si sviluppa su Twitter, Facebook e più in generale sulla rete. Ci permette, in altre parole, di dire chi occupa una posizione di centralità all’interno di questi particolari ambienti mediali

La performance di Matteo Renzi durante il periodo monitorato è stata invece in continua ascesa: su FB in media +675 like al giorno (22.550 totali) e una media superiore a 24.400 interazioni quotidiane, +892 follower al giorno (29.644 totali), un interesse costantemente e ampiamente superiore agli altri competitors su Google Italia. Sebbene questi dati forniscano solo parzialmente indicazioni relative all’apprezzamento del sindaco di Firenze (tra i like e i follower una quota di persone è sicuramente mossa da ragioni diverse dal sostegno al candidato), l’incremento è tale da non lasciare dubbi sul fatto che Renzi stia vincendo la competizione per la visibilità e la centralità sul web. Se per Bersani il web restituisce un’immagine che sottostima la sua reale forza elettorale, per Renzi al contrario i SNO appaiono come uno specchio piuttosto fedele della sua campagna e del rapporto che egli intrattiene con un selettorato diverso da quello del segretario del PD, più giovane, dinamico e attivo in rete.

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I dati presi in considerazione in questo articolo riguardano Twitter, Facebook (21 set-28 ott 2012) e il motore di ricerca Google Italia (1 set-26 ott). Gli indicatori selezionati riguardano: l’ampiezza delle reti dei candidati sui social network (n° di like e n° di follower) e l’interazione tra gli utenti di FB e i messaggi dei candidati (n° di persone che ne parlano, talking about this). Il dato relativo a Google Italia è espresso invece come andamento quotidiano normalizzato delle ricerche per parole chiave (nome+cognome candidato) che pone a base 100 il volume massimo ottenuto dalla stringa più cercata (fonte: Google Trends).

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COME ERAVAMO Renzi e i suoi elettori fiorentini Antonella Seddone, Università di Torino La vera incognita delle primarie del centrosinistra è la partecipazione. Al di là dei pronostici sui numeri, a preoccupare alcuni partiti è la composizione del selettorato. In un contesto politico fluido, in cui da tempo le appartenenze partitiche e l’ideologia non funzionano più come bussole per orientare il voto, le primarie aperte rappresentano un’opportunità partecipativa estremamente allettante anche all’esterno della coalizione. Renzi è il candidato che più degli altri sembra essere interessato a ciò che sta oltre il perimetro della coalizione del centrosinistra. In parte ha già sperimentato questa strategia tre anni fa a Firenze, quando vinse le primarie che gli valsero una citazione sul Time. Firenze non è l’Italia e il 2009 berlusconiano non è il 2012 del governo dei tecnici. In questa fase di ridefinizione di attori, alleanze e strategie la conquista di nuovi elettori diventa imperativo. E Renzi, a dispetto delle perplessità del suo partito, intende accreditarsi come interlocutore trasversale. Un modo per comprendere quale sia effettivamente l’appeal elettorale di Renzi è quello di ritornare indietro di tre anni. Siamo a Firenze, nel febbraio 2009. A termine di una campagna elettorale giocata, nei toni e nei modi, in maniera non dissimile da quella che stiamo vivendo, Renzi vince le primarie. Proviamo a rispolverare i dati di exit-poll raccolti da C&LS in quella occasione cercando di capire le peculiarità del selettorato renziano. Intanto si tratta di selettori giovani (fig. 6), o per lo meno più giovani dei sostenitori degli altri candidati: il 24,5% ha infatti meno di 34 anni, contro una media generale pari al 19%. Non solo, per il 41,6% dei selettori di Renzi quella era la prima esperienza di voto primario (fig. 7). La grossa differenza che passa fra Renzi e i suoi sfidanti fiorentini è proprio la sua capacità di mobilitare fasce di selettori generalmente meno coinvolte nel voto primario. Da un punto di vista politico, banale a dirsi, la gran parte dell’elettorato fiorentino di Renzi nel 2008 aveva votato il PD (71%), meno del dato generale pari all’80,4%, ma decisamente di più di quel 13% di selettori che alle politiche dell’anno precedente avevano votato per un partito del centrodestra (tab.

1). Le leggende urbane attorno al feeling fra centrodestra e Renzi – abilmente utilizzate dallo stesso sindaco fiorentino – si basano proprio su quella porzione limitata di selettori.

La questione “destra e sinistra” suscita qualche curiosità se si osserva il posizionamento del PD: nel 2009 i selettori fiorentini, interrogati sul posizionamento ideologico del PD, interpretavano il partito come una forza di centrosinistra con una marcata tendenza verso il centro, più che verso la sinistra. Addirittura, in questo quadro Renzi risulta molto più a sinistra del suo stesso partito

La domanda da porsi è: gli elettori di Renzi sono di destra? La risposta è NO. Si tratta di un selettorato eterogeneo, in cui è prevalente un anima di centrosinistra (51%) compressa fra istanze di sinistra (27%) e di centro (13%). Certamente si riscontra la presenza di selettori afferenti a un’area politica di centrodestra e destra (7%), ma si tratta di una porzione limitata, mobilitata in gran parte dall’appeal personale del candidato (e certamente non in funzione di disturbo) (tab. 2). La questione “destra e sinistra” suscita qualche curiosità se si osserva il posizionamento del PD: nel 2009 i selettori fiorentini, interrogati sul posizionamento ideologico del PD, interpretavano il partito come una forza di centrosinistra con una marcata tendenza verso il centro, più che verso la sinistra. Addirittura, in questo quadro Renzi risulta molto più a sinistra del suo stesso partito (fig. 8). Insomma, Renzi sembrerebbe più affine al suo partito di quanto non si immagini. O forse è il contrario, è il PD ad essere molto più simile al sindaco fiorentino di quanto non voglia far trapelare.

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Scetticismo di ritorno? Colpe vere o presunte delle primarie Carlo Pala, Università di Sassari Colpiti dall’intervento del Professor Trigilia sulla versione on line de Il Mulino del 24 settembre scorso, intendevamo avanzare alcune pacate considerazioni. Siamo stupiti dal leggere che le elezioni Primarie in Italia abbiano la colpa di aver favorito un processo di “oligarchizzazione” dei partiti politici. Pare una caricatura troppo semplicistica della realtà. Vista la rilevanza del tema e le motivazioni di cronaca che hanno spinto un acuto osservatore come Trigilia a vedere una tale assonanza, necessitano alcune precisazioni. Senza trasformarsi in difensori delle Primarie a tutti i costi, sostenere l'esistenza di un nesso fra esse, potenziamento dell’oligarchia partitica e degenerazione dei partiti è quantomeno discutibile. Le Primarie sono una recente realtà di successo. Anche se cronologicamente non possono considerarsi un tratto distintivo dell'intera Seconda Repubblica, poiché si sono affermate più di dieci anni dopo la sua nascita. Appare perciò affrettato affermare che le Primarie abbiano favorito un processo oligarchico nei partiti, quando invece forse è vero l’opposto. Ciò lo si rileva sia dai dati sulla partecipazione, sia dal fatto che è la gente a scegliere i candidati preferiti, al di là dell’appartenenza partitico-politica personale. In mancanza di questo, forse oggi non avremmo Pisapia, Zedda, Doria e Vendola. Inoltre, “l’invenzione” di Primarie inclusive di coalizione avrebbe la colpa di indebolire la selezione di una certa classe politica e degli stessi partiti, così meno solidi e coesi. Al contrario, alcune teorie vedono proprio nel ricorso alle Primarie uno dei metodi utilizzati dai partiti per diventare più solidi. Il modello di partito soggiacente alle argomentazioni di Trigilia non esiste più, e quindi non possiamo avere come termine di paragone strutture organizzative che non trovano corrispondenza in una realtà empiricamente riscontrata. Anche tra i più fervidi sostenitori delle primarie vi è chi è convinto del “primato dei partiti”, ma non per questo pensa di scongelare un tipo di partito inadeguato alle sfide degli odierni sistemi politici. Modelli che non possono essere riproposti per il presente e sui quali restano dubbi ben più grandi per il futuro.

Appare perciò affrettato affermare che le Primarie abbiano favorito un processo oligarchico nei partiti, quando invece forse è vero l’opposto. Ciò lo si rileva sia dai dati sulla partecipazione, sia dal fatto che è la gente a scegliere i candidati preferiti, al di là dell’appartenenza partitico-politica personale. In mancanza di questo, forse oggi non avremmo Pisapia, Zedda, Doria e Vendola

Al netto delle accuse di populismo e demagogia, le Primarie hanno la colpa di mobilitare tanta gente non iscritta a partiti. Nessuno pensa che il ricorso al popolo sia “miracoloso”, ma nemmeno che la taumaturgia di Trigilia debba per forza contrapporre popolo e partiti. Secondo una relazione che farebbe impallidire i più strenui difensori del secret garden of politics dei partiti politici. Se i partiti fossero in grado di selezionare una classe politica all'altezza delle aspettative, tale sforzo non verrebbe vanificato dal ricorso alle Primarie. Anzi, probabilmente, le Primarie sancirebbero tale scelta, decretando per i partiti rinnovate condizioni di legittimità. Crediamo, in sostanza, che le affermazioni di Trigilia scambino un rapporto di associazione con un nesso di causalità. Le Primarie sono l’unica novità del panorama politico nostrano di questi ultimi 7-8 anni. Attribuirgli maggiore potere di quanto abbiano, corrisponde al riconoscimento di un ruolo importante per lo sviluppo dell’odierna fase della democrazia in molti paesi occidentali. Prendiamole però per quello che sono, perché solo così potranno contribuire a migliorare la qualità della vita politica italiana.

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