Babyface

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Titolo originale “Babyfaces” Traduzione di Sara Saorin Copertina di Eleonora Antonioni Prima edizione: luglio 2019 ISBN 9788899842536 Babyfaces testo di Marie Desplechin Babyfaces© 2010, l’école des loisirs, Paris Per l’edizione italiana Copyright © 2019 Camelozampa Tutti i diritti riservati Alta leggibilità Questo libro utilizza il Font EasyReading® Carattere ad alta leggibilità per tutti. Anche per chi è dislessico. www.easyreading.it


Marie Desplechin

Traduzione di Sara Saorin


Marie Desplechin dopo gli studi di Lettere diventa giornalista, scrittrice e sceneggiatrice. È autrice di romanzi per adulti e per ragazzi, tradotti in tutto il mondo. In Italia ha pubblicato Strega no (Salani) e l’albo Saltimbanchi (Logos), illustrazioni di Emmanuelle Houdart, menzione speciale al Bologna Ragazzi Award.

Sara Saorin, laureata alla Scuola Interpreti e Traduttori di Bologna, è co-fondatrice di Camelozampa, per la quale ha tradotto i romanzi di Marie-Aude Murail, Christophe Léon, Christian Bobin, Alexandre Jardin e gli albi di Anthony Browne, Tony Ross, Michael Foreman, Quentin Blake.


Ringrazio i ragazzi di Bagneux, Radhika Jha, CĂŠcile Rossard, Pravina Nallatamby



Babyface: wrestler che impersona la parte del buono ed è amato dal pubblico Heel: wrestler che recita il ruolo del cattivo



Capitolo uno La passerella Stavamo attraversando la passerella sopra l’autostrada e pioveva. Milioni di camion passavano sotto i nostri piedi a tutta velocità. Nejma si è voltata verso di me. Il berretto le scendeva sulle sopracciglia, quasi fino agli occhi. Mi ha lanciato uno sguardo feroce e ha mormorato tra i denti: «Freddy, caccia fuori la merenda». Mi sono fermato, ho aperto la cartella e le ho allungato un mezzo filoncino imburrato. Se l’è infilato in tasca. Non ha ringraziato. Non ringraziava mai, a eccezione di una persona che indicherò più avanti. E, visto che ci sono, preciso che Freddy è un soprannome. Per intero, sarebbe “Freddy, gli artigli della notte”. Si tratta del sottotitolo di un famoso film horror, il cui protagonista è alto, scheletrico e orribile e uccide con i suoi artigli chiunque gli capiti a tiro. Inutile dire che non ha niente a che vedere con me. Sono un ragazzo piuttosto basso e assolutamente innocuo. “Freddy gli artigli della notte” è una specie di presa in giro per divertirci a ricreazione. Questo è quello che penso io. Nejma pensa che Freddy non abbia 9


niente a che vedere né con lo humour né con il cinema. Dice che il mio vero nome è troppo complicato e che per tutti è più facile chiamarmi Freddy. In realtà mi chiamo Rajanikanth. Non posso farci niente. I miei genitori sono indiani. Noi, cioè gli indiani e i loro figli, siamo una piccola minoranza nel quartiere, e forse per questo la gente trova i nostri nomi troppo complicati. Risultato: mi chiamo Raja per gli insegnanti e Freddy per tutti gli altri. Nejma si chiama Nejma. Lei è un pezzo grosso nel quartiere. Tutto qua. Dicevo, le ho dato il suo pane e burro impacchettato in una salvietta di carta. Tutte le mattine, quando arrivavamo sulla passerella, Nejma mi ordinava di tirare fuori la mia merenda. Tutte le mattine, io obbedivo. Ma non ce l’avevo mica con lei. Perché, tutte le mattine, mia mamma mi metteva due merende in cartella. Un giorno, sulla passerella, avevo cercato di spiegare a Nejma che era tutto organizzato, che mia mamma era d’accordo, che avevo una merenda per lei e una merenda per me. Ma lei non aveva voluto sentire ragioni. «Nessuno mi dà niente. Quello che voglio, me lo prendo. Non ho bisogno della tua carità. Tieniti la tua sporca merenda e chissà che ti 10


vada di traverso». Da quella volta, ho cominciato ad aspettare che me la estorcesse. «L’importante» diceva mia mamma, «è che quella ragazzina mangi qualcosa». Quando ho richiuso la cartella, avevamo perso altri cinque minuti. Già non eravamo in anticipo perché Nejma ci metteva delle ore a uscire di casa. Ma con queste storie della merenda, finivamo per essere in ritardo sul serio. Non è che avessi paura. Non mi piaceva arrivare ultimo. E comunque, la professoressa aveva rinunciato a rimproverarci. Ci guardava entrare in classe con aria afflitta. Mi faceva sedere in prima fila. Poi diceva a Nejma di togliersi il berretto e la spediva a sedersi tutta sola in fondo. Tutta sola in fondo non era una punizione: l’aveva anche spiegato alla classe. Era per permettere a Nejma di fare qualcosa di diverso, visto che non combinava nulla. Così, almeno, si teneva occupata e non impediva agli altri di lavorare. Credo che la sua occupazione consistesse soprattutto nel ricopiare delle righe, ma non ne sono sicuro, perché, dal mio posto, non riuscivo a vedere bene. Così si passava la mattinata, la mensa, il pomeriggio, lo studio. Finalmente arrivava sera e tornavamo a casa. 11


Attraversavamo la passerella. Milioni di camion passavano sotto a tutta velocità per tornare a casa. Non ne potevano più. Come noi. Il nostro è un quartiere doppio. È tagliato a metà dall’autostrada. Gli abitanti devono prendere la passerella per andare da una parte all’altra e tornare. Quelli che vivono nei palazzi alti possono ritenersi contenti di abitare vicino alla scuola, che è sulla piazzetta. Basta che scendano in strada e sono già nel cortile. Noi, dall’altra parte, possiamo ritenerci contenti di abitare in palazzi che hanno solo cinque piani, che è un vantaggio quando si rompe l’ascensore. E, comunque, possiamo raggiungere più facilmente il supermercato a piedi. Qualcuno cerca a volte di scendere il terrapieno e attraversare l’autostrada camminando. Si può risparmiare del tempo, perché la passerella presenta delle curve che rallentano il percorso. Si può anche farsi investire, è già successo. Non basta attraversare l’autostrada, bisogna anche correre veloci. È un rischio sportivo e sanitario. A scuola, erano venuti dei poliziotti a fare prevenzione perché i bambini non attraversassero l’autostrada. Si capiva benissimo che loro non dovevano prendere quella vecchia passerella tutte le mattine e tutte le sere di 12


ogni giorno dell’anno. Si capiva benissimo che loro non vivevano qua. Se avessero abitato nel quartiere, anche loro ne avrebbero avuto abbastanza. La mamma di Nejma (che si chiama Marilù), sua figlia (che si chiama quindi Nejma), i miei genitori e io abitiamo nello stesso palazzo. Inutile dire che condividiamo un sacco di rumori, porte che sbattono e televisioni accese. Abbiamo dei rapporti di vicinato e sappiamo che vita conducono loro. Come diceva mia madre: «Quella vita, figlio mio, non è vita». Mia mamma esagera sempre. Quando piange, è un’inondazione. Quando ride, è un’esplosione. Quando parla dei vicini, è una catastrofe. Inoltre, cucina molto piccante. Vede la vita in grande. Mia mamma è contenta di aver trovato mio papà, di averlo sposato, e di avere avuto un figlio al quale dare un nome complicato. Non sarebbe più contenta di così se fosse presidentessa della Repubblica. Per lei, la famiglia è la gloria. Siccome è generosa, le dispiace che non tutte le donne abbiano un buon marito come il suo e un buon figlio come il suo. Si dispiace per loro. Si dispiace in particolare per la mamma di Nejma e ancora di più in particolare per Nejma. Marilù non aveva marito, cosa che la costringeva 13


a lavorare più degli altri. Niente marito, niente soldi, nemmeno l’auto, e questo non era pratico per andare a lavorare e soprattutto per tornare dal lavoro. Partiva sempre troppo presto al mattino o rientrava sempre troppo tardi alla sera. Non aveva davvero la possibilità di occuparsi di sua figlia. Attenzione, non l’abbandonava mica. A casa sua, si trovavano sempre pacchi di biscotti sul tavolo e pizze sotto vuoto in frigorifero. La sveglia veniva sempre puntata di nuovo all’ora giusta per andare a scuola. Ma lei spesso non era a casa quando suonava. Non aveva il tempo di condividere con Nejma i risvegli e i pasti. «È molto coraggiosa» diceva mia mamma torcendosi le mani con preoccupazione. Avrebbe preferito che la mamma di Nejma avesse meno coraggio e più presenza, ma siccome non c’era un marito in tutta la faccenda, sapeva che la situazione non era certo facile. Dal canto mio, io pensavo che Marilù sarebbe stata più contenta se avesse avuto semplicemente un lavoro e niente figlia, ma la vita gliene aveva data una e bisognava che si arrangiasse. Quando vedevo Marilù salire o scendere le scale, con il viso stanco e gli occhi cerchiati, mi sentivo triste. Non tanto per lei, ma per Nejma. Sono 14


come mia mamma, vorrei che tutti avessero una famiglia con cui condividere il proprio orgoglio e i propri pasti. Non ho mai detto niente a Nejma. Temo che se le avessi detto qualcosa, mi avrebbe scaraventato giù dalla passerella. Sono suo amico. Non provo commiserazione per lei. Nejma avrebbe potuto buttare con facilità chiunque giù dalla passerella. È il motivo per cui, nel quartiere, nessuno le dava noia. Era davvero grande e davvero grassa, anche se erano parole da usare con moderazione. Tutti sanno che è preferibile dire tondetta, solida o robusta, o anche molto robusta. Ma la verità impone di dire che lei era tutto questo messo assieme, e in più era anche grassa. Quando la porta del nostro appartamento era chiusa, mio papà la chiamava l’Orsacchiottona, ma mia mamma gli ordinava di smetterla. «Preferisci che la chiami Elefantina?» domandava lui ridendo e mia mamma lo guardava con l’aria arrabbiata finché non smetteva di ridere. Trovavo che Nejma avesse un viso grazioso, con una bella bocca, la pelle molto bianca, e grandi occhi da giraffa. Ma nessuno aveva mai la pazienza di guardarla abbastanza per rendersene conto. Portava i capelli schiacciati sotto al berretto e assumeva un’aria talmente 15


cattiva che ci si affrettava a distogliere lo sguardo. Indossava sempre gli stessi vestiti, che erano spesso sporchi, a volte decisamente logori e pure bucati. Quando veniva a casa mia, mia mamma le sottraeva con discrezione il maglione o la giacca e li ficcava in lavatrice. E quando Nejma voleva andare via, mia mamma faceva finta di averli presi per sbaglio. «Scusa, Nejma! Li ho confusi con i vestiti di Rajanikanth… Te li ridò appena sono puliti». «Non si preoccupi» rispondeva Nejma alzando le spalle. «Così avrai un maglione che profumerà di detersivo» aggiungeva mia mamma. «Non si preoccupi» ripeteva Nejma. Rifiutava che le prestassimo dei vestiti. Aspettava che le sue cose fossero asciutte. Restava a braccia nude, non aveva mai freddo. O forse preferiva gelare piuttosto che farsi prestare qualcosa. Se avesse potuto rubarla, sarebbe stato diverso. Rubare le andava bene. Prendere in prestito le pesava. A scuola, non piaceva a nessuno. Ognuno aveva i suoi motivi. Era brutta, era vestita male, era grassa, era violenta, era cattiva, faceva schifo. E sputava per terra. Questo per quanto riguardava gli studenti. Per i professori, faceva schifo, era violenta, era grassa, era vestita male ed era 16


brutta. In più, sputava per terra. Ma nessuno osava dire niente, perché tutti sapevano che non bisogna portare al limite una persona che non ha niente da perdere. Soprattutto quando è grossa e violenta. Gli insegnanti aspettavano che finisse le medie. Sognavano il giorno in cui sarebbero stati costretti a prenderla alle superiori, che liberazione, buon divertimento ragazzi. Non piaceva a nessuno, tranne a così poche persone che si potevano contare su una mano: sua mamma, mia mamma, me, mio papà (ma per lui era solo la metà del mignolo). A sua madre piaceva per senso materno. A mia madre piaceva per buon vicinato. A mio padre piaceva per via di mia madre. A me piaceva perché ero il suo unico amico. Era un motivo valido quanto gli altri. Essere il solo amico di Nejma faceva di me una persona unica al mondo, il che mi dava una sensazione di superiorità. Per una persona del mio genere, piccola, con un nome impossibile, e che fa parte di una minoranza della comunità, era importante. Del resto, Nejma mi proteggeva da tutti i fastidi possibili. Finché mi bullizzava lei, nessuno si arrischiava a crearmi dei problemi. Avevamo motivi diversi per essere solidali. Io ero per lei quello che lei era per me. È l’amicizia, bello mio.

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