CLIP.STAMP.UPLOAD

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C.S.U. CL IP. STA M P.U P LOA D.

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CSU E D ITORI A I N D I PE N DE NTE DI A RCHITE TTURA N E I S E M I N ARI CL IP.STAM P.U P LOAD.



CSU. Editoria Indipendente di Architettura nei Seminari Clip Stamp Upload A cura di Luigi Mandraccio e Gian Luca Porcile Direzione artistica: Ilaria Cazzato e Chiara Federico Pubblicazione a conclusione delle giornate di studio sull’editoria indipendente di architettura tenutesi a Genova il 20 novembre 2015 presso il Museo di Sant’Agostino e il 25 novembre 2016 presso il Convento di S. Maria di Castello, con il contributo della Fondazione Ordine degli Architetti Pianificatori Paesaggisti Conservatori della Provincia di Genova Comitato scientifico: ICAR65 (ICAR65 è un collettivo di ricerca composto da Maria Canepa, Giacomo Cassinelli, Valeria Iberto, Antonio Lavarello, Katia Perini, Chiara Piccardo, Gian Luca Porcile, Paola Sabbion, Davide Servente) Pubblicazione realizzata con il patrocinio della Fondazione Ordine degli Architetti Pianificatori Paesaggisti Conservatori della Provincia di Genova Burrasca www.burrasca.eu © Ottobre 2017 ISBN: 9788894046656


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Un diffuso luogo comune, supportato da non poche evidenze, sostiene che nei periodi di crisi gli architetti si rifugino nella carta stampata. La produzione editoriale e l’elaborazione teorica avrebbero quindi un andamento anticiclico: fasi di grande vivacità quando la periodica crisi economica coinvolge il settore immobiliare e momenti di ritorno alla pratica del costruire quando le opportunità di lavoro concedono agli architetti poco tempo per scrivere. Lasciando agli economisti – o forse agli storici dell’economia – del futuro decretare se la crisi che stiamo vivendo sia la peggiore degli ultimi venti, trenta o cent’anni, è possibile tuttavia tracciare un bilancio del rapporto tra la cultura architettonica e la carta stampata nel periodo appena trascorso. Se le grandi case editrici e le riviste “storiche” hanno generalmente vita abbastanza lunga e relativamente tranquilla, l’editoria indipendente (in questo caso l’editoria indipendente d’architettura) dimostra di essere un barometro molto più sensibile alle turbolenze della disciplina e della società. Queste considerazioni hanno guidato l’organizzazione dei seminari Clip Stamp Upload, tenutisi a Genova nel 2015 e nel 2016. I due incontri avevano l’obiettivo di scoprire, e far conoscere, le principali realtà contemporanee ascrivibili al settore dell’editoria indipendente di architettura. Al di là della tradizionale “carta stampata” è emerso uno scenario variegato e complesso in cui è possibile passare, talvolta senza soluzione di continuità, dalla filosofia del ciclostile alla pagina Web, dall’ebook ai social media, dalla presenza globalizzante dell’immagine all’esaltazione, quasi maniacale, del testo. L’idea stessa, e poi l’organizzazione, di questi seminari è nata da un rapporto dialettico tra due realtà molto diverse: Burrasca e ICAR65. Debitori – fin dal titolo dato agli eventi – a Beatriz Colomina e all’attività di ricerca del suo team presso la Princeton University, lo svolgimento di Clip Stamp Upload ha permesso di verificare che il campo dell’editoria indipendente di architettura non è abbandonato e che l’Italia può a buon titolo ritagliarsi, in quanto culla di alcune delle realtà più vivaci del settore, un ruolo da protagonista. Un’esperienza come quella dei due seminari sull’editoria indipendente restava difficile da condensare in dei normali atti di convegno. L’idea di questa pubblicazione si è quindi progressivamente allontanata dall’intenzione di raccogliere semplicemente gli interventi dei relatori. Si è piuttosto optato per un prodotto che cercasse il più possibile di non tradire, nei contenuti e nell’impostazione grafica, quella vivacità e quella capacità di innovazione linguistica che contraddistingue il settore. La linea editoriale è stata quella di incoraggiare la libertà espressiva di chi ha contribuito ad almeno una delle due edizioni dei seminari, nell’augurio che questa pubblicazione trasmetta, almeno in parte, il clima di incontro e di dialogo che ha contraddistinto le due giornate genovesi. Il design editoriale, curato secondo

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i principi che contraddistinguono la collana Burrasca, accompagna questo ricco flusso di esperienze dando allo stesso tempo un contributo originale. La natura stessa di questo resoconto nasce dal protrarsi del rapporto tra Burrasca e ICAR65. Da un lato viene ampliata, con questo nuovo libro, l’attività editoriale, dall’altro si consolida la natura del collettivo di ricerca sotto forma di comitato scientifico. Un sentito ringraziamento va alla Fondazione dell’Ordine degli Architetti di Genova che ha entusiasticamente e generosamente sostenuto le due edizioni dei seminari Clip Stamp Upload e che patrocina questa pubblicazione.


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AMOR VACUI STUDIO

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PAPER

FICTITIOUS INTERIORS

GIAN LUCA PORCILE - IL SERPENTE E L’ALLODOLA: SU ALCUNE ANALOGIE TRA GELETT BURGESS E ABY WARBURG

36 CONCORSO CLIP STAMP & SEND_US

62 EMMANUELE J. PILIA - I LIMITI DELLA CRITICA

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12 PAPER - PAISAJE DESERTICO: EDICION COMO ARQUEOLOGIA

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A LIST OF ANALOGIES

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VALTER SCELSI INTERNET NELLA CITTÀ: DALLA CYBER-FLÂNERIE ALL’ICONOLOGIA ELETTRONICA

32 ICAR65

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RROARK!

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011+

DAVIDE TOMMASO FERRANDO - DI SOCIAL EDITING, CURATE ARCHIVES E ATEMPORALITÀ

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D EDITORE

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MONU


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68 MONU - KICKSTARTING TOPICS

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JOURNAL ILLUSTRATIF

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ARCHPHOTO E ARCHPHOTO 2.0

106 ENRICO FORESTIERI, MATTEO PACE - LITTLE QUESTIONS

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BURRASCA

120g RIFLESSIONI DI UN POSTEDITORE

STUDIO Architecture and Urbanism Magazine

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120g

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EMANUELE PICCARDO FANZINE: FARE CONTROARCHITETTURA

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WORKSHOP CUT & PASTE MILAN: EXPERIMENTS IN POSTPRODUCTION

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REM

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STATEMENT

ANTONIO LAVARELLO DIECI ANNI DOPO. PDA VS. BURRASCA

126 LUIGI MANDRACCIO DIALOGHI EMERGENTI


MARZIO DI PACE ROSA SESSA

AMOR VACUI STUDIO

Architecture Makes a Difference Invited to Genova to present Amor Vacui Studio, we had that incredibly inspiring feeling of being out of place. We are very fond of that feeling, because it mercilessly questions you, and pushes you to be brave enough to come up with new answers on your work and your aspirations. At Clip, Stamp, Upload we were surrounded by editors and theoreticians committed in beautifully intelligent projects on speculation and publication of architecture. Amor Vacui is not working in that direction, clearly. Still, in the last four years we have shot more than 130 videos on architecture and art [fig. 1]. Undoubtedly, this open source archive gives Amor Vacui a position in the discourse on communication, divulgation and – in a general sense – publication of architecture. We started to shoot videos when we were students, using them to enhance the projects we were working on: at that time, the video interview was mostly a way to ask the right question to the right person. Then, when in 2013 we founded Amor Vacui Studio, shooting videos took its place in our design process. We realized that our experience with the tools of the video and of the interview had enabled us to observe the places [fig. 2] and to approach people in a different way. Through those means, we found the perfect way to connect the impressions of the survey to the composition choices to take in our office. And then, when everything was completed, a final video would serve as a document of our work, telling the story behind our projects and installations. The video is not the only means we use to spread the knowledge about architecture. Amor Vacui is deeply involved in a cultural research devoted to explore and communicate architecture. Again, our intellectual research needs to be translated into physical actions, like an exhibition [fig. 3], an installation [fig. 4] or a small urban project able to speak to different people and to involve the community [fig. 5]. At the end, the communication and curatorship activities of Amor Vacui are always directed to achieve the final purpose of our work: to gain a useful role in our community as architects, that is, building beauty and meaning for our society. Ultimately, to make a difference with architecture, and nothing else. *Founded in 2013 in Salerno, Amor Vacui Studio is an architecture office devoted to design, communication and curatorship ( www.amorvacui.org . Facebook: Amor Vacui / Architettura @AmorVacuiStudio)

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1. Amor Vacui on Youtube: a digital archive of interviews. 2. “Architecture on Stage” (2013): a video to reveal places. 3.“Bundle Box” (2016): an exhibition project for La Guarimba Film Festival (foto: O. Zarko). 4. “Utopia Urbis” (2014): installation and cultural events in Salerno (foto: E. Fedele). 5. “L’Altrove è qui” (2015): a video to tell a project of urban regeneration.

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La plataforma editorial PAPER/Architectural Histamine creada en el año 2013 en Madrid, promueve la edición de publicaciones en las que se especule y reflexione en torno a la producción y el pensamiento arquitectónicos. PAPER se concibe como una herramienta abierta para explorar nuevas ideas en torno a la experiencia arquitectónica, así como las interacciones entre configuraciones espaciales, la cultura en sus distintos niveles y las relaciones sociales.

PAPER

Después de tres años de actividad, la plataforma ha elaborado, a parte de distintas publicaciones, encuentros, charlas y debates, convirtiéndose en un espacio vivo para la reflexión y el intercambio de ideas. Además de participar en varias exposiciones y comisariar la feria Colapso en Libros Mutantes2015, una exposición de publicaciones independientes de arquitectura en Madrid, PAPER ha recibido el prestigioso premio FAD 2015 de pensamiento y crítica por la revista Desierto. Desierto, uno de los proyectos centrales de la plataforma, nace de una búsqueda de alternativas a los procesos comunes de transmisión de pensamiento, apartándose del marco estático que por tradición envuelve el campo teórico de la reflexión arquitectónica que termina por alejarla de las dinámicas contemporáneas. Con textos de diversa naturaleza y radicalizándose como una publicación principalmente de lectura, Desierto promueve la especulación, ayudando a la difusión de ideas en su estado gaseoso. Es, por ello, especialmente importante la atención que desde la revista se presta a reflexiones de jóvenes autores así como de autores provenientes de diferentes disciplinas, distintos contextos o países, siendo ésta la vía para lograr la necesaria diversidad de miradas con la que se plantean las reflexiones y la verdadera actualidad de éstas, generando un mapa de intercambio abierto en pro de rescatar el valor de la multiplicidad y variedad de lugares a los que el pensamiento permite acceder. La revista plantea además una importante reflexión acerca de la forma en que los contenidos son presentados. El esfuerzo en el diseño editorial va de la mano de las intenciones perseguidas con la revista en cuanto a la voluntad por valorar el pensamiento escrito. Interpretar los tiempos de lectura, la densidad de los contenidos, el ritmo derivado de la forma en que éstos son relatados son temas que han sido enfrentados en un esfuerzo por predisponer al lector para el texto al que se enfrenta. Detalles como el uso del color o la simbología incluida al inicio de cada ejercicio revelan información que nos ayuda a posicionarnos conscientemente frente al texto al qué nos enfrentamos. Tener en cuenta la energía con la que tenemos que acometer su lectura nos permitirá lograr la mayor empatía con el autor y con las ideas que quiere transmitir. De esta manera, Desierto se convierte en un paisaje de ideas que contribuye al difuminado de los límites del pensamiento arquitectónico, un impasse en el complejo momento que atravesamos.

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Paisaje Desèrtico: Edición como arqueología Paper La arquitectura es el conjunto de modificaciones y alteraciones introducidas en la superficie terrestre con objeto de satisfacer las necesidades humanas, exceptuando sólo el puro DESIERTO. William Morris, fundador del Arts and Crafts. The Prospects of architecture in Civilization, conferencia pronunciada en la London Institution el 10 de marzo de 1881 y recopilada en el libro On Art and Socialism, Londres, 1947. TELETRANSPORTE - Ciento treinta y tres años después decidimos aterrizar justo ahí donde Morris afirmaba que la arquitectura no podía darse. Es, en este lugar 1. Deleuze, Gilles y Guattari, Félix (Mil nómada e Mesetas. Capitalismo y esquizofrenia, 1 incierto , desde Pre-Textos, Valencia, 1997) donde nos ponemos a pensar. Al llegar aquí, una primera idea. Se nos ha eliminado la atracción por el futuro, ahora sólo nos interesa, o mejor dicho, nos obsesiona, el presente. - PAISAJE DESÉRTICO - Nos encontramos en un territorio superficial, ante una imagen compuesta de infinitas imágenes, un espacio repetitivo y constante. Aunque sabemos que hemos venido a buscar algo ya no recordamos qué era exactamente lo que habíamos venido a hacer. Falta de memoria, ese es nuestro primer síntoma. Empezamos a caminar ante el miedo a quedarnos parados en el centro de este páramo. Miedo repentino a desaparecer. Después de un tiempo, uno de nosotros gira la cabeza y mira hacia atrás, hacia ese origen-punto-inicial de donde veníamos. No hemos dejado ninguna una huella. Debe de haber un error. - ERRAR - Primera

conclusión, no somos nómadas. El nomadismo se desarrolla en vastos espacios vacíos, sí, pero estos suelen ser conocidos. Además, presupone un retorno. Nosotros no hemos estado aquí antes, ni siquiera sabemos si será posible volver. Tendremos que buscar otro nombre. - KNOCKOUT - Hace un momento estábamos soñando imágenes. A medida que iban apareciendo se iban desintegrando. Debemos de habernos quedado dormidos. Nos viene una idea a la mente. Es una pregunta: ¿Habrá algo enterrado? – INACCIÓN - Empezamos a cavar. Si levantamos la primera capa encontramos de nuevo la misma superficie, copiada más abajo. La acción no tiene sentido. Como ya hemos comprobado, aquí se borra todo indicio de tránsito o maniobra reciente. Empezamos a pensar que es imposible nuestra tarea. ¿Cómo se puede describir un lugar en el que es imposible dejar huella? - UNOS BITS MÁS TARDE - La verdad es que esto no es como nos lo imaginábamos. Este no es aquel futuro histérico, cambiante y veloz que nos habían prometido. No hay imágenes fluyendo, ni ruidos ensordecedores, sólo un ligero zumbido de fondo. No hay luz exterior, únicamente la que emana de aquello hacia lo que miramos. Después de un tiempo nos hemos dado cuenta de que todo aquello que considerábamos vacío, está, en realidad, sobresaturado. No hay ni un mínimo hueco libre bajo nuestros pies, el terreno tiene una densidad total. – RESET - Este lugar ejerce su dominación sobre nosotros. A cambio, se ha convertido en una máquina a través de la cual podemos cambiar constantemente nuestros estados de conciencia, nuestros gustos, o nuestras convicciones.

Libertad para reinicializar el sistema. Esa es nuestra primera recompensa. - EL FUTURO – Este desierto por el que nos movemos es un enorme campo de batalla, las reglas debemos ponerlas nosotros. De la misma manera en que los terrain vagues se convirtieron en contraimágenes de la ciudad, este inmenso territorio es la contraimagen de aquel futuro fugaz y repleto de información que imaginábamos. Un lugar sobresaturado, un espacio indeterminado sin límites precisos2. Eso era lo que 2. Solà-Morales, Ignasi de, e s t á b a m o s “Terrain vague” 1995 (Terriconstruyendo, torios, Editorial Gustavo Gili, Barcelona, 2002) sin saberlo. Obsesionados por llenar el espacio, por materializar el vacío y construir los huecos, no nos dimos cuenta de que lo que estábamos dejando eran desiertos intermedios, vacíos que se llenarían repentinamente en cuanto se levantasen las barreras de la hipercomunicación. – VOLUNTAD - Queremos relatar desde aquí lo que ocurre a nuestro al rededor, aún arriesgándonos a perder el tiempo. Volvemos a intentarlo, confiamos en que debajo de esta manta exista algún resto que ayude a comprender cómo es realmente este lugar. Para estar preparados en caso de que nos encontremos con algún residuo, debemos tener en cuenta algunas nociones básicas sobre arqueología. LA EDICIÓN COMO ARQUEOLOGÍA La arqueología no es una forma de mirar al pasado, no interesa saber por qué las cosas fueron de determinada manera, sino cómo nos han informado para ser nosotros hoy como somos. Esta forma de entender la reconstrucción del pasado, ya sea remoto o muy

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reciente, sirve para situar la forma de edición que nos interesa: registrar, clasificar y re-ordenar lo que existe para comprender mejor el momento en que vivimos. En sus trabajos, los arqueólogos se enfrentan a una frustración irremediable, los registros fósiles siempre son sólidos, principalmente huesos y dientes, y nada informan de las partes blandas de los cuerpos, sujetas a la descomposición. Así, deben imaginar esas otras partes, imaginarse como eran los restos del cuerpo, la carne que los cubría y que ya no existe... o fiarse de relatos orales o dibujos en caso de existir. Stephen Jay Gould Esta afirmación se ha convertido en un punto de partida para construir nuestra idea de cual es el material que compone el presente. Porque no sólo la arqueología, sino todas las reconstrucciones del pasado se hacen a través de esquemas ciertos (residuos sólidos) y material inventado. Así la historia, así las religiones, así las ideologías, así los telediarios.3 3. Agustín Fernandez Mallo, “El homEste material bre que salió de la Tarta.”, 4/11/2014. blando, todavía Blog, Alfaguara. por hacer, que rodea todos los trabajos con los que nos vamos encontrando, es lo que reivindicamos como proceso editorial. De esta manera, los textos se convierten en cuerpos sin órganos. A partir de hechos que hallamos como se hallan dientes y huesos, estructuras sólidas, cada arqueólogo, cada editor, cada ideología o corriente, debe añadir nuevos órganos hasta conformar su propia idea de cuerpo.

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REGISTROS FÓSILES BLANDOS (UN PSEUDOMANIFIESTO) La edición es un tipo de arqueología imaginativa del presente. En el mundo contemporáneo ya no existen fósiles sólidos. Todos es blando, fluido y transitorio. El registro virtual que dejaremos será así mismo dúctil, una masa informe de pixeles sobre pixeles que terminarán descomponiéndose. Las palabras se acortan para expandir el espacio del texto. 140 caracteres. 6 segundos. El tiempo de duración medio de la información es el tiempo de duración media de un disco duro: 6 años aproximadamente. Debemos repensar la escritura. Debemos repensar el formato en el que relatamos nuestro presente. Nuestra labor no es ya la de pasar un pincel por los archivos que nos vamos encontrando, no es ya la de limpiar el material y clasificarlo para reconstruirlo. Queremos reformular e inventar contextos para encontrar, a través de la edición, nuevos sentidos impredecibles. Preferimos reivindicar una apariencia incierta. Defendemos la imprecisión de la estructura formal del trabajo que realizamos. Buscamos una identidad, pero queremos que sea cada vez más inestable. No vamos a repetir otra vez lo mismo que ya dijimos. Nos hacemos preguntas. ¿Existen ya todos los textos? ¿Cuántas combinaciones de palabras quedan por hacer? Quizás el momento contemporáneo se limita a recolocar piezas ya existentes. El trabajo de edición, de postproducción, en el centro de la escena. Reorganizar a partir de lo existente. Y no manejar nada, absolutamente nada, nuevo. ¿Está el libro dejando de existir? ¿No será

que está renaciendo? El arquitecto se aferra al papel para ficcionar el mundo que está por venir pero que no llega a construir. Demasiados intermediarios, demasiados agentes involucrados. Todo se ha vuelto demasiado complicado. El formato que nos interesa es el del tiempo. El texto es un lugar en el que permanecemos. Por eso lo señalamos. El pensamiento en red nos demuestra que el mundo está lleno de buenas ideas. Y estamos en constante contacto con ellas, con fugaces buenas ideas. En ese sentido la edición en el momento actual puede parecerse más a sentarse delante del ordenador y estar atento al flujo de información que pasa delante nuestro a toda velocidad para atrapar las cosas que nos interesan, que esperar sentado en una silla a que alguien te pida publicar su trabajo. La edición habita el mundo líquido de Bauman. Para sobrevivir, necesitamos utilizar más la herramienta desenfocar. ¿Pero qué es lo que debemos desenfocar? ¿Las ideas? ¿Las imágenes? Una paradoja fundamental de la época de la hipercomunicación es que el píxel se ha constituido como una vía de acceso privilegiada a lo físico, en el origen de su imagen, pero el píxel es en su origen una cifra, una no-imagen, un elemento irremediablemente «vacío». Una decepción: las sugerentes imágenes que amamos y consumimos ¿No son simplemente líneas de texto ordenadas y codificadas? ¿No es al fin y al cabo un lenguaje al que, además, estamos demasiado acostumbrados? Planteamos desde un inicio una reacción contundente a este miedo. El acto irreflexivo e irreverente de considerarlas siempre trampa. ¿Cuántos bytes ocupa un texto? ¿Cuántos píxeles mide un edificio?


DAVIDE RAPP

FICTIOUS INTERIORS

I nuovi formati di riproduzione audiovisiva, a risoluzione sempre maggiore, consentono a chiunque e in casa propria, di guardare e riguardare film e serie televisive. Dal VHS al Laserdisc, dal DVD al Blu-Ray: mai come oggi la pressione del tasto “pausa” è in grado di restituire all’occhio dello spettatore un’immagine così fedele e nitida. In un lungometraggio di 90 minuti ci sono circa 129.600 fotogrammi, 1440 al minuto, 24 al secondo: lo sguardo si sofferma su spazi e dettagli da raccogliere, osservare ed infine catalogare. FICTITIOUS INTERIORS è una collezione di fotogrammi di interni tratti da film e serie televisive, un archivio costruito giorno per giorno, film dopo film, visione dopo visione. Estrapolati dal contesto narrativo, i singoli frame acquistano nuovo senso e mostrano – a scale diverse – location filmate dal vero o set fittizi in studio. Dal 2012 ad oggi sono oltre un migliaio i fotogrammi mostrati e catalogati sulle pagine di FICTITIOUS INTERIORS, da una prima incarnazione sulla piattaforma tumblr1 alla più recente pagina facebook2. La giustapposizione dei diversi frame, nello scrolling 1. lazynotes.tumblr.com verticale della struttura a blog 2.https://www.facebook.com/ o nelle gallerie di immagini del fictitiousinteriors/ social network – evoca pattern ricorrenti nelle proporzioni geometriche degli spazi, nell’uso dei materiali, dei colori e degli arredi in scena. Nel tempo si sono rivelate decine di diverse categorie, ed altre ancora – auspicabilmente – si riveleranno in futuro: A / ABATJOUR / ARCHIVE / ARCO LAMP / AQUARIUM / B / BAR / BATHROOM / BATHTUB / BEDROOM / BILLIARD ROOM / BLACK / BUILDING / C / CELL / CHAIR / CHURCH / CONTROL ROOM / COPY ROOM / CORRIDOR / COUCH / CURTAIN / D / DANCEFLOOR / DINING ROOM / DOOR / E / EAMES / ELEVATOR / EMPTY / F / FAKE / FIRE / FIREPLACE / FLOOR / FORM FOLLOWS FICTION / FUNERAL / G / GREENHOUSE / GYM / I / IN SECTION / INTO THE WHITE / J / JAIL / JUNKSPACE / K / KITCHEN / L / LABORATORY / LIBRARY / LIVINGROOM / LOUNGE / M / MEETING ROOM / MIRROR / MUSEUM / MUSIC ROOM / O / OFFICE / ON SET / ON THE TRAIN / OVAL OFFICE / OUTDOOR / P / PARKING / PARTY / PEEPHOLE / R / RAMP / RESTAURANT / ROOM DIVIDER ROOM WITH A VIEW / S / SAUNA / SCALE MODEL ROOM / SHADOWS / STAIRS / SYMMETRY / SIZEPROBLEMS / SOFA / SWIMMING POOL / T / TEMPLE TOP VIEW / TOILET / TV / TV SHOW / THRONE ROOM / TRAINING HALL / TORTURE CHAMBER / V / VERANDA / VIRTUAL / VOID / W / WALL / WAITINGROOM / WARDROBE / WAREHOUSE / WEDDING / ... Sulle pagine di FICTITIOUS INTERIORS gli spazi della finzione coesistono simultaneamente in un catalogo in progress, costantemente in evoluzione e potenzialmente infinito.

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1953, CITY THAT NEVER SLEEP

1958, VERTIGO

1961, WEST SIDE STORY

1971, THE BEGUILED

1974, IL PROFUMO DELLA SIGNORA IN NERO

1974, THE TENANT

1985, NIKITA

1990, CLOSE YOUR EYES

1991, DELICATESSEN

1999,BRINGING OUT THE DEAD

2000, AMERICAN PSYCHO

2000, SCREAM 3

2004, UN LONG DIMANCHE DE FIANCAILLES

2005, BREAKFAST ON PLUTO

2006, THE DEVIL WEARS PRADA

2012, TABU

2012, THE BOURNE LEGACY

2012, WHAT’S IN A NAME

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1946, THE SPIRAL STAIRCASE

1949, THE THIRD MAN

1952, EUROPE ‘51

1964, THE WORLDS OD HENRY ORIENT

1970, L’UCCELLO DALLE PIUME DI CRISTALLO

1970, LA MORTE RISALE A IERI SERA

1976, THIEF

1981, THE LAST HORROR FILM

1982, DEMONI

1991, KAFKA

1997,THE TANGO LESSON

1998, THE AVENGERS

2001, THE ROYAL TENENBAUMS

2003, THE MATRIX REVOLUTION

2003, UPTOWN GIRLS

2011, MEDIANERAS

2011, THE DESCENDANTS

2012, PASSION

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1963, SHOCK CORRIDOR

1964, GOLDFINGER

1968, 2001 A SPACE ODISSEY

1971, THE FRENCH CONNECTION

1972, LOGAN’S RUN

1972, WHAT?

1976, LOGAN’S RUN

1977, STAR WARS

1980, SHINING

1985, PEE-WEE’S BIG ADVENTURE

1985, PHENOMENA

1985, THE QUIET EARTH

1988, BEETLEJUICE

2000, IN THE MOOD FOR LOVE

2002, PUNCH DRUNK LOVE

2010, BEGINNERS

2010, I SAW THE DEVIL

2013, INSIDE LLEWYN DAVIS

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VALTER SCELSI

A LIST OF ANALOGIES

La materia dialettica dell'architettura è una componente disponibile, collettiva, anti-retorica perché ovvia. È in sostanza, un prodotto della storia, e come tale può essere, anche, un prodotto di successo relativo, come, ad esempio, è l'architettura oggetto di citazione. Proprio la citazione ci ricorda che la storia dell'architettura ha dei punti culminanti, anche se, poi, finisce per indicarci «il limite dell'architettura stessa rispetto alla ricchezza del mondo rappresentato» (G. Grassi). Il materiale usato dall'architettura è, in sostanza, un inattendibile campionario di oggetti analoghi, che oppongono resistenza alla teoria perché tra la prassi e la teoria dell'analogia il divario è immenso, come alla fine degli anni Sessanta osserva Enzo Melandri nell'introduzione del suo studio logico-filosofico sull'analogia. «Tutti ci serviamo dell'analogia, ma raramente si avverte il bisogno di formularne il procedimento in maniera esplicita»1. Se da un lato l'analogia richiama una famiglia di concetti, problemi, materiali e pratiche che ruotano intono a un centro, un principio di analogia, che però alla fine si rivela vuoto, inafferrabile e indefinibile, dall'altro la componente analogica dell'opera architettonica appare la più resistente, quella che si fatica di più a nascondere, a mascherare. Tuttavia, non è nascosta nelle regioni interne del lavoro, piuttosto risulta portante, ma esterna, è un esoscheletro in grado di fornire una riconoscibilità immediata all'architettura mediante una sua immagine strutturale. Il punto di analogia di un'opera è un punto che non sia né interno né esterno ad essa, un punto che giaccia, cioè, sulla sua frontiera, come la circonferenza per il cerchio. La condizione frontaliera dell'analogia, che in partenza è solo indice della trasformazione, non fattore determinante, finisce per diventare programma in grado di influenzare l'opera e il punto di vista che di essa abbiamo. Queste considerazioni intorno al rapporto tra architettura e analogia determinano il materiale contenuto nell'archivio on-line A List of Analogies2, progetto curatoriale che ho intrapreso nel 2014, con una prospettiva triennale, e che si concluderà nell'autunno del 2017. La ricerca vuole essere un'indagine sulle possibilità che l'analogia costituisca una dimensione di rinascita sistematica, sebbene eidetica3, fatta 1. E. Melandri, La linea e il circolo. Studio logico-filosofico di una materia sull’analogia (Bologna: Il Mulino, Bologna, 1968), p. 11. Si veda: opusanalogico.tumblr.com. che non si 2. 3. Dal vocabilario Treccani: eidetismo, s. m. [der. di eidetico]. – irrigidisce, non In psicologia, la capacità, propria soprattutto della fanciullezza, ritenere e tradurre in immagini nitide e particolareggiate si condensa, in di (immagini eidetiche) impressioni visive o acustiche grado di farsi precedentemente percepite. strumento operante di lettura e di interpretazione dei fenomeni architettonici. Grazie al lavoro di accumulo dei dati svolto nel triennio, è oggi possibile organizzare una ricerca che se ne proponga l'analisi e la lettura, organizzando le conclusioni teoriche.

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Valter Scelsi

Atlante Mnemosyne di Aby Warburg, pannello 45.

Internet nella città dalla cyber- flâneries all’iconologia elettronica 20


Sono davanti a questo schermo da sei ore, e sembra che non sia passato neanche un minuto. Non sono nemmeno lontanamente stanca. Stravolta e assetata, ma non stanca. Anzi, sono euforica. J.C. Herz, Surfing in the internet, 1995

Chi cammina a lungo per le strade senza meta viene colto da un’ebrezza. Ad ogni passo l’andatura acquista una forza crescente; la seduzione dei negozi, dei bistrot, delle donne sorridenti diminuisce sempre più e sempre più si fa, invece, il magnetismo del prossimo angolo della strada, di un lontano mucchio di foglie, del nome della strada. Poi sopravviene la fame. Egli non vuole sapere nulla dei mille modi per placarla. Walter Benjamin, Passagen-Werk, 1927-19391 Le due 1. Le traduzioni sono rispettivamente tratte da J.C. Herz, I sur sti di internet, citazioni in Feltrinelli, 1995, e Walter Benjamin, p r e m e s s a I «passages» di Parigi, a cura di Rolf Tiedermann, ed. it. a cura di Enrico sono scritte Gianni, Einaudi, 2000. a distanza di circa mezzo secolo e trattano di sentimenti prodotti da due ambienti diversi, internet e la metropoli, verso i quali l’uomo, la quantità degli uomini, si potrebbe dire la società, sembra assumere un atteggiamento analogo. È lo sgomento davanti ad un nuovo luogo, un territorio mai esplorato prima e ora accessibile con apparente poco sforzo e, comunque, con ampia disponibilità. Del resto, a metà tra le epoche che hanno prodotto questi due testi troviamo quanto s c r i v e 2. Walter Benjamin (Charlottenburg, M a n f r e d o 15 luglio 1892 – Portbou, 26 settembre 1940). T a f u r i : 2 «Benjamin nota che la facilità e la disinvoltura, con cui il flâneur parigino si muove nella folla, sono

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diventati modi di comportamento naturali per il moderno fruitore della metropoli» (TAFURI, 1973). Semplicità e chiarezza di questa affermazione danno conto di un punto di vista che nel corso del Novecento si è reso popolare: la grande città è piattaforma ideale per esperienze che agiscono negli ampi confini tra l’indagine organizzata e sistematica dello spazio urbano e la “naturale” esplorazione del territorio che è alla base di sistemi sociali e relazionali umani. La posizione storica dalla quale proviene questa affermazione alimenta l’ipotesi che, oggi, la si possa integrare istituendo relazioni di analogia tra nascita ed effetti della metropoli nella storia dell’uomo moderno e sviluppo della rete globale di collegamenti informatici che chiamiamo Internet. Tracce di queste relazioni compaiono nella iniziale condizione di due soggetti che le frequentano, l’individuo urbano che conduce la propria esistenza prevalentemente all’interno della città e il cybernauta, l’utente di internet, che vive inserito in un sistema sociale che prevede la quotidiana frequentazione della rete. In particolare, appaiono intessere rapporti di analogia certi sistemi di reazione, difesa, utilizzo, esperienza ricorrenti nei due soggetti. La metropoli ottocentesca si propone come una matrice, nel senso di un materiale solido, relativamente fisso che, nelle esplorazioni che se ne compiono porta la forma da dare alla sostanza dei percorsi, ma che è anche sufficientemente mutevole da indurre il bisogno dell’esperienza. Allo stesso modo, la rete nell’epoca della sua prima diffusione, l’ultimo decennio del Novecento, risulta percorribile secondo i tratti di un sistema di interconnessione ancora


in formazione, governato dai motori di ricerca e dalle parole chiave: «il lavoro di Benjamin può essere paragonato a 3. Guglielmo Bilancioni, Aby Warburg un motore di e Walter Benjamin. Il metodo della in Aisthesis, n°2, 2010, pp. ricerca, con i memoria, 65-71 link di internet, che aprono un universo di possibili relazioni, di nodi e varianze, di connessioni fra possibili»3. La frammentazione, o, forse meglio, la fluidificazione, la perdita della consistenza-matrice, tanto della sostanza e dei modi d’uso della metropoli, quanto dei flussi della rete, sembra Evgeny Morozov, The Death of the c o n c l u d e r e 4. Cyberfâneur, The New York Times, la fase di una Sunday Review, 4 febbraio 2012. modalità di esperienza accostabile alle teorie di Walter Benjamin. Un articolo4 scritto nel 2012 da Evgenij Morozov, giornalista e sociologo, segna lo spartiacque. «Il punto centrale nel vagabondaggio del flâneur – scrive Morozov – è che lui non sa che cosa gli interessi. Come scritto da Franz Hessel, autore tedesco e collaboratore di Walter Benjamin, “per dedicarsi alla flânerie, non bisogna avere le idee troppo chiare in testa”. Messo tutto ciò a confronto con l’universo altamente deterministico di Facebook, fa sembrare sovversivi persino gli slogan Microsoft anni novanta come “Dove vuoi andare oggi?”. Chi si farebbe una domanda del genere all’epoca di Facebook?» Il rapporto biunivoco tra metropoli e rete istituito fino dagli esordi di quest’ultima appare oggi in grado di influenzarne reciprocamente i caratteri, avvicinandone e rendendone simili le sostanze costitutive sociali. Così, nella condivisione incessante di immagini proposta dal modello social affermatosi nel presente decennio, la seconda età di Internet, e nella loro continua ri-composizione

c o m p a i o n o 5. Aby Moritz Warburg (Amburgo, 13 r i c o r r e n z e , giugno 1866 – Amburgo, 26 ottobre 1929). frammenti, tracce di ciò che Aby Warburg5 definiva “engrammi”, ovvero forme che scorrono sotterraneamente e che emergono, spesso improvvise, a volte inaspettate, in una molteplice dimensione analoga. Di questa repentina riscoperta dell’atteggiamento wargburiano nello stesso anno 2012 fornisce più di una spiegazione Salvatore Settis, e del suo destino «che è stato di essere a lungo ignorato, e considerato quasi solo il fondatore di una biblioteca un po’ speciale; poi, di colpo, esaltato a ‘classico’, ma un classico che non c’è bisogno di leggere, e che semmai può essere oggetto di studi p a r t i c o l a r i , 6. Salvatore Settis, Aby Warburg, il a l t a m e n t e demone della forma: Antropologia, memoria, in «Engramma», specializzati»6. storia, n°100, settembre-ottobre 2012. La presenza delle immagini in rete, la loro stessa tassonomia apparentemente possibile, propone, tuttavia, analogie riaffioranti che sembrano essere vissute in sacche di esistenza salve dalla dimensione costantemente valutativa della rete socializzata. Periferiche rispetto al flusso di follower e di like che percorre Internet, si muovono storie come quella che racconta il caso della Great Tower for London, un progetto che nella particolare vicenda dei tralicci architettonici si colloca a metà dell’arco temporale compreso tra lo spettacolare ottimismo del Latting Observatory, la torre di quasi cento metri di altezza innalzata a New York City nel 1853 per l’esposizione internazionale «Industry of All Nations» e distrutta da un incendio nel 1856, e l’ostinato vitalismo delle Watts Towers che il carpentiere italo-americano Sabato “Simon” Rodia costruisce tra il 1921 e il 1954 nella periferia di Los 7. Nel 1967, nella foto di copertina Angeles7.

«Catalogue of the 68 competitive designs for the great tower for London» 1890

dell’album Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band, i Beatles sono circondati da una variopinta folla di personaggi di ogni epoca. Nell’angolo in alto a destra, in ultima fila e accanto a Bob Dylan, compare Rodia, unico italiano rappresentato. Nato nel 1879 a Ribottoli, un paese in provincia di Avellino, appena quindicenne emigra in America in compagnia del fratello maggiore.

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Il suo inventore e committente, Sir Edward Watkin, presidente del Metropolitan Railway Board negli anni Ottanta del XIX secolo, era un uomo con grandi ambizioni e grandi idee. Del resto, l’epoca in cui viveva, l’Era Vittoriana, le richiedeva entrambe a tutti, e senz’altro ad un imprenditore ferroviario. La regina Vittoria salì al trono nel 1837 e regnò fino alla morte, nel 1901, un periodo talmente lungo da convincerla a sottrae dall’esclusivo valore simbolico l’immagine del proprio proflo in rilievo sulla sterlina d’oro; nel 1887 la sovrana sentì che la giovane donna effigiata dal conio non la ritraeva più, la sostituì con una austera testa incoronata e poi ancora, nel 1893, con l’immagine morbida della propria maturità, dove la corona risultava parzialmente coperta dal velo. I tre ritratti, prodotti in multipli per infinite mani, sono il racconto iconografico di una vita. Watkin voleva che il fulcro simbolico di una simile epoca fosse una grande torre di ferro, più alta e più bella di quella che i francesi avevano appena completato a Parigi. Per realizzare questa visione, fonda la Metropolitan Tower Construction Company e promuove un concorso internazionale, invitando gli architetti a presentare progetti per una torre di non meno di milleduecento piedi, poiché si doveva essere più alti della torre di Gustav Eiffel. Dei sessantotto progetti che saranno pubblicati nel «Descriptive Illustrated Catalogue of the sixtyeight competitive designs for the Great Tower for London compiled and edited by Fred. C. Lynde for the Tower Company, Limited, printed and published by Industries, London, 1890» nessuno davvero impressiona

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i giurati, che si accordano su un disegno che sembra molto simile alla Torre Eiffel, ma è 175 piedi più alto. Il New York Times riferisce con un certo entusiasmo come “la Torre di Wembley incorona un rilievo della bella Wembley Park da dove si gode una gran vista sulla campagna A.D. Stewart, J.M. MacLaren, W. circostante”, e continua informando Dunn - Lynde, Fred. C. (1890) «Design No. 37» che “più di centocinquanta uomini sono ora insieme impiegati nel montaggio della torre, e sono meravigliosi i rapidi progressi che fanno.” [NYT, 20 maggio 1894] Purtroppo, nonostante si tenti per due anni di trovare soluzioni al problema, le fondamenta della torre cedono progressivamente, poiché il terreno poco compatto non riesce sostenere il peso della struttura. Solo la prima fase, fino alla piattaforma inferiore, viene costruita e, interrotti i lavori, diventa per qualche tempo un’attrazione, un belvedere con ascensore, a cui i londinesi attribuiscono il disincantato soprannome di Follia di Watkin. Alla fine, nel 1907 viene smantellata, il suo metallo riciclato e, qualche anno più tardi, sul sedime delle fondamenta viene composto il rettangolo di prato più simbolico 8. L’Empire Stadium, costruito in vista dell’Impero Britannico dell’intera Gran dell’Esposizione del 1924, viene inaugurato il 28 aprile B r e t a g n a , 1923 da re Giorno V. il campo di 9. Geoffrey Hurst (Ashton-under-Lyne, calcio dello 8 dicembre 1941) calciatore britannico, inglese e campione del stadio di nazionale mondo. Il 30 giungo 1966 segna tre W e m b l e y 8 , gol alla Germania Ovest nella fnale tutt’ora imbattuto) giocata a quello sul quale (record Wembley, che termina dopo i tempi l ’ I n g h i l t e r r a supplementari con il punteggio di 4 a sconfigge la 2 per i padroni di casa. Germania Ovest nella finale dei mondiali del ‘66. Così, quando l’attaccante inglese Geoff Hurst9 scaglia con il destro il pallone del suo gol-fantasma (il gol-fantasma più famoso della storia del calcio) si


trova, inconsapevolmente magari, proprio sulle fondamenta della torrefantasma di Watkin. La riemersione della torre avviene in due occasioni: durante gli scavi per la costruzione del nuovo stadio di Wembley, all’inizio di questo secolo, quando ne compaiono le fondazioni, e qualche anno più tardi, quando viene pubblicata in rete10 la scansione della copia completa del catalogo del 1890, quello con tutti i progetti di concorso. 10. Nel 2011 viene digitalizzata e Dopo un pubblicata in rete dall’Internet Archive Getty Research Institute una copia breve testo di del del libro. introduzione, la sequenza della pagine riporta solo disegni, e solo un disegno per progetto; la quasi completa assenza di commento, che si limita ad una succinta scheda tecnica per progetto, finisce con l’essere un modo per introdurre significato, naturalmente, e aggiunge una certa ambiguità, un’astrazione rispetto ai singoli progetti rappresentati e anche un riferimento analogico alle carte da gioco, iconologica serie corredata da brevi codici; l’astrazione combinatoria del mazzo di carte sublima la muta insipienza del progetto vincitore, il numero 37, ricondotto nei ranghi del repertorio di n oggetti analoghi, tutti ugualmente inutili e che 11. Roland Barthes, La Tour Eiffel (phohanno il tographies d’André Martin), Delpire, p a r a d o s s a l e coll. « Le génie du lieu », 1964 effetto di congelare proprio la dimensione dialettica della Tour Eiffel parigina, il modello che si proponevano di cancellare superandolo, all’epoca della sua costruzione, vale a dire all’alba di quella “metafora senza freno”11 che diventerà sintesi stessa della dualità immagine-architettura nel tempo a venire.

Bibliografia Agamben G., 1984, Aby Warburg e la scienza senza nome [1975], in «Aut-Aut», 199- 200, pp. 51-66. Barale, A., 2009: La malinconia dell’immagine: rappresentazione e signi cato in Walter Benjamin e Aby Warburg, Firenze University Press,’Firenze. Bilancioni G., 2010, Aby Warburg e Walter Benjamin. Il metodo della memoria, in «Aisthesis», 2, pp. 65-71; Morozov E., 2012, The Death of the Cyberfâneur, The New York Times, Sunday Review, 4 febbraio 2012. Pisani, D., 2004: Mnemosyne, tappa Parigi. Aby Warburg e Walter Benjamin, problematiche affnità, in «Engramma», 35. Settis S., 2012, Aby Warburg, il demone della forma: Antropologia, storia, memoria, in «Engramma», 100. Tafuri M., 1973, Progetto e utopia: architettura e sviluppo capitalistico, Laterza, RomaBari.

Latting’s Observatory Saloon advertisement. From Henry Collins Brown, Valentine’s Manual of Old New York (Hastings-on-Hudson, NY: Valentine’s Manual, 1919), 311.

Simon Rodia’s Towers in Watts: A photographic exhibition by Seymour Rosen, Los Angeles County Museum of Art, 1962

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Il serpente e l’Allodola: su alcune analogie tra Gelett Burgess e Aby Warburg Gian Luca Porcile […] one of those splendid coincidences that used to make German historians believe in the Zeitgeist Reyner Banham, 1968 La coda della rana “Orrida convulsione di una rana decapitata” (Warburg, 1998, p.67) così Aby Warburg, in una lettera indirizzata a Fritz Saxl e datata 26 aprile 1923, definisce il manoscritto di una sua conferenza sul tema Immagini dalla regione degli indiani Pueblo del Nordamerica. L’intervento, corredato di fotografie scattate durante un viaggio in America di circa 25 anni prima, si era tenuto il 21 aprile del 1923 alla Casa di cura Bellevue e aveva lo scopo di dimostrare la guarigione dell’autore dalla malattia mentale e la possibilità di ritornare all’attività di ricerca ed alla vita normale. Per esplicita volontà di Warburg questo testo non avrebbe dovuto essere pubblicato. Una prima edizione in lingua inglese andrà alle stampe solo nel 1939 sul Journal of the Warburg Institute; per il testo originale in tedesco bisognerà aspettare fino al 1988 (Ghelardi in Warburg, 2006, p.XX). Negli ultimi decenni il saggio sul culto del serpente presso gli indiani Hopi è diventato uno dei testi più citati dello studioso amburghese e i passaggi finali sono stati più volte riproposti dagli storici e dai critici. Il testo della conferenza si conclude con un riferimento all’ultima immagine proiettata, che l’autore così commenta:

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“Per le vie di San Francisco sono riuscito a catturare in un’istantanea colui che ha trionfato sul culto del serpente e sulla paura del fulmine, l’erede degli indigeni, il cercatore d’oro che ha preso il posto degli indiani invadendo la loro terra: è lo Zio Sam in cappello a cilindro, mentre incede orgoglioso per la strada davanti all’imitazione di una rotonda classica. Sopra il suo cilindro corrono i fili elettrici. Con il serpente di rami di Edison egli ha strappato il fulmine alla natura. L’americano moderno non teme più il serpente a sonagli. Lo uccide, ad ogni modo non lo adora. Il destino del serpente è lo sterminio. Il fulmine imprigionato nel filo - l’elettricità catturata - ha prodotto una civiltà che fa piazza pulita del paganesimo. Ma che cosa mettere al suo posto? Le forze della natura non sono più concepite come entità biomorfe o antropomorfe, ma come onde infinite che obbediscono docili al comando dell’uomo.” (Warburg 1987, pp.65-66) Questa citazione, insieme alla diapositiva che l’accompagna, è una presenza ricorrente nell’analisi del pensiero di Warburg; vi è in essa la compresenza di diversi elementi che, in qualche modo, sentiamo oggi affini alla nostra sensibilità. Il rimpianto per la perduta armonia con la natura, fondata su una connessione anche spirituale, si fonde al rimorso per le colpe che, come occidentali, abbiamo commesso a scapito delle popolazioni native di tante parti del

mondo. Il timore per i pericoli di uno sviluppo tecnologico incontrollato amano trovare nell’‘altro’, in questo caso nella figura stereotipata dell’‘Americano’, un facile capro espiatorio. Anche l’architettura fa una singolare comparsa in questo brano: lo Zio Sam incede orgoglioso davanti all’imitazione di una rotonda classica. Apparentemente questa notazione resta estranea all’argomentazione dell’autore; eppure vi è un dettaglio che colpisce. L’edificio viene definito come un’imitazione, quasi ad alludere che l’incapacità di concepire le forze della natura come entità ponga fine alla possibilità di considerare l’architettura classica come uno stile vitale. La perdita della creatività artistica sarebbe uno dei prezzi da pagare di fronte al trionfo della tecnica. Nel brano citato è stata anche rintracciata la presenza della malattia di Warburg proprio a conclusione della conferenza che avrebbe dovuto sancirne la guarigione. Nella sua biografia, Ernst Gombrich afferma “In una certa misura la conclusione della conferenza tradisce l’irruzione della sua malattia mentale; ma documenta anche il suo tendere verso una coerente filosofia della civiltà che scuota il facile ottimismo dalle concezioni progressive, senza rinunciare al diritto di valutare e di criticare la cultura umana passata e presente” (Gombrich, 1983, p.196). Tuttavia la ‘coda’ del testo che lo stesso autore aveva definito come una rana può forse essere meglio compresa guardando ad uno stadio anteriore nella formazione del suo


pensiero, ricercando quindi tra le esperienze che il giovane Warburg aveva compiuto durante il suo viaggio in America. L’allodola e lo Zio Sam La figura, o per meglio dire lo stereotipo, dell’americano tipo, ritratto come un acritico fautore dello sviluppo tecnologico e del materialismo, contrasta con un breve saggio dal titolo Amerikanische Chap-Books pubblicato da Warburg nel 1897. Si tratta de “La sola pubblicazione in cui Warburg utilizzò la sua esperienza americana che non riguarda l’antropologia ma il movimento moderno negli Stati Uniti. A San Francisco, Warburg era stato in contatto con i redattori di ‘The Lark’, una delle ‘piccole riviste’ sorte nell’ultimo decennio del secolo. Warburg scrisse al direttore di ‘Pan’, il principale organo del movimento dell’Art Nouveau in Germania, proponendo un resoconto della rivista americana, ma gli fu risposto che sarebbe stata preferita una breve rassegna delle varie riviste di quel tipo” (Gombrich, 1983, p.88). L’articolo sui Chap-Books resta, tra gli scritti di Warburg, un episodio relativamente isolato; forse per questo motivo gli storici hanno generalmente tralasciato di indagare le ragioni dell’interesse che questi nutriva per Gelett Burgess e per la rivista di cui era il principale animatore (Bovino, 2016, p.12). Al di là di una sintetica analisi di alcuni dei brani contenuti in The Lark (Burgess 1895f; Burgess 1895g) l’articolo risulta piuttosto difficile da inquadrare

nel contesto della formazione del pensiero di Warburg. Resta tuttavia indubbio il suo interesse per questa forma di editoria indipendente che stava vivendo, in America, una fase di notevole fortuna. Più che relazioni dirette è possibile trovare una serie di analogie profonde tra gli interessi dello studioso amburghese e l’opera dell’umorista americano. The Lark significa letteralmente ‘l’allodola’ ma il termine può indicare anche un gioco, uno scherzo o una farsa. Un’immagine emblematica compare nel primo numero della rivista (Burgess, 1895b) che termina con la celebre figura in cui un treno a vapore, il fumo della sua ciminiera e i pali del telegrafo s’intrecciano a formare una decorazione, quasi classica, che per molti versi richiama l’aspetto di una ghirlanda. Sarà infatti proprio quest’immagine ad essere ripresa da Warburg (1897, p.346) in Amerikanische ChapBooks. Sebbene Warburg non entri nel dettaglio del significato di quest’immagine e delle ragioni della scelta di ripubblicarla nel suo articolo, in essa è possibile rintracciare diversi aspetti della sua esperienza americana. Il treno e il telegrafo sono simbolo della conquista del selvaggio West (Papapetros, 2012, p.95). Tuttavia il modo in cui Burgess compone questa ‘vignetta’ [Vignette], in cui gli elementi formano un “capriccioso ornamento” (Warburg, 1897, p.346) sembra alludere al fatto che la ricerca che aveva spinto Warburg a cercare delle analogie tra gli Hopi e la Grecia preclassica potevano essere estesi all’era tecnologica (Johnson, 2012, p.31).

Storia di due tre contemporanei Burgess e Warburg erano contemporanei nel senso più stretto del termine. Nati nel 1866, entrambi possono essere considerati come figure allo stesso tempo centrali e marginali per l’arte contemporanea (Bovino, 2016; p.4). I due si erano conosciuti durante il viaggio di Warburg in America, verosimilmente nel 1896, quando lo studioso amburghese era entrato in contatto con il gruppo di giovani intellettuali che gravitava attorno alla figura, ed all’attività di editore indipendente, di Gelett Burgess. Nei testi pubblicati dall’umorista americano la complessità di molti dei temi trattati convive col tentativo di una diffusione più ampia possibile; le sue pubblicazioni sono infatti stampate con la massima economia su carta sottile e di bassa qualità. Difficile immaginare due pubblicazioni più diverse di Pan (dove Amerikanische Chap-Books viene pubblicato) e The Lark, eppure su entrambe le riviste compaiono richiami ai Fauni e al dio delle selve e delle foreste. A pagina 341 del numero in cui compare Amerikanische ChapBooks, Warburg fa porre una piccola immagine di un fauno flautista, opera di Bruce Porter (1896), che comparirà anche sulla copertina della raccolta in volume del primo anno di The Lark. Questi elementi iconografici non sono certo casuali e sono frutto di un’attenzione per una particolare questione: cosa, del mistero della natura, possa sopravvivere alla modernità ed alla vita in una grande metropoli. La questione della “corporeizzazione” viene declinata

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da Burgess secondo un gusto del comico che spesso confina col surreale, in Warburg andrà invece prevalendo col tempo il senso del tragico (Bovino, 2016, p.26). Malgrado le ovvie differenze, tra il due vi era un comune interesse nel rapporto tra arte e teoria dell’evoluzione; oltre alla definizione delle fasi di sviluppo della produzione artistica vi era l’attenzione per lo studio di Charles Darwin sull’espressione delle emozioni. Il tema dell’origine dell’arte viene affrontato da Warburg entrando in contatto con le popolazioni ‘ primitive’ del deserto del Nordamerica. Negli stessi anni l’opera di Burgess è focalizzata sul disegno infantile. Con un gioco ambiguo, che ben si presta a raffinati effetti comici, nelle opere di Burgess è presente uno slittamento continuo tra testi e immagini solo apparentemente destinate a bambini ma in realtà indirizzate ad un pubblico di conoscitori d’arte attenti allo sviluppo di una concezione estetica aderente al carattere del proprio tempo. In un articolo dal titolo “Some Phases of Primitive Art” (Burgess, 1895a) il tono serio, quasi accademico, del testo contrasta con l’ambiguità del titolo: le fasi primitive a cui l’autore si riferisce non sono quelle di un periodo arcaico dell’umanità quanto quelle tipiche del tratto infantile del disegno di un bambino. Come Warburg, anche Burgess andrà alla ricerca delle origini di una forma d’arte presso i ‘selvaggi’. Ironicamente, in quello che diventerà il suo testo più famoso ed influente, l’americano studierà

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i Wild Men a Parigi, città ancora saldamente considerata come la capitale artistica del pianeta (Burgess, 1910). Nel raccontare al pubblico del suo paese la nascita e lo sviluppo del cubismo, Burgess coglie la profonda complessità di questo rinnovamento artistico; in esso qualcosa di primitivo, come i richiami all’arte africana, si fonde con qualcosa di intimamente moderno, come la volontà di rappresentare lo spazio oltre le consuete tre dimensioni. Questi erano temi che da lungo tempo avevano assunto un ruolo centrale nella produzione dell’autore americano; non bisogna infatti dimenticare che Burgess era stato in contatto col matematico Charles Howard Hinton e che aveva introdotto un suo amico, l’architetto Claude Fayette Bragdon (anch’egli nato nel 1866), allo studio della quarta dimensione (Massey, 2009, pp. 134-135). Quest’ultimo, attraverso la sua casa editrice, Manas Press, sosterrà la diffusione in America della di un approccio teosofico e di un rinnovamento della cultura architettonica fondato sulla comprensione di uno spazio quadridimensionale. Nei testi di Bragdon la pratica architettonica resta sempre profondamente legata ad una dimensione spirituale ed un sostanziale eclettismo che deve rispecchiare non una molteplicità di stili, ma la varietà degli interessi e delle occasioni di crescita culturale e spirituale dell’architetto.

La fontana della temperanza e l’uomo di gomma da masticare I primi anni della carriera di Burgess hanno un carattere piuttosto prosaico. Laureatosi in ingegneria civile presso il Massachusetts Institute of Technology nel 1887, lavora per alcuni anni per le ferrovie. Nel 1891 fa ritorno a San Francisco e comincia a insegnare disegno topografico presso l’Università della California a Berkeley (Cruse, 2016, p.69). La sua carriera accademica termina a causa di un clamoroso gesto di iconoclasmo (Moffatt, 1992, p.140). La sera del 1 gennaio 1894 un gruppo di aspiranti scrittori e artisti distruggono una statua che ritraeva Henry D. Cogswell: il monumento rappresentava uno degli esempi più emblematici e meno riusciti di quell’autentica esplosione di ‘arte civica’ che aveva riempito le città americane alla fine del XIX secolo. Henry D. Cogswell, dentista e filantropo, era un’attivista che si batteva per la temperanza e che aveva regalato a diverse città americane alcune fontane monumentali con lo scopo di invitare i cittadini alla moderazione nei costumi. La moderazione consisteva, all’epoca, prevalentemente nel bere acqua al posto di bevande alcoliche. La bassa qualità del livello artistico di questi monumenti, invece che invitare i possibili alcolisti alla temperanza, aveva suscitato le intemperanze di alcuni giovani amanti dell’arte. Sebbene la diretta partecipazione di Burgess alla distruzione della statua non fosse mai stata provata, il sospetto che lui fosse l’animatore di questa


iniziativa aveva provocato il suo allontanamento dall’insegnamento universitario. Negli anni seguenti egli intraprenderà quindi la carriera di disegnatore e di umorista, diventando una delle figure principali sulla scena dell’editoria indipendente nella costa occidentale degli Stati Uniti d’America. Nell’ultimo decennio del XIX secolo San Francisco stava crescendo rapidamente, al pari di altre metropoli americane. Tuttavia lo spirito della frontiera era ormai un retaggio del passato e le città della costa occidentale degli Stati Uniti si trovavano di fronte ad una scelta: mutuare dall’Europa o dalla costa atlantica uno o più stili architettonici, oppure cercare di sviluppare una propria architettura. La crescita delle città le rendeva attrattive per figure di artisti e intellettuali che finivano, inevitabilmente, per alimentare il dibattito circa le forme e i modi del loro sviluppo (Longstreth, 1998). La cerchia riunita attorno alla figura di Gelett Burgess, in particolare, era impegnata a contrastare l’affermarsi di quell’eccesso di ornamenti dai tratti grossolani che stava caratterizzando molte delle costruzioni realizzate in quegli anni a San Francisco. Lo stesso Burgess, che non a caso si era formato come ingegnere civile, aveva pubblicato articoli polemici per mettere alla berlina le “mostruosità architettoniche” della sua città (Burgess, 1897). L’attenzione per l’architettura sarà costante anche in The Lark, seppure con una vera satirica meno chiaramente indirizzata verso toni polemici, come dimostrato da alcune pagine curate da Willis

Polk (1896a; 1896b), architetto vicino alla cerchia di Burgess che poi aderirà al City Beautiful Movement. Il tema dell’iconoclasmo e della distruzione, forse memoria dell’episodio della statua, resta un elemento frequente nell’opera di Burgess. Il mistero che si intromette improvvisamente nella città moderna, sotto forma di essere fantastico e mostruoso è presente in molte delle pagine che Burgess cura su The Lark. Non si tratta tuttavia necessariamente di una permanenza del passato, di vecchie superstizioni non ancora cancellate da un presente fatto di scienza e di tecnologia, ma di esseri misteriosi di natura completamente nuova. Nel numero di luglio 1895 viene pubblicata la storia dell’uomo di gomma da masticare [The Peculiar History of the Chewing-Gum Man], creato da due bambini in vena di scherzi e destinato, prima della sua inevitabile morte, a destare lo scompiglio in città. In uno dei suoi componimenti (capaci di riunire in una sola pagina disegno, poesia e composizione tipografica) un cavallo gigante (1895d) cammina per la città distruggendo le case senza alcuna spiegazione. In uno degli esempi che meglio dimostrano l’interesse di Burgess (1895e) per il tema dell’animazione dell’inorganico assistiamo alla scomposizione ed alla personificazione degli elementi di una casa. Mentre il tetto, pigramente, gode di una bella giornata di sole, i muri scontenti devono sostenerne il peso. Ognuno di questi elementi prende l’aspetto di un volto stilizzato capace di assumere un’espressione

infelice, nel caso dei muri, e un’aria serena e soddisfatta nel caso del tetto. Il serpente-lampione Nella sua conferenza sul rituale del serpente Warburg racconta di aver invitato dei bambini a realizzare dei disegni per vedere quanti di loro rappresentassero il fulmine in maniera realistica, come insegnato nelle scuole costruite dagli ‘americani’, e quanti invece rappresentassero l’antico simbolo del serpente. Un libro per bambini dal titolo The Lively City O’ Ligg: A Cycle of Modern Fairy Tales for City Children pubblicato nel 1899 da Gelett Burgess costituisce un formidabile repertorio di rappresentazioni di oggetti animati. La prefazione, esplicitamente dedicata a genitori scettici, non è certo destinato a un pubblico infantile. Funambolica sintesi di darwinismo e animismo, in essa l’autore sostiene una diretta derivazione degli oggetti che ci circondano da precursori dotati di una qualche, peculiare, vitalità. The three most convincing proofs that such an unnatural science does exist, and that, whatever their present condition, inanimate objects are derived from similar objects possessing animation in a more or less developed state, from which condition they have, in the supremacy of Man, degenerated, are as follows: I. Evidences of prehistoric animation, shown by Etymology,

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in the gender of words in foreign languages, and English idiom, etc. II. Evidences of a comatose or degenerate animation in the Objects themselves. III. Evidences of degenerate functions and features in Architecture. (Burgess, 1899, p. 19) Ribaltando un diffuso luogo comune l’autore sostiene, ironicamente, che l’era della meccanica ha portato ad un regresso, invece che ad un progresso per molti degli oggetti di uso comune. Essi non avrebbero guadagnato in perfezione ma avrebbero piuttosto perso l’animazione che li contraddistingueva in tempi antichi. Si sarebbe quindi consumata una lotta di carattere prettamente evoluzionista tra animali e oggetti inanimati che avrebbe visto l’evoluzione dei primi e la degenerazione dei secondi (Burgess, 1899, p. 26). Molti degli esempi riguardano l’architettura: ciò che gli architetti chiamano ‘design’ (Burgess, 1899, p. 24) altro non è che la naturale ‘espressione’ di una casa che si sarebbe evoluta per avere una bocca (la porta) e degli occhi (le finestre). Nelle sue “favole per bambini di città” Burgess invita a riscoprire la capacità di attribuire agli oggetti una loro proprio vitalità, ma invece di tornare ai luoghi comuni del racconto infantile (il lupo, la foresta, etc.) i racconti prendono spunto da ciò che tutti i giorni si poteva vedere una moderna metropoli (treni, ascensori, lampioni, etc.).

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Sopra il titolo della prefazione per “genitori scettici”, una serie di disegni raffigura una serie di strani ibridi tra animali oggetti (Burgess, 1899, p.17). Tra essi spicca la figura di un serpente lampione, sintesi tra l’antica rappresentazione del fulmine e la moderna rappresentazione dell’elettricità. Segue, nelle pagine del libro, una serie di racconti e disegni in cui gli oggetti prendono vita abdicando alla loro natura servile nei confronti dell’uomo. Viene elaborata una particolare via al perturbante che sarà tipica di molta cultura popolare americana. Se la natura, estromessa dalla tecnologia, viene scacciata dalla metropoli, la minaccia costituita da aspetti oscuri e misteriosi del mondo può nascere anche dai più familiari tra gli oggetti. Pollicino o Cappuccetto Rosso non hanno più bisogno di avventurarsi nella foresta per provare il brivido della paura. L’ultima storia della raccolta tuttavia presenta una storia di segno diverso: si parla di un telaio eccentrico che produce strani motivi. Non riuscendo a trovare in essi nessuna qualità artistica gli adulti pensano semplicemente che questo telaio sia pazzo. Sarà infine un bambino, studiando con calma le stoffe, a comprendere che il telaio sta semplicemente realizzando disegni complessi basati su una bellezza di ordine geometrico che possono essere compresi solo ricongiungendo le diverse strisce di tessuto. Se le macchine possono animarsi, possono essere anche in grado di produrre una nuova, particolare, forma di bellezza (Burgess, 1899, p. 216).

Warburg, Burgess e le machine volanti Astro è un chiromante che va in giro con un turbante ornato di gioielli, ma è anche un abile e lucido investigatore che risolve casi polizieschi insieme alla sua bella assistente Valeska Wynne; si tratta in realtà del protagonista di una serie di storie poliziesche pubblicati da Gelett Burgess nel 1912. Uno dei racconti comincia con questo dialogo: What do you think about gargoyles, Valeska?” […] She came over to him and looked down across his shoulder at the pictures of the grotesque stone monsters. “Why,” she said, “I’ve seen those horrible cynical old ones on Notre Dame in Paris, that gaze down on the city roofs. I’ve always wondered why they placed them on beautiful churches.” […] “It’s a deep question,” said Astro, his eyes still on the engraving. “But to my mind they symbolize the ancient cult of Wonder. In the Middle Ages men really wondered; they didn’t anticipate flying-machines years before they were invented, as we moderns do. They took nothing for granted. Everything in life was a miracle” (Burgess, 1912, p.247). Centrale, in questa bizzarra introduzione di un racconto poliziesco, è la domanda su quale forma di immaginazione sia propria della nostra epoca e quale possa essere rintracciata nelle epoche passate in generale e nel medioevo in particolare.


L’anno seguente, nel 1913, Warburg pubblicherà un saggio dal titolo Aeronave e sommergibile nella immaginazione medievale. In esso si parla degli arazzi che all’epoca si potevano ammirare nelle sale private del principe Doria a Roma. In essi vi è la rappresentazione fantastica di un’aeronave fatta realizzare da Alessandro Magno per raggiungere il cielo superando la vetta delle più alte montagne. Dopo aver fatto costruire una botte dei suoi carpentieri il sovrano aveva fatto incatenare otto grifoni agli angoli di questa struttura; una lancia con un pezzo di carne infilzata alla sommità avrebbe fornito agli animali la motivazione per librarsi verso il cielo e sollevare la gabbia. Al termine della descrizione Warburg commenta: “Così medioevo e mondo moderno manifestano sul nostro arazzo di Alessandro con involontario simbolismo il contrasto della loro struttura spirituale” (Warburg, 1966, p.280). L’uomo medievale, con la sua fede acritica nei grifoni e nell’inavvicinabilità della regione del fuoco (Warburg, 1966, p.280), si contrappone al moderno Icaro, impersonato dai fratelli Wright, inventori dell’aeroplano oltre che “funesti distruttore del senso della distanza” (Warburg, 1987, p.66). I guadagni della tecnica non sono stati ottenuti senza pagare un prezzo, la riflessione di Warburg sembra riallacciarsi alle parole che l’umorista americano mette in bocca al suo detective col turbante. A proposito del rapporto tra il medioevo la modernità Burgess infatti conclude: “Magic was then a science, now it is a fake. Still, a man’s chief desire is to

get something for nothing, to find a short cut to wisdom. The “gargoyle is replaced by the dollar mark” (Burgess, 1912, p.248). Conclusione: una possibile riconciliazione tra il serpente e lo zio Sam Circa ottant’anni dopo il viaggio di Warburg, il rapporto tra il fulmine e l’arte trova, nel deserto del New Mexico, una nuova espressione. Nel 1977 viene completata un’opera di Land Art dal titolo The Lightning Field, realizzata dallo scultore americano Walter De Maria in una zona remota e pressoché disabitata. Si tratta di un’installazione formata da 400 pali di acciaio inossidabile piantati su una griglia di un miglio per un chilometro. L’area è stata scelta per essere spesso colpita da di tempeste di fulmini, che, quando le condizioni meteorologiche lo permettono, entrano a far parte dell’opera d’arte. Si tratta di “un’apoteosi dell’elettricità” (Kosky, 2013, p.15) ma, allo stesso tempo, The Lightning Field “sta da qualche parte tra una modernità che cerca di guardare dall’alto e una premodernità che cerca di guardare verso l’alto” (Kosky, 2013, p.36). È possibile leggere in quest’opera un’ambiguità: difficile dire se la potenza del fulmine, intesa come elemento naturale, venga celebrata o asservita alla capacità tecnica di controllarlo; si può tuttavia essere sicuri che in essa il fulmine torna ad essere fonte di meraviglia.

Bibliografia Banham, Reyner (1968), “Triumph of Software”, in Desing by Choice, Rizzoli International, 1981, p.133-136, [pubblicato per la prima volta New Society 31 October 1968, Vol 12 n° 318, pp. 629-630]. Bovino, Emily Verla (2016), “On Irons, Bones, and Stones, or an Experiment in California-Italian Thinking on the ‘Plastic’ between Aby Warburg’s Plastic Art, Gelett Burgess’ Goops, and Piet Mondrian’s Plasticism”, in California Italian Studies, 6(1). Burgess, Gelett (1895), “Some Phases of Primitive Art”, in The Lark Number 1 May 1895. Burgess, Gelett (1895), “Hors Concours” [disegno con treni e pali del telegrafo], in The Lark Number 1 May 1895. Burgess, Gelett (1895), “The Chewing-Gum Man”, in The Lark Number 3 July 1895. Burgess, Gelett (1895), “The Giant Horse”, in The Lark Number 5 September 1895. Burgess, Gelett (1895), “The Roof”, in The Lark Number 7 November 1895. Burgess, Gelett (1895), “The Muse in the Machine”, in The Lark Number 7 November 1895. Burgess, Gelett (1895), “Christmas in Town”, in The Lark Number 8 December 1895. Burgess, Gelett (1895), “Remarkable is Art” [Elliptical Wheels on a

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Cart], in The Lark Number 8 December 1895. Burgess, Gelett (1897), “Architectural Shams. Architectural Shams: The Efforts of San Francisco Architects to Achieve the Impossible” [nell’indice “San Francisco’s Crazy Architecture”], in The Wave, Vol XVI Number 12 March 20, 1896 [p.6]; seguito da “San Francisco Architectural Monstrosities”, in The Wave, Vol XVI Number 12 March 20, 1896 [p.8]. Burgess, Gelett (1899), The Lively City O’ Ligg: A Cycle of Modern Fairy Tales for City Children, Frederick A. Stokes Company, New York Burgess, Gelett (1910), “The Wild Men of Paris”, in The Architectural Record, Document 3, May 1910, New York [pp.400-414]. Burgess, Gelett (1912), “The Assassins’ Club” in The Master of Mysteries [pp. 247-270] [Pubblicato anonimo nella prima edizione ma con il nome dell’autore nascosto con un cifrario nel testo]. Cruse, Irma R. (2016), “Gelett Burgess” in Gale, Stheven H. (ed.) Encyclopedia of American Humorist, Routledge, New York [pp.69-73]. Gombrich Ernst H. (1983), Aby Warburg. Una biografia intellettuale Milano, Feltrinelli, [Aby Warburg.

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An Intellectual Biography, 1970]. Johnson, Christopher D. (2012), Memory, metaphor, and Aby Warburg’s Atlas of images, Cornell University Press Kosky, Jeffrey L. (2013), Arts of wonder: enchanting secularity: Walter de Maria, Diller + Scofi dio, James Turrell, Andy Goldsworthy, The University of Chicago Press, Chicago-London. Longstreth Richard W. (1998) On the Edge of the World: Four Architects in San Francisco at the Turn of the Century, University of California Press, Berkeley - Los Angeles. Massey, Jonathan (2009), Crystal and Arabesque. Claude Bragdon, Ornament, and Modern Architecture, Pittsburgh. University of Pittsburgh Press. Moffatt, Frederick C. (1992), “The Intemperate Patronage of Henry D. Cogswell”, Winterthur Portfolio, Vol. 27, No. 2/3 (Summer - Autumn, 1992), [pp. 123-143]. Papapetros, Spyros (2012), On the Animation of the Inorganic: Art, Architecture, and the Extension of Life; Chicago and London; University of Chicago Press. Polk, Willis (1896a), “L’Arkitecture Moderne”, in The Lark Number 9 January 1896. Polk, Willis (1896b), “A New Book. L’Arkitecture Moderne”, in The Lark Number 10 February 1896.

Porter, Bruce (1896), “The Piping Faun”, in The Lark Number 11 March 1896. Warburg, Aby (1897) “Amerikanische Chap-Books”, in Pan 2, no. 4 [aprile 1897] [pp.345-348]. Warburg, Aby [tradotto da W. F. Mainland (1939), “A Lecture on Serpent Ritual”, in Journal of the Warburg Institute, Vol. 2, No. 4 (Apr., 1939), [pp. 277-292]. Warburg, Aby (1966) “Aeronave e sommergibile nella immaginazione medievale” in La rinascita del paganesimo antico. Contributi alla storia della cultura raccolti da Gertrud Bing, La Nuova Italia, Scandicci(Firenze) [pp.273-282] [“Luftschiff und Tauchboot in der mittelalterlichen Vorstellungswelt” in Hamburger Fremdenblatt, Illustrierte Rundschau 85, n. 52, 2 marzo 1913]. Warburg, Aby (1998), Il rituale del serpente, Adelphi, Milano, [Schlangenritual. Ein Reisebericht]. Warburg, Aby [a cura di Maurizio Ghelardi] (2006), Gli Hopi. La sopravvivenza dell’umanità primitiva nella cultura degli Indiani dell’America del Nord, Nino Aragno Editore, Torino.


ICAR 65

ICAR65 è un collettivo di ricerca multidisciplinare, composto da un gruppo di ricercatori precari dell’Università di Genova, con lo scopo di promuovere e sostenere la cultura architettonica in tutte le sue forme e di superare le distinzioni interne alla disciplina. ICAR65 prende il nome dalla sigla ICAR – Ingegneria Civile-Architettura – che comprende i settori disciplinari che fanno riferimento a questi insegnamenti. 65 è la somma dei settori di riferimento dei membri fondatori del collettivo. ICAR65 anche perché sessantacinque sono le discipline che compongono l’architettura: teoria dell’architettura, progettazione architettonica, progetto degli interni, architettura degli interni, teoria del progetto architettonico, storia dell’architettura, storia architettonica, storia culturale dell’architettura, storia intellettuale dell’architettura, storia del progetto di architettura, critica architettonica, storia della critica architettonica, urbanistica, pianificazione urbana, studi urbani, architettura del paesaggio, teoria dell’architettura del paesaggio, storia del paesaggio, tecnologia dell’architettura, storia delle tecniche architettoniche, studi tipologici, pianificazione territoriale e strategica, ecologia del paesaggio… ICAR65 intende la ricerca scientifica come terreno di scambio tra i diversi saperi legati all’architettura. ICAR65 muove dal presupposto che l’architettura è una disciplina dal carattere collettivo e che la ricerca in architettura non può isolarsi in ambiti specialistici ma deve favorire il dialogo fra diverse competenze. ICAR65 approfondisce gli aspetti teorici rintracciabili nelle diverse culture architettoniche, a partire da un’attenzione alla realtà che prenda in esame il disegnato e il costruito nella loro accezione più ampia: l’ambiguità dei confini dell’architettura intesa come disciplina specialistica rende necessaria una disponibilità allo scambio e alla collaborazione. ICAR65 fa didattica a livello universitario, anche ricorrendo a forme di sperimentazione. ICAR65 produce pubblicazioni, conferenze, mostre e workshop. ICAR65 vuole rivolgersi -anche- ad un pubblico generico. ICAR65 cura la collana Percorsi di Architettura edita dalla GUP Genova University Press. ICAR65 è composto da alcuni dottori di ricerca in architettura dell’Università degli Studi di Genova, Dipartimento di Architettura e Design: Maria Canepa, Giacomo Cassinelli, Valeria Iberto, Antonio Lavarello, Katia Perini, Chiara Piccardo, Gian Luca Porcile, Paola Sabbion e Davide Servente. ICAR65, un domani, potrebbe diventare International Center for Architectural Research.

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ICAR65 presents

Form after Form 1st Genoa Symposium

LABORATORIO DI PROGETTAZIONE 2 LSA (curr. Arch.) Prof. Davide Servente con arch. Cristina Parodi

Università degli Studi di Genova Scuola Politecnica, DSA a.a. 2015/2016

16 dicembre 2015 ore 11.30 aula 6A

NATALE A CASA JORN revisione collettiva con ICAR65

On the relentless emergence of new (architectural) forms with Nik Nikolov, Lehigh University Patrizia Trovalusci, Sapienza Università di Roma Giovanni Galli, Chiara Calderini, Luigi Gambarotta, Fausto Novi, Christiano Lepratti Università degli Studi di Genova September 22nd, 2014, 2.30 pm Aula di vetro, Università degli Studi di Genova, DSA Stradone S. Agostino, 37 - 16123 Genova

Asger Jorn, Albissola Marina 1961

ICAR65 call for papers ARCHITETTURA & TEMPO consegna abstract 5 marzo 2017

ICAR65 presenta

C’era una volta il futuro

Viaggio nella Genova che (non) fu un film di Jacopo Baccani segue dibattito con Alberto Bertagna, Giovanni Galli, Giuseppe Pericu, Franz Prati e Valter Scelsi martedì 6 maggio 2014 ore 17.00 Aula Benvenuto Università di Genova, Scuola Politecnica DSA

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FOSBURY ARCHITECTURE

RROARK!

Nel 2013, a Milano, viene fondato il collettivo Fosbury Architecture, composto da otto membri, tutti provenienti dalla facoltà d’architettura ma con percorsi e formazioni affatto simili. A differenza dei collettivi degli anni sessanta e settanta riunitisi intorno ad un’etica condivisa, una condivisa coscienza politica, il collettivo Fosbury nasce come diretta conseguenza dell’attuale condizione di crisi culturale ed economica, come unica condizione possibile per la sopravvivenza, come risposta al disagio d’essere solo degli individui. Insieme con il collettivo, quindi, nasce fin da subito l’esigenza di condividere una visione, un pensiero comune intorno al quale coagulare e rafforzare una certa identità. Nasce RROARK!, pubblicazione online in formato A4, scritta in lingua inglese su fronte e retro, sulla quale di volta in volta un membro del collettivo può scrivere e condividere un suo pensiero. RROARK! non vuole essere una rivista divulgativa. RROARK! solleva dubbi, non propone soluzioni. RROARK! non è una bella rivista. RROARK! non è una rivista. RROARK! è un ruggito. RROARK! è da intendersi come una seduta psicoanalitica collettiva della quale non si conosce il numero necessario a curare i pazienti. Ogni numero è quindi l’ennesimo elemento di un soliloquio condiviso, potenzialmente infinito. Nel 1943, in America, viene pubblicato il romanzo “The fountainhead, La fonte meravigliosa” nella traduzione italiana, della scrittrice Ayn Rand. Scrittrice e filosofa utilizza il romanzo come pretesto per divulgare le sue idee che andranno più tardi a cristallizzarsi nella teoria dell’oggettivismo, teoria che vede nella ricerca della propria felicità l’unico scopo morale dell’esistenza. Protagonista del libro è Howard Roark, architetto dall’eccezionale talento che impersonifica l’ideale dell’eroe Randiano e che durante tutto il racconto si scontrerà con vari antagonisti, rappresentanti di un collettivismo acritico ed ottuso. RROARK!, al contrario, non vuole essere elogio dell’individualismo ma rappresentare lo sforzo d’un gruppo nel trovarsi, capirsi ed esplicitarsi nelle sue premesse fondamentali. Come ne “La fonte meravigliosa” si parte anche qui da un pretesto, quello di parlare delle esigenze e necessità di un piccolo gruppo, per poi arrivare a parlare di un’intera generazione di giovani architetti, d’una condizione tanto fragile e indefinita quale quella dei lavoratori nell’epoca della produzione immateriale. Nell’ottobre del 2014, seguendo quest’esigenza di condividere l’inizio dell’operazione con un gruppo ben più ampio degli otto membri del collettivo e volendo ricercare nuove possibili forme di mecenatismo, il primo numero viene stampato e distribuito in 25.000 copie da Mr. Poli Kebab, editor di RROARK! Un flyer dove convivono su due diverse facciate un manifesto ed un annuncio pubblicitario, un’operazione intellettuale ed una commerciale, l’una servendosi dell’altra per raggiungere uno stesso obbiettivo, la visibilità.

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1. Fosbury Architecture con il team di Mr. Poli Kebab, editor di RROARK!, Milano, 2014. 2. RROARK!, Issue 01, Bildungsroman, Ottobre, 2014, Milano. 3. RROARK! al Politectnico di Milano. 4. Thomas Cole, Dream of Arcadia, 1038, in RROARK!, Issue 05, The White Wale, Dicembre, 2014, Milano. 5. RROARK!, Issue 02, Responsibilities, Ottobre, 2014, Milano.

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L’editoria indipendente di architettura è animata da realtà vivaci e dinamiche che consentono l’emergere continuo di nuove iniziative e di nuovi protagonisti. Ciascuna generazione, con il proprio background culturale, è portatrice di contenuti e linguaggi originali; in altre parole ogni generazione crea una narrazione della

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propria contemporaneità. I little magazine di architettura partecipano a questo dinamismo, tentando una sintesi dell’ampio ventaglio di interessi disciplinari e producendo progetti dall’elevato carico creativo. Volendo fotografare un istante di questo flusso di idee e progetti, Burrasca e ICAR65 hanno bandito un concorso volto alla valorizzazione di nuove piccole proposte editoriali, chiedendo l’invio di un semplice foglio A3 con la propria proposta. Durante l’edizione 2016 del seminario sono stati discussi i migliori contributi, che vengono ora inclusi di diritto nella pubblicazione, in quanto parte anch’essi dello scenario dell’editoria indipendente di architettura.

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greenhouses almeria, spain

Genoa 3 |10 October 2016

1990-2008. Roma, rapporto tecnico 113/2010, National Inventory Report 2010

- ISPRA (2010) Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale, Italian Greenhouse Gas Inventory

- Clément G. (2004) Manifesto del Terzo Paesaggio. Macerata, Quolibet, edited by F. De Pieri

nell’economia Globale. Bologna, il Mulino

Artificial intelligence is spreading all around us

Bus porro inctass inihill anduntio est, ne nihiciaesto molor apiendu cipist, explam dolores eum rescit earchic ipicitatesti dem aut restio iur, ut volorerias eaquaspis doluptis ium rero ea dolor rehentem ero volorpos essi quias sum dolorerum dolupis autem doluptatem. Ut res sum inis alic temquiaere net quae dolorias autempore dolorro occum re, officiunt maiores dus dolorei uressi inctame nitatquatios sant, quam lab in re perferunt officilignis erunt la vent aut et fuga. Fuga. Namus sam harum es aut maion rent oditiis nobisquaecae pro et, corum adi qui int haruptur assum solut quatem alique molorehent mod modigen. PAG. 12

- Sassen S. (1994) Cities in a World Economy. Thousand Oaks, Pine Forge Press. Trad. it. (1997) Le città

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by Andrew Rae

Anticipations

Robots will surely get better. Don’t fear robots

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Merge the indeterminacy of material with the machine rigour.

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DISORDINE

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DISORDINE

SOGGETTIVITÀ

BRUTTEZZA

BRUTTEZZA

BRUTTEZZA

BRUTTE

CASUALITÀ

Digital Construction Week

- Hubner S. (2014) Int. Stat. Flowers & Plants 2013. ZBG der Leibniz Universität, Hannover (NL), vol. 61

The research is in search of a fertile field between the calculated and the ineffable

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SOGGETTIVITÀ

BRUTTEZZA

CASUALITÀ

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- ENEA (2011) Agenzia Nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile, Quad.

Sitat. Udaeptatem vollabo reriati andent ipita imus et qui rerciat iumquat eveligenist, cum eumet a provitatquis doluptasit lab ipsusan tibuscius. Iquibus perovit, que lis eos exceate plam ra quos atiamenim dolo te res eat fugia volupta tasped quias dolupta tamendanita pratae dis doluptatio. Nam, volorrorum vel il is ut dipsaer natecestiam, sa veliquam quas re seque lam earcium quia nobitat alicimo disquo dolut aut aceatem quas simpori offic te essit laborum ipsa nullenda ent quiberum que ex et eum et quo im as et, offici omnisqui illit accaessint faccab im verror alictibus volorum que sum eiustrum ipicia sim et lam doluptatio. Coritin nonectur molorrovit eic tesedit atenit pror auditatur aliquo beaque doloremque consecti que consedi ipsant voluptatenis Diagram is estio dolori ut voluptur? Quidan abstract io. Itatet atius pattern am et harciis of physical autem lant, cupta ssi dolorrup relationships tatmo le catur? Emporatus. Aborepudita comnimporro et maio modi ut hicabor eperit hil ea volut offici ius. Estistrum as alis ad moloreiurit optatqui dolore non rem fugit ut occum re renihil is et qui consequi omnis plabo. Hendis acit la solessi aceatem dolupta voluptatis rem litatur? Orem inctur? Iquibus perovit, que lis eos exceate plam te res.

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Architects master machines

DISORDINE

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DISORDINE

L’efficienza energetica nel settore agricoltura. Frascati, Lab. ENEA, C. Campiotti, C. Viola, M. Scoccianti

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DISORDINE

di acque di vegetazionereflue annue

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di emissioni totali di co2 annue europee legate al comparto agricolo

SOGGETTIVITÀ

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MILa m3 inquinamento IDRICO

Di fronte a questo complesso contesto, qual è allora la posizione dell’architetto odierno nei confronti della pianificazione di questa “nuova campagna” mediterranea carica di responsabilità sotto il profilo produttivo, ma soprattutto ambientale? A partire dagli anni Settanta gli studi dei processi di crescita e di declino delle città non si sono limitati ad una prospettiva unicamente urbana, ma hanno indagato tutti i fenomeni di globalizzazione economica che inglobano e agiscono sugli spazi urbani, identificati “…non solo in quanto oggetto di studio, ma anche in quanto riferimento strategico per la teorizzazione di una vasta serie di processi sociali, economici e politici dell’era attuale” [SASSEN, 1997]. La pianificazione razione o funzionalista è incapace oggi di gestire questi contesti tanto dinamici e frammentari, incubatori di complesse relazioni (cittadino-campagna, spazio-infrastrutture, economia agricola-sviluppo sostenibile etc.), ma ricchi di potenzialità. Si dovranno integrare agli strumenti tradizionali sistemi più globali di riorganizzazione dello spazio urbano e peri-urbano, in grado di affiancare la campagna in questo momento di forte cambiamento, aiutandola a perseguire quegli obiettivi di sviluppo sostenibile richiesti dall’Europa, mediante la presa di coscienza delle potenzialità dei luoghi e del rapporto che potrebbero intrecciare con le città stesse. Colui che intende affrontare queste questioni, dovrà comprendere la dimensione sia morfologica-territoriale che socio-culturale di questo paesaggio agricolo mediterraneo, al fine di esplorare nuove prospettive per questi spazi mediante strategie progettuali di riorganizzazione dello spazio sub-periferico rurale, interrogandosi sugli sviluppi futuri e fornendo una previsione del concetto di agricoltura nello scenario futuro.

450

BRUTTEZZ

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BRUTTEZZA

!

BRUTTEZZA

62

Oggi, pertanto, ci troviamo di fronte ad una situazione in cui le città di costa per alcuni aspetti risultano consolidate grazie a decenni di urbanizzazione selvaggia, per altri, invece, in completo mutamento, soprattutto dove la città ha occupato in modo spontaneo le aree periferiche. Si sono delineate perciò delle vere e proprie città diffuse, in cui il territorio rurale, che le circondava, con il passare degli anni ha lasciato spazio ad un’espansione informe e caotica del nucleo urbano.

Senza addentrarsi troppo nel particolare, ma avendo delineato questo breve quadro d’insieme delle problematiche legate al comparto agricolo, è bene sapere che l’Europa si sta muovendo nella direzione dell’efficienza e salvaguardia delle risorse ambientali, con obiettivi e strategie mirate allo sviluppo sostenibile (così come afferma e promuove il World Council for Sustainable Development). Gli obiettivi primari che il mondo si prepara a perseguire nel corso dei prossimi decenni, saranno legati a garantire lo sviluppo sostenibile delle zone rurali, nell’ottica di una maggiore redditività e competitività dell’attività agricola mediante la promozione di tecnologie innovative, l’organizzazione della filiera agroalimentare, compresa la trasformazione e la commercializzazione dei prodotti agricoli, la salvaguardia, il ripristino e la valorizzazione degli ecosistemi connessi all’agricoltura e alle foreste, la promozione dell’uso efficiente delle risorse e il passaggio a un’economia a basse emissioni di carbonio nel settore agroalimentare e forestale, nonché l’inclusione sociale, la riduzione della povertà e lo sviluppo economico nelle zone suburbane. ¬

MILIONI di m3 consumi IDRICI

Diversi convegni nazionali (Piano di sviluppo urbano e rurale 2014-2020, Produzione agricola e nuovi paesaggi, 2007) e internazionali (European Enviroment, 2010), società scientifiche (CRA, EEA, ENEA), ricerche universitarie, enti territoriali, ma anche la presa di coscienza del cittadino hanno posto l’attenzione sull’importanza del territorio agricolo e rurale – comunemente considerato come uno spazio libero in attesa di essere colmato – destinato ad accogliere le grandi infrastrutture che aggregano i nuclei urbani in una sorta di costellazione metropolitana. Il consumo irrazionale del suolo cancella il valore identitario di uno luogo e da vita a spazi ibridi e indefiniti di città e campagna, pieni di potenzialità inespresse, ma vuoti di contenuti materiali che necessitano di essere reinventati e riorganizzati per divenire una risorsa del nostro territorio e non un problema. Gli obiettivi futuri devono individuare chiaramente l’importanza del rapporto esistente fra gli attuali territori mediterranei, focalizzando l’attenzione sulle dinamiche di sviluppo futuro e sulla creazione di nuovi rapporti fra costa e città, città e campagna, campagna e cittadino.

di acqua consumata annualmente (agricoltura e allevamento) Your Daily Project Companion

BRUTTEZZA

350

La dimensione agricola e rurale del Mediterraneo ha rappresentato – e continua tutt’ora a rappresentare – una determinante essenziale per le economie e le società di questo paesaggio. Nel 2005, un terzo della popolazione mediterranea risiedeva in territori rurali e ancora oggi, nonostante una tangibile decrescita, l’agricoltura è una componente forte e presente. Per rendersi conto dell’ampiezza di questo settore, basti sapere che l’agricoltura a livello mondiale occupa circa il 35% della superficie terreste e un ulteriore 35% la superficie forestale. Nell’Unione Europea, le aree classificate come rurali rappresentano oltre il 90% del territorio, ma realmente il 75% circa del suolo è impegnato in attività agricole e forestali [DE CASTRO, 2010]. Più nel dettaglio, l’agricoltura protetta, ad esempio, ricopre circa 1 milione di ettari nel mondo, di cui quasi la metà (400 mila ha) sono concentrati nel bacino Mediterran

Wednesday 31st February 2016

CASU

/li·mi·na·ri·tà/ condizione di limite, relativa alla soglia

"Andare verso il margine, vivere la liminarità, stare sul confine, richiede [...] la disponibilità e la volontà di compiere un'esperienza di apprendimento oltre le abitudini, al di là delle convenzioni e dei preconcetti [...]. Provare il confine e le sue contraddizioni , ma anche la sua sconfinata vivacità, vuol dire esercitarsi nella pratica della tolleranza, della convivenza, dello stare fianco a fianco malgrado le rispettive particolarità. [Vuol dire essere] in grado di comprendere aspetti diversi (anche se molto lontani tra loro) di una stessa realtà come parti di una sola complessità". (17) Nel mondo portuale, "ci troviamo su un limite, momento unico dell'incontro di due realtà, «scena ideale sulla quale può ricostituirsi l’armonia del mondo e l’unità degli elementi che lo compongono». Eppure il limite è una linea delle differenze, luogo della identificazione per contrapposizione , del contatto tra due presenze, [...] momento ineluttabilmente netto nel decretare la fine e l'inizio, l'unione e la separazione, l'acqua e la terra". (18) Il confine è "spazio instabile, altro; si chiama soglia: abitarla o attraversarla significa riconoscere un luogo terzo dove la norma rigida del confine non vale più»". (19) La liminarità presuppone al presenza di una soglia, ossia "lo spazio in cui lo statuto di qualcuno o qualcosa cambia. Gli spazi-soglia e il loro statuto ‘sottile’ ma di grande spessore semantico, servono a tenere insieme condizioni spesso non conciliabili – diventando così terreno di confronto e conflitto – oppure a definire un campo in cui la condivisione e la comprensione sanciscono la coesione di una comunità. L’ordinarietà liminale si configura come un progetto sottinteso in cui il varcare segna un passaggio di trasformazione" . (20)

(9)(17)(19) Zanini P. (2000). Significati del confine. I limiti naturali, storici, mentali. Bruno Mondadori Editore; Crotti S. (2000). Figure architettoniche: soglia. Edizioni Unicopli; (15) Maggiani M. (2002), Il Porto di Genova. (20)Ragonese M. (2016). “Ordinarietà liminale”. In: ICAR65 (a cura di Chiara Piccardo e Davide Servente), Architettura&Ordinarietà, Percorsi multidisciplinari di ricerca Vol. II, Genova University Press, pp. 97-103.

No 001

CASUALITÀ

CASUALITÀ

l'attendere, il tempo che si attende

/e·te·ro·ge·nei·tà/ presenza di elementi di diversa natura o qualità nella costituzione di un tutto

natura di ciò che è transitorio, temporaneo

/tran·si·to·rie·tà/ /at·te·sa/

Porto e città divergono e convergono lungo e attraverso un confine, un limite definito in termini funzionali e istituzionali. La nostra sembra "essere l'epoca dello spazio. Siamo nell'età del simultaneo, della giustapposizione , del vicino e del lontano, del fianco a fianco e del disperso". (8) E il confine è proprio il luogo dove queste antinomie si manifestano concretamente e e si rivelano completamente. Si ragiona dello spazio di confine, o meglio del confine come spazio, "luogo dotato di una misura, di una sua dimensione, con le sue storie e i suoi abitanti". [...] spazio che la "curiosa proprietà di essere in rapporto con tutti gli altri, ma in modo tale da sospendere, neutralizzare, o invertire l'insieme dei rapporti da loro stessi designati, riflessi o rispecchiati. [...] spazio che "accetta più facilmente la possibilità di essere modificato, a qualcosa che mantiene dentro di sè due o più idee diverse, l'una che non esclude l'altra".(9) [...] "spazio che non può pensarsi come realtà omogenea; pretendere di volerlo far diventare tale significa inevitabilmente provocrane l'esplosione e sacrificarne l'enorme ricchezza. Il confine persiste in quel particolare ambito dove gruppi diversi "vengono a trovarsi in una situazione d'interazione spesso oppositiva e concorrenziale" .(10)

/ri·tua·li·tà/

di gasolio l’anno per il riscaldamento delle serre

The advent of digital in architecture triggered the computational thought advancement

CASUALITÀ

CASUALITÀ

mancanza o insufficienza di una misura o di un termine di riferimento comune, ai fini di una conveniente definizione quantitativa

/in·com·men·su·ra·bi·li·tà/

perentoria inevitabile gravità

/ir·ri·du·ci·bi·li·tà/

Ciò che non può essere eluso è il rapporto di simbiosi, ma soprattutto di subordinazione che regola la condizione urbano-portuale. Si tratta di un condizionamento inevitabile, un ostinato stato di adiacenza, imprescindibile condizione di convivenza, sopportazione, intimità.

/i·ne·lu·di·bi·li·tà/

Tutto ciò che si ritrova nel porto è in realtà trasfigurato in un gioco di appartenenze reciproche che non permette più di distinguere tra naturale ed artificiale, tra marittimo e industriale. "[...] diversi materiali, diversi riferimenti tecnologici si congiungono senza enfasi in un nuovo linguaggio. Anche i colori qui sono stabiliti dall'uomo e dal mare insieme [...]. Entrambi danno interpretazioni personali alle strutture personali alle strutture portuali, corregendo le diverse trasparenze e i diversi riflessi [...]".(7)

la condizione relativa all'oggetto di un rapporto di proprietà o di attribuzione, la relazione che sussiste fra un elemento di un insieme e l'insieme stesso

/ap·par·te·nèn·za/

Il porto pone un problema di scala. "Uno dei motivi che determinano lo straniamento dell'uomo è dato dal trovarsi in un luogo che non pare pensato per lui. La sensazione di camminare in una città fatta per altri abitanti pone l'interrogativo, a volte latente, su cosa dia misura, su cosa determini dimensioni. Il porto presuppone rapporti dimensionali contrastanti, forti contraddizioni di scala e l'impossibilità di un'interpretazione univoca. [...] Il territorio portuale crea un malinteso, un'opportunità di sperimentare una differenza. Forza i limiti delle classificazioni e rivela come da una condizione di straniamento si possa passare ad uno stato di ampia cittadinanza.[...] Il porto è uno spazio che si misura con grandezze oceaniche. La sua scala è ancora più grande di quella della nave: è la scala del mare, del cielo, della linea d'orizzonte [...]. Il passaggio dagli spazi urbani a quelli portuali produce insieme divaricazione e accostamento tra grandezze lontanissime."(3)

/mol·te·pli·ci·tà/ varia o complessa pluralità

"Il mondo portuale rappresenta non una ma innumerevoli scene, tante quanti sono i punti di osservazione; [scene] che hanno composto un teatro che si può percorrere ma anche osservare da lontano, dalla nave o dai palazzi, dal paesaggio o dal mare."(4) "In due modi si raggiunge Despina: per mare o per cammello. La città si presenta differente a chi viene da terra e a chi dal mare [...]. Ogni città riceve la sua forma dal deserto a cui si oppone; e così il cammelliere e il marinaio vedono Despina, città di confine tra due deserti."(5) [ Si può dire che ] mare e territorio concorrono alla diversa declinazione delle caratteristiche portuali, alla creazione delle specificità culturali e fisiche dei luoghi.

/al·te·ri·tà/ il carattere di ciò che è o si presenta come 'altro', cioè diverso, non identico

Irriducibile è la relazione, a volte nociva tra i territori di città e porto. Uniti storicamente, coesi e sovrapposti per secoli in spazi e intenti, oggi strutturalmente distanti e spesso 'sottili' per reciproca sopravvivenza. Rappresenta l'inattuabilità, l'impossibilità ad essere rimpicciolito, o meglio cambiato. Condizione analoga alla persistenza, all'accanimento; senza alcuna possibilità di cedimento, di accomodamento di conciliazione.

esclusione da qualsiasi possibilità di mutamento o riduzione

Material matters:idea rocks

www.newarchitecture.now

CASUALITÀ

CASUALITÀ

"Port cities have sufficient particularities to form a distinct urban category, implicitly claiming that every port city is governed by identical mechanisms".(1) "L’originale assetto del margine urbano-portuale settecentesco, sul cui ristretto spazio si affaccia la città e dove convivono sia le attività civiche, [...] che quelle commerciali legate ai traffici marittimi o fluviali, nell'Ottocento, viene strutturalmente modificato dalla creazione di un nuovo suolo artificiale. [...] La grande estensione del suolo artificiale, in molti casi pari a decine di ettari, configura la nascita di un nuovo territorio che si innesta sul margine costiero della città consolidata assumendo una forma distinta, la cui regola di formazione è totalmente diversa e indipendente dalle regole e consuetudini della costruzione urbana. Per il disegno dei bacini portuali non hanno più valore le categorie progettuali di strada, piazza, tracciato allineamento stradale, rapporto altezza-larghezza , visuali prospettiche [...];[...] il nuovo territorio portuale che nasce e si sviluppa in Europa è più vicino al supporto di un meccanismo piuttosto che a una parte di città".(2) Esiste una categoria urbana distinta per le città portuali? Una condizione territoriale, un concetto tipologico? E' possibile ipotizzare che esista un requisito identitario, addirittura una specificità costitutiva dei contesti portuali? Esistono una grammatica o un codice propri della sintassi portuale? Esistono dei caratteri attraverso cui descrivere/definire tale condizione? Esiste la

/por·tua·li·tà/?

Through not only digitally designed but also digitally materialised Architectures, the revolution is occurring

MILIONI di litri consumi energetici

Nell’ultimo decennio si è rinnovato l’interesse verso la comprensione e l’identificazione degli scenari di sviluppo dei contesti territoriali, intesi come macro-regioni, che inglobano ambiti legati concettualmente fra loro al di là della vera e propria collocazione geografica. Uno fra questi è il territorio del Mediterraneo, inteso come concetto teorico che interpreta l’idea di mediterraneità. La multi-città mediterranea è il luogo di relazione e di scambi fra diversi paesaggi e culture, “contaminati” dalle vaste reti di relazione che toccano le sponde di questo mare, con idee, stili, tecniche e conoscenze, che si concretizzano via via all’interno delle realtà urbane costiere. Grazie a questa biodiversità culturale, lungo le sponde del Mediterraneo, si affacciano nuclei urbani molto eterogenei fra loro e in un costante processo di mutamento cominciato a partire dal secondo dopoguerra con lo sfruttamento indeterminato del territorio e che oggi ha portato a delineare «la forma globale della città mediterranea» come la definisce Cardarelli [CARDARELLI 1987, P.84].

L’entità significativa di questi processi rende quindi necessario focalizzarsi sulle questioni che li compongono (logistica, filiere, tecnologie, gestione etc.) affinché l’Europa riesca ad allinearsi in maniera competitiva al resto del mondo nei confronti di una domanda sempre crescente di prodotti agroalimentari e floreali, perseguendo modelli di sviluppo sostenibile che non incidano sul bilancio ambientale. La ricchezza di risorse naturali e la diversità di paesaggi rendono il Mediterraneo un’eco-regione unica, tuttavia, lo sviluppo industriale, l’incessante edificazione, le scorrette abitudini sociali e le emissioni inquinanti continuano a minare questo fragile eco-sistema, aggravato ancor più dall’impatto del cambiamento climatico che aggiunge fenomeni di siccità e processi di desertificazioni dei territori rurali. Pertanto è necessario comprendere le conseguenze innescate dall’occupazione e dallo sfruttamento intensivo dei territori rurali costieri dell’arco latino, accomunati da conformazioni urbane, rurali e morfologiche simili, nonché le problematiche legate ai cicli produttivi come ad esempio: - gli altissimi consumi energetici dovuti al mantenimento, riscaldamento e funzionamento di strutture e impianti sia nei mesi caldi, ma soprattutto nei mesi freddi. I consumi energetici europei destinati all’agricoltura ammontano al 5% dei consumi totali, di cui 350 milioni di litri di gasolio viene impiegato annualmente solo per il riscaldamento delle strutture. - l’impatto ambientale, l’agricoltura in Europa è, infatti, causa di oltre il 9% di emissioni di gas serra totali (6,3 milioni di tonnellate), principalmente di azoto, metano e anidride carbonica (derivate principalmente dall’uso dei fertilizzanti) e di numerosi effetti negativi sul territorio (deforestazione, erosione, salinizzazione dei suoli...) [ISPRA, 2010]. - Il consumo idrico destinato al comparto agricolo europeo è di oltre il 24% (62 milioni di m3 annui impiegati nel settore agricolo e dell’allevamento), di cui solo un terzo viene recuperato e reimpiegato, il resto viene disperso a scopi irrigui [ENEA, 2011]. - L’impiego di materiali plastici per l’agricoltura protetta supera le 450.000 tonnellate di film plastici fra cui principalmente: polietilene LDPE, più commercializzato, etilvinilacetato EVS e cloruro di polivinile PVC. Ma anche l’enorme quantità di scarto agricolo, definito “scarto verde” necessita di nuove strategie di recupero e riciclo, essendo come biomassa un enorme potenziale energico.

ILPAESAGGIO MEDITERRANEO AGRICOLTURA PROTETTA in europA

DISORDINE DISORDINE

SOGGE SOGGETTIVITÀ SOGGETTIVITÀ

TTIVITÀ

Ritengo pertanto d’interesse una riflessione sulle dinamiche che investono questa multi-città mediterranea affrontando le realtà locali e inquadrandole in contesti internazionali al fine di individuare un metodo-modello che permetta di integrare l’esistente con le nuove esigenze, definire alcune linee guida per limitare la nuova occupazione e recuperare gli spazi «residui» (Clément, 2004) – territori residuali, delaissé – nonché proporre nuove strategie progettuali che considerino problematiche e opportunità del territorio, fornendo un metodo innovativo e avanzato applicabile alla scala del locale ma trasferibile a quella del globale.

MILa tonnellate MATERIALE DI SCARTO

materiali plastici impiegati

BRUTTEZZA BRUTTEZZA

CASUALITÀ CASUALITÀ CASUALITÀ

CASUALITÀ

DISORDINE note (1) Ducruet C. (2011). "The port city in multidisciplinary analysis". In: Alemany J. and Bruttomesso R., The port city in the XXIst century: New challenges in the relationship between port and city, RETE Publisher, Venezia, pp.32-48; Broeze, F. (1985) "Port cities: the search for an identity". In: Journal of Urban History, vol. 11, 209-225; (2) Rosselli A.(2005). "Il porto come struttura e significato". In: Portus n. 10, RETE Publisher, Venezia; (3)(4)(6)(7)(10)(11)(12)(16)(18) Orsini F., Palermo G. (1994). Paesaggi Portuali tra autonomia e appartenenza, Università degli studi “G.D’Annunzio”. Chieti, Facoltà di Architettura di Pescara, Corso di Caratteri tipologici dell’architettura. Zardini M. (1996) (a cura di) Paesaggi ibridi: un viaggio nella città contemporanea, Skira Collana Architettura. (5)(13) Calvino I. (1977), Le città invisibili, Einaudi, Torino; (8) Foucault M., Vaccaro S. (a cura di) (1985-86), Spazi altri. I luoghi delle eterotopie, Mimesis Edizioni;

A new physis of construction

Back to material

Rationalization and the crucial loss of innocence

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INE

"Non c'è in vero leggerezza che non si fondi e non sia Il porto è un nodo logistico e percepibile su una fondamentale, originaria pesantezza. commerciale. Le sue dinamiche Nel porto ciò che sostiene, fonda, genera la leggerezza è sono condizionate dalla merce, almeno altrettanto importante. [...] dallo scambio, dal fattore L'essenza, la ragione, la genesi dell'esistenza di questo tempo. Hanno a che fare con la luogo si fonda sulla contrapposizione tra due stati della sovrapposizione di momenti e materia. "(11) la stratificazione di azioni, con Due stati che generano due nature, fondamento del l'accumulo di materia e la mondo portuale: la natura fluida è demandata al sospensione del movimento. movimento, allo spostamento di mezzi, è infrastruttura; la "Ma è certo che è la Merce che natura solida serve al deposito, alla sosta, è approdo. ha creato i porti, in virtù delle "Così il porto è tanti luoghi effimeri, paga con la brevità, sue regole, delle sue abitudini, con lo sdradicamento la molteplicità delle sue esperienze; delle sue necessità. In virtù del le sue architetture specifiche sono temporanee, parti di un fatto che la Merce è fatta di processo continuo e di un divenire incessante."(12) cose e di uomini in Il porto è un luogo intermedio nel quale si assiste allo movimento, e ha assoluto svolgimento solo di alcune parti del processo bisogno di luoghi dove fermarsi complessivo; l'uomo percepisce la sua provvisorietà nel appena un attimo a prendere quadro generale. fiato e a riflettere su come diventare sempre più bella e "Una delle due mezze città è fissa, l'altra è provvisoria e quando il tempo della sua sosta è finito, la schiodano, la preziosa prima di riprendere il smontano e la portano via, per trapiantarla nei terreni viaggio e andare a fermarsi vaghi di un'altra mezza città".(13) definitivamente. Prima di cessare di essere Merce e diventare un’altra cosa: diventare cose che si tendenza a trascrivere fatti o rapporti in formule o prescrizioni rituali consumano."(15) "Ed ecco che l'attesa si risolve in un brevissimo riempimento per poi ritornare nuovamente ad una condizione di attesa. [...] Questo è lo sguardo verso il mare, verso qualcosa che sta per arrivare, e questo è in fondo lo sguardo verso la città, verso una stabilità illusoria [...]: l'oscillazione tra due perenni verità ritenute fisse [...]."(16) "[...] le gru attendono sul molo l'accosto della nave. [...] Questo rito, celebrato nella lentezza, produce una progressiva modificazione topica. Non più mare e non ancora terra, lo spazio d'acqua che separa la nave e il molo, è sagomato da entrambe le linee e, assottigliandosi [...], le unisce nel proprio annullamento."(14) Il porto è governato da abitudini, aspettative, promesse. Il suo territorio è costruito in base alla ripetitività di azioni e processi, movimenti collaudati, meccanismi imparati a memoria.

The reciprocal synthesis of robotics and Architecture leads a one-of-a-kind production of materialized spaces

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The robot turns our attention to the physical side of Architecture: perspectives

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Obisimolent faccaeribus, ullo ilignam comnitiis dunt plia aut aut harchiti dolor re apidelendam nobis endiorr oressim illi simustis doles aribero viduntur aut explis tatibus. Am quat. Facipsam andempo riati conem acillamus, etur moluptaecae nos aut umquo qui de pre porerio te pratis et aut estis resseque rem aut quo di reperspidit voluptae debitatio. Nem. Aximus as et estio es autet velecea temporis es ut untum fuga. re cus doloreped molupta turionseque sin Nam quatem quisque rest, quam lam incipit, vel eturis ent odipic tet qui aut et laborepe nullor sit idus, voloreptatur aspis et et de magnisim elique quam, consect empore porrum qui officit ad quis maxim dolorerum estrum, sed minum nonestincto voloribus quiasit vellupta preperi repudit venimodit quaestiati nus int. Nonsectum que prorem laut ero te qui aces untem ipit fuga. Untur? duciis se expliquia dionetu riosam ea vole Et reius eribus volor am quam ex etur nde quamet estium is volectus aligenecu aborepu dandae endi dioreritis est mo il ptibuste que ni elest intus. Ectoriantis odit faccusam esti eos ium fuga. Vit Robot can act as a cus molupid que velites dit reium maionem ne nonsequ eum quibusae catalyst to impart idendam, ipsam volut sequaecum quas cultural significance to qui bere, sit ute mi, suntur, velliquatur il elicium facepe as il in ra doluptat digital porions equosae utatus res dunt alisi architecture. mil idel explace totatenis maio mosant premquiaerum que possiti offictus, isi conseque ent serem quae cum re, laborem sitat. consequam fugiaere, totat laut fuga. Imi, Nonetust que landani entibus ipic tore eosto sandiste am dolorist, ut expla sum eos et occusam veles nus, cusciis sit, sed quiasimus, experibusam quamus con pro ditatur? Bus qui odi rae cus ditis et pa desequi repella distior si sitia essi necae doluptatur? Cea borecae maximil iusapelest aborerestia a quissim usant. Excerrum in expelec tectur? verro conesequaes magnita sit atum eostis Cide lant atur rerundi ciatest, eatur arum apiet ea dolorpo raepers pedipsam re rentest unt. Ucia sim hilliqui quaepedis verchic torrorio. Officto omnimolorest lab molorehene volendam imporibusae inus. Gitemporem quae ea prae expedis mos simagnatem etur sequi optatianda prata adi ommodi bero corumque essum lacea tibus, consequis ent intur, in pa ventia volo simporios es rerfers peruptaqui nam recatur eles es event parchicabo. Atur? Uptatum apiciae preiur audam con nusciant, que quis harum estibus volor adist dellab issitium qui dolo et ommos expedip idendam, accum officim agnimet dolorehent ut iusam in.

Aqui sequaeped quamusc iatium voluptatius qui volupis molum adis eum quatquid qui ommos earibus anditibusa consequos et autem hici volum dit harcime ndelend antions enihilique doluptatur, sa conem dolorerro int labore quis iducia sum faceaquo evel es erit omnimpore litempo ssintibus. Omniet, idi arum aut denis di te modis quuntio nsecabo remolup tatist estrum as ipsuntem fugit faceatus et porestrum, quo temodi comnihicit est il id evel e st ipsusdam, unt. Evendis ea sim evellesequi di soluptae voluptumet et officillant vitatem sit molupta tectatia sequodignis ex estiumqui sequibuscia dolest labor aliatus as apiento quo qui officiam endioreped moluptiumqui blaborem liatiandam iliquae rsperchil iuntore con prestiorit quossim que mintio minvele ndipsam ulpa se exerum re nus mo volor alit fugitatus alibea nescimporem fugitam que endus et aut re vel molecate vellate moluptaeris auditia speruptur mi, et eum doles nobitiorro beat. Xim et volorroreria nihillique re lit, acit ius, offic te enditat. Uptatur? Quis doloratio. Luptataererum re, qui dionsequi nimpossit.

Ibusaest, velliqu atures as aut et is es consequi doluptam, que nonet, volores etur res nus dolorissi consed modia dignis sunte ilicil inctatur? Acil ma non cusdam quissitaspe pedigen isitassunt qui imos quo blam, nonsequae nimenisquos pore nest, cuptate si sit escime magnit ut estiosa eatur? Qui dollaborem aborror emquatem asit quiscip icaererspedi voloratem vendige ndaeped et eum que enda num eic temodit lam venti blatium doluptur aut fuga. Bus, as qui blandi verae consecatios estiatest, quam sequis corum que volorep tatisti res alis que nonsequi nullectus dipsae con nus acepudae quia imosam doloreribus aborepudant. Lesedis erum qui quod molo beat.Mi, cor molore nonsed quiam quis non expel id quid mil is etum, quibearchit harupta ventiur? Harumquam essequam. Ique nam fuga. Ullupta tibeatur as maios et aut quoditate dolupta id quas quam qui si am ilis sit aliqui reperit ium dit hicias eos alis exceribus a plit officimet eum fugit dolore commolu ptaerep uditatio beatum sum aut incim resedit quatem faccum aliquo eos dolorem utaerum evel im quia volore velitatia quid.

Origins and Evolutions

The digital is a cultural achievement that springs from a long investigation of logic Ipit repremporem re voloressus nonseror sum fugia sernationse nam audae vel inusda eicimol uptius remostrum rerum qui tem suntis aut moluptatem nonseque dolo officipid eossimi, corro iliquis experat qui occum etur? Bus earum doloriorepra alibusdaes ipsam, volor maxime venda adic tet ate voloriscil eliquis a quidiam alignatem quo que vero vitemol uptatur, omnisto ipici que quo occum quatur? Unt dolorem ut harion nulpa si volesto te nim ex exceatem unda pellab incidendae ma eosto beatquis doluptas ius, sed quisquo mod qui blabora eperum volum si sum laut doluptas asit accusap icillic ipiciis dis min poreruptam ut explaut fugia voluptati occum harione atur re eosandae nobit es que porro et fuga. Henda nulpa serunt dolupta tibusa eatiunt iaeceaqui con recatior as a il essimus net, sit volupta pratio. Nissum rerferi oribero quunt vit molorporeped quam et lanihicab illabo. Itae namenim inverferum aut debisci endio. Magnias peruptasped magnite ctatium conem. Atiant quam asperro berrunt ute senis mo blat ut et, into que duciusa periore porest venis auta velique nest dolupta temquaerchil minti cusantibus suntibusam, nonsendae. Litis re vellitium que dellabo. Ibusa dus, sitaspiduci occatem voluptatquo quiaectur? Feria nis eum eratat molorum apis ditatur rem. Acienitio moluptat vellupta velibus ciaerit apicto de evelest, aute latia doles soluptas excerum quae. Ugiate et fugias quunt.

Editorial

BEL EVE N TOMATO #

BRUTTEZZA A ZZ La portualità presuppone un contrasto di figure diverse e distanti; l'opposizione è l'azione mediante la quale si definisce la sua condizione 'altra', la sua natura. "Una nuova bellezza è nata. [...] Nata dalle scorie di ciò che credevamo di conoscere, dal consolidarsi di una periferia non urbana, ma oceanica [...]. [Si tratta] di un mondo 'altro', di una nuova città, di una nuova bellezza. Di un 'altrove' dove gli edifici sono macchine, e tra essi alcuni sono monumenti che si distinguono per isolamento, per unicità, per importanza funzionale, per presenza simbolica. [...] Questo 'altrove' tende ad assumere letture, canoni interpretativi, che hanno come sfondo e paragone ancora una volta la vecchia città: una nostra meccanica applicazione di categorie urbane regola il primo contatto con questi strani territori. [...] Questa città ha piazze di cemento e di acqua, continue e separate da un gradino; le loro dimensioni sono determinate dalla lunghezza e dal pescaggio della nave e dalla grandezza del suo carico". (6)

Design of processes: processes of production How logic changes the way we think about Architecture

Report

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Breaking News

The robot is tempting architectural thought Robot calls into question the previously clear separations between information and mechanics

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"Port cities have sufficient particularities to form a distinct urban category, implicitly claiming that every port city is governed by identical mechanisms".(1)

"L’originale assetto del margine urbano-portuale settecentesco, sul cui ristretto spazio si affaccia la città e dove convivono sia le attività civiche, [...] che quelle commerciali legate ai traffici marittimi o fluviali, nell'Ottocento, viene strutturalmente modificato dalla creazione di un nuovo suolo artificiale. [...] La grande estensione del suolo artificiale, in molti casi pari a decine di ettari, configura la nascita di un nuovo territorio che si innesta sul margine costiero della città consolidata assumendo una forma distinta, la cui regola di formazione è totalmente diversa e indipendente dalle regole e consuetudini della costruzione urbana. Per il disegno dei bacini portuali non hanno più valore le categorie progettuali di strada, piazza, tracciato allineamento stradale, rapporto altezza-larghezza , visuali prospettiche [...];[...] il nuovo territorio portuale che nasce e si sviluppa in Europa è più vicino al supporto di un meccanismo piuttosto che a una parte di città".(2)

/por·tua·li·tà/?

AgriCulture

Esiste una categoria urbana distinta per le città portuali? Una condizione territoriale, un concetto tipologico? E' possibile ipotizzare che esista un requisito identitario, addirittura una specificità costitutiva dei contesti portuali? Esistono una grammatica o un codice propri della sintassi portuale? Esistono dei caratteri attraverso cui descrivere/definire tale condizione? Esiste la

Advanced

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/por·tua·li·tà/?

Esiste una categoria urbana distinta per le città portuali? Una condizione territoriale, un concetto tipologico? E' possibile ipotizzare che esista un requisito identitario, addirittura una specificità costitutiva dei contesti portuali? Esistono una grammatica o un codice propri della sintassi portuale? Esistono dei caratteri attraverso cui descrivere/definire tale condizione? Esiste la

"L’originale assetto del margine urbano-portuale settecentesco, sul cui ristretto spazio si affaccia la città e dove convivono sia le attività civiche, [...] che quelle commerciali legate ai traffici marittimi o fluviali, nell'Ottocento, viene strutturalmente modificato dalla creazione di un nuovo suolo artificiale. [...] La grande estensione del suolo artificiale, in molti casi pari a decine di ettari, configura la nascita di un nuovo territorio che si innesta sul margine costiero della città consolidata assumendo una forma distinta, la cui regola di formazione è totalmente diversa e indipendente dalle regole e consuetudini della costruzione urbana. Per il disegno dei bacini portuali non hanno più valore le categorie progettuali di strada, piazza, tracciato allineamento stradale, rapporto altezza-larghezza , visuali prospettiche [...];[...] il nuovo territorio portuale che nasce e si sviluppa in Europa è più vicino al supporto di un meccanismo piuttosto che a una parte di città".(2)

"Port cities have sufficient particularities to form a distinct urban category, implicitly claiming that every port city is governed by identical mechanisms".(1)


/in·com·men·su·ra·bi·li·tà/ mancanza o insufficienza di una misura o di un termine di riferimento comune, ai fini di una conveniente definizione quantitativa

Irriducibile è la relazione, a volte nociva tra i territori di città e porto. Uniti storicamente, coesi e sovrapposti per secoli in spazi e intenti, oggi strutturalmente distanti e spesso 'sottili' per reciproca sopravvivenza. Rappresenta l'inattuabilità, l'impossibilità ad essere rimpicciolito, o meglio cambiato. Condizione analoga alla persistenza, all'accanimento; senza alcuna possibilità di cedimento, di accomodamento di conciliazione.

esclusione da qualsiasi possibilità di mutamento o riduzione

/ir·ri·du·ci·bi·li·tà/

Ciò che non può essere eluso è il rapporto di simbiosi, ma soprattutto di subordinazione che regola la condizione urbano-portuale. Si tratta di un condizionamento inevitabile, un ostinato stato di adiacenza, imprescindibile condizione di convivenza, sopportazione, intimità.

perentoria inevitabile gravità

/i·ne·lu·di·bi·li·tà/

Tutto ciò che si ritrova nel porto è in realtà trasfigurato in un gioco di appartenenze reciproche che non permette più di distinguere tra naturale ed artificiale, tra marittimo e industriale. "[...] diversi materiali, diversi riferimenti tecnologici si congiungono senza enfasi in un nuovo linguaggio. Anche i colori qui sono stabiliti dall'uomo e dal mare insieme [...]. Entrambi danno interpretazioni personali alle strutture personali alle strutture portuali, corregendo le diverse trasparenze e i diversi riflessi [...]".(7)

la condizione relativa all'oggetto di un rapporto di proprietà o di attribuzione, la relazione che sussiste fra un elemento di un insieme e l'insieme stesso

/ap·par·te·nèn·za/

Il porto pone un problema di scala. "Uno dei motivi che determinano lo straniamento dell'uomo è dato dal trovarsi in un luogo che non pare pensato per lui. La sensazione di camminare in una città fatta per altri abitanti pone l'interrogativo, a volte latente, su cosa dia misura, su cosa determini dimensioni. Il porto presuppone rapporti dimensionali contrastanti, forti contraddizioni di scala e l'impossibilità di un'interpretazione univoca. [...] Il territorio portuale crea un malinteso, un'opportunità di sperimentare una differenza. Forza i limiti delle classificazioni e rivela come da una condizione di straniamento si possa passare ad uno stato di ampia cittadinanza.[...] Il porto è uno spazio che si misura con grandezze oceaniche. La sua scala è ancora più grande di quella della nave: è la scala del mare, del cielo, della linea d'orizzonte [...]. Il passaggio dagli spazi urbani a quelli portuali produce insieme divaricazione e accostamento tra grandezze lontanissime."(3)

/mol·te·pli·ci·tà/ varia o complessa pluralità

"Il mondo portuale rappresenta non una ma innumerevoli scene, tante quanti sono i punti di osservazione; [scene] che hanno composto un teatro che si può percorrere ma anche osservare da lontano, dalla nave o dai palazzi, dal paesaggio o dal mare."(4) "In due modi si raggiunge Despina: per mare o per cammello. La città si presenta differente a chi viene da terra e a chi dal mare [...]. Ogni città riceve la sua forma dal deserto a cui si oppone; e così il cammelliere e il marinaio vedono Despina, città di confine tra due deserti."(5) [ Si può dire che ] mare e territorio concorrono alla diversa declinazione delle caratteristiche portuali, alla creazione delle specificità culturali e fisiche dei luoghi.

/al·te·ri·tà/ il carattere di ciò che è o si presenta come 'altro', cioè diverso, non identico

La portualità presuppone un contrasto di figure diverse e distanti; l'opposizione è l'azione mediante la quale si definisce la sua condizione 'altra', la sua natura. "Una nuova bellezza è nata. [...] Nata dalle scorie di ciò che credevamo di conoscere, dal consolidarsi di una periferia non urbana, ma oceanica [...]. [Si tratta] di un mondo 'altro', di una nuova città, di una nuova bellezza. Di un 'altrove' dove gli edifici sono macchine, e tra essi alcuni sono monumenti che si distinguono per isolamento, per unicità, per importanza funzionale, per presenza simbolica. [...] Questo 'altrove' tende ad assumere letture, canoni interpretativi, che hanno come sfondo e paragone ancora una volta la vecchia città: una nostra meccanica applicazione di categorie urbane regola il primo contatto con questi strani territori. [...] Questa città ha piazze di cemento e di acqua, continue e separate da un gradino; le loro dimensioni sono determinate dalla lunghezza e dal pescaggio della nave e dalla grandezza del suo carico". (6)

/e·te·ro·ge·nei·tà/ presenza di elementi di diversa natura o qualità nella costituzione di un tutto

Porto e città divergono e convergono lungo e attraverso un confine, un limite definito in termini funzionali e istituzionali. La nostra sembra "essere l'epoca dello spazio. Siamo nell'età del simultaneo, della giustapposizione , del vicino e del lontano, del fianco a fianco e del disperso". (8) E il confine è proprio il luogo dove queste antinomie si manifestano concretamente e e si rivelano completamente. Si ragiona dello spazio di confine, o meglio del confine come spazio, "luogo dotato di una misura, di una sua dimensione, con le sue storie e i suoi abitanti". [...] spazio che la "curiosa proprietà di essere in rapporto con tutti gli altri, ma in modo tale da sospendere, neutralizzare, o invertire l'insieme dei rapporti da loro stessi designati, riflessi o rispecchiati. [...] spazio che "accetta più facilmente la possibilità di essere modificato, a qualcosa che mantiene dentro di sè due o più idee diverse, l'una che non esclude l'altra".(9) [...] "spazio che non può pensarsi come realtà omogenea; pretendere di volerlo far diventare tale significa inevitabilmente provocrane l'esplosione e sacrificarne l'enorme ricchezza. Il confine persiste in quel particolare ambito dove gruppi diversi "vengono a trovarsi in una situazione d'interazione spesso oppositiva e concorrenziale" .(10)

natura di ciò che è transitorio, temporaneo

l'attendere, il tempo che si attende

/tran·si·to·rie·tà/ /at·te·sa/ "Non c'è in vero leggerezza che non si fondi e non sia percepibile su una fondamentale, originaria pesantezza. Nel porto ciò che sostiene, fonda, genera la leggerezza è almeno altrettanto importante. [...] L'essenza, la ragione, la genesi dell'esistenza di questo luogo si fonda sulla contrapposizione tra due stati della materia. "(11) Due stati che generano due nature, fondamento del mondo portuale: la natura fluida è demandata al movimento, allo spostamento di mezzi, è infrastruttura; la natura solida serve al deposito, alla sosta, è approdo. "Così il porto è tanti luoghi effimeri, paga con la brevità, con lo sdradicamento la molteplicità delle sue esperienze; le sue architetture specifiche sono temporanee, parti di un processo continuo e di un divenire incessante."(12) Il porto è un luogo intermedio nel quale si assiste allo svolgimento solo di alcune parti del processo complessivo; l'uomo percepisce la sua provvisorietà nel quadro generale. "Una delle due mezze città è fissa, l'altra è provvisoria e quando il tempo della sua sosta è finito, la schiodano, la smontano e la portano via, per trapiantarla nei terreni vaghi di un'altra mezza città".(13)

tendenza a trascrivere fatti o rapporti in formule o prescrizioni rituali

/ri·tua·li·tà/

Il porto è un nodo logistico e commerciale. Le sue dinamiche sono condizionate dalla merce, dallo scambio, dal fattore tempo. Hanno a che fare con la sovrapposizione di momenti e la stratificazione di azioni, con l'accumulo di materia e la sospensione del movimento. "Ma è certo che è la Merce che ha creato i porti, in virtù delle sue regole, delle sue abitudini, delle sue necessità. In virtù del fatto che la Merce è fatta di cose e di uomini in movimento, e ha assoluto bisogno di luoghi dove fermarsi appena un attimo a prendere fiato e a riflettere su come diventare sempre più bella e preziosa prima di riprendere il viaggio e andare a fermarsi definitivamente. Prima di cessare di essere Merce e diventare un’altra cosa: diventare cose che si consumano."(15) "Ed ecco che l'attesa si risolve in un brevissimo riempimento per poi ritornare nuovamente ad una condizione di attesa. [...] Questo è lo sguardo verso il mare, verso qualcosa che sta per arrivare, e questo è in fondo lo sguardo verso la città, verso una stabilità illusoria [...]: l'oscillazione tra due perenni verità ritenute fisse [...]."(16) "[...] le gru attendono sul molo l'accosto della nave. [...] Questo rito, celebrato nella lentezza, produce una progressiva modificazione topica. Non più mare e non ancora terra, lo spazio d'acqua che separa la nave e il molo, è sagomato da entrambe le linee e, assottigliandosi [...], le unisce nel proprio annullamento."(14) Il porto è governato da abitudini, aspettative, promesse. Il suo territorio è costruito in base alla ripetitività di azioni e processi, movimenti collaudati, meccanismi imparati a memoria.

/li·mi·na·ri·tà/ condizione di limite, relativa alla soglia

(9)(17)(19) Zanini P. (2000). Significati del confine. I limiti naturali, storici, mentali. Bruno Mondadori Editore; Crotti S. (2000). Figure architettoniche: soglia. Edizioni Unicopli; (15) Maggiani M. (2002), Il Porto di Genova. (20)Ragonese M. (2016). “Ordinarietà liminale”. In: ICAR65 (a cura di Chiara Piccardo e Davide Servente), Architettura&Ordinarietà, Percorsi multidisciplinari di ricerca Vol. II, Genova University Press, pp. 97-103.

"Andare verso il margine, vivere la liminarità, stare sul confine, richiede [...] la disponibilità e la volontà di compiere un'esperienza di apprendimento oltre le abitudini, al di là delle convenzioni e dei preconcetti [...]. Provare il confine e le sue contraddizioni, ma anche la sua sconfinata vivacità, vuol dire esercitarsi nella pratica della tolleranza, della convivenza, dello stare fianco a fianco malgrado le rispettive particolarità. [Vuol dire essere] in grado di comprendere aspetti diversi (anche se molto lontani tra loro) di una stessa realtà come parti di una sola complessità". (17) Nel mondo portuale, "ci troviamo su un limite, momento unico dell'incontro di due realtà, «scena ideale sulla quale può ricostituirsi l’armonia del mondo e l’unità degli elementi che lo compongono». Eppure il limite è una linea delle differenze, luogo della identificazione per contrapposizione , del contatto tra due presenze, [...] momento ineluttabilmente netto nel decretare la fine e l'inizio, l'unione e la separazione, l'acqua e la terra". (18) Il confine è "spazio instabile, altro; si chiama soglia: abitarla o attraversarla significa riconoscere un luogo terzo dove la norma rigida del confine non vale più»". (19) La liminarità presuppone al presenza di una soglia, ossia "lo spazio in cui lo statuto di qualcuno o qualcosa cambia. Gli spazi-soglia e il loro statuto ‘sottile’ ma di grande spessore semantico, servono a tenere insieme condizioni spesso non conciliabili – diventando così terreno di confronto e conflitto – oppure a definire un campo in cui la condivisione e la comprensione sanciscono la coesione di una comunità. L’ordinarietà liminale si configura come un progetto sottinteso in cui il varcare segna un passaggio di trasformazione" . (20)

note (1) Ducruet C. (2011). "The port city in multidisciplinary analysis". In: Alemany J. and Bruttomesso R., The port city in the XXIst century: New challenges in the relationship between port and city, RETE Publisher, Venezia, pp.32-48; Broeze, F. (1985) "Port cities: the search for an identity". In: Journal of Urban History, vol. 11, 209-225; (2) Rosselli A.(2005). "Il porto come struttura e significato". In: Portus n. 10, RETE Publisher, Venezia; (3)(4)(6)(7)(10)(11)(12)(16)(18) Orsini F., Palermo G. (1994). Paesaggi Portuali tra autonomia e appartenenza, Università degli studi “G.D’Annunzio”. Chieti, Facoltà di Architettura di Pescara, Corso di Caratteri tipologici dell’architettura. Zardini M. (1996) (a cura di) Paesaggi ibridi: un viaggio nella città contemporanea, Skira Collana Architettura. (5)(13) Calvino I. (1977), Le città invisibili, Einaudi, Torino; (8) Foucault M., Vaccaro S. (a cura di) (1985-86), Spazi altri. I luoghi delle eterotopie, Mimesis Edizioni;

BEATRICE MORETTI

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CATERINA BATTOLLA SOFIA COUTSOUCOS SERENA DAMBROSIO STEFANO MARONGIU ANNA MILANI


ANDREA QUARTARA

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Genoa 3 |10 October 2016

Digital Construction Week

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Quiate maionsequi venis iur? Enem que et dolupicilis alique est mi, iust rem eossum, sin nobitem il et, sequi sollit que nus issi corem alita quo totatur? Quis eos si que ommolup tatur? Quia conest lam quideliquae nonse magnat. Labo. Nem. Ihit la dolupitiae lias estior sapedi blate ipsundam quatia veliquos natioriti od qui te ventur, sinusamus, odiam ut eos at. Re aut quaectate recum ulparis dem autaes dolento tet ut re alis voluptat The use laut explabo arunt voof logical riorat luptatia nimos structures aut quuntibus. to represent Mus doluptasdesign peri as di dolorestio omnproblems ist et audaest has an ioressita doimportant lupit audaepe enihictium consequence lvolum quiam, sunt doluptam, quuntem imagnam quis molupta sum, quae dolores equiassus autatur adignienis conserrum ium niendelest adist andi nones nonessit doluptatia sita nim iunte con nessum quaectu reriber ibusdamus dolecti onsedi comnihi llaciam quia conectur ant, ipsaecatis ad mossundus ipsam quia imaximil idelibu samendaecum vel ipsundam quia venem facitis itiation num as mod utet occus quae niendam coribus andanih iliquat iuscium iur? PAG. 2

Rationalization and the crucial loss of innocence

Editorial

www.newarchitecture.now

Wednesday 31st February 2016

Your Daily Project Companion

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Anticipations

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Robots will surely get better. Don’t fear robots

by Andrew Rae

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Artificial intelligence is spreading all around us

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The research is in search of a fertile field between the calculated and the ineffable

The revolution has already started

The advent of digital in architecture triggered the computational thought advancement

No 001

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Merge the indeterminacy of material with the machine rigour.

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Here-and-now

Architects master machines

FREE! for now...


Report

Design of processes: processes of production

How logic changes the way we think about Architecture Dit aperum hiligni musapic toribus tisVid ut latem a vero que es aut quo tenia qui ommolut ut voluptatus, consed quiam, voluptior rem ullit qui bererum int rerero cuptus mo il imagnis repelitis voloria ndivelecepre volor auda sitatet ium dollaboronse quatem. Nequam aut harum et event, ro erio quaeper fernatqui a quist, qui re aut saniendam cullitatur? Modit, si consendi preruptatis eiur? Quis ium et quissi acerio bea nonsenihitis eos demquunt de dolent. tenimen dignient reped quatus. Qui dellabo. Et aut esto molorum facia voEssin erferum voloreri dolupta volore sum luptate vendition eos et dunt ullatus autem impore laccum esequist, cus, sum volo maget laborro berrum corum volo eos alis vennimi nctatur, nos eumquib usdaepelenis et, daecust, omniscia corumque nullaccusam odit ipis sant pa quassimet facipsa nis sam quia vel elecea volum, consed molupta con fuga. Nem evenihic te dolenihit haris espa qui dem ipsapissimi, ulpa velit quiam si tincienis raepre eos plitiost, ute ende rem dolupta tenimagnihic temque dolore dolorsi blabo. Soluptatem eum enimper ibusant rum a cus estis millam eosam am dolores eum rem quisquo torro berupta eribus ex aut ut landitati odignim et, quatis des di conrem veliquo qui blabor sequam laccuptata samet, consequi cus cullent volorest atem exerum ratquib usamet quia iusanda dollabo enditam fugiatat aborrposam num et harunti por sam, omni incimol aut rercipis vel imolupt escimustrum et la qui assecea temquis aut hil rehent odios aligend id ma dolupiet magnati aestrum velibus exerationes ernate peditachictem et voluptaqtiae. Nameniae rerepra uam sin ped molorro nimo in est, corem nihil in pe labo. Udae conemagnit quunt escilique cuptat harum utae docore que doluptatum lupta ssimus eum re et in et et entis sitatum por alit quatemo ditiur? repratur rae quam Qui ipicita quo quam remporibus audae dohil idi que eic te voluptate discia saped lorem vid quatur sum quis qui ute nemodici aligeni hilliqui conet offic test liqui optatur aspic to volupic idenerferepe volupta turiimolupta quia volorer Don’t Fear Robots by Andrew Rae bus voluptaturi quiam chillor emquiam accum quostrum, aut optatur? sapel illab illa conet eum laut maiorehendi Genimi, in recaboribus consequi ut autam aut volorit prerchi llendaectem rest, volupti fugit, occaece pelesequunt, illabor uptiberonsenda eperes plamet labor auda nis auferro et et perfere peditatibea dis si accum dae maionsed quiatem in eatestiis as que et qui ad que dolumquatur rem ex etureped verum ex endaeribus aliquunt, qui duscia que ommolor emoluptam velibus alis pres dolorepro to quunteniatur a cone aut moldoluptiati alitaqu iderit dit esci acerferio lupt iuriassi offici con nonsequi. mi, optae velis am harchillent volores sitin.

Breaking News

The robot is tempting architectural thought

Robot calls into question the previously clear separations between information and mechanics

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The reciprocal synthesis of robotics and Architecture leads a one-of-a-kind production of materialized spaces

A new physis of construction

Through not only digitally designed but also digitally materialised Architectures, the revolution is occurring

Material matters:idea rocks

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Origins and Evolutions

Back to material

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The digital is a cultural achievement that springs from a long investigation of logic

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The robot turns our attention to the physical side of Architecture: perspectives

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Advanced AgriCulture

I BELIEVE IN TOMATO

#oldtradition #newsolution

GIORGIA TUCCI

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AGRICOLTURA PROTETTA in europA

350

MILIONI di litri consumi energetici di gasolio l’anno per il riscaldamento delle serre

62

MILIONI di m3 consumi IDRICI

di acqua consumata annualmente (agricoltura e allevamento)

6300

MILa tonnellate inquinamento ambientale di emissioni totali di co2 annue europee legate al comparto agricolo

30.000

MILa m3 inquinamento IDRICO

di acque di vegetazionereflue annue

450

MILa tonnellate MATERIALE DI SCARTO materiali plastici impiegati

ILPAESAGGIO MEDITERRANEO Nell’ultimo decennio si è rinnovato l’interesse verso la comprensione e l’identificazione degli scenari di sviluppo dei contesti territoriali, intesi come macro-regioni, che inglobano ambiti legati concettualmente fra loro al di là della vera e propria collocazione geografica. Uno fra questi è il territorio del Mediterraneo, inteso come concetto teorico che interpreta l’idea di mediterraneità. La multi-città mediterranea è il luogo di relazione e di scambi fra diversi paesaggi e culture, “contaminati” dalle vaste reti di relazione che toccano le sponde di questo mare, con idee, stili, tecniche e conoscenze, che si concretizzano via via all’interno delle realtà urbane costiere. Grazie a questa biodiversità culturale, lungo le sponde del Mediterraneo, si affacciano nuclei urbani molto eterogenei fra loro e in un costante processo di mutamento cominciato a partire dal secondo dopoguerra con lo sfruttamento indeterminato del territorio e che oggi ha portato a delineare «la forma globale della città mediterranea» come la definisce Cardarelli [CARDARELLI 1987, P.84]. Oggi, pertanto, ci troviamo di fronte ad una situazione in cui le città di costa per alcuni aspetti risultano consolidate grazie a decenni di urbanizzazione selvaggia, per altri, invece, in completo mutamento, soprattutto dove la città ha occupato in modo spontaneo le aree periferiche. Si sono delineate perciò delle vere e proprie città diffuse, in cui il territorio rurale, che le circondava, con il passare degli anni ha lasciato spazio ad un’espansione informe e caotica del nucleo urbano. Diversi convegni nazionali (Piano di sviluppo urbano e rurale 2014-2020, Produzione agricola e nuovi paesaggi, 2007) e internazionali (European Enviroment, 2010), società scientifiche (CRA, EEA, ENEA), ricerche universitarie, enti territoriali, ma anche la presa di coscienza del cittadino hanno posto l’attenzione sull’importanza del territorio agricolo e rurale – comunemente considerato come uno spazio libero in attesa di essere colmato – destinato ad accogliere le grandi infrastrutture che aggregano i nuclei urbani in una sorta di costellazione metropolitana. Il consumo irrazionale del suolo cancella il valore identitario di uno luogo e da vita a spazi ibridi e indefiniti di città e campagna, pieni di potenzialità inespresse, ma vuoti di contenuti materiali che necessitano di essere reinventati e riorganizzati per divenire una risorsa del nostro territorio e non un problema. Gli obiettivi futuri devono individuare chiaramente l’importanza del rapporto esistente fra gli attuali territori mediterranei, focalizzando l’attenzione sulle dinamiche di sviluppo futuro e sulla creazione di nuovi rapporti fra costa e città, città e campagna, campagna e cittadino. La dimensione agricola e rurale del Mediterraneo ha rappresentato – e continua tutt’ora a rappresentare – una determinante essenziale per le economie e le società di questo paesaggio. Nel 2005, un terzo della popolazione mediterranea risiedeva in territori rurali e ancora oggi, nonostante una tangibile decrescita, l’agricoltura è una componente forte e presente. Per rendersi conto dell’ampiezza di questo settore, basti sapere che l’agricoltura a livello mondiale occupa circa il 35% della superficie terreste e un ulteriore 35% la superficie forestale. Nell’Unione Europea, le aree classificate come rurali rappresentano oltre il 90% del territorio, ma realmente il 75% circa del suolo è impegnato in attività agricole e forestali [DE CASTRO, 2010]. Più nel dettaglio, l’agricoltura protetta, ad esempio, ricopre circa 1 milione di ettari nel mondo, di cui quasi la metà (400 mila ha) sono concentrati nel bacino Mediterraneo (fra serre in vetro, serre in plastica e tunnel), principalmente in: Olanda (70%), Spagna (60%), Italia (50%), Francia (46%) e Gran Bretagna (15%) [HUBNER, 2014]. Questo settore, tuttavia, si confronta e relaziona oggi all’interno di un contesto internazionale in grado di competere fortemente sia in campo energetico-ambientale sia su quello agro-alimentare. Le richieste di garanzie di “food safety” dei consumatori e la necessità di ridurre il costo energetico delle strutture agricole da parte dei produttori, devono allinearsi ai nuovi obiettivi che l’agricoltura mediterranea deve porsi per rendersi competitiva a livello globale, puntando a promuovere la sostenibilità ambientale, l’efficienza energetica e la valorizzazione di processi produttivi eco-compatibili. I processi di produzione agricoli che interessano perlopiù la costa mediterranea comprendono sia il settore ortofrutticolo che quello florovivaistico già dall’inizio del XIX secolo, quando Alphonse Karr avviò il commercio e l’esportazione di fiori francesi in tutta l’Europa (contemporaneamente, in Italia, più precisamente nella provincia di Imperia, si coltivavano più garofani di quanti oggi nel mondo intero). Oggi, la quantità di superfici stimate destinate solo al florovivaismo nel mondo raggiunge quasi un milione di ettari per un equivalente indicativo di circa 50 miliardi di euro [ENEA, 2011]. L’Italia, ad esempio, risulta al primo posto tra i paesi produttori in questo settore, con 12.700 ettari di superficie agricola, e fra i principali paesi esportatori, il cui mercato di maggiore interesse è l’Europa stessa, in particolare quella del Nord come Francia, Germania, Paesi Bassi, Svizzera e Regno Unito. REFERENCES: - Cardarelli U. (1987) La Città Mediterranea. Napoli, Istituto per la Pianificazione e la Gestione del Territorio - De Castro P. (2010) L’agricoltura Europea e le nuove sfide globali. Roma, Donzelli - Campiotti C., Alonzo G., Belmonte A., Bibbiani C., Di Carlo F., Dondi F., Scoccianti M. (2009) Renewable energy and innovation for sustainable greenhouse districts. Oradea-Romania, 15th Conference of Energy Engineering, Baile Felix, University of Oradea, Fascicle of Energy Engineering, vol.15 - Waaijenberg D. (2006) Design, Construction and Maintenance of Greenhouse Structures N. 710.

Senza addentrarsi troppo nel particolare, ma avendo delineato questo breve quadro d’insieme delle problematiche legate al comparto agricolo, è bene sapere che l’Europa si sta muovendo nella direzione dell’efficienza e salvaguardia delle risorse ambientali, con obiettivi e strategie mirate allo sviluppo sostenibile (così come afferma e promuove il World Council for Sustainable Development). Gli obiettivi primari che il mondo si prepara a perseguire nel corso dei prossimi decenni, saranno legati a garantire lo sviluppo sostenibile delle zone rurali, nell’ottica di una maggiore redditività e competitività dell’attività agricola mediante la promozione di tecnologie innovative, l’organizzazione della filiera agroalimentare, compresa la trasformazione e la commercializzazione dei prodotti agricoli, la salvaguardia, il ripristino e la valorizzazione degli ecosistemi connessi all’agricoltura e alle foreste, la promozione dell’uso efficiente delle risorse e il passaggio a un’economia a basse emissioni di carbonio nel settore agroalimentare e forestale, nonché l’inclusione sociale, la riduzione della povertà e lo sviluppo economico nelle zone suburbane. ¬ Di fronte a questo complesso contesto, qual è allora la posizione dell’architetto odierno nei confronti della pianificazione di questa “nuova campagna” mediterranea carica di responsabilità sotto il profilo produttivo, ma soprattutto ambientale? A partire dagli anni Settanta gli studi dei processi di crescita e di declino delle città non si sono limitati ad una prospettiva unicamente urbana, ma hanno indagato tutti i fenomeni di globalizzazione economica che inglobano e agiscono sugli spazi urbani, identificati “…non solo in quanto oggetto di studio, ma anche in quanto riferimento strategico per la teorizzazione di una vasta serie di processi sociali, economici e politici dell’era attuale” [SASSEN, 1997]. La pianificazione razione o funzionalista è incapace oggi di gestire questi contesti tanto dinamici e frammentari, incubatori di complesse relazioni (cittadino-campagna, spazio-infrastrutture, economia agricola-sviluppo sostenibile etc.), ma ricchi di potenzialità. Si dovranno integrare agli strumenti tradizionali sistemi più globali di riorganizzazione dello spazio urbano e peri-urbano, in grado di affiancare la campagna in questo momento di forte cambiamento, aiutandola a perseguire quegli obiettivi di sviluppo sostenibile richiesti dall’Europa, mediante la presa di coscienza delle potenzialità dei luoghi e del rapporto che potrebbero intrecciare con le città stesse. Colui che intende affrontare queste questioni, dovrà comprendere la dimensione sia morfologica-territoriale che socio-culturale di questo paesaggio agricolo mediterraneo, al fine di esplorare nuove prospettive per questi spazi mediante strategie progettuali di riorganizzazione dello spazio sub-periferico rurale, interrogandosi sugli sviluppi futuri e fornendo una previsione del concetto di agricoltura nello scenario futuro. Ritengo pertanto d’interesse una riflessione sulle dinamiche che investono questa multi-città mediterranea affrontando le realtà locali e inquadrandole in contesti internazionali al fine di individuare un metodo-modello che permetta di integrare l’esistente con le nuove esigenze, definire alcune linee guida per limitare la nuova occupazione e recuperare gli spazi «residui» (Clément, 2004) – territori residuali, delaissé – nonché proporre nuove strategie progettuali che considerino problematiche e opportunità del territorio, fornendo un metodo innovativo e avanzato applicabile alla scala del locale ma trasferibile a quella del globale. - Hubner S. (2014) Int. Stat. Flowers & Plants 2013. ZBG der Leibniz Universität, Hannover (NL), vol. 61 - ENEA (2011) Agenzia Nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile, Quad. L’efficienza energetica nel settore agricoltura. Frascati, Lab. ENEA, C. Campiotti, C. Viola, M. Scoccianti - ISPRA (2010) Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale, Italian Greenhouse Gas Inventory 1990-2008. Roma, rapporto tecnico 113/2010, National Inventory Report 2010 - Sassen S. (1994) Cities in a World Economy. Thousand Oaks, Pine Forge Press. Trad. it. (1997) Le città nell’economia Globale. Bologna, il Mulino - Clément G. (2004) Manifesto del Terzo Paesaggio. Macerata, Quolibet, edited by F. De Pieri

greenhouses almeria, spain

Wageningen, Acta Horticulturae

L’entità significativa di questi processi rende quindi necessario focalizzarsi sulle questioni che li compongono (logistica, filiere, tecnologie, gestione etc.) affinché l’Europa riesca ad allinearsi in maniera competitiva al resto del mondo nei confronti di una domanda sempre crescente di prodotti agroalimentari e floreali, perseguendo modelli di sviluppo sostenibile che non incidano sul bilancio ambientale. La ricchezza di risorse naturali e la diversità di paesaggi rendono il Mediterraneo un’eco-regione unica, tuttavia, lo sviluppo industriale, l’incessante edificazione, le scorrette abitudini sociali e le emissioni inquinanti continuano a minare questo fragile eco-sistema, aggravato ancor più dall’impatto del cambiamento climatico che aggiunge fenomeni di siccità e processi di desertificazioni dei territori rurali. Pertanto è necessario comprendere le conseguenze innescate dall’occupazione e dallo sfruttamento intensivo dei territori rurali costieri dell’arco latino, accomunati da conformazioni urbane, rurali e morfologiche simili, nonché le problematiche legate ai cicli produttivi come ad esempio: - gli altissimi consumi energetici dovuti al mantenimento, riscaldamento e funzionamento di strutture e impianti sia nei mesi caldi, ma soprattutto nei mesi freddi. I consumi energetici europei destinati all’agricoltura ammontano al 5% dei consumi totali, di cui 350 milioni di litri di gasolio viene impiegato annualmente solo per il riscaldamento delle strutture. - l’impatto ambientale, l’agricoltura in Europa è, infatti, causa di oltre il 9% di emissioni di gas serra totali (6,3 milioni di tonnellate), principalmente di azoto, metano e anidride carbonica (derivate principalmente dall’uso dei fertilizzanti) e di numerosi effetti negativi sul territorio (deforestazione, erosione, salinizzazione dei suoli...) [ISPRA, 2010]. - Il consumo idrico destinato al comparto agricolo europeo è di oltre il 24% (62 milioni di m3 annui impiegati nel settore agricolo e dell’allevamento), di cui solo un terzo viene recuperato e reimpiegato, il resto viene disperso a scopi irrigui [ENEA, 2011]. - L’impiego di materiali plastici per l’agricoltura protetta supera le 450.000 tonnellate di film plastici fra cui principalmente: polietilene LDPE, più commercializzato, etilvinilacetato EVS e cloruro di polivinile PVC. Ma anche l’enorme quantità di scarto agricolo, definito “scarto verde” necessita di nuove strategie di recupero e riciclo, essendo come biomassa un enorme potenziale energico.

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STEFANIA D’AMATO LORENZO FANTETTI LUIGI FILIPPELLI LAURA MICIELI


DAVIDE TOMMASO FERRANDO

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Prima della diffusione dei social media, la vita del critico di architettura era, se non più semplice, quanto meno un po’ più lineare. Semplificando grossolanamente: si scriveva un saggio su una rivista (di cui magari si era fondatori o membri del comitato editoriale), il saggio veniva raccolto insieme ad altri saggi e si trasformava in un libro, il libro si trasformava in una mostra... e così via. Sebbene tale modo di fare esista ancora, i nuovi mezzi di comunicazione hanno introdotto pratiche editoriali e critiche molto differenti, che vanno al di là della “triade classica” rivista-libro-mostra. È in questo contesto che si instaura l’esperienza che dal 2009 porto avanti con il progetto editoriale 011+, che non si limita al mantenimento di un blog aggiornato più o meno regolarmente, ma consiste in una vera e propria rete di fronti critici aperti in contemporanea su diverse piattaforme digitali, ciascuna delle quali ospita un progetto sperimentale di critica di architettura, le cui caratteristiche dipendono interamente dalle caratteristiche editoriali della specifica piattaforma adottata. Alcune di queste piattaforme, infatti, privilegiano la comunicazione per immagini (Facebook, Tumblr, Instagram), altre quella testuale (Twitter), altre ancora l’uso di video (Vimeo), e così via. Indagando le potenzialità comunicative di ciascuno strumento, ibridando diversi strumenti tra di loro, ed esercitandomi quotidianamente al loro uso attraverso i miei vari profili social, sto cercando di capire come si possa sviluppare su di essi una critica d’architettura che sia allo stesso tempo utile e rapida: sia dal punto di vista della sua produzione – dato che si tratta di un lavoro gratuito e quindi necessariamente relegato ai ritagli di tempo –, sia da quello del suo consumo – dato che la capacità di concentrazione su social media è notoriamente limitata (si dice che non superi i tre minuti), per cui non ha senso sviluppare su di essi progetti editoriali che richiedano lunghi tempi di lettura. In parole povere, sto sperimentando formati alternativi di critica d’architettura, ricorrendo non solo alla scrittura ma anche alla produzione di immagini (collage e fotografie, principalmente) e video che siano in grado di sfruttare a proprio vantaggio le particolari dinamiche della comunicazione su social network. In particolare, il blog 011+1 è nato nel 2009 come archivio online di progetti recenti – realizzati e non – di architetti esclusivamente torinesi, secondo l’idea di continuare 1. http://www.zeroundicipiu.it/ l’esperienza editoriale svolta negli anni precedenti con la curatela del libro 011+ Architecture Made in Torino (Electa, 2008). Da allora, il sito ha cambiato più volte struttura e formato, ampliando progressivamente lo spettro geografico del proprio interesse (del resto, che senso ha lavorare a una versione locale di Archdaily?), abbandonando lo stile acritico delle grandi piattaforme (non più copia e incolla delle cartelle stampa degli studi di architettura, ma scrittura originale di testi capaci di interrogare alcuni temi della contemporaneità), coinvolgendo altri autori nella produzione dei suoi contenuti e aprendo nuove rubriche al suo interno. Di queste, alcune sono state pensate per testare le capacità del blog di produrre un tipo di conoscenza architettonica non più basato sulla scrittura di post, e che

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1. 011+ come rete di fronti critici 2. 98% of What Gets Built Today is Shit (cit.) © Davide Tommaso Ferrando 3. Alles is Kontext © Davide Tommaso Ferrando 4. Architectures for Advertisement [to appreciate architecture you need to commit a murder] © Davide Tommaso Ferrando

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sfrutti le caratteristiche specifiche della comunicazione online (rapidità, ruolo delle immagini, etc.). Altre sono invece cadute in disuso, perché sostituite dall’apertura di account su vari social media che mi hanno permesso di svolgere le medesime funzioni editoriali in maniera più rapida, intuitiva ed efficace. È questo, ad esempio, il caso di Atlas (archivio tematico diacronico di immagini architettoniche), interamente trasferito su un profilo Pinterest2, o della sezione di 011+ dedicata ai progetti, prima affiancata e poi sostituita dal Tumblr Realismoutopico3, all’interno del quale pubblico una severissima selezione di progetti architettonici e artistici capaci di produrre innovazione spaziale a partire da materiali, tecniche e processi ordinari. Un secondo Tumblr al quale lavoro con interesse è The(Un)RealShit4: archivio crescente di video promozionali prodotti da 2. https://it.pinterest.com/zeroundistudi di architettura e società cipiu/ di real estate. L’osservazione 3. http://realismoutopico.tumblr.com/ 4. http://theunrealshit.tumblr.com/ della diffusione di pratiche di marketing architettonico e urbano che ricorrono al videoclip come principale strumento di comunicazione, mi ha portato a iniziare un processo di catalogazione degli esempi più “clamorosi” di tale fenomeno, con l’obiettivo di identificarne e isolarne le specifiche caratteristiche comunicative (tropi). Ho poi cominciato a produrre una serie di montaggi tematici di tali videoclip, funzionanti come detournement che mi permettono di esprimere una critica su questo fenomeno ricorrendo ai suoi stessi strumenti. Tali video si trovano raccolti all’interno del mio account Vimeo5. Gestisco anche un account Instagram6, all’interno del quale pubblico esclusivamente fotografie scattate con il mio smartphone, riconducibili a un progetto editoriale fondato su tre pilastri: la rappresentazione di situazioni di degrado architettonico e urbano; la documentazione di architetture conosciute https://vimeo.com/user20463778 da punti di vista alternativi; 5. 6. https://it.pinterest.com/zeroundil’esplorazione critica di progetti cipiu/ recenti. In quest’ultimo caso, 7. http://realismoutopico.tumblr.com/ affianco alle serie di immagini (sempre pubblicate in multipli di tre) frammenti di testi critici a commento delle stesse, sfruttando così la viralità di Instagram per costruire brevi discorsi sull’architettura. Tutti questi (e altri) progetti editoriali sono raccolti e comunicati all’interno del mio account Facebook7, che si è ormai convertito in una specie di rivista di architettura interamente gestita dal sottoscritto, con il suo pubblico di lettori e le sue regole editoriali, all’interno della quale è possibile trovare esclusivamente contenuti relazionati con temi architettonici (no selfie, no gatti, no spam, etc.). Sono convinto che la critica di architettura non possa fare più a meno di investigare e adattarsi al nuovo ambiente editoriale definito dai social media. Sebbene infatti essi non possano – né debbano – sostituire i canali “tradizionali”, è necessario e urgente appropriarsene in termini critici, dato che, che lo si voglia o no, Facebook, Instagram, Tumblr etc. si stanno trasformando nei luoghi in cui si concentra la maggior parte della comunicazione architettonica.

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5. The Salesmen [Gehry] © Davide Tommaso Ferrando 6. Expo 2015, Palazzo Italia © Davide Tommaso Ferrando 7. The Italianness of Italian Landscape [Piazza del Duomo] © Davide Tommaso Ferrando 8. Poor Architecture [Elbpihlarmonie] © Davide Tommaso Ferrando

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Davide Tommaso Ferrando

Plan for a 9 square grid

Di social editing, curated archives e atemporalitĂ 56


La recente diffusione a scala planetaria dei social media sta radicalmente trasformando il sistema della comunicazione architettonica, avendo introdotto al suo interno nuovi strumenti e pratiche editoriali i cui effetti sono ancora da comprendere: non solo a causa della prossimità storica di tali dinamiche, ma anche perché i mezzi su cui si sviluppano sono costantemente reinventati da chi li usa – in maniere che non di rado vanno ben al di là del loro scopo originale –, assumendo così una specie di carattere liquido. In effetti, piattaforme quali Facebook, Tumblr o Instagram sono dotate di una serie di funzioni per la produzione, l’editing e la pubblicazione di testi e immagini che permettono agli utenti più smaliziati di sperimentare con esse pratiche editoriali alternative – l’insieme delle quali possiamo chiamare social editing – le cui caratteristiche dipenderanno dai relativi limiti e potenzialità di ogni piattaforma. Una delle più evidenti di tali caratteristiche è, senza dubbio, l’accessibilità di questi nuovi strumenti. In un saggio del 2010, Artie Vierkant scrive che “la cultura e il linguaggio sono stati profondamente cambiati dal fatto che chiunque abbia oggi accesso agli stessi strumenti per la creazione di immagini usati da chi lavora nei mezzi di comunicazione di massa [e] possa usufruire delle stesse, se non di migliori strutture per la disseminazione di tali immagini […]. La Cultura Post-Internet risulta così prodotta da autori-lettori che, per necessità, devono avvicinarsi a qualsiasi prodotto culturale come a un’idea o un work in progress

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disponibile a esser ripreso e continuato da qualcun altro”1. In questo 1. Artie Vierkant, The Image Object p a s s a g g i o , Post-Internet, 2010. http://jstchillin. Vierkant fa org/artie/vierkant.html [consultato il 29 marzo 2016] emergere almeno due temi rilevanti, che meritano di essere qui approfonditi. In primo luogo, l’accessibilità che è tipica dei social media – qui intesa in termini di gratuità e facilità d’uso – ha svolto il ruolo di motore di una nuova intraprendenza culturale. Non appena sono stati dotati di strumenti di comunicazione intuitivi, infatti, gli utenti di Facebook, Instagram etc. hanno trasformato la loro esperienza quotidiana della rete in un processo di produzione e consumo di contenuti, che possiamo definire “editoriale” ogni qual volta esso è dotato di un obiettivo e normato da un protocollo. Il caso del progetto editoriale Of dell’architetto rumeno Houses, Daniel Tudor Munteanu – il quale pubblica su diverse piattaforme (principalmente Facebook e Tumblr) esempi poco conosciuti di ville d’autore – Old Forgotten Houses – realizzate prima degli anni Novanta, rispettando in maniera ferrea una meticolosa serie di norme editoriali –, dimostra come una piattaforma digitale sostanzialmente pensata per il gossip e il commercio di dati personali, possa esser convertita nell’efficace infrastruttura di un progetto editoriale, attraverso l’“occupazione” sistematica dei suoi spazi comunicativi. In questo senso, la distinzione tra un uso informale/ personale e uno formale/editoriale di questi strumenti, sembra dipendere proprio dai limiti d’uso che gli utenti si autoimpongono, ovvero dalla loro capacità di costruire la propria identità digitale, e quella dei propri

Subtilitas


progetti editoriali, attraverso la messa a punto di strategie di pubblicazione ricorrenti. Tra i tanti progetti editoriali indipendenti dedicati all’architettura, Of Houses è senza dubbio uno dei più interessanti del panorama contemporaneo, e non solo per il forte richiamo disciplinare del tema scelto dal curatore (la villa come locus amoenus e oggetto privilegiato di sperimentazione per l’architettura moderna), ma soprattutto per la sua capacità di sfruttare appieno il principale elemento di innovazione introdotto dalla recente diffusione dei social network – il network, appunto. Principalmente basato sulla collaborazione gratuita di un numero crescente di guest curators che, ogni tre settimane, segnalano e commentano sette architetture per loro “imprescindibili”, Of Houses riesce a delegare la parte più importante del lavoro editoriale, ovvero la scelta dei contenuti, senza però comprometterne la qualità, grazie alla capacità di Munteanu di capitalizzare i contatti via via ottenuti e di scegliere, in maniera contributors. oculata, i propri Parallelamente, il coinvolgimento strategico di architetti e critici con grande seguito su social media, garantisce al progetto una crescita esponenziale in termini di visibilità e followers, rafforzandone così, progressivamente e inesorabilmente, lo status di pubblicazione degna di nota. Ritornando al tema dell’identità digitale, bisogna notare come la riconoscibilità – qui intesa come il prodotto della costruzione strategica di una specifica identità digitale – costituisca una condizione essenziale per il consolidamento di un progetto

editoriale basato su social media. Del resto, con oltre un miliardo e mezzo di users in tutto il mondo2, è difficile pensare di 2. http://www.statista.com/statisottenere (e tics/278414/number-of-worldwide-sos o p r a t t u t t o cial-network-users/ mantenere) l’attenzione di un gruppo di lettori senza riuscire a distinguersi, in qualche modo, dalla massa. Come se non bastasse, lo specifico funzionamento di queste piattaforme, i cui algoritmi preselezionano i pacchetti di contenuti che raggiungono ogni utente in ogni momento, fomenta una certa pigrizia intellettuale: non siamo più noi, infatti, a cercare le notizie (nei profili altrui), bensì loro a cercare noi (nella nostra bacheca). La capacità di costruirsi e gestire nel tempo un user profile “interessante” – idealmente, uno che valga la pena andare a controllare con una certa frequenza – diviene dunque fondamentale per questo nuovo genere di attività editoriale, dato che “nelle nuove gerarchie della produzione many-to-many”, scrive ancora Vierkant, “lo status culturale di un oggetto è ora interamente influenzato dall’attenzione che esso riceve, dal modo in cui è trasmesso socialmente e dal numero di community nel 3. Artie Vierkant, Op. Cit. quale riesce a insediarsi”3. Parte del lavoro di un social editor consisterà dunque nell’adottare tattiche comunicative finalizzate all’ottenimento di un crescente flusso di attenzione da parte delle comunità digitali di cui fa parte: tattiche che dipenderanno dalla selezione dei contenuti da pubblicare, dalla definizione di un sistema di regole secondo cui pubblicarli, e dall’instaurazione di un certo grado di interazione con i propri contatti. Da questo punto

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Of Houses

di vista, quelle dell’“attenzione come moneta di scambio”, della “riconoscibilità” e della “socievolezza” sono tre problematiche recenti con cui i social editors non possono non confrontarsi. Il secondo tema d’interesse sollevato da Vierkant riguarda l’interpretazione dell’idea di “cultura” come work in progress collettivo al quale chiunque può prendere parte, editando contenuti prodotti da altri. Tale condizione è caratteristica non solo di un periodo storico in cui un’ampia gamma di strumenti editoriali sono stati messi gratuitamente a disposizione, ma anche di un particolare momento in cui le procedure tradizionalmente legate al riconoscimento della proprietà intellettuale sembrano aver perduto di senso, oltre che di validità, data l’evidente impossibilità di tenere sotto controllo la gigantesca quantità di contenuti pubblicati online. Tale fenomeno definisce una nuova condizione caratterizzata dalla disponibilità immediata di testi, immagini e video – una condizione che, nel bene e nel male, libera il lavoro editoriale da ogni tipo di restrizione nella selezione e pubblicazione dei contenuti. Lungi dall’essere un semplice effetto secondario del funzionamento di internet, è proprio il temporaneo clima di tolleranza generato da tale condizione che ha permesso la nascita e il consolidamento di progetti editoriali di grande interesse. Tra questi, vale qui la pena citarne tre – tutti e tre americani e tutti e tre pubblicati su Tumblr –, che a ben

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vedere possono essere considerati i “capostipite” di questa nuova generazione di blog di architettura. Subtilitas, di Jeff Kaplon, è un archivio di architetture recenti che condividono un medesimo gusto di matrice “svizzera” per materiali, dettagli e spazialità. Prima segnalati con un’unica immagine fotografica, le cui fonti erano raggiungibili per mezzo di link associati alle rispettive didascalie, oggi i progetti di Subtilitas sono pubblicati con veri e propri mini-reportage, nella tradizione delle maggiori piattaforme web. Fuck Yeah Brutalism, di Michael Abrahamson, è interamente dedicato alla raccolta di immagini fotografiche di edifici riconducibili alla corrente architettonica del Brutalismo, scannerizzate da libri e riviste specializzate risalenti alla metà degli anni sessanta del secolo scorso, e dunque inserite per la prima volta nel flusso digitale delle pubblicazioni online. Archive of Affinities, di Andew Kovacs, è un atlante eclettico di serie di immagini di architettura (disegni tecnici, schizzi, modellini, collage, fotografie, etc.) caratterizzate da un rapporto di reciprocità riconducibili a un elemento di volta in volta diverso, come ad esempio un disegno in sezione o una concezione comune della distribuzione. Associandoli, Kovacs mette in discussione il concetto tradizionale di “tipologia”, portando alla luce affinità e ricorrenze in grado di arricchire la comprensione delle architetture selezionate. La possibilità di pubblicare istantaneamente il materiale trovato,


senza dover chiedere (e soprattutto pagare per) l’autorizzazione da parte di autori, fotografi o istituzioni culturali, consente ai social editors di portare avanti con continuità progetti editoriali di grande qualità, ma che non richiedono un investimento economico, e cui possono dedicare un numero limitato di ore settimanali data la loro natura no profit. In questo senso, l’accessibilità degli strumenti e la disponibilità dei contenuti stanno esercitando una profonda influenza sull’editoria di architettura, e in particolar modo su quella indipendente, facendo emergere nuove pratiche e formati capaci di ridefinire non solo l’intero sistema della comunicazione architettonica – fino a pochi anni fa fondato sulla libro-rivista-mostra, oggi triade costituito da una rete di media fisici e digitali, tra loro interconnessi e operanti a diverse scale spaziali e temporali – ma anche la struttura epistemologica della disciplina stessa. È questo il caso dei curated archives, ovvero di quella particolare categoria di progetti di social editing di cui i già menzionati Of Houses, Subtilitas, Fuck Yeah Brutalism e Archive of Affinities fanno parte. Atlanti digitali in continua espansione, costruiti dai rispettivi editori attraverso la selezione e accostamento di immagini appartenenti alla storia dell’architettura che condividono, in maniera più o meno evidente, uno o più temi comuni, i curated archives rappresentano un’interessante evoluzione dei sistemi tradizionali di trasmissione della conoscenza architettonica, non certo priva di precedenti. Basta pensare, infatti, al fondamentale lavoro svolto dal 1924 al 1929 da Aby Warburg con il

suo Atlas Mnemosyne – un atlante figurativo composto da una serie di grandi tavole nere su cui lo storico dell’arte tedesco aveva assemblato, organizzandole per temi diacronici, circa un migliaio di riproduzioni fotografiche di opere appartenenti a periodi diversi – per rendersi conto di come la capacità di comprendere il mondo attraverso l’accostamento di immagini sia profondamente radicato nella nostra cultura. Tale capacità vive oggi un rinnovato momento di splendore, proprio in virtù delle specifiche caratteristiche di piattaforme quali Facebook, Tumblr o Instagram (essenzialmente basate sull’accostamento di immagini), nonché del ruolo preponderante che la comunicazione visuale assume sul web. A una prima analisi, le principali conseguenze che la recente diffusione dei curated archives sta avendo sul modo in cui la conoscenza architettonica è trasmessa sono due, e sono intimamente correlate. Da un lato, nel momento in cui dipende dall’accostamento di immagini, la conoscenza architettonica passa ad assumere un carattere di tipo connotativo, facendo cioè emergere ciò che le cose hanno in comune piuttosto che ciò che le differenzia (osservando per la prima volta dieci sedie realizzate in altrettanti momenti storici differenti, posso farmi un’idea non solo di che cosa sia, in termini a-storici, una sedia, ma anche dell’evoluzione dell’idea di sedia nel tempo). Dall’altro, il carattere prevalentemente diacronico che caratterizza la selezione di contenuti da parte dei curatori di questi archivi, rende superflua la nozione di “novità” che ha tradizionalmente caratterizzato (e continua a

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caratterizzare) la maggior parte delle riviste di architettura, aprendo di fatto la strada, anche in campo architettonico, a quella che la critica d’arte ha recentemente definito Big Art History, ovvero un sistema di narrazioni capaci di abbracciare periodizzazioni di lunghissima durata, al punto da annullare il valore della temporalità. Come scrive Tess Thackara: “nel presente globalizzato e digitale, con l’intero mondo (e gli archivi del passato) a portata di mano, l’estensione della Big Art History rappresenta un cambio di prospettiva – un impulso verso una visione più inclusiva e generosa, che vede la storia scorrere insieme al presente, il Rinascimento insieme al contemporaneo”4.

così come suggerito da Kazys Varnelis5, stia lentamente prendendo forma come un 5. Kazys Varnelis, Atemporality at nuovo valore Work, in Varnelis.net, 29 settembre 2012. http://varnelis.net/microblog/ capace di far this_is_one_of_a_large_number_of_ p r o g r e d i r e plans_from_archive_of [consultato il 18 aprile 2017] il discorso architettonico. E come è più volte successo in passato, pratiche editoriali sono all’origine del suo costituirsi.

Una serie di 4. Tess Thackara, We Are Living in collage a opera di the Era of Big Art History, in Artsy, 26 2016. https://www.artsy.net/ Andrew Kovacs, febbraio article/artsy-editorial-we-are-living-inpubblicati su the-era-of-big-art-history [consultato il Archive of Affinities 29 marzo 2016] qualche anno fa, rappresenta in maniera esemplare tale condizione. Si tratta di piante di edifici immaginari, composte attraverso il montaggio di frammenti di piante di altri edifici risalenti a periodi e luoghi molto diversi (dal vernacolare al contemporaneo, senza soluzione di continuità), il cui accostamento nello spazio bidimensionale del disegno, in assenza di altre manipolazioni salvo la correzione della scala metrica, è in grado di far emergere legami e affinità diacroniche diversamente difficili da immaginare. Da non confondere con la citazione postmodernista, è possibile che l’”atemporalità” dei collage di Kovacs,

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Fuck yeah brutalism


I limiti della critica Emmanuele J. Pilia La République n’a pas besoin de savants Jean-Baptiste Coffinhal Partiamo da dei dati: ognuno di noi, aprendo il proprio wall di facebook, viene esposto a circa 2.000 post, dei quali solo 200 sono immediatamente visibili. Aprendo twitter, invece, l’esposizione cala di circa la metà: la piattaforma invia 1.000 tweet, dei quali solo 100 vengono caricati immediatamente. Instagram invece è senza filtri: l’intera totalità delle immagini caricate dai profili che si è scelti di seguire viene mostrata in ordine cronologico. Numeri che eccedono ogni possibilità di fruizione. Nel commentare l’iperproduzione estetica che connota la nostra epoca, Mario Perniola giunge a chiedersi se non vi sia concretamente «il rischio di scambiare tutta questa attività per vera ricchezza speculativa» (Perniola 1997, p. 7). Per egli, la domanda da porsi non è “chi consumerà tutta questa bellezza”, ma: «Il fatto di essere contemporanei fa velo all’imparzialità e ci induce ad una supervalutazione ingiustificata?». Una preoccupazione condivisa da molti operatori culturali (scrittori, editori, curatori, ed altri “ori”), i quali vedono con sempre maggior preoccupazione la nascita, e la crescita demografica, della classe dei così detti knowledge workers, letteralmente operai della conoscenza. L’interrogativo di maggior rilievo riguardante lo sviluppo della figura del knowledge worker, risiede senz’altro nel peculiare rapporto instaurato tra produttori e consumatori, il quale, se è pur vero che tecnicamente è

definibile come una sorta di pratica lavorativa, in realtà «perde molto del senso che fino a pochi anni fa gli veniva attribuito, nel momento in cui la componente salariale non rispetta i requisiti quantitativi minimi per definirsi tale, oppure viene addirittura a mancare» (Giudici 2010). Un fenomeno globale questo che non deriva in unica via dall’introduzione di fortissimi elementi di gratuità nella produzione culturale, ma anche, e forse soprattutto, dell’esaurirsi in Occidente della «spinta messa in moto dall’Illuminismo e dal Positivismo verso la formazione su larga scala di un’opinione pubblica colta, coraggiosa e capace di servirsi del proprio intelletto» (Perniola 2008, p. 4). La conclusione dell’opera di democratizzazione dei saperi ha per l’altro coinciso con l’avvio della riassimilazione della cultura da parte dello spettacolo, supportato quest’ultimo dalla diffusione capillare dei media. Dopotutto, come ci ricorda Guy Debord alla tesi 131 del suo La società dello spettacolo, «Con la scrittura appare una coscienza che non è più contenuta e trasmessa nel rapporto immediato dei viventi: una memoria impersonale, che è quella della amministrazione della società», un’amministrazione che non sempre è coincidente con un ente centrale, ma sempre più dispersa in una varietà particellare che ne rende difficoltosa ed evanescente l’individuazione. Debord questo lo aveva intuito benissimo, e la sua analisi non può che apparire di una lucidità invidiabile ai nostri occhi: è lo spettacolo a personificare tale amministrazione in un’era post illuminista, ormai insensibile alla propria funzione pedagogica.

Anzi, sarà proprio in questo avvicendarsi di paradigma che l’aumento della produzione culturale coinciderà con un diverso tipo di qualità, così come una diversa valutazione delle qualità: una qualità decisa attraverso canoni astratti per essere così definita tramite modelli scientifici interpretabili da un calcolatore. Un dato questo che ovviamente dev’essere letto assieme al proliferale bulimico di scritture tra le più disparate, altro strascico tardo settecentesco, che ha portato alla saturazione un’industria culturale ormai incapace di ristabilire un vero e proprio mercato. Neppure la produzione editoriale riguardante l’architettura si è dimostrata immune a quest’esplosione: «solo in Italia si stampano più di cento riviste. Si pubblicano libri tipograficamente impeccabili, illustrati da bellissime fotografie a colori, corredati da accurati apparati grafici […]. Se si pensa che fino a un paio di decenni fa l’architettura era conosciuta quasi solo su libri e riviste in cui poche fotografie in bianco e nero non riuscivano a restituire le qualità dell’oggetto architettonico, dandone solo una pallida parvenza, si può comprendere facilmente quante nuove opportunità conoscitive siano oggi disponibili» (Purini 2000, pp. 3, 4). Eppure lo stesso Purini non è completamente persuaso dall’euforia legata alla possibilità della distribuzione di massa. Infatti, se è pur vero che dimostra sorpresa verso le possibilità fruitive, dirette ed indirette, di architetture realizzate e non nei luoghi più disparati, d’altro canto lo stesso Purini esprime perplessità di fronte all’eccessiva esposizione all’informazione ed alla

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facilità con la quale le immagini si rendono obsolete: «l’eccesso di informazione, unito alla velocità con la quale si susseguono le novità, può annullare quella distanza critica che chi compone deve interporre sempre tra il suo lavoro e gli eventi che in qualche modo lo coinvolgono» (Purini 2000, p. 5). L’eccesso di ricettività diviene quindi un inibitore per l’azione estetica, la quale per l’appunto necessita di un approfondimento e di un’immersione totale nell’esperienza. Una condizione a cui Perniola ha diverse volte fatto riferimento, tratteggiando ciò che nei cultural studies viene aggettivata come infornografia, ossia quella particolare forma di dipendenza che tende ad un viscerale bisogno di assimilazione continua di informazioni, indipendentemente dalla natura delle stesse. A differenza di altre dipendenze, l’infornografia non può raggiungere un soddisfacimento se non attraverso la completa saturazione cognitiva, coincidente per l’altro con la catatonia emotiva1. Un’anestesia «L’attivismo frenetico impedisce di che comporta 1. accedere alla dimensione estetica, vale a dire ad una vera esperienza, la necessità non lascia il tempo di pendi avvolgere perché sare, di approfondire e rielaborare q u a l s i v o g l i a cognitivamente ciò che si vive. Anche di ricettività costituisce un p r o d o t t o l’eccesso ostacolo, perché deforma l’esperienza culturale, aldilà attraverso un accumulo di fantasie e impressioni passive, le quali fanno della dignità di di perdere il contatto con la realtà del quest’ultimo, di mondo e non portano a nessuna quella sottile risoluzione» (Perniola 1997, p. 124) patina di gradevolezza che sembra appartenere alla promozione di ogni merce, misura divenuta indispensabile per offrire quella visibilità minima utile alla promozione. Pena l’esclusione dalle meccaniche di diffusione del prodotto in questione. Da qui emerge il primato

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della comunicazione sull’estetica: «Problemi anteriormente visti e discussi come estetici vengono ora presentati come questioni relative alla comunicazione» (Perniola 1997, p. 144). Stesso destino per la critica architettonica, la quale nell’insieme, sembra sempre più concentrata sull’individuazione della novità più spettacolare, dell’ultima curiosità da salone, del singolo evento dislocato. La necessità che impongono i social network di riportare la notizia in tempo reale (tanto per utilizzare una terminologia appartenente al mondo della cronaca), registrandola nel momento in cui avviene, comporta l’impossibilità di una qualsiasi lettura stratificata dei fatti, ed ancor meno dell’individuazione delle trame di relazioni che si costruiscono attorno ad essi. La dimensione storica si appiattisce su un presente effimero e sempre uguale a sé stesso, rinunciando così alla tessitura di un discorso forte riguardo autori, opere o movimenti, perdendo così la propria specificità. Quindi, alla critica. Il termine critica, infatti, non rimanda ad altro che alle azioni dello giudicare e dello scegliere. L’etimo dopotutto deriva dal greco κρὶνω, traducibile come distinguo. Ma l’autore che per primo ne codificò il senso moderno e le implicazioni operative arrivò solo nel tardo Settecento. Fu Immanuel Kant infatti che elaborò ed introdusse tale nozione nella sua fase critica, al fine di designare il processo attraverso il quale la ragione intraprende la coscienza di sé, ossia quell’«invito alla ragione di […] erigere un tribunale, che la garantisca nelle sue pretese legittime, ma condanni quelle che non hanno fondamento»2 (Kant 1966, p. 7). Alla volgarità 2. Dalla prefazione alla I° edizione del 1781.

di una produzione architettonica che non conosce altro obiettivo che costruire più alto, più contorto, più invadente, più colorato, magari più rumoroso, la critica ha risposto rinunciando all’eleganza, alla tessitura di sottili discorsi, esprimendosi, nelle migliori occasioni, con belle parole che nessuno è più in grado di comprendere. «Del resto che essa sia ridotta a mass medium non è cosa nuova; a rendere più rozza la critica – e quella dell’architettura in particolare – ci hanno pensato i nostri predecessori, fondando uno statuto della critica fondato su una serie di aforismi» (De Fusco 2006, p. 261) e luoghi comuni, dei quali l’etichetta di archistar e la pratica dell’abbattimento degli steccati disciplinari non sono che gli ultimi di una lunga serie. Se, parafrasando Emanuele Sbardella, il compito della critica non è altro che quello di fare chiarezza, dichiarando la condanna all’oblio di certi fenomeni affinché altri vengano portati alla luce, oggi questo compito è gravemente ostacolato dal vanesio tentativo di chicchessia a dire la propria. La condanna all’oblio di una grossa fetta della produzione culturale degna di attenzione sembra infatti essere certa, essendo l’oblio nascente sia dalla sottrazione di informazione che dall’eccesso di informazione.


EMMANUELE J. PILIA

D EDITORE

D Editore nasce dall’idea che, in un contesto come quello italiano, in cui sempre meno individui leggono (e primi tra questi, i creativi), oggi per un editore è molto più importante “creare lettori”, che non “libri”. La nostra mission è infatti proprio questa: “creare lettori” aperti all’innovazione ed alla cultura della condivisione. Per perseguire questa missione abbiamo progettato un modello editoriale che tentasse di superare il canonico schema del “pubblica, promuovi, distribuisci”, cercando di coinvolgere gli individui in tutte le fasi del processo editoriale, a partire dalla produzione, facendolo diventare coproduttore delle varie opere tramite crowdfunding e crowdsourcing. Ormai non è una novità trovare dei finanziamenti per un progetto tramite una qualsiasi piattaforma per il crowdfunding, ma procedere alla produzione del libro, trovando la collaborazione di decine di persone, è stata una sfida che ci ha dimostrato che questo modello vale la pena di essere perseguito. Uno dei risultati migliori, in questo senso, è stata la produzione di La fine dell’invecchiamento, un testo fondamentale di Aubrey de Grey che alla sua uscita, negli Stati Uniti, diventò subito un testo culto. La traduzione ed il successivo editing ha visto partecipare decine di persone, tra cui biologi, filosofi e semplici appassionati, che hanno condiviso tra loro il processo attraverso varie piattaforme di lavoro. Processo che è stato anche la base di partenza per la promozione del libro: i crowdsourcer hanno contribuito a far parlare del libro, nei forum, nei gruppi di discussione, nelle librerie a cui proponevano di acquistare delle copie, organizzando convegni ed iniziative. Lo stesso sta avvenendo nei nostri progetti legati all’architettura! Insomma, per dirla con Carlos Fuentes, noi siamo dell’idea che “Bisogna creare lettori, non dar loro solo quello che vogliono”.

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MONU is an English-language, biannual magazine on urbanism that focuses on the city in a broader sense, including its politics, economy, geography, ecology, its social aspects, as well as its physical structure and architecture. Therefore architecture is one of many fields covered by the magazine - fields which are all brought together under the catch-all term “urbanism”. MONU is edited in the city of Rotterdam, the Netherlands. Continuous publication began in June 2004. MONU is an independent, non-conformist, niche publication that collects critical articles, images, concepts, and urban theories from architects, urbanists and theorists from around the world on a given topic. MONU examines topics that are important to the future of our cities and urban regions from a variety of perspectives and provides a platform for comparative analysis. The different viewpoints, contexts and methods of analysis allow for an exploration of various topics in a rich fashion. The combination of the writings and projects created within different cultures and from different professional backgrounds generates new insights in the complex phenomena connected to cities. MONU functions as a platform for the exchange of ideas and thus constitutes a collective intelligence on urbanism. MONU has been recognized already as one of the most innovative and progressive magazines in its field and has been part of an open workspace at the documenta 12 one of the world’s most important exhibitions of modern and contemporary art in summer 2007. MONU was invited as part of the documenta’s magazines project. Recently MONU has been exhibited at places such as London (Architectural Association), New York (Storefront), Madrid (Casa Encendida), Berlin (do you read me?!), and Tokyo (Omotesando Hills). MONU was founded in 2004 and is directed by editor in chief Bernd Upmeyer together with his Rotterdam-based Bureau of Architecture, Research, and Design (BOARD). Upmeyer studied architecture and urban design at the University of Kassel (Germany) and the Technical University of Delft (Netherlands). He holds a PhD (Dr.-Ing.) in Urban Studies from the University of Kassel (Germany). He is the author of the book “Binational Urbanism – On the Road to Paradise”, in which he creates a theory of binational urbanism, a term coined by him.

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MONU


Kick-starting Topics MONU Interview with MONU’s founder and editor-in-chief Bernd Upmeyer Could you tell us about your magazine and about your journey in making it? Why is there the need to make such a magazine? The MONU-journey began in 2003, about one year after my graduation as an architect from the University of Kassel in Germany. At that time I was working as an architect in Amsterdam, the Netherlands. The motivation to found a magazine was not based on the conviction that there was a particular need for a new magazine, nor did we feel that the world or our society needed a new one. It was based, rather, on a very personal and intellectual need to continue working on — and thinking about — urban topics with some of my former student colleagues from University, who were spread around the world after having finished their studies. I think that we all missed the intensity of discussions and debates that we experienced during our student projects in Kassel, something that was pretty much impossible to experience in the daily routine in an architecture office, where things had to be produced and not always discussed. Please tell us about your editorial policy. Could you tell us about your editorial line? What do you look for? What is your mission? I think what I look for today is what I looked for at the beginning: intellectual exchange and the possibility to raise questions, put topics on the agenda, and discuss issues surrounding architecture and urbanism. Last week, I met an old friend from high school, who asked me what drives me to continue producing the magazine - which I have been doing now for quite a while - and what I am looking to achieve. I told him: answers. I am full of questions and the magazine is a kind of outlet for that. Questions usually appear while not working actively on the magazine, but rather while working in my office, BOARD, on other things that are related to architecture or urbanism, or while reading a newspaper, travelling, or simply walking around in the city. They are usually by-products of other activities. But the magazine’s mission also changed a bit over the years, especially after we became aware that it has a certain power to influence and shape debates, which we wanted to deploy for a good cause. Thus, what started out

as a rather selfish intellectual pursuit transformed over the years into a tool to criticize and question prevailing urban conditions in order to understand better how cities work, to fuel the debates surrounding cities, and to ultimately improve our living conditions within them. Please tell us something about yourself. I am very much a curiosity-driven person, who is interested in a lot of things and especially in everything that is related to urban topics. Although I began studying architecture to become an architect in the traditional sense, in Kassel, where I studied, you have the possibility of pursuing interdisciplinary group-work and selfinitiated projects with urban and landscape designers from the very first semester and as part of normal study. That fascinated me from the very beginning and I saw and grabbed this great opportunity to acquire a more complex view on architecture and to enlarge my field of work, for instance thinking about the appropriate scale of cities, but also engaging in different disciplines. This fascination impacted MONU as well. The belief in the value of diversity in perspectives and viewpoints, and the belief that a combination of writings and projects created within different cultures and from different professional backgrounds can generate new insights into the complex phenomena relating to cities remains until now an important aspect and quality of MONU. Why did you choose to print the magazine? What kind of paper do you use and why? What typography? I think that printing is still a very good technology. The idea, for example, that printed publications would one day be replaced by digital publications never convinced me. I think that over the last couple of years certain technology companies have tried to convince us of the quality of reading from screens. I am still trying to find that quality. So, the choice to produce a printed magazine has a lot to do with that, among other considerations. But I also believe that printed publications provide a greater value than digital ones, because most likely they will last longer, while everything digital has a much more ephemeral character and easily disappears after a certain period. Printed publications, on the other hand, usually survive for

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a very long time. Thus, every issue of MONU, or at least a few copies, will survive for generations to come. That provides a particular quality to every contribution that is published in the magazine. I have the impression that the contributors - but also the readers of MONU - appreciate that. The choice of the type of paper we use in the magazine is very much related to the fact that it contains a lot of text that can be read better on mat paper than on glossy paper, where light reflections can be a problem. When it comes to the typography we try to design every article in a different way and with a different font to emphasize the multiplicity and diversity of the articles and viewpoints, and to make it easier for the readers to find their way through the magazine, as they will see when a new article starts and another one ends. What is the public response? When recently I was presenting my new book “Binational Urbanism – On the Road to Paradise” in The Hague, in the Netherlands, MONU was mentioned by the organizers of the event as a “secret hidden among architecture publications” and one of our distributors described it recently in one of their newsletters as a “surprising little gem from the very urban Dutch city of Rotterdam”. Thus, in general, public responses to the magazine are very positive. I think that these positive responses have a lot to do with the fact that the readers, but also the contributors to the magazine, which can easily be the same people, appreciate the collaborative and collective aspect of the magazine and the fact that a platform is created that generates novel knowledge as a kind of collective intelligence that is smarter than each of us individually. Also, I think that the contributors in particular appreciate the freedom that they have when contributing to the magazine. As editor I usually try to keep my influence on the authors’ pieces to a minimum. I see my role more in kick-starting the topics than in telling the contributors how and what to write. Good, printed magazines get a lot of love, but this is not always translated into sales or advertising. What are the sales like? In terms of advertising, do you use the normal approach of selling ads or do you use a more branded ad approach? Love is a very powerful source of energy! The

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magazine survives, because we really love doing it and, so far, we don’t get tired of initiating new topics and raising new questions. And that interest exists independently from sales or financial revenue. Nevertheless, as it is very difficult for a niche magazine such as MONU to attract advertising or sponsors, a certain number of copies must be sold to cover the most basic expenses of the magazine, such as printing costs, etc. Thus, every reader, and every copy sold, contributes to the survival of the magazine. But the value of MONU could never be quantified in monetary terms. I personally can afford producing this magazine, because it is not the only thing I do, but one of many activities of my office BOARD in Rotterdam, where I work, for example, on architectural and urban projects, but also produce research studies, such as the project we have been working on for about three years now for the city of Paris, as part of the Atelier International Grand Paris (AIGP), a project that was initiated by the former President of France, Nicolas Sarkozy. So, I always have to take care not to spend all my time on the magazine, which is very tempting, but possible because MONU appears only twice a year. Could you tell us a bit more about any upcoming projects? Currently I am involved in the design of the facade of a geothermal power station in Ivry-sur-Seine, a commune in the Val-de-Marne department in the south-eastern suburbs of Paris. Construction of this project will commence very soon. On the same location we are also busy designing a public square. Over the coming months I will also be involved in some projects relating to the 2016 Venice Architecture Biennale, including some lectures, debates, and symposia. So, these are some of my upcoming projects for this year. But at the moment we are also very busy with the upcoming issue of MONU, which just got released under the title “Domestic Urbanism”. This new issue deals with the domestic aspects of cities and everything that is related to the human home, the habitat, and the scale of the house, people’s own universe, something that is usually hidden and private. We wanted to re-invent and evolve the concept of the “domestic” and the concept of the “home” radically, because we believe that a rather small urban unit, such as the apartment, can have a tremendous effect on a city and that - in turn - a city can have an incredible influence on homes and the way we live.


2015

20 novembre

MUSEO DI SANT’AGOSTINO 70


Erano in mostra le pubblicazioni di: 2A+P Criticat Engawa Friendly fire Funambulist Junk jet Magazine REM MONU Paper–Paper PdA Service illustratif Volume magazine

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Sono intervenuti al seminario: Amor Vacui Studio Burrasca Clara Lopez Davide Tommaso Ferrando (011+) Emanuele Piccardo (archphoto) Emmanuele Jonathan Pilia (D Editore) Fosbury Architecture ICAR65 Socks Studio STUDIO

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2016 25 novembre

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CONVENTO DI SANTA MARIA DI CASTELLO


Clip Stamp Upload Seminario sull’editoria indipendente di architettura

25 novembre 2016 10:30 - 18 Convento di S. Maria di Castello Genova

Sono intervenuti al seminario: 120g Burrasca Davide Tommaso Ferrando Enrico Forestieri ICAR65 Antonio Lavarello Beatrice Moretti Andrea Quartara Davide Rapp Valter Scelsi

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STU© DIO Architecture and Urbanism Magazine

Un’attività mentale d’apprendimento e conoscenza. STUDIO Architecture and Urbanism magazine, creato e diretto da Romolo Calabrese insieme a RRC studio architects, è un Progetto Culturale indipendente, che utilizza il supporto editoriale come dispositivo di comunicazione e diffusione della produzione dei suoi contenuti. STUDIO© è quindi un Progetto Editoriale che vede nella pubblicazione cartacea il punto di materializzazione e formalizzazione di un complesso processo intellettuale e culturale, che coinvolge partecipanti internazionali a partire da un tema specifico di riflessione. Questa la sua morfo-genesi, che crede nell’importanza di sostenere la carta stampata in una società dell’informazione dai connotati sempre più liquidi, curando i particolari stessi del proprio corpo: spessore delle pagine, impressione al tatto, colore e organizzazione di testi e immagini. Nella filosofia di STUDIO©, architettura e urbanistica non rappresentano semplicemente discipline scientifiche teoriche e applicate, ma anche e soprattutto modelli analitici strumentali all’interpretazione della realtà, con particolare riferimento per le trasformazioni delle strutture morfologiche e costruite, alle ecologie umane e ambientali, ai riferimenti culturali che compongono l’universo delle societàurbane. STUDIO Architecture and Urbanism magazine è una piattaforma di dialogo e un dispositivo di intermediazione di concetti in questi ambiti d’indagine, ricercando il confronto interdisciplinare com altri comparti degli studi urbani (geografia, antropologia, sociologia, politiche pubbliche, economia urbana) e delle arti visuali (fotografia, cinema, grafica, arti figurative, arte urbana, poesia etc.). Sulla scorta di questi presupposti, STUDIO© utilizza lo strumento editoriale cartaceo, momento conclusivo della sua ricerca, per riunire contributi provenienti da un panorama internazionale di professionisti, periti in tematiche specifiche, artisti, dottorandi e altre personalità del mondo accademico, e più in generale urban practicioners che hanno esperienze significative nei campi dell’architettura e dell’urbanistica. In questo senso, allo scopo di riunire virtualmente voci più o meno dissidenti e altisonanti del panorama culturale, STUDIO Architecture and Urbanism magazine definisce in sede di riunioni di redazione, specifici temi monografici, con cadenza trimestrale. Questi temi, tra cui si citano i più recenti ILLEGAL, PAUSE, BEYOND e HIDDEN, pretendono rappresentare un indiziale filo conduttore di riflessione tra i contributi che costituiranno i numeri, basando la propria concezione su un confronto diretto con le dinamiche urbane (socioeconomiche, geografiche, ambientali e istituzionali) internazionali più recenti, e gli avvenimenti contingenti che caratterizzano la nuova questione urbana e la città contemporanea. L’organizzazione dei contributi è scandita da momenti cruciali per la costruzione di ogni singolo volume, di cui

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il principale è rappresentato dall’apertura trimestrale di una Call for papers, di matrice simile e complementare al mondo scientifico, che viene diffusa in tutti i canali della rete e tra gli amici, ormai in numero considerevole, di STUDIO©. Alla selezione dei contributi che vengono scelti per ogni monografia, si accompagna poi una complessa ricerca da parte dell’editorial board per lo sviluppo delle altre parti che compongono, in sequenza ritmica e ripetuta in tutti i numeri e per ogni singola uscita, in particolare: la produzione di interviste ad attori privilegiati (condotte dai corrispondenti in Francia, Cina e Portogallo), la traduzione in lingua originale dei contributi stessi, le citazioni e i riferimenti culturali che scandiscono la divisione in macrotematiche, la ricerca di progetti fotografici, la costruzione di un editoriale introduttivo al tema. Sia lo sviluppo out-sourcing attraverso la selezione dei contributi, che in-house della manifattura di ogni numero, è perseguito secondo una particolare porosità alle questioni trattate, lasciando la più alta libertà di espressione formale, ma mantenendo i contenuti in linea con la specifica tematica nella prospettiva di contribuire con innovazione ed imparzialità al dibattito culturale. Il mondo di STUDIO Architecture and Urbanism magazine è infine completato dalla ricerca di collegamenti nazionali e internazionali, come le istituzioni culturali che supportano l’iniziativa e le reti di editoria indipendente come Archizines, nella continua ricerca di dialogo con chi tenta di mantenere viva la passione e l’interesse sociale per il mondo dell’editoria indipendente. Per questa ragione, oltre ad essere materialmente presente in un circuito internazionale (Biblioteche universitarie, mostre, eventi dedicati, librerie del mercato privato, accademico e indipendente), STUDIO© si occupa anche della partecipazione e dell’organizzazione di seminari e convegni come punto di contatto reale che traduca le idee e le posizioni emerse dalla sua ricerca. STUDIO Architecture and Urbanism magazine costruisce, produce, riunisce e formalizza idee e concetti per il futuro delle città, organizzando incontri a Milano, Genova, Lisbona, partecipando a reti di editoria indipendente a Berlino, New York, Osaka, Tokyo, Helsinki, Santiago de Chile, Los Angeles, Melbourne. Collaborando con università a Lisbona, Bratislava, Venezia, Roma; partecipando a festival a Istanbul, Hong Kong; infine, ottenendo l’appoggio istituzionale di fondazioni filologiche e di ordini professionali. STUDIO Architecture and Urbanism magazine riunisce quindi prospettive visionarie, proposte progettuali concrete, resoconti in prima persona di esperienze vissute, dentro e per l’urbano, rendendo umane le parole e riflessive le realtà urbane immaginate e praticate.

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Riflessioni di un post-editore 120g Disambiguazione: colui che pubblica post / colui che giunge dopo l’editore. Il panorama comunicativo odierno dell’architettura vive una fase che potrebbe essere definita di transizione o di evoluzione, la stessa che caratterizza tutte le espressioni della cultura che stanno rinnovando i propri linguaggi, cercando di mantenersi al passo nel vortice della mutevolezza della contemporaneità. Tra tutte le forme di comunicazione che interessano l’architettura, vogliamo interrogarci sulle tipologie di pubblicazione, in particolare sul settore individuabile come editoria. Quando si parla di editoria di architettura si pensa subito alle sue più note forme cartacee: i meccanismi tradizionali di diffusione dell’informazione affermati nel novecento, dalla trattatistica antica ai volumi monografici passando per le riviste periodiche. Anche se questi hanno certamente contribuito a delineare un settore di grande rilevanza culturale, oggi vanno perdendo di efficacia di fronte alla nube indomabile dei nuovi strumenti comunicativi digitali. Il web è capace di attirare l’attenzione dei lettori, proponendosi come una massa frammentata di voci che avvolge, facendoli propri, sempre più ambiti disciplinari nel settore dell’architettura. In questo modo il tema è divenuto di notevole interesse non solo per chi si occupa di architettura, ma anche per coloro che la vivono marginalmente o ne hanno un’esperienza indiretta. Secondo le stesse ragioni, nel corso degli ultimi decenni sono stati coinvolti nel settore editoriale

sempre più professionisti nativi di altri ambiti disciplinari, tra i quali il web marketing e la scienza delle comunicazioni, ai quali non solo si sta chiedendo di gestire il moto comunicativo dell’architettura, ma di fornirne i contenuti e fornire contenuti critici. Questo ha portato, talvolta, ad operazioni di marketing digitale attraverso sensazionalismi e spettacolarizzazione. La rivoluzione digitale ha compresso il mondo nel palmo di una mano, portando a superare il concetto geografico di distanza: ancor prima che il progetto culturale di uno specifico luogo riesca a costruirsi un’identità, compiuta in sé, e codificarsi attraverso delle pubblicazioni, gli elementi costitutivi di questa identità vengono già analizzati, destrutturati e reinterpretati in un qualsiasi altro luogo del mondo, assumendo nuovi significati. Inoltre nell’ingrigirsi dell’impianto culturale che sottende una pubblicazione tradizionale, in concomitanza al declino di popolarità sociale dell’architettura, avanza la trappola del fenomeno della semplificazione, ovvero il processo di banalizzazione da cui la società contemporanea, priva di strumenti per leggere la complessità, è afflitta. Gran parte dell’editoria indipendente nasce anche con l’obiettivo di distinguersi in questo panorama, dando spazio ad una condivisione su diversi livelli comunicativi di un contenuto con caratteristiche più originali e ricercate, indirizzate verso le più ampie modalità di sperimentazione. Libera da sovrastrutture legate al marketing

ed ai processi di pubblicazione su grande scala, l’editoria indipendente gode di una posizione privilegiata per la diffusione di contenuti di alto spessore, mantenendo forte organicità e compattezza. Per comprendere le trasformazioni nel mondo delle pubblicazioni di architettura è necessario distinguere due filoni preponderanti, in funzione della loro finalità. Da una parte si ha la produzione di contenuti a scopo di ricerca, che comprendono i trattati teorici, i volumi monografici, gli articoli di critica, i saggi scientifici riguardanti temi specifici. La funzione, in questo caso, è specificamente quella di approfondire, di esortare dibattiti, produrre innovazione culturale: si tratta di contenuti di nicchia, destinati prevalentemente agli studiosi e ai teorici. Dall’altra parte si ha la pubblicazione a scopo genericamente divulgativo, che mira ad una ampia diffusione di una massa di contenuti e come tale segue le logiche dei media. Le riviste periodiche tradizionali si inseriscono in quest’ultimo campo: nate come strumento primario per la comunicazione dell’architettura nel mondo, hanno permesso la costruzione delle biblioteche e delle librerie dei professionisti, costituendosi quindi come un naturale archivio di progetti. Questo ruolo di archivio è un veicolo di grande rilevanza nella fruizione dell’oggetto comunicativo e ci richiama ad una riflessione ulteriore che ruota attorno alla genesi dell’attività progettuale, in bilico tra pratica professionale e metodi di insegnamento dell’architettura.

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Si può osservare che la diffusione a macchia d’olio di siti che pubblicano le immagini e i disegni di progetti, più o meno selezionati, più o meno categorizzati, ha svuotato la necessità di essere informati sulle ultime opere di noti autori attraverso il format tradizionale della rassegna di progetti. Molte riviste infatti arrivano a pubblicare con mesi e mesi di ritardo dei contenuti che sul web sono stati già diffusi, abusati e archiviati. Lo stesso web si configura dunque come un enorme database disorganizzato e dispersivo di materiale non scelto, indicativamente generico, ma facilmente consultabile. La quantità di contenuti, spesso, si pone come strumento legittimante della qualità degli stessi: sia in senso scientifico, in quanto validazione empirica della reiterazione, sia in senso di politica comunicativa, poiché la pubblicazione costante di materiale è interpretata come presenza autorevole. Si noti quindi come la comunicazione contemporanea dell’architettura, precedentemente affidata un un sistema aggregato di immagini+disegni+testo, adesso, per una compressione dei sistemi ricettivi, è affidata quasi esclusivamente alla lettura della fotografia, leggera, immediata, semplice. Rispetto a questa mutazione media svolgono un ruolo i ambivalente: da un lato permettono la diffusione delle informazioni su larga scala, dall’altro non hanno sufficiente sensibilità critica e pertanto propongono, con la stessa

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modalità, immagini con contenuti di valore diverso. Questa carenza di discernimento determina due fenomeni distinti, la disinformazione e la sovrainformazione: “Getting information off the Internet is like taking a drink from a fire hydrant”, scriveva Mitchell Kapor. Ci si accorgere che si procede nella direzione in cui la rappresentazione dell’architettura, o una sua spettacolarizzazione racchiusa nell’immagine di un personaggio, va sostituendosi all’architettura costruita, verso la perdita della capacità di distinguere l’informazione dall’esperienza. La dimensione dell’esperienza, multiprospettica, multisensoriale, tridimensionale, è ridotta alla sola informazione dell’immagine, monoprospettica e bidimensionale. La necessità che si percepisce è quella di saper far evolvere la comunicazione critica dell’architettura verso dei fruitori che adottano sempre con più regolarità nuovi strumenti per tenersi informati, lavorare e pubblicizzarsi. Mentre in passato si aveva a che fare con contenuti statici, che fornivano informazioni che sarebbero mutate in tempi molto lunghi, oggi il lettore viene invaso da un fiume di contenuti dinamici e mutevoli che non riesce ad assorbire se non attraverso il filtro dell’editore. Il bisogno che ne deriva, consapevole o meno, è quello di possedere una bussola che permetta al fruitore di orientarsi nel labirinto dei contenuti pubblicati online, poter vedere una strada nel flusso di affinità e di contrasti, narrata con efficacia, che permetta di riflettere trasversalmente

su temi specifici. Per non venire sopraffatti dal getto di questo “idrante” è necessario disporre di uno strumento di apprendimento e discussione capace di imporre la propria autorevolezza. La qualità dei contenuti ha subito un significativo impoverimento dovuto non solo all’adattamento al generale meccanismo di trasmissione delle informazioni nel web ma anche alla progressiva perdita di interesse verso le questioni teoriche a favore di un aumento di interesse del vasto pubblico nei confronti dell’architettura come spettacolarizzazione dell’immagine. E’ necessaria perciò una responsabilizzazione nei confronti dei contenuti da produrre, che devono puntare a tematiche specifiche a fronte alla grande disponibilità di contenuti generici. Dall’altra parte si ha l’esigenza di proporre una quantità di contenuto che sia capace di costruire una visione collettiva della tematica ma anche un archivio di materiale utile a fini professionali e di ricerca. “Print or digital? Wrong question. There isn’t an either or, they belong together” (Sophie Lovell). Per anni abbiamo assistito a visioni utopiche o distopiche della sfida “cartaceo vs digitale”, in realtà i cambiamenti nei processi di informazione e pubblicazione hanno portato ad una simbiosi dei due formati, rendendo il confine sempre più labile. Si parla di prodotto ibrido sia nella forma sia nel contenuto: il testo come strumento privilegiato per descrizioni accurate e approfondimenti, l’immagine come strumento per la comunicazione


immediata dell’informazione. Il cartaceo come supporto per la riflessione, il digitale come supporto per l’archiviazione. Due strumenti che si legittimano a vicenda, uniti dalla stessa riflessione che da una parte è raccontata, dall’altra è palesata. La pubblicazione cartacea può sopravvivere, e lo farà. Ciò che verrà archiviato a breve è sicuramente il format obsoleto della rivista come rassegna di progetti, data l’ampia e abusata diffusione delle piattaforme online. Nello sgretolarsi della classificazione tradizionale delle pubblicazioni di architettura, l’editoria indipendente dovrebbe saper cogliere le necessità nuove che questa fase di transizione comporta e avere la capacità di ideare nuovi format per continuare a veicolare i contenuti di spessore, anche affidandosi a nuovi sistemi per economizzare il servizio, che esso sia d’informazione o di ricerca. La necessità di ottenere le informazioni attraverso l’operazione quotidiana di scorrimento del dito su uno schermo redistribuisce temporalmente il processo di conoscenza, dalle due ore settimanali dedicate alla lettura di una rivista alla possibilità di frammentare questa conoscenza all’interno della quotidianità, come, ad esempio, una decina di minuti giornaliera. I soggetti che hanno letto questo mutamento di esigenze dei fruitori sono ancora pochi. Tra le realtà editoriali che stanno iniziando ad avere successo abbracciando questa strategia si possono citare quelle che adottano formule comunicative proponenti dosi

giornaliere di riflessioni disciplinari, pillole di informazioni sotto forma di blog o post. Gli editori indipendenti dovrebbero saper opporre una sensibilità critica al vortice inglobante della rivoluzione digitale. Per canalizzare il flusso di materiale decontestualizzato e autonomo presente sul web si auspica la nascita di progetti editoriali dove si concentrino pensieri diversi attorno allo stesso tema, la cui responsabilità consista nel saper dare strumenti per leggere la complessità. Le sperimentazioni dei social network hanno fatto comprendere inoltre come il lettore non sia più solo soggetto ricettivo ma voglia essere partecipe di un contenuto interattivo. Per questo c’è bisogno di una linea editoriale libera e responsabile, che porti ad una comunicazione che coltivi l’inclusione, che si impegni a trasformare gli abbonati in community, i lettori in attori culturali partecipi attivamente allo stesso processo informativo. Il ruolo chiave che l’editoria indipendente può svolgere in questo particolare momento storico è quello di creare dei punti di riferimento all’interno della pioggia di informazioni che ci sovrasta, attorno a cui dar voce ad una visione critica corale, non più tramite un manifesto politico, come nelle riviste storiche di architettura, ma riattivando un dibattito che funga da stimolo per uno sviluppo culturale di ampio respiro. Non singole voci, ma un criticismo intellettuale collettivo in cui tutti sono coinvolti perseguendo la qualità e la chiarezza del contenuto.

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CHI SIAMO 120g è una Associazione Culturale che si propone di promuovere attività culturali interdisciplinari e trasversali tra le arti visive, come la fotografia, il cinema, il teatro, il design industriale, il design grafico, l’illustrazione e l’architettura e ingegneria. È attiva a Pisa con la partecipazione a concorsi di idee, progettazioni di esposizioni museali e scenografie teatrali, l'organizzazione di seminari e workshop, la stesura di articoli e la produzione di materiale multimediale. L’ultimo progetto realizzato in collaborazione con l’Università di Pisa ed il Sistema Museale di Ateneo è stata la progettazione e allestimento della mostra monografica sull’architetto Roberto Mariani, ospitata dal Museo della Grafica di Pisa da ottobre 2016 a gennaio 2017. Attualmente è al lavoro con il Comitato Giovani UNESCO Toscana su un progetto relativo all’educazione nelle scuole secondarie di secondo grado di Pisa, oltreché alla fase iniziale di una mostra internazionale itinerante sugli stabilimenti della Olivetti, e sta preparando la candidatura ai principali Film Festival di architettura di tutto il mondo con il lungometraggio “Tuscanyness”, un documentario sull’architettura toscana. MISSIONE

120g

Dal primo anno che ci siamo conosciuti, ci siamo rincorsi e ritrovati tante di quelle volte che non riusciamo più a contarle. Ci siamo confrontati, abbiamo studiato insieme, lavorato di notte e dormito di giorno, costruito modellini e stracciato tavole. Siamo un gruppo di studenti e neo-laureati, per metà Ingegneri e per metà Architetti all’Università di Pisa. E 120g è il risultato dei nostri percorsi e la partenza per un nuovo tragitto comune. Abbiamo deciso di creare un gruppo il cui scopo è incanalare in maniera costruttiva le passioni e gli stimoli che riceviamo, o che decidiamo di cercare, in modo da tendere al massimo risultato per ogni nostra prova. centoventigrammi.it è la nostra interfaccia virtuale col mondo, aperto a chiunque voglia partecipare e non accontentarsi a ciò che viene servito in tavola, una proposta di condivisione di successi e fallimenti, di progetti e di desideri nello sfrenato tentativo di un accrescimento che non sia solo nostro, ma collettivo. È fondamentale che 120g sia di tutti. Che tutti lo assaporino e lo facciano proprio e che ciascuno lasci di sé quel che può, quel che vuole, quel che riesce. Ne emerge un puro bacino di idee, un salotto comune, una bacheca utile a chiunque, leggera a chi interessa un assaggio, appassionante per chi ha tempo da dedicarle. Rincorriamo ogni opportunità come fosse il più importante passo della nostra crescita: concorsi di architettura, per non dimenticare che è la nostra mano a parlare; articoli, critiche, opinioni, recensioni, perché tutto deve essere capito, interiorizzato ed espresso; viaggi, perché l’architettura non è solo sui banchi delle aule universitarie; salotti, conferenze, lezioni, perché come noi tutti vogliono, devono e possono migliorare.

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IL SITO: TRA ARTICOLI E PILLOLE Sin da subito abbiamo sentito l’esigenza di creare una piattaforma di scambio creativo, in cui tutti fossero invitati a partecipare. Il nostro sito web centoventigrammi.it è cresciuto insieme a noi, in esso si trovano tutti testi ad oggi pubblicati, ci appoggiamo inoltre alla piattaforma internazionale Medium, della quale siamo la prima pubblicazione in italiano che parla di architettura. Cerchiamo di essere presenti anche sui social media (Facebook, Behance, Instagram) che ci permettono di avere un rapporto più diretto con le persone che ci seguono e di avere da esse un feedback costante che ci spinge sempre a migliorarci. DOSSIER 01: LACUNA La scelta del tema per la prima rivista di 120g è figlia di un lungo confronto tra i membri dell’associazione. Con sensibilità verso i terribili eventi sismici che hanno scosso l’italia centrale recentemente e in concomitanza con la ricorrenza del quindicesimo anno dall’attentato alle Twin Towers di New York, abbiamo deciso di affrontare un tema che trattasse trasversalmente questi episodi, la “lacuna”. Proprio di questi vuoti vuole parlare questa rivista, affrontando la lacuna in tre casi studio differenti — Gibellina, Ground Zero e la Basilica di Siponto — analizzando come il rapporto con il vuoto e la mancanza giochino un ruolo chiave nel patrimonio culturale ed emotivo collettivo. Per il progetto editoriale abbiamo avuto un dato di partenza vincolante: i fondi ricevuti dall’Università di Pisa per la stampa di una pubblicazione rivolta agli studenti. Abbiamo quindi cercato di mantenere i contenuti chiari e comprensibili a tutti accompagnando anche il testo con immagini per le quali ci siamo serviti della collaborazione con artisti. Vasco Mourão ci ha fornito le meravigliose immagini dei suoi disegni (#158, #159, #164) e Paolo Pettigiani le sue fotografie inedite di Ground Zero. Per il progetto grafico abbiamo mantenuto una struttura semplice, una griglia 6x6 su un foglio 25x30 per ottimizzare l’utilzzo della carta che aveva un formato di 100x70. Il tutto è stato riprodotto dalla tipografia Bandecchi e Vivaldi, sulla meravigliosa carta Old Mill (130 g/m2) di Fedrigoni, con metodo di stampa offset.

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Journal Illustratif is a self published magazine, launched in 2010 by Bart Van Overberghe ( Service Illustratif ) to create a series of visual and tactile narratives about the urban environment. The succession of images reflects the idea of time, motion and passage, elements that are also part of the ‘architectural’ experience. Journal Illustratif No. 0,5, City/Trip This issue, entitled City/Trip, references Google Streetview and its endless flow of images: a story without a beginning or an end.

JOURNAL ILLUSTRATIF

Journal Illustratif No. A, Périphéerique In No.A, entitled Périphéerique, the outskirts, ringways and industrial zones of the city provoke a kind of visual or ‘peripheral’ poetry. Journal Illustratif No. 0 Issue no. 0 is a graphic short story, or an attempt to ‘illustrate’ possible links between real existing places and unreal, imagined spaces. Starting point was an architectural site in Brussels, a curious combination of buildings serving as a boarding school. Journal Illustratif participated in various festivals and exhibitions: 2010 – 2015 Archizines Worldtour, 34 cities 2015 Clip, Stamp, Upload, Genua 2012, Offprint, Amsterdam 2011 Artist Print, Brussels 2011 Zinesmate, Tokyo 2010 Ok festival, Arnhem 2010 Fanzines, London 2010 Thanks for Sharing, Leipzig 2010 Dezines, Madrid New website ( from april 2016) : www.bartvanoverberghe.com

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Fanzine: fare controarchitettura Emanuele Piccardo Le fanzine nascono negli anni venti del Novecento in America e sono redatte da fans di letteratura, fumetto o musica, sono autoprodotte con pochi denari attraverso una grafica particolare, una tiratura limitata e una stampa di bassa qualità. Nascono per dibattere e portare in evidenza autori poco noti, nuovi linguaggi nei diversi ambiti disciplinari. All’inizio degli anni sessanta si formano molti gruppi di intellettuali, scrittori, poeti, architetti, filosofi e ognuno di essi per diffondere il proprio pensiero lo fa con una fanzine. E’ un fenomeno che dall’America genera un contagio europeo, in particolare a Londra, Parigi, e in Italia Genova, Padova, Milano solo per citare alcuni dei luoghi dove nacquero le più importanti fanzine. “Nel 1961 un piccolo gruppo di architetti frustrati – si legge nel sito web degli Archigram – hanno messo insieme un selvaggio e confuso giornale. Un Archigram (come opposto a telegraph o aerogramme)”. Questo dimostra come la fanzine sia espressione di una necessità di comunicare un progetto teorico. Le fanzine Archigram sono debitrici alla grafica dei fumetti, in particolare quella di fantascienza, soprattutto nella scelta delle copertine dove campeggiano i supereroi. Si instaura così a partire dal 1961 un nuovo fenomeno: comunicare per slogan con fumetti, parole e disegni in chiave pop. Non è un caso che la Pop Art sia stata inventata dagli inglesi, non dagli americani, quando nel 1956 l’architetto Theo Crosby, direttore tecnico di Architectural Design, e l’Independent Group organizzano

la mostra This is tomorrow alla Whitechapel Gallery. Strutturata in 12 sezioni curate da 12 gruppi di artisti, architetti, fotografi vede tra i partecipanti gli artisti Richard Hamilton, Edoardo Paolozzi, Emilio Scanavino, gli architetti James Stirling, Alison e Peter Smithson, Colin St John Wilson, Erno Goldfinger, il fotografo Nigel Henderson e il critico Lawrence Alloway. Londra diventa così il centro della sperimentazione nell’architettura, nella musica e nelle arti visive grazie a intellettuali come Alloway e il critico di architettura Peter Reyner Banham. L’atteggiamento della Pop Art inglese viene esplicitato da Alloway: “Non sentivamo affatto quel senso di repulsione per la cultura commerciale che era la regola per la maggior parte degli intellettuali ma l’accettavamo, ne discutevamo i dettagli e la consumavamo con entusiasmo”.1

1. P.Navone, B.Orlandoni, Architettura

Invece in Italia Pop: appunti per una definizione, in la Pop Art, Architettura Radicale,Documenti di Casabella, Milano 1974, p.40 dopo la sua apparizione alla Biennale di Venezia del 1964, venne osteggiata da un contesto ideologizzato soprattutto tra gli artisti. A Firenze Archizoom e Superstudio hanno surfato fin da subito sull’onda pop, cavalcandola per molti anni per poi rendersi conto che il sistema paese non li supportava in termini di musei e istituzioni culturali come invece accadeva in America e si sono orientati, con esiti ambigui, nella progettazione di architettura soprattutto per Adolfo Natalini e Cristiano Toraldo di Superstudio, rispetto alle fortune di Branzi nel campo del design. La

profonda differenza con il mondo anglosassone è evidente nel rapporto tra la cultura politica. l’attivismo degli artisti e degli intellettuali italiani che ha generato prese di posizione molte nette, radicali, che sono state introiettate nelle fanzine. In questo contesto Genova è protagonista con la fondazione nel 1963 della rivista Marcatre’, rivista del gruppo letterario ‘632. Ma nonostante sia affiliata al gruppo letterario, che include E d o a r d o 2. Marcatre’ viene fondata a S a n g u i n e t i , Genova nel 1963 dallo storico Eugenio Battisti che U m b e r t o dell’arte trova nel poeta visivo Rodolfo Eco, Renato Vitone il futuro editore per i numeri, poi sostituito Barilli, Angelo primi dalla romana Lerici Editore. Guglielmi, Nanni Balestrini, Lamberto Pignotti, non tratterà solo la poesia e la letteratura ma, seguendo la teoria dell’Opera Aperta di Eco pubblicata nel 1962, anche le discipline della musica e dell’architettura di avanguardia. Marcatre’ si impone, rispetto ad altre riviste alternative come Re Nudo o Il Verri, per la sua grafica, la stampa monocromatica delle copertine, i caratteri cubitali grazie al progetto grafico di Giulio Confalonieri insieme all’impaginazione interna, suddivisa in colonne di testo, curata da Magdalo Mussio. La rivista discute di temi legati alle avanguardie storiche ma soprattutto delle ricerche nelle arti visive: musica, arte, architettura. Il contributo di Eco sarà fondamentale per lo sviluppo 3. “UFO (Unidentify flying object) viene fondato nel 1967 teorico di da Carlo Bachi, Lapo Binazzi gruppi di Patrizia Cammeo, Riccardo Foresi, Sandro Gioli e Titti Maschia r c h i t e t t i etto” tratto da E.Piccardo, radicali come UFO. Sperimentare la parodia nello spazio pubblico, in UFO a story. Dall’architettura radicale UFO3, al design globale, Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci, Prato 2012, p.17

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partire dal suo testo Proposte per una semiologia dell’architettura, pubblicato su Marcatre’ nel 1967; saggio diffuso all’interno del corso di Decorazione che Umberto Eco ha tenuto dal 1966 al 1969 alla Facoltà di Architettura di Firenze. Gli UFO sono gli interpreti dell’architettura semiologica, fatta di segni, distinguendo il significante dal significato, il paradigma dal sintagma nell’occupazione dello spazio pubblico, la piazza, attraverso gli Urboeffimeri. Gonfiabili di grandi dimensioni che, portati in piazza durante i cortei studenteschi, veicolano messaggi politici “Colgate con vietcong” per condividere il no alla guerra in Vietnam insieme alle masse giovanili americane. Marcatre’ non è attenta solo alla neo-avanguardia architettonica, nota come Superarchitettura, ma anche alle sperimentazioni musicali ospitando il compositore Giuseppe Chiari, unico italiano appartenente a Fluxus. Questa attitudine alla sperimentazione nei diversi campi disciplinari è tipica del periodo e non avrà più eguali. Oggi, infatti, non si riscontra nella corrente produzione di riviste una così forte attenzione alle sperimentazioni dei linguaggi. Quando nel 2010 Beatriz Colomina studia il fenomeno delle fanzine nella ricerca “Clip Stamp Fold” le analizza in una dimensione internazionale, inglobando anche riviste accademiche che non possono essere considerate riviste della controcultura. Un errore storiografico per tenere insieme tutto senza una precisa scelta teorica. Il fatto più evidente riguarda Casabella

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certamente impostata come una fanzine dal direttore Alessandro Mendini, ma fin dalla sua fondazione considerata la rivista della borghesia architettonica milanese. Nonostante Mendini dal ‘70 al ‘76 abbia dato spazio alla Superarchitettura e alla sperimentazione nelle arti visive non ha raggiunto i livelli editoriali, anche in termini di rappresentazione grafica dei contenuti, di Marcatre’. Proprio la grafica definisce il grado accademico o meno di una rivista. Fare controcultura attraverso la rivista significa non avere pubblicità commerciale ma introiettarla nel linguaggio grafico della rivista che la rende riconoscibile evitando ambiguità. Invece fin dall’inizio riviste come Casabella e Domus veicolano pubblicità di aziende con grafica ed immagini spesso in contraddizione con il linguaggio grafico della rivista. Un altro aspetto importante è il ritmo all’interno dell’impaginato, spesso le fanzine hanno pagine monocromatiche per staccare i diversi argomenti, anche usando segni grafici che non si ritrovano nelle riviste tradizionali. In questo senso la fanzine 4. La fanzine nasce tra il giugno e Room East l’agosto del 1962 durante il ricovero 4 di Ettore Sottsass jr all’ospedale di 128 Chronicle Palo Alto, in California, dove l’aveva che realizzano mandato Roberto Olivetti per curarsi Ettore Sottsass della malattia che lo aveva colpito. Fu una idea della moglie Pivano di jr con la moglie, scrivere un diario agli amici. la traduttrice e scrittrice genovese Fernanda Pivano, è paradigmatica per la scelta di usare disegni monocromi neri, collage di fumetti e slogan contrapposti “Ci sono mari” “Ci sono montagne”. Non è un caso che in Beat Hippie Yippie, la Pivano racconti il progresso

della società americana attraverso la nascita di un movimento che contesta l’accademia creando un sistema alternativo di editoria che ha il suo epicentro nella libreria City Lights, fondata a San Francisco dal poeta di origini italiane Lawrence Ferlinghetti. “ I filoni di questa stampa Underground – scrive Pivano – sono quello della Nuova Sinistra e quello dell’Attivismo Non Violento. Il sesso é trascurato come deviazionistico dal primo filone e ha invece largo posto nel secondo, che lo tratta come parte integrante della realtà biologica e certo con meno compiacenza, con meno pornografia, di quanta venga usata dalla stampa dell’Establishment per descrivere guerre e massacri”.5 Proprio la l i b e r a z i o n e 5. F.Pivano, Beat Hippie Yippie. sessuale è Dall’Underground alla ControArcana Editrice, Milano i m p o r t a n t e cultura, 1972, p.117 n e l l a iconografia delle fanzine e anche nell’uso dei gonfiabili che ne fanno gli austriaci Haus Rucker-Co, contro la società bigotta e bacchettona degli anni sessanta. Il ritorno in Italia di Sottsass è sottolineato nel 1968 dalla nuova fanzine Pianeta Fresco, più strutturata di East128, con una grafica meno improvvisata, non è più composta da collage bensì da sovrapposizioni di figure e disegni in cui predominano pagine monocromatiche. La fanzine guarda ancora alla cultura americana, soprattutto quella Beat, ospitando articoli tratti dal San Francisco Chronicle ed evidenziando l’atteggiamento pacifista espresso da Allen Ginsberg. L’ideologizzazione fortemente


politica delle fanzine non è solo gli Utopie saranno tra i principali italiana, accade lo stesso a Parigi protagonisti insieme a Paolo Soleri, con il gruppo Utopie6 e l’omonima Archigram, Archizoom, Architecture fanzine, ispirati 6. Il gruppo Utopie viene fondato nel Principe, Yona Friedman. Ancora dal filosofo 1967 a Parigi da Jean Baudrillard, una volta é Marcatre’ che supporta Aubert, Isabelle Auricoste, Henry Lefebvre Jean Catherine Cot, Jean Paul Jungmann, questa iniziativa pubblicando nel che teorizzava René Lorau, Antoine Stinco, Hubert numero sestuplo 50-55 del 1969 gli Per approfondire C.Buckley, il diritto alla Tonka. interventi dei relatori, i disegni delle J.L.Violeau (a cura), Utopie. Texts and città. Il gruppo projects 1967-1978, Semiotext(e), Los utopie soleriane, i fumetti di Utopie, la si preoccupa Angeles 2011 Living City di Archigram, l’Architecture di comprendere come il potere si Mobile di Friedman, il Teatro Privato relazioni con nuovi spazi e nuovi del Potere degli Archizoom. media ma ugualmente con l’effimero Nel corso degli anni settanta Ugo come dimostra l’esposizione La Pietra fonda la rivista bimestrale S t r u c t u r e 7. La mostra esplora le potenzialità In (1971-1973) e quella trimestrale In più (1973-1975) il cui obiettivo è Gonflables7 al dei gonfiabili: gommoni, zattere, poltrone, capsule, salvagenti, dirigibili. Musée d’Art Il gonfiabile negli anni sessanta viene mostrare le ricerche sperimentali Moderne di usato come unità abitativa alternativo della controcultura sociale, culturale alla casa. Nella mostra vengono Parigi nel esposte anche le strutture gonfiabili di e politica, affrontandole da un punto marzo del Aerolande il gruppo fondato da alcuni di vista tematico e multidisciplinare; membri di Utopie: J.P.Jungmann, 1968. Di fatto J.Aubert. A.Stinco, attivo dal 1967 sarà l’ultima esperienza degna di la rivista Utopie al 1976. nota. Recentemente il critico di sarà l’unica architettura e curatore inglese Elais fanzine in Francia che si occupa delle Redstone ha elaborato dal 2011 questioni urbane con una visione al 2015 l’esposizione itinerante marxista ed il gruppo di intellettuali Archizines, mostrando le riviste che l’ha fondata, soprattutto gli indipendenti a livello internazionale, architetti, sono equiparati ai radicali dai semplici folder a riviste/fanzine italiani. Diverso è il discorso per non aventi un editore commerciale. la rivista Architecture Principe, Questa ricerca ha confrontato riviste seppur indipendente, fondata da più strutturate teoricamente come Claude Parent, Paul Virilio con la Criticat, San Rocco, archphoto2.0, partecipazione del pittore Michel Volume, con riviste fatte da studenti Carrade e dello scultore Morice Lipsi, universitari come Plat, Dédalo, pubblicata in nove numeri da febbraio Horizonte, esposte in una serie di a dicembre 1966, ma già strutturata mostre in gallerie d’arte, musei, graficamente come una rivista di dall’America all’Australia. Ciò dimostra architettura. Quando nel 1969 Pietro una urgenza nel comunicare, Derossi, architetto torinese attivo attraverso la carta, nuove idee come assistente al Politecnico di e critiche all’interno del dibattito Torino, organizza insieme ad un contemporaneo come avviene in gruppo di altri assistenti, tra cui ambito italiano con le recenti fanzine spicca Aimaro Oreglia d’Isola, il Burrasca e Fosbury Architecture.vista convegno Utopia e/o Rivoluzione, tematico e multidisciplinare; sarà

l’ultima esperienza degna di nota. Recentemente il critico di architettura e curatore inglese Elais Redstone ha elaborato dal 2011 al 2015 l’esposizione itinerante Archizines, mostrando le riviste indipendenti a livello internazionale, dai semplici folder a riviste/fanzine non aventi un editore commerciale. Questa ricerca ha confrontato riviste più strutturate teoricamente come Criticat, San Rocco, archphoto2.0, Volume, con riviste fatte da studenti universitari come Plat, Dédalo, Horizonte, esposte in una serie di mostre in gallerie d’arte, musei, dall’America all’Australia. Ciò dimostra una urgenza nel comunicare, attraverso la carta, nuove idee e critiche all’interno del dibattito contemporaneo come avviene in ambito italiano con le recenti fanzine Burrasca e Fosbury Architecture.

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Pianeta Fresco n. 2-3, 1968

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Archigram 9,1970

Marcatrè n. 41-42, maggio - giugno 1968

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Pianeta Fresco n. 2-3, 1968

Marcatrè n. 41-42, maggio - giugno 1968

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archphoto.it / archphoto 2.0 Burrasca e ICAR65 hanno approfondito con Emanuele Piccardo alcuni aspetti dell’evoluzione delle sue due principali attività editoriali, archphoto e archphoto 2.0, cercando le relazioni con il contesto più generale della comunicazione d’architettura.

Prima di considerare la vostra creatura, sarebbe interessante valutare lo scenario degli anni in cui avete fondato archphoto.it. Qual era il vostro giudizio a riguardo? Le condizioni ambientali sono spesso fondamentali nella determinazione di un certo approccio o di un’impronta tematica. Erano i primi anni duemila e in Italia arch’it, fondata da Marco Brizzi nel 1995, era la prima webzine dedicata all’architettura e collocata sulla piattaforma Dada, oggi non esiste più come non esistono più Channelbeta, Architecture.it, Iperspazio.Antithesi. Le strategie comunicative erano molto varie, ad esempio quest’ultimo caso era improntato alla polemica contro la demagogia in architettura, altri fecero scelte diverse. Archphoto.it è nato dalla necessità di fare una webzine tematica enfatizzando la relazione tra l’architettura e il resto delle arti visive e delle scienze sociali. La maggior parte delle iniziative di allora oggi non viene più aggiornata, anche archphoto nel 2017 ha subito una forte crisi di partecipazione dei suoi affiliati. Oggi la comunicazione dell’architettura si fa attraverso i social network anche se ci sono fenomeni interessanti come Il Giornale dell’architettura che da cartaceo è diventato web con un alto numero di lettori pari a 30.000/ mese. Nei primi anni 2000 tu e Luca Mori concepite e realizzate archphoto.it, una webzine di ricerca sull’architettura, scegliendo una strada innovativa e distante da ogni forma di accademismo. E siete anche stati i primi a pubblicare video di architettura. Come avete sviluppato da un lato l’idea di concentrarsi su una piattaforma digitale, e dall’altro la struttura informatica con cui siete andati online? Come avete affrontato e quali sono state le questioni e le scelte in termini di linguaggio, tarate su questo strumento comunicativo?

Occorre premettere che nel 2002, anno di messa online di archphoto.it, si usava Dreamweaver per la struttura degli articoli e si doveva scrivere il codice del sito, non come accade oggi con wordpress, tramite una semplice interfaccia e facendo poca fatica per postare testi, fotografie e video. Quando noi abbiamo iniziato l’adsl e la fibra non esistevano, il web andava col modem a 56K oppure l’isdn (il sistema veloce) quindi per caricare/scaricare dati si avevano tempi lunghi. Il digitale già al tempo consentiva un risparmio rispetto ad una rivista cartacea. Io collaboravo con arch’it e volevo fare una rivista diversa che prendesse posizione critica sui temi dell’architettura e della città. Ho trovato in Luca Mori il partner ideale per condividere il progetto. Lui é stato il primo webdesigner del sito dal 2002 fino al 2008, realizzando sia la grafica che la struttura informatica. Poi nel 2008 grazie a Miki Fossati l’architettura informatica del sito è migliorata notevolmente, siamo passati ad un’altra piattaforma gestita da Felice Francescangeli/Studio 4 e il sito ha fatto il botto, avevamo 18.000 lettori/mese, non male per una rivista senza pubblicità. Poi nel 2012 Artiva Design hanno ristrutturato graficamente il sito come é visibile nella forma attuale. In termini di linguaggio l’obiettivo era rappresentare in un modo diverso l’architettura con la fotografia, i video e quindi la creazione di ipertesti. Siamo stati i primi in Italia, non solo nelle webzine di architettura, a postare video delle architetture, interviste agli architetti che facevo con una piccola videocamera Sony portatile, montati e postati in due versioni per 56k e isdn, testando i due formati di visualizzazione Real Player e Windows Media Player, scegliendo di volta in volta quello che rendeva meglio da un punto di vista della qualità della visione.

I contatti con il mondo della fotografia sono evidenti fin dal nome, immagino che si tratti in origine di un interesse vostro personale in questa direzione. Tuttavia sarebbe interessante conoscere quelle che secondo voi sono le relazioni tra architettura, fotografia e comunicazione. Il nome, suggerito dall’amico Carlo Alberini, voleva evidenziare la mia particolare specificità di architettofotografo. Fin dall’inizio la nostra intenzione era riflettere

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sulle possibilità fornite dalla fotografia e dal video, quindi dalle immagini statiche e in movimento, nel rappresentare l’architettura. Di fatto senza la fotografia non ci sarebbe stata la storia dell’architettura così come la conosciamo. Basta pensare ai libri di Bruno Zevi composti, in proporzione, più di fotografie che testi. Avete strutturato il progetto come forma di intersezione tra più discipline, con particolare attenzione alle materie sociali. È un contributo laterale nel dibattito sulla famosa “autonomia” dell’architettura? Quali discipline avete individuato come assolutamente necessarie per archphoto. it, e come interpretate il rapporto con i temi che queste fanno emergere? Sicuramente l’attenzione verso l’antropologia urbana con il contributo di Massimo Canevacci e verso la sociologia urbana con la partecipazione al dibattito del sociologo Massimo Ilardi, sono state esperienze importanti per archphoto.it. Questo ha coinciso con la mia residenza a Roma (2003-2006) e la frequentazione del gruppo di intellettuali della rivista Gomorra che mi hanno fatto crescere come uomo ed intellettuale. Nel 2003 nasce plug_in e dal 2004 inizia la serie di evoluzioni vissuta dalla vostra attività: il “laboratorio di architettura e arti multimediali” diventa editore di archphoto e inoltre Alessandro Lanzetta si unisce al team. Si avvia anche l’esperienza dei documentari sull’architettura, un campo che avrebbe sicuramente bisogno di essere valorizzato. L’associazione sembra configurarsi come la mente formale dietro alle molte iniziative che avete promosso. Come vi siete strutturati dal punto organizzativo?

plug_in nasce per diffondere il pensiero contemporaneo attraverso le arti visive. In quel periodo il nostro principale progetto era sui quartieri Ina Casa a Genova. Lavoravamo con estrema difficoltà e con poche risorse per annullare la distanza centro-periferia. I risultati del nostro lavoro sono stati accolti dal curatore Marco

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Scotini che ci ha invitato al Museo d’arte contemporanea Villa Croce a presentare il progetto sul Quartiere Ina Casa Forte Quezzi (il Biscione) di Luigi Carlo Daneri, nella mostra “Empowerment/Cantiere Italia”, durante Genova Capitale Europea della Cultura 2004. I documentari invece iniziano nel 2009 con Lettera22 sulla figura di Adriano Olivetti e sono un’altra parte della nostra attività. Mentre dal 2007 siamo diventati editori dei nostri e di altrui progetti culturali. plug_in ha la forma giuridica dell’associazione ma é una sorta di gruppo di ricerca formato da Alessandro Lanzetta, architetto progettista e fotografo di base a Roma, Luisa Siotto, architetto che vive a Venezia, quindi un dislocamento sul territorio che non aiuta nell’organizzazione dei progetti. Tuttavia siamo riusciti a resistere e nel 2013 abbiamo festeggiato il decennale con una piccola mostra al Museo Villa Croce. Il mezzo digitale rimane la vostra unica forma espressiva (per i testi, al di là di altri tipi di attività) fino al 2011, quando nasce archphoto 2.0, la versione cartacea di archphoto.it. Una scelta del tutto anticiclica, considerando che siete nati come digitali quando in Italia non lo era quasi nessuno, e diventate cartacei quando il mercato cartaceo è in crisi. Ci puoi raccontare questa scelta, questo passaggio? E anche quali sono gli aspetti, le sfide, di questo nuovo capitolo che ritieni più rilevanti. Avere a che fare con la carta cambia parecchio le prospettive e l’impegno… È stata una sfida contro chi parlava a sproposito di web 2.0, noi abbiamo fatto archphoto2.0, un upgrade della webzine. Il taglio era sempre lo stesso, tematico, con la necessità di sperimentare una nuova forma, quella della fanzine che avevo scoperto negli studi sull’architettura radicale italiana. Era interessante proporre una rivista alternativa perché le riviste generaliste tradizionali non esaudivano più le necessità degli architetti, ma gli architetti avevano ancora voglia di discutere. Rispetto ad altre riviste come San Rocco, la nostra competitor più “pericolosa” perché originata dal pensiero di Giorgio Grassi, noi abbiamo coniugato contenuto e grafica, invece San Rocco ha fatto una rivista accademica con la call for paper, modalità che noi non abbiamo mai adottato. Abbiamo deciso di farla in inglese per una


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maggiore diffusione anche se abbiamo dovuto affrontare costi maggiori, abbiamo una distribuzione internazionale e pur essendo una rivista di nicchia il nostro obiettivo é far riflettere su alcune tematiche. Siamo entrati nel progetto Archizines curato dal critico di architettura Elias Redstone che consisteva in una mostra itinerante delle riviste “alternative”, ovvero quelle che non hanno una grande editore alle spalle, autoprodotte e innovative. Ultimamente ci sono state ulteriori novità, ossia la fusione con “Il Giornale dell’Architettura”. Rilancio e implementazione della via digitale quindi. Questo forse è il passaggio che, molto più di altri, nasce da una “difficoltà” piuttosto che da un’idea da applicare. Puoi raccontarci dei momenti di crisi incontrati con archphoto.it e archphoto 2.0 e di come li avete affrontati? Non è stata una vera fusione, bensì una collaborazione sinergica pur mantenendo le nostre individualità, abbiamo fatto uno speciale sulle periferie italiane che abbiamo pubblicato entrambi e che si trasformerà durante Big November a Genova in un convegno nazionale sulle periferie. Certo come dicevo prima quest’anno archphoto.it ha avuto un periodo di crisi dovuto al mio disappunto nel dover trainare sempre il progetto con una scarsa partecipazione della redazione, per vari motivi, in primis gli impegni che quotidianamente ognuno ha, e poi la questione economica che determina le crisi anche delle esperienze più appassionanti e coinvolgenti. Paradossalmente archphoto2.0 non ha avuto crisi, nel 2016 non siamo usciti, e ora è in preparazione il numero “Visionary Thinkers” che uscirà in autunno dove riflettiamo sul concetto di visionario con una serie di contributi multidisciplinari. Dal 2008 la comunicazione dell’architettura si è modificata profondamente e abbiamo perso lettori, in quanto archphoto.it si è sempre più focalizzata sulla critica e sul dibattito contemporaneo, non riscontrando nell’architettura costruita motivazioni sufficienti a fare dei report tematici come all’inizio dell’avventura quando si trattava l’architettura in Europa, Nordamerica, Latinoamerica ecc...Siamo cambiati noi ed il contesto e sinceramente oggi l’architettura è il risultato di una mercificazione dell’architetto i cui esiti sono sempre banali, infatti risulta difficile essere impressionati da una architettura. Così archphoto.it diventerà da oggi in avanti

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un archivio di scritti e pensieri su architetti e ricerche poco note, che é stata un po’ la nostra caratteristica da Soleri agli architetti radicali. Editore indipendente di grande esperienza, su molti fronti differenti. Al di là delle diverse forme comunicative sperimentate ci interessa di più una tua valutazione sui cambiamenti dell’oggetto di questa tua ampia e varia ricerca. Come è cambiata in questi anni l’architettura e come è cambiata la critica di architettura? Ci segnaleresti alcune iniziative/realtà/personaggi che ritieni particolarmente interessanti nel mondo della comunicazione di architettura? La critica dell’architettura in Italia mi sembra in una fase neutra, nessuno prende posizione sui temi del dibattito. Facebook é stato eletto come nuovo spazio pubblico dove vomitare le proprie frustrazioni in cui non si possono fare discorsi seri, chi ci prova non colleziona like. Ma se anziché disquisire di architettura si posta una fotografia di una torta si raccolgono centinaia di like, è una deriva incontrollata. Facebook va usato in modo intelligente come il web, che deve essere un grande archivio di idee ma non sempre si trovano documenti quando si cercano. Credo che il web sia una potenzialità ancora inespressa almeno in Italia. Oggi la tecnologia consente di fare molte più cose nel web, non come negli anni duemila, dove avevi bisogno di un informatico per fare un sito e non era così banale postare un video. L’involuzione della critica di architettura ha determinato che oggi, ma in parte anche ieri, si parla di comunicazione dell’architettura e non di critica. Con la fine delle riviste tradizionali come Domus, Abitare e Casabella che sono sempre più autoreferenziali, il web è l’unica possibilità per fare critica. Chi sono oggi i critici? Tra i collettivi di architetti segnalo i Parasite2.0 e in parte i Fosbury, ma sono “critici” sulla disciplina architettonica in una dimensione teorica, non esercitano critica architettonica. C’è sempre più superficialità nel criticare, piuttosto parlerei di sudditanza e riconoscenza nei confronti di certi architetti per cui si tende a non criticare nessuno perché bisogna essere “buoni” e “amici” di tutti, non si sa mai che possa convenire. Se proprio devo fare dei nomi mi espongo dicendo che lo storico Luca Guido e il critico Davide Tommaso Ferrando sono quelli che, nei diversi ambiti di appartenenza, rappresentano, anche in base all’età, una speranza.


Cut & Paste Milan: Experiments in Postproduction Hardly anything, believe me, is more depressing than going straight to the goal.

Postproduction is an optimistic and unprejudiced practice. From Duchamp, artists have explored its creative implications in a conscious and deliberate way; they have conceived radically innovative forms and meanings from pre-existing objects, rituals and narrations, by imagining new connections among distant and apparently irreconcilable elements; they have focused on the linkages through which the works flow into each other, representing at once a product, a tool and a medium. This aptitude completely overturns any conventional design strategy; it allows us to envision new scenarios beyond our own prejudices and to imagine realities otherwise impossible to render. During the workshop “Cut & Paste Milan: Experiments in Postproduction� (held at Politecnico di Milano from November 12th until November 19th 2016) each student has assembled a fanzine testing these techniques. Questioning the boundaries between originality, conceptual inventiveness and the culture of the copy, they have systematically reshuffled, recombined and hybridised more than 200 photos related to Milan to let emerge a brand new image of the city through these radical operations. This imaginative process does not follow a linear sequence, there is no gradual progression to reality, no realization of a pre-conceived plan, but vertiginous hesitation, tentative moves, mistakes, miscalculated gestures, fundamental meandering as Shoei Shigematsu points out in his interview with Albena Yaneva. This is a risky process which is constantly fed by doubt and uncertainty. It requires students a high level of introspection to be able to quickly interpret the potential opportunities that pop up during these manipulations. Witty attitude, intuition and timing: these are the basic ingredients of the postproductive alchemy. COLOPHON: Cut & Paste Milan: Experiments in Postproduction. Athens Program – November 12th / 19th 2016, Politecnico di Milano by Maria Feller, Enrico Forestieri, Marta Geroldi, Alessandro Rocca participants: Aleksandra Dutkowska, Michalina Dutkowska, Ania Juzak, Anna Semancova, Zuzanna Wodowska

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Ania Juzak

Constructing New Realities

Anna Semancova Alice in Concreteland

Aleksandra Dutkowska Nine Stories

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Zuzanna Wodowska Path of Emotions

Cut & Paste Milano: Experiments in Postproduction Politecnico di Milano, 12-18 November 2016

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Giovanni Chiaramonte Cerchi nella cittĂ di mezzo, Cavalcavia Bussa 2000 2

Path of emotions

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Walking through Milan… . Walking through Milan… … Walking through Milan… -> W-a-l-k-i-n-g- t-h-r-o-u-g-h- M-i-l-a-n… -----> -------Walking through Milan… ! ! ! Walking through Milan… IIIII Walking through Milan… . . . . . . . W a l king through M i l a n . . . … !!! ??????? >>>>>> ……… !!!!!!!! ???????? Walking through Milan… ……………………………………………………………………..

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REM non è il nome di un architetto olandese, di un gruppo musicale o di una fase del sonno, REM e’ un’Archizine stampata in 50 copie numerate a mano e distribuite gratuitamente per posta o di persona REM è una pubblicazione fondata nell’ Aprile del 2014 da MinKyung Han e da Marco Belloni, due studenti di architettura al Politecnico di Milano. REM è un nuovo periodico da collezione, stampato in tiratura limitata e nato in un momento particolare della comunità architettonica. REM è un ring su cui si scontrano le visioni di due architetti alla volta, ogni mese, nel corso dei sei mesi della 14a Mostra Internazionale di Architettura della Biennale di Venezia. Ciascuna delle 5 uscite previste mette in relazione, attraverso una coppia di interviste parallele, il pensiero, il lavoro ed il background di due architetti alla volta con uno dei temi scelti dal curatore Koolhaas per l’edizione 2014 della Biennale “Fundamentals”: gli elementi fondamentali dell’architettura. Non solo: ogni numero raccoglie e confronta le aspirazioni personali, le ansie e gli interessi di ciascun architetto, designer o di chi in generale indaga lo spazio fisico; un accumulo in progress di interviste a personaggi affermati o emergenti. Si potrebbe considerare REM anche come una performance, la rivista non è solo su Koolhaas, ma ha iniziato a pubblicare all’inizio della sua Biennale di Architettura di Venezia, mettendo i piedi saldamente a fianco ad altre mostre satelliti che si svolgono durante la Biennale. Gli editori, i grafici, i direttori e i redattori degli articoli sono anche i fondatori e gli ideatori del magazine: intervistano, impaginano, stampano, piegano e distribuiscono le 50 copie, senza ricevere alcun compenso, regalando REM o scambiandolo con analoghe pubblicazioni.

REM

REM e’ anche un sito, un blog dove è possibile leggere una versione estesa di ciascuna intervista apparsa nella versione cartacea.

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Enrico Forestieri , Matteo Pace

Yago Conde - Arch of Indeterminacy p131

Little Questions 106


Assistiamo ormai da un decennio alla proliferazione di riviste indipendenti (little magazine) di architettura: un rinnovato interesse e una vitalità in decisa controtendenza rispetto allo stato comatoso del settore della costruzione. Un’attitudine maggiormente speculativa e riflessiva è tratto comune alle fasi recessive, come quelle attraversate negli anni Sessanta e Settanta1. Ma questa pre-condizione, da sola, non basta a far luce sull’improvviso revival dei little magazine architettonici. Il vigore di questa ripresa è anche legato a due importanti operazioni culturali di diversa rilevanza critica che, in modo distinto, sono riuscite a riaccendere i riflettori su fanzine e pubblicazioni radicali: Clip, Stamp, Fold: the Radical Architecture of Little Magazines 196X to 197X, promosso da Beatriz Colomina e Craig Buckley, e Archizines, ideato da Elias Redstone. Il primo documenta e sistematizza il vasto ed eterogeneo panorama dell’editoria radicale tra gli anni Sessanta e Settanta. Evidenzia le influenze reciproche tra le diverse esperienze e propone acute chiavi interpretative di un fenomeno storico tanto eterogeneo e sfuggente. Questa ricerca, nata in ambito accademico (Princeton University), è stata ampiamente promossa a scala globale2 attraverso una serie di mostre e dibattiti (2006-2007) poi confluiti nel libro omonimo (2010)3. Elias Redstone intercetta questo fermento e nel 2011 propone con Archizines un archivio on line dei little magazine cartacei contemporanei; offre a tutti i selezionati la

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“consacrazione” archivistica in presa diretta e allo stesso tempo la pagina web funge da volano alle mostre itineranti realizzate negli anni successivi4. Ma in cosa differiscono le pubblicazioni odierne dalle precedenti esperienze? Hanno ancora la stessa rilevanza? I little magazine degli anni ‘60 e ‘70 fioriscono in un milieu di dura contestazione delle posizioni accademiche5 più conservatrici da parte di una variegata generazione creativa che guardava al futuro con fiducia e ottimismo6. Decisive semplificazioni del processo di stampa permettono alle fanzine di diventare il medium più economico, efficace e impattante per la divulgazione in tempo reale della propria agenda di priorità7: il little magazine stesso costituisce il supporto per la veicolazione integrale dei contenuti. Oggi qualsiasi operazione editoriale è più sofisticata, ramificata su diversi media e questi si fanno carico di amplificare e riverberare i frammenti di contenuto generati nelle diverse piattaforme. Nel contesto odierno, scegliere di stampare la propria rivista è una scelta deliberata, probabilmente neanche la più “efficace” dal punto di vista comunicativo, ma proprio per questo è un’azione dotata di alto valore simbolico perché inscrive il proprio progetto editoriale in un orizzonte trans-generazionale. Se il ‘68 ha aperto le prime crepe nel sistema di certezze su cui tutta la storia precedente si era retta e ha contribuito con la sua contestazione


dialettica al processo di sfaldamento società moderna (conclusosi con il crollo del muro di Berlino e la caduta dei paesi de socialismo reale)8, la generazione contemporanea, abbandonata ogni pretesa di rifondazione creativa totalizzante, si prodiga invece a tessere e rafforzare reti9 piuttosto che recidere connessioni. Per i nativi digitali, la ripresa del supporto cartaceo costituisce perciò una banda di ridondanza per comunicare con i loro predecessori, un territorio d’intesa sul quale impostare un discorso; il ricorso alle interviste dei “grandi saggi”, così frequente nelle riviste odierne, è funzionale al dialogo trans-generazionale e alla definizione transitoria di una propria identità editoriale ampiamente negoziata allo stesso tempo con i “padri” e con le volubili comunità social contemporanee. Gli editori contemporanei sono poco interessati all’originalità dei contenuti, e tendono a programmare e assemblare quelli già reperibili nel bazar delle idee di ogni epoca10; sono dei semionauti che inventano nuove prospettive, cornici destabilizzanti attraverso cui riconsiderare un fenomeno specifico, e immaginano nuovi itinerari culturali tra segni e idee esistenti11. Se spesso l’ansia di generare costantemente qualcosa di innovativo e diverso porta soltanto a una pallida ripetizione12 di esperienze previe, nei casi più radicali e felici di sperimentazione rinveniamo alcuni aspetti di estremo interesse. Ad esempio, testo e immagine non sono più elementi

significanti autonomi o tutt’al più pensati uno a corredo dell’altra13, ma sono sempre più inestricabilmente legati e tendono ormai a “sfumare” l’uno nell’altra; oggi i testi possono essere indifferentemente letti come sequenza “stabile” di parole e significati o guardati come immagine, un arcipelago di segni “mobili” e ricombinabili in tempo reale in funzione della loro “forza” evocativa e del codice che il lettoreinterprete decide di applicarvi14; in questo caso la pratica postproduttiva nega l’opposizione binaria tra la proposizione dell’emissore e la partecipazione del recettore…[e] consiste nella concezione della catena all’interno della quale le opere slittano l’una nell’altra, rappresentando allo stesso tempo un prodotto, uno strumento, un supporto15 potenzialmente declinabile all’infinito. All’interno di questo processo, la fanzine è il medium fisico su cui si depositano tutte le energie di trasformazione contemporanee ed è l’oggetto attorno al quale ristabilire un fecondo dialogo tra generazioni diverse. Ma, oggi, Peter Cook e soci stamperebbero ancora Archigram? 1. Una simile attitudine si riscontra anche negli anni 60 e 70. Ad esempio, Robin Middleton in Clip Stamp Fold commenta: The possibility of doing much in architecture was minimal. ... There just weren’t the clients. I know there were grand houses going up in America or in France, but generally architecture was a miserable profession to be in (p. 31). E ancor più chiaramente in risposta a Daniel López Perez (DLP): One of the differences that we were encountering between Europe and the East Coast particularly in the States is that during a recession was actually when architects and magazines were being most speculative because, in fact, building industries and practices weren’t taking people’s time. Did you sense this difference? RM: Well obiouvsly during the period of recession you’ve got more time to play (p. 32).

2. Tra le sedi di mostre e dibattiti ricordiamo: Storefront Gallery, New York; Canadian Centre for Architecture, Montreal; Arch+Documenta Magazines, Kassel; Architectural Association, London; Norsk Form, Oslo; Contemporary Art Gallery, Vancouver; Disseny Hub, Barcelona; Colegio Oficial de Arquitectos de Murcia, Murcia, Bureau Europa/NAI, Maastricht 3. A cura di Beatriz Colomina, Craig Buckley (2010), Clip, Stamp, Fold: the Radical Architecture of Little Magazines 196X to 197X, Barcelona, Actar. 4. Caroline Gaimari (2014), “Interview with Elias Redstone” in Purple Magazine, issue n. 21: ER: I originally presented the project online with the aim of curating an exhibition to make people aware of all the creativity coming out of architectural publishing today. I approached the Architecture Foundation in London and Storefront for Art and Architecture in New York… Two years in, it may be the most toured exhibition about architecture ever! in http://purple.fr/article/elias-redstone/, ultimo accesso 2 Aprile 2016. 5. Durante un dibattito alla AA, Michael Webb sintetizza: For any revolution to get established you have to have a faculty of reactionaries. [laughter] Isn’t it true? in Clip, Stamp Fold, p. 21 6. Sempre Michael Webb nella stessa occasione: I think people in England genuinely wanted to know what the future was going to look like, and they were excited about it. in Clip, Stamp Fold, p. 27 7. Michael Webb: I think there was a great need to put on paper all these thoughts we were having about architecture should be in this new world. in Clip, Stamp Fold, p. 27 8. Andrea Branzi (1996), La crisi della qualità, Palermo, Ed. della Battaglia , p.1-13 9. Andrea Branzi (1996), ibid.: [il progetto contemporaneo] produce informazione e servizi, sviluppa nuovi link e filtra nuove relazioni; ma non descrive più uno scenario unitario, non fornisce isole di senso alla complessità del sistema. p.39 10. Marcel Duchamp: ¿No es el arte, un juego entre todos los hombres de todas las épocas?, citato in Nicolas Bourriaud (2007, ed. or. 2002), Postproducción, Buenos Aires, Adriana Hidalgo Editora. p.15 11. Nicolas Bourriaud (2007, ed. originale 2002), Postproducción, Buenos Aires, Adriana Hidalgo Editora. p.14.. A questo proposito vedi anche la mostra L’image volée, curata da Thomas Demand alla Fondazione Prada, Milano (18.3/28.8.2016): qui l’introduzione di Demand http://www.fondazioneprada. org/exibition/limage-volee/?lang=en . Ultimo accesso 31 marzo 2016. 12. Gilles Lipovetsky (2015, ed. originale 1989) L’era del vuoto, Milano, Luni editrice, p.90: La negazione ha perso il suo potere creativo, gli artisti non fanno altro che ripro-

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durre e plagiare le grandi scoperte del primo terzo del secolo: siamo entrati in un periodo che D. Bell definisce postmodernismo, fase di declino della creatività artistica che non ha più altra risorsa che sfruttare all’estremo I principi modernisti. Donde la contraddizione di una cultura che aspira a generare continuamente qualcosa di assolutamente diverso e che al termine del processo, produce un identico, uno stereotipo, una pallida ripetizione.”

XIV Triennale Milano - Il grande numero

13. a cura di Marco Biraghi, Alberto Ferlenga (2012), Architettura del Novecento, Matteo Agnoletto, voce “Any”: In un’epoca [1993] basata sull’arbitrarietà dell’immagine, la rivista [Any] ha opposto alla produzione cartacea specializzata una fusione semantica tra il livello linguistico della scrittura e I livello figurativo dell’immagine. 14. Vedi Enrico Forestieri, Matteo Pace (2015), Tiri da tre: una conversazione sulla metodologia didattica di Federico Soriano e Pedro Urzaiz in “Fuoco Amico”, Milano MMXII Press, n. 2. in particolare pp.159-160 Federico Soriano: Perciò, una parte delle nostre pubblicazioni (quelle che raccolgono disegni, protopiante, protosezioni, diagrammi, i gramm@ticals, ecc.) conservano la condizione di essere dei documenti che chiunque può rileggere come se fossero stati prodotti ex-novo. Sono “manuali aperti”, cataloghi di determinate partiture architettoniche in cui non è possibile determinare univocamente se siano il punto iniziale o finale di un processo. Per questo motivo, questi libri non hanno una “data di scadenza” e ci interessa pubblicarli perché non mostrano risultati ma stati intermedi: e le fasi intermedie possono anche essere iniziali o finali. 15 Nicolas Bourriaud (2007, ed. Originale 2002), Postproducción, Buenos Aires, Adriana Hidalgo Editora. p.45

Soriano, 2012, Words, Editorial Mairea Libros

Peter Cook at Scopic Assemblage Workshop 2011

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STATE MENT

Statement is a magazine entirely made of “mission”, “philosophy” and “about” texts found on websites of architecture offices from all over the world. Statement is made by copying and pasting, without any kind of editing – even typos are left as they are. When available, English translations are privileged, otherwise any other original language is accepted.While electronic texts are always potentially transformable – or removable – Statement appropriates whatever is present on the web at a precise time, and it irrevocably fixes it on the materially stable support of paper. This change of format prevents any future operation of digital reproduction: by cutting the relation between a text and its contexts, Statement subverts the inherent hypertextuality and volatility of textual web contents. Quoting Bourriaud’s famous essay, Statement’s postproductive attitude consists in the invention of new “protocols of use” for pre-existing “formal structures”. The scope of such operations is not so much to interrogate pre-existing meanings, as to “inhabit” pre-existing forms in order to produce unprecedented effects ¹. Bourriaud, Nicolas, The different statements are 1. Postproduction. Culture as graphically homogenised and Screenplay: How Art Reprograms World. (New York: Lukas & made anonymous through the Sternberg, 2002), pp. 17-18. erasures so as to lose any sense of hierarchy – and avoid copyright infringement. This operation of “enstrangement” allows to focus on the pure literary quality of the statements – facilitating comparisons among different themes, registers and metrics. Statement is a multimedia project that revolves around a printed magazine. Every issue comes in A5 format in fifty numbered copies, and it comprises twenty-five saddlestitched statements digitally printed in black and white: the zero-grade of publishing. Windsor & Newton paper colored covers and Canson tracing paper jackets are the only frills. The printed magazine is distributed in some of the best libraries, bookshops, universities, architecture offices, galleries and public toilets in the world. Given the pirate nature of its content, the distribution takes place through alternative means: a network of friends-turned-volunteerscouriers periodically drop copies in selected locations and take a picture to document the delivery. The availability and exact location of the delivered copy is subsequently notified on the magazine’s blog, so as to give interested blog readers a chance to grab it for free. However, the temporality of such notifications is somewhat similar to that of electronic texts on the web: no one can guarantee that someone else won’t take the free copy in advance, that a diligent librarian won’t collect it, an astute bookseller won’t sell it or a cleaner won’t throw it in the bin. A map published on the blog provides a real-time overview of all the locations where free copies have been distributed: from the slick AA bookshop to Alvaro Siza’s austere Porto library, from Motto’s hipster fanzine sanctuary in Berlin to the more institutional bookshop at the Centre Pompidou in Paris. In addition to that, the blog hosts Radio Statement: an audio archive where the different statements are read out loud by an electronic voices. As printed copies sells out – or get lost in the world – Radio Statement progressively substitutes them as an atypical, non editable, non retrievable digital archive. Statement deliberately short-circuits the relationship between digital and material supports: it turns words into pure image and ephemeral sound. 110


Statement

Statement is a by-product of the internet. Since having a website became the sufficient condition to take part in the architectural scene, architects have to spend considerable energies thinking how to stand out from the crowd. As architectural practices face the necessity of introducing themselves to the world in few lines, they are giving birth to a new literary genre: the statement. Statements work like leveling agents: regardless from the dimension of the practice, their fame and visibility in the world of printed publications, very few escape from the temptation of a statement. If the eyes are the mirror of the soul, statements are the mirror of Statement today’s discourse on the discipline of architecture: they are keys to access the

Statement is a by-product of the internet. Since having a website became the ufficient condition to take part in the rchitectural scene, architects have to pend considerable energies thinking ow to stand out from the crowd. As architectural practices face the ecessity of introducing themselves to he world in few lines, they are giving birth o a new literary genre: the statement. Statements work like leveling gents: regardless from the dimension f the practice, their fame and visibility n the world of printed publications, very ew escape from the temptation of a tatement. If the eyes are the mirror of the oul, statements are the mirror of 111 oday’s discourse on the discipline of rchitecture: they are keys to access the

by Forestieri Pace Pezzani

most popular topics, terms and registers in the field. Every office needs to introduce itself in the most synthetic way, but most of them take advantage of the occasion to say something about the meaning of architecture – and the meaning of life. Some try to be funny, some are brutal. Some show off shamelessly their attributes, some opt for under-statement. Some start by stating that statements are no longer possible, then they write the last possible statement. Some write in verses, some in prose. Some are as dry as business cards, some try to be touching. Do you smile when you shake someone’s hand for the first time? Would you rather be thought of as professional by Forestieri Pace Pezzani or sustainable? Do you care for natural light?

most popular topics, terms and registers in the field. Every office needs to introduce itself in the most synthetic way, but most of them take advantage of the occasion to say something about the meaning of architecture – and the meaning of life. Some try to be funny, some are brutal. Some show off shamelessly their attributes, some opt for under-statement. Some start by stating that statements are no longer possible, then they write the last possible statement. Some write in verses, some in prose. Some are as dry as business cards, some try to be touching. Do you smile when you shake someone’s hand for the first time? Would you rather be thought of as professional or sustainable? Do you care for natural light?


Dieci anni dopo. Pda vs Burrasca Antonio Lavarello Si diez años depues te vuelvo a encontrar en algun lugar, no te olvides que soy distinto de aquel pero casi igual. (Los Rodriguez, Diez años despues) 2004 Un piccolo gruppo studenti della Facoltà di Architettura dell’Università di Genova si riunisce per pensare insieme una rivista indipendente, Pensieri di Architettura (PdA). 2013 Un piccolo gruppo di studenti del Dipartimento di Scienze per l’Architettura della Scuola Politecnica dell’Università di Genova organizza e allestisce una mostra dei progetti provenienti dai corsi universitari; da quell’esperienza e da quel nucleo di persone nasce la rivista Burrasca. Mettere a confronto queste due esperienze, analoghe nella genesi e nel contesto di riferimento ed al contempo diverse negli esiti, può contribuire, seppur in piccolissima parte, a misurare i cambiamenti che, nel mondo dell’architettura e in particolare della formazione universitaria in campo architettonico, si sono prodotti nell’intervallo temporale che le separa. Allo scopo di contestualizzare e comprendere le differenze che intercorrono tra PdA e Burrasca i dieci anni passati non vanno considerati in senso puramente quantitativo, ma occorre anche tenere presente la qualità del tempo trascorso, ovvero la rilevanza

storica di alcuni avvenimenti intercorsi nel decennio. In questo senso può essere sufficiente ricordare come in posizione quasi baricentrica tra il 2004 e il 2013 si collochi la crisi economica del 2008: trasformatasi in condizione permanente di una parte consistente del mondo, ha inciso profondamente sul mercato immobiliare, sul settore edilizio e dunque sulle condizioni di produzione dell’architettura. Nell’ambito dell’istruzione universitaria è inoltre opportuno fare cenno all’entrata in vigore, tra il 2008 e il 2011, dell’insieme degli atti normativi noti comunemente come “riforma Gelmini”, dal nome dell’allora Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca; è proprio con la riforma del sistema universitario che si spiega quel passaggio dal termine Facoltà (di Architettura) a Dipartimento (di Scienze per l’Architettura) per indicare lo stesso luogo fisico e – sostanzialmente – la medesima istituzione universitaria nell’ambito dei quali si sono sviluppate le diverse generazioni di studenti a cui corrispondono le esperienze editoriali qui brevemente illustrate e messe a confronto. Lo scrivente ha visto nascere PdA quando era studente presso la Facoltà di Architettura di Genova e Burrasca mentre frequentava la Scuola di Dottorato del Dipartimento. Il presente articolo – inevitabilmente influenzato dall’esperienza diretta dell’autore – attinge, oltre che che all’analisi delle due riviste, a due interviste con l’ex-direttore di Pensieri di Architettura, Nicola Canessa, e con l’attuale presidente dell’associazione Burrasca Luigi Mandraccio.

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L’evento attorno a cui si coagula l’idea di una pubblicazione autogestita è la conferenza 7x70, organizzata a Genova dalla rivista Area nel gennaio del 2004, in occasione della presentazione del numero 70 dedicato ai “best architects over 70”1. Ad uno speciale dedicato alla conferenza, composto di un editoriale 1. Area era – allora come oggi – direte di sei “ricette ta da Marco Casamonti, professore di Composizione architetdi architettura” ordinario tonica e urbana presso l’Ateneo raccolte con Genovese: ciò spiega sia la scelta brevi interviste della sede genovese per la conferenza, sia l’intenso coinvolgimento agli architetti dell’intera Facoltà in questo evento. protagonisti – Oriol Bohigas, Peter Eisenman, Herman Hertzberger, Arata Isozaki, Paolo Portoghesi, Oswald Mathias Ungers2 – si affianca il numero 0, uscito nello stesso periodo. Si tratta di un manifesto 2. Alvaro Siza Vieira, celebrato f o t o c o p i a t o insieme agli altri nel numero 70 di in proprio Area, non fu presente alla conferenza genovese. e firmato collettivamente dalla redazione, nel quale una grande scritta “Svegliamoci!” accompagna un testo in cui si legge, tra l’altro, la domanda “Perché avere vergogna di essere giovani e ingenui?”. Fin da subito in PdA si combinano quindi due istanze diverse ma complementari: da un parte l’aspirazione ad una dimensione internazionale, probabilmente percepita come trascurata dalla Facoltà genovese, dall’altra la valorizzazione dell’entusiasmo e della freschezza che tipicamente caratterizzano lo studente di architettura – provocatoriamente assimilato ad un bimbo che gioca3 – e sui quali forse si sentiva incombere la minaccia 3. PdA, Numero 0.

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di un’eccessiva burocratizzazione, o “scolarizzazione”, della formazione universitaria. Proprio nella direzione di una “fuga dalla scuola” – in direzione del mondo della professione, apparentemente troppo lontano dalle aule – si colloca anche un altro intento programmatico espresso nell’Editoriale del Numero 0, ovvero quello di bandire “un concorso di idee ad ogni numero” affinché non si verifichi che si possa “uscire dalla facoltà di Genova con solo cinque progetti alle spalle”; la promessa viene sostanzialmente mantenuta per i primi numeri, con la proposizione di temi eterogenei, dallo spazio espositivo smontabile in piazza Negri (un piccolo spazio pubblico antistante la Facoltà di Architettura) del Numero 0 a “La muta del Biscione” (riqualificazione del quartiere INA Casa Forte Quezzi) del Numero 1, dal “carnet de croquis” del Numero 2 alla copertura del pozzo del paese di Kachachullo, in Etiopia (Numero 3), fino alla copertura per l’Abbazia di San Galgano. Le questioni affrontate dai concorsi trovano riscontro nei titoli e nei contenuti dei diversi numeri, concepiti come monografie tematiche: emerge soprattutto l’interesse nei confronti delle relazioni tra la prassi professionale, la tecnologia e la dimensione sociale e politica dell’architettura, della questione della sostenibilità e dell’impegno nei Paesi in via di sviluppo4 (Altrasostenibilità, Tecnologie adeguate, Eventi temporanei, (Ri)costruire, Periferie Fuoriluogo), ma si possono trovare anche temi più prettamente teorici (Spazio sacro, Utopie, Il vuoto).

Significativamente il Numero 3, intitolato In viaggio, sembra combinare insieme la dimensione dell’entusiasmo giovanile e la necessità di uno sguardo attento, inclusivo, critico verso l’esterno, due aspetti a cui già 4. A tal proposito può essere interessante notare che uno dei si è accennato, redattori della rivista, Lorenzo mentre il titolo Fontana, dopo essersi laureato a Genova e aver studiato come del Numero 1, ricercatore universitario la mecDal cucchiaio canica delle costruzioni murarie in cruda, si è trasferito a Ropi, alla città5, terra nell’Etiopia centrale, dove lavora manifesta la come architetto e cooperante. Gli redattori – di PdA ma anche di s o s t a n z i a l e altri Burrasca, scuseranno lo scrivente c o n t i n u i t à per non aver fatto altri nomi ad di quello di Fontana con quella eccezione (oltre ai due intervistati), proprio in c o n c e z i o n e virtù del particolare interesse della mainstream del sua esperienza. ruolo dell’architetto che, attraverso l’esperienza del Movimento Moderno, si può far risalire sino alla figura dell’artista rinascimentale. Questi temi, talvolta in reciproca contraddizione, o perlomeno in relazione dialettica, certamente p r o v e n g o n o 5. Locuzione fortunatissima – fino essere ormai consunta dall’uso d a l l e ad – originariamente formulata da Erp e r s o n a l i t à nesto Nathan Rogers negli anni ‘50, nel 1972 da Umberto Eco e dai profili ripresa per commentare sull’Espresso la c u l t u r a l i mostra del Moma di New York Italy: new domestic landscape curata e t e r o g e n e i the da Emilio Ambasz e successivadelle singole mente nel 1983 per il titolo del XIII p e r s o n e congresso del International Council of Societies of Industrial Design coinvolte nella e della relativa mostra (curata da p r o d u z i o n e Carla Venosta) tenutisi presso la Triennale di Milano. della rivista, ma possono essere anche ricondotti ad una scala più ampia: • ad alcune linee di tendenza della cultura architettonica (e non solo) dei primi anni 2000: in particolare da un lato l’atteggiamento critico nei confronti della globalizzazione e delle sue


implicazioni (economiche, sociali, ambientali), dall’altro la fascinazione per la possibilità di formulare nuovi paradigmi progettuali, processuali, tecnologici, urbanistici per quella che viene vista come l’età della complessità, della contaminazione, della comunicazione e dell’informazione; all’influenza – pur nella sostanziale autonomia della rivista – di alcuni docenti della Facoltà genovese (come, tra gli altri, Massimo Corradi per quanto riguarda lo studio di tecniche costruttive tradizionali, Rossana Raiteri per quanto riguarda le relazioni tra etica, politica, tecnologia e società, Franz Prati in relazione alla lettura progettuale della città contemporanea, Enrico Davide Bona in riferimento all’importanza della pratica concorsuale); ad alcune esperienze didattiche che, seppur già in atto sin dagli anni ‘90, proprio nei primi anni 2000 stavano acquisendo maggiore diffusione rilevanza e che contribuivano alla conoscenza di approcci alla formazione universitaria e alla progettazione architettonica differenti da quelli sperimentati nell’ambito della propria Facoltà di appartenenza: in particolare il programma di mobilità europea Erasmus e il seminario itinerante di progettazione Villard e, specificamente l’Ateneo genovese (che condivide il

privilegio con un ristretto numero di Scuole di architettura europee ed extraeuropee), il programma di formazione promosso da Renzo Piano e dalla sua Fondazione, consistente in uno stage semestrale presso una delle sedi di RPBW. In generale, oltre all’entusiasmo giovanile, all’esaltazione dell’ingenuità contrapposta al grigiore scolastico, al desiderio di portare a Genova ciò che è stato visto, vissuto, conosciuto all’esterno, la concezione dell’architettura e dell’università comunicata – esplicitamente e implicitamente – da PdA è legata alla centralità del progetto e alla convinzione che esso abbia la capacità di incidere sul reale, indirizzandone gli sviluppi, esaltandone le potenzialità e correggendone le storture, e all’importanza di prepararsi ad una prassi professionale tecnicamente e culturalmente consapevole; la pubblicazione è intesa pragmaticamente come uno “strumento” che risponde ad alcune “esigenze” degli studenti a cui viene indirizzata6. Tale approccio pragmatico, ma anche informale e libero da condizionamenti accademici, si traduce per esempio nella decisione di pubblicare alcune discussioni interne alla redazione7, per rendere conto della pluralità delle opinioni e delle posizioni all’interno della redazione e senza il timore di sembrare naïf; così anche la scelta del formato pieghevole, in luogo di soluzioni più formali, e la grafica ironica ed esuberante, caratterizzata

con tutta evidenza dall’entusiasmo, talvolta ingenuo e persino spericolato, per le possibilità offerte da Adobe Photoshop. Tra le pagine di PdA – e tra quelle degli Speciale Calendario, ispirati agli omaggi dei rotocalchi – si 6. PdA, Numero 0. incontra una gran varietà 7. In particolare si può ricordare il caso della discussione sull’accettazidi font, sfondi one di un articolo proveniente da con fotografie un autore esterno alla redazione. Si dell’articolo Vienna. Quando il s g r a n a t e , tratta presente dichiara guerra al passato p a t t e r n , a firma di Daiana Marinucci, poi pubblicato su PdA n. 3 In viaggio, accompagnato dalla discussione tra i redattori, che sostanzialmente verteva sul rischio di legare la rivista ad una linea di pensiero eccessivamente tradizionalista.

sovrapposizioni in trasparenza, fotomontaggi, piccole parodie grafiche (il titolo Utopie travisato da logo commerciale della Barilla), icone e diagrammi. Se si vuole provare ad andare al di là delle più generali tendenze di quel periodo, si possono individuare riferimenti più specifici di questo approccio grafico in alcune pubblicazioni di architettura di ambito iberico, come i volumi della casa editrice Actar (fondata nel 1994 dal catalano Ramon Prat) – tra cui il volume collettivo Diccionario Metápolis de la Arquitectura Avanzada del 20018 e Housing/Single-Family Housing del 20029, a firma di Manuel Gausa10 e Jaime Salazar, la cui lettura veniva peraltro suggerita dalla redazione stessa di PdA11 – e soprattutto la rivista madrilena Pasajes de Arquitecura y Critica, fondata da Pepe Ballesteros nel 1998, che peraltro costituisce un esempio di rivista di architettura di buona qualità venduta a prezzi molto

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popolari (e dunque molto diffusa tra gli studenti). Non va omesso di ricordare che la versione cartacea di PdA, sostenuto da fondi universitari, veniva distribuita gratuitamente, mentre su una pagina del sito web 8. Gausa, Manuel – Guallart, Vicente – Müller, Willy – Soriano, Federico – della Facoltà Morales, José – Porras, Fernando Diccionario Metapolis de Arquidi Architettura (2001), tectura Avanzada, Actar, Barcelona. genovese 9. Gausa, Manuel – Salazar, Jaime veniva ospitata (2002), Housing/Single-Family Housla versione ing, Actar, Barcelona. digitale degli 10. Può essere interessante notare che Manuel Gausa Navarro nel 2008 a r t i c o l i 1 2 , diventerà docente presso la Facoltà di sulla quale Architettura di Genova. la redazione 11. La sintetica presentazione di Housing/Single-Family Housing era puntava per contenuta nello Speciale Calendario dicembre 2005, intitolato Naked rendere più del Architecture, in cui per ogni mese oltre ad un certo numero di immagini pervasiva la di edifici veniva suggerito un testo di diffusione. architettura ritenuto particolarmente significativo.

12. Nel caso del numero 1 la versione completa era solo quella digitale, a cui si veniva rimandati da quella cartacea, del tutto simile al Numero 0, vale a dire un A4 fotocopiato in bianco e nero contenente solo un Editoriale. I primi numeri della rivista sono peraltro ancora disponibili online, a patto di volersi dedicare all’archeologia digitale scavando negli strati più profondi dell’ormai ex-sito di Architettura (www. pda.arch.unige.it).

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La congiuntura che consente a molti dei futuri fondatori dell’associazione Burrasca di incontrarsi e conoscersi meglio di quanto non era capitato in precedenza è la frequentazione, al quinto anno di corso, dello stesso Laboratorio di progettazione, e precisamente quello tenuto da Nicola Braghieri13. Come nel caso di PdA, un evento catalizza rapidamente l’entusiasmo che aveva già iniziato a coagularsi: nel 2013 la Facoltà di Architettura di Genova (ormai divenuta Dipartimento) si trova a festeggiare i cinquantanni dalla propria 13. Nicola Braghieri dal 2013 f o n d a z i o n e 1 4 . non insegna più a Genova, ma all’École Polytechnique Fédérale de Le celebrazioni Lausanne. comprendono Architettura a Genova nasce una mostra 14. come costola separata dal corpo di di lavori degli Ingegneria, a cui si ricongiungerà con l’istituzione della Scuola studenti; alcuni nel Politecnica, in seguito alla Riforma dei futuri soci Gelmini a cui già si è fatto cenno. di Burrasca si occupano di allestire ed organizzare l’esposizione, proponendo in seguito di far confluire la raccolta di progetti in uno yearbook. Quest’ultimo non verrà mai realizzato, ma l’idea di pubblicare qualcosa verrà presto ripresa come uno degli obiettivi principali della neonata (luglio 2013) associazione (o “una sorta di think tank”, come si autodefiniva inizialmente15), che in pochi mesi può contare su una dozzina di membri (cresciuti a sedici all’inizio del 2014) e si presenta 15. Tale definizione è contenuta come una nella sezione About del sito www. realtà piuttosto burrasca.eu, peraltro riportata anche sulle prime pagine della rivista. strutturata, con tanto di tessere e quote associative e aperta ad una eterogenea gamma di attività. L’idea è quella di “espandere

la cultura architettonica e di estendere i limiti della disciplina in tutte le sue forme”16, intesa secondo un ampio spettro di significati. L ’ a p p r o c c i o 16. Anche questa affermazione è all’architettura tratta dalla presentazione About. è dunque molto inclusivo, e soprattutto legato primariamente alla dimensione culturale, più che a quella strettamente professionale. Oltre alla rivista, di cui si tratterà più diffusamente, vale la pena di ricordare le iniziative di diverso genere che Burrasca ha realizzato: gli allestimenti della mostra dei progetti dell’architetto francese Michel Kagan (febbraio-marzo 2014) presso la sede di Architettura a Genova, curata da Vittorio Pizzigoni (docente di progettazione presso l’Ateneo genovese), e dell’esposizione dei lavori degli studenti del corso di progettazione tenuto da Christiano Lepratti, tenutasi sia a Genova, nei locali del Dipartimento (giugno 2014), sia a Durban (Sudafrica), in occasione della Conferenza Mondiale dell’Unione Internazionale degli Architetti (agosto 2014)17 e l ’ i n s t a l l a z i o n e 17. I progetti stessi elaborati dagli t e m p o r a n e a studenti genovesi ed esposti nella riguardavano un intervenGenova 2492 mostra to di riqualificazione urbana di p a r t e c i p a n t e un’area industriale di Durban. Il dell’esposizione era About a l l ’ e v e n t o titolo (D)urban. Transformations of a S u p e r e l e v a t a downtown, a cura di Christiano e Davide Servente, con la F o o t p r i n t s Lepratti Valeria Iberto e Maria Elisa Marini; organizzato dal la grafica era stata curata da RicD i p a r t i m e n t o cardo Badano, Damiano Boldrini e Giulia Lecchini. di Scienze per l’Architettura (DSA, ora Dipartimento di Architettura e Design), oltre alla partecipazione a varie rassegne di editoria indipendente e alla

ideazione e produzione di alcune opere grafiche. Si può notare come l’interesse dei membri di Burrasca per l’allestimento di mostre di architettura, che pure di per sé rappresenta un’attività pratica di tipo progettuale, abbia anch’esso significativamente a che fare con una visione dell’architettura come oggetto culturale, costituendo di fatto una sorta di discorso metaarchitettonico sull’architettura. L’identità della pubblicazione, che prende il medesimo nome dell’associazione, nasce da alcune considerazioni relative sia al contesto genovese, vale a dire il desiderio di arricchire di voci nuove un panorama percepito come poco dinamico e partecipe del dibattito disciplinare, sia, non senza una certa ambizione, alla situazione dell’editoria d’architettura nazionale e internazionale, divisa tra riviste concentrate prevalentemente sulla presentazione di progetti (Casabella, Domus, Architectural Review, El Croquis) e periodici caratterizzati da contenuti teorici di grande densità scientifica (Log, Volume, Oase): si decide di collocare Burrasca sostanzialmente nel mezzo, concedendo molto spazio a scritti di opinione, portatori di nuove idee nel dibattito locale in una forma più snella e incisiva del saggio accademico. Viene pianificato sin da subito un certo numero di temi destinati ad essere affrontati dai singoli numeri, pensati come monografici; grande importanza viene data alla grafica, di volta in volta legata al tema affrontato, con risultati di livello molto alto e ben inseriti nelle tendenze del

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momento. Questo interesse per la grafica – affrontata con un’attitudine che conduce ai confini con il campo dell’illustrazione – è sottolineata dall’inclusione in ogni numero di un poster – ispirato con ironia agli omaggi delle fanzine musicali e all’archetipo del “paginone centrale” di Playboy18 – a firma di giovane artisti e disegnatori: 18. Curiosamente proprio la rivisJacopo Oliveri ta spagnola Pasajes, menzionata uno dei riferimenti di PdA, ( F a t o m a l e ) come è l’unico caso Fabio Schirru AKA Tellas, Giacomo Carmagnola, Alessandro Ripane, Julien Nolin (in ordine di comparizione nei diversi numeri; il poster del Numero 0 è stato realizzato in proprio da Burrasca). Su www.burrasca.eu, sito dell’associazione, efficiente e ben curato, i numeri più recenti sono presentati anche attraverso videoanteprime, caratterizzate da raffinati sottofondi di musica elettronica à la page. La raccolta dei contenuti avviene prevalentemente tramite il metodo del call for papers, mutuato dall’ambito accademico, e la lingua nella quale vengono richiesti i testi è l’inglese. L’intenzione di inserire – anche formalmente – la pubblicazione entro il circuito culturale interno alla disciplina e di conferirgli un valore scientifico Per questioni di carattere buroc o r r i s p o n d e 19. cratico Burrasca dal punto di vista formale non è una vera e propria alla dotazione i diversi numeri costituiscono d e l l a rivista; altrettanti volumi monografici di pubblicazione una collana. Per questo motivo inizialmente è dotata di un di un codice Burrasca codice ISBN, e non ISSN (destinato La ai perodici). Appurata la possibilità ISBN19. applicare l’ISSN anche alle c e n t r a l i t à di collane, la pubblicazione assume della teoria in un secondo tempo quest’ultima Va inoltre ricordato d’architettura, codificazione. che Burrasca, al contrario di PdA, l ’ i m p o r t a n z a viene a tutti gli effetti venduta.

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della dimensione culturale, l’interesse per l’illustrazione (intesa anche come declinazione stilistica del disegno architettonico), oltre ad alcuni legami diretti già menzionati, suggeriscono che l’esperienza di Burrasca possa essere stata influenzata da alcuni docenti del Dipartimento di Architettura e Design: oltre ai nomi precedentemente citati, si possono aggiungere, senza voler essere esaustivi, quelli di Giovanni Galli e Valter Scelsi; tale influenza non si è esplicata solo in modo diretto attraverso l’insegnamento, ma anche e soprattutto grazie ad una temperie generale fatta, pur nelle inevitabili differenze di declinazione, da temi, approcci e valori condivisi o perlomeno intersecabili. Inoltre le figure sopra elencate hanno contribuito a inserire la Scuola genovese nella propria rete di contatti, nazionale e internazionale, con ricadute sul piano della formazione degli studenti: l’organizzazione di Summer School internazionali20, 20. Le Genoa Summer School dal DSA e dirette da la presenza organizzate Vittorio Pizzigoni e Valter Scelsi a Genova di sono state 4: le prime due nel 2013 la rivista San Rocco) e nel p e r s o n a l i t à (con 2014 a Genova, la terza nel 2015 a esterne in Maiorca, nella casa di Can Lis proda Jørn Utzon (con la Royal veste di titolari gettata Danish Academy), la quarta nel di corsi a 2016 a Lisbona (con la Faculdade Arquitectura da Universidade c o n t r a t t o , de de Lisboa). visiting critic, relatori di 21. Nell’ambito di questo network e di questa atmosfera complessiva lezioni e un certo rilievo lo riveste la rivista c o n f e r e n z e , San Rocco, partner della prima delle Summer School organizzate dal la possibilità Dipartimento genovese (Genova, per gli allievi 2013) e al cui entourage fanno riferimento più o meno diretto sia alcuni di accedere dei docenti interni menzionati ad esperienze (segnatamente Pizzigoni e Scelsi), sia alcune delle figure “esterne” a lavorative di un cui si è fatto cenno.

certo interesse al di fuori dell’ambito cittadino e anche nazionale21. Nel maggio 2014 viene dato alle stampe il Numero 0, intitolato Fifteen questions about architecture; le domande, che toccano tanto la personale definizione di architettura quanto la musica che si ascolta lavorando, il ruolo del digitale e della sostenibilità e il “viaggio che avresti sempre voluto fare”, l’importanza della teoria e il cibo e la bevanda più amati (e così via intrecciando serio e faceto), sono state poste a persone legate a vario titolo alla cultura architettonica contemporanea22. È interessante notare che su sedici i n t e r v i s t a t i 22. Si può notare come entrambe le solo cinque riviste abbiano avviato la propria atcon una raccolta di interviste: sono italiani; tività nel caso di PdA con lo “speciale” la conferma dedicato a 7x70 a cui già si è fatto dell’ambizione cenno, Burrasca con il Numero 0. della rivista di travalicare i ristretti confini genovesi e nazionali, ma anche dell’abilità dei giovani redattori a tradurre tale ambizione nella realtà, viene però non tanto dall’origine dei soggetti interpellati, quanto dal profilo e persino dalla fama internazionale di molti di essi: tra i nomi di chi ha risposto alle domande di Burrasca si leggono infatti quelli di Andrea Branzi, Stefano Boeri, Jeffrey Kipnis, Hani Rashid, François Roche. Nicola Braghieri è l’unica figura riconducibile direttamente al percorso universitario dei membri dell’associazione. Ciò che però salta più all’occhio non è tanto la caratura degli intervistati, quanto il profilo degli stessi: se 23. Si avvicinano soltanto Hani per nessuno Rashid, titolare di Asymptote Archiè davvero tecture, e Stefano Boeri. valida23 la definizione di archistar


(ormai quasi del tutto priva del proprio significato in virtù dell’uso compulsivo), nel novero sono compresi un critico come Luigi Prestinenza Puglisi, un teorico come Jeffrey Kipnis, un curatore editoriale come Thomas Weaver (editor delle pubblicazioni dell’Architectural Association di Londra). Tra quelli che possono essere definiti progettisti, la maggior parte svolge la professione con una forte propensione per la sperimentazione (su tutti basti l’esempio di François Roche) e affiancandola in molti casi all’insegnamento e alla ricerca in ambito universitario. Se dunque il Numero 0 di Burrasca testimonia di una rivista votata a rendere conto prevalentemente degli aspetti teorici e culturali della disciplina e caratterizzata da un approccio sperimentale, le successive pubblicazioni confermano questa linea editoriale, pur nell’eterogeneità dei temi scelti di volta in volta, i quali suggeriscono inoltre l’intenzione di cavalcare con grande prontezza alcune tendenze del dibattito architettonico: nell’ottobre del 2014 esce il il Numero 1 Brazil (che da una parte si può mettere in relazione con le ambizioni internazionali di Burrasca, dall’altro ben si colloca nell’onda di montante interesse per il Brasile suscitata dallo svolgimento in quel Paese della Coppa del Mondo di Calcio 2014 e successivamente delle Olimpiadi di

Rio 2016), il Numero 2 Biennali (con un tema che di fatto costituisce l’apice dell’architettura intesa come fatto culturale), il Numero 3 Glitch (che guarda ai settori più aggiornati della musica e delle arti visive), il Numero 4 Fat/Anorexic (che declina in modo originale un tema ricorrente della teoria architettonica, la relazione metaforica tra corpo e architettura), il Numero 5 5th World (che combina un altro long seller come l’utopia con un best seller della post-modernità digitale come la dimensione virtuale della conoscenza e della realtà).

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Se già risulta di un certo interesse limitarsi ad affiancare le caratteristiche e le storie delle due riviste genovesi, è possibile anche avventurarsi a trarre alcune parziali e sintetiche conclusioni comparative. Tali considerazioni in parte riguardano aspetti locali: è il caso del riconoscimento della specifica influenza di due diverse generazioni di docenti sugli interessi degli studenti e sull’atmosfera che caratterizza la Scuola di Genova; dalle grandi conferenze dell’epoca di Marco Casamonti e Franz Prati (“7x70”, Rafael Moneo, Renzo Piano, Ben van Berkel), al brulicare di tanti eventi, apparentemente minori ma densi di teoria, degli anni di Carmen Andriani e dei già nominati Braghieri, Pizzigoni, Scelsi (dal ciclo sulle riviste di architettura alle commemorazioni di Michel Kagan a quella di Francesco Garofalo, da Kersten Geers ad Anna Puigjaner, solo per citare alcuni episodi)24. Si possono 24. In realtà, anche negli ultimi nel Dipartimento genovese però anche anni, non sono mancati interventi di f o r m u l a r e personalità di maggiore notorietà come Paolo Portoghesi, o s s e r v a z i o n i pubblica, l’archistar nazionale Massimiliano relative a Fuksas, il direttore di Casabella f e n o m e n i Francesco Dal Co. più generali, a livello nazionale e persino globale. Tra le questioni più significative vi è la sostanziale perdita di centralità della dimensione professionale, e della componente pragmatica che, seppure non esclusivamente, la caratterizza, in favore degli aspetti teorici e culturali, includendo in questo ambito anche l’interesse per il disegno architettonico. Ciò può essere spiegato in termini generali

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con l’altalenante e ricorsiva fortuna della teoria di architettura, destinata ciclicamente ad essere disprezzata e successivamente tornare in auge – in parte sull’onda di mode periodiche in parte in virtù di effettive necessità di ripensamento della disciplina –, ma anche in termini più specifici facendo riferimento alla congiuntura economica negativa che a partire dal 200825 ha investito più o meno intensamente 25. Coincidenza vuole che il 2008 gran parte sia stato l’anno in cui di fatto si è del mondo, e conclusa l’esperienza editoriale di PdA. in particolare l’Europa e l’Italia; se diminuiscono drammaticamente le occasioni per progettare e costruire, e ancor di più di guadagnare per mezzo di tali attività, è intuibile che aumentino il tempo, l’energia e l’interesse per scrivere, curare mostre, musei e archivi, insegnare, organizzare e tenere conferenze, disegnare, fotografare, fondare riviste e case editrici, dirigere collane, partecipare e istituire festival, biennali e triennali26. D’altronde anche lo scemare della fiducia nella 26. Lavarello, Antonio (2014), c a p a c i t à La (nuova) teoria come forma dell’architettura di resistenza. Note sul contesto italiano, in Rebel Matters Radical di incidere Patterns, Rebel Matters Radical sul reale, così Patterns. Atti del convegno internazionale, De Ferrari – Genoa palese nel University Press, Genova. passaggio impegnati di PdA dai titoli Tecnologie (Altrasostenibilità, adeguate, (Ri)costruire, Periferie Fuoriluogo) a quelli quasi escapisti di Burrasca (Glitch, Fat/Anorexic, 5th World) è parzialmente riconducibile crisi alle conseguenze della dell’economia, che ha effettivamente reso più difficile, se non altro per

questioni di costo, la possibilità di intervenire sul mondo attraverso l’architettura. Soprattutto però è possibile mettere in relazione questa traslazione – da un (ostentato) coinvolgimento ad un (apparente) disincanto blasé – con la crisi della politica, che ha annullato anche l’ultima, debole, polarizzazione degli anni Novanta e Duemila, quella tra global e no global – della quale ancora pareva avvertirsi un eco tra le pagine di PdA – e ha finito per mettere in crisi persino la pervasiva utopia della sostenibilità, oltre che l’opzione etica per la solidarietà27. Non sono solo le dicotomie politiche ad essere s c o m p a r s e 27. Per dipingere sinteticamente dall’orizzonte le significative mutazioni che Zeitgeist ha subito nel giro nel corso di lo di qualche anno può essere dieci anni, ma sufficiente ricordare la recente delle narrazioni politiche anche quelle fortuna fondate sull’identità nazionale e sul piano le drammatiche tensioni legate dei fenomeni formale ed all’intensificarsi migratori. estetico; se in PdA, complice anche la collocazione periferica di Genova rispetto ai settori più aggiornati dibattito architettonico, vi era ancora spazio per perpetuare la querelle modernitàtradizione, Burrasca è caratterizzata da un sincretismo post-moderno desaturato di quasi tutti gli accenti polemici, dove ogni posizione teorica ed estetica è possibile e anzi compresente. Per chiosare con una battuta superficiale: no global vs hipster. Accantonando gli anglismi e i trend giovanili, si potrebbe anche suggerire la contrapposizione tra l’ingenuità di PdA – si potrebbe utilizzare un ossimoro: ingenuità programmatica – e il manierismo di Burrasca – per continuare il


gioco degli ossimori: manierismo sperimentale, vista l’attitudine a frequentare i confini più esterni della cultura architettonica. Probabilmente non è però la contrapposizione la chiave di lettura più efficace per interpretare la relazione tra queste due esperienze editoriali, sviluppatesi a dieci anni di distanza nello stesso luogo fisico e nello stesso contesto sociale ed istituzionale (mentre già si è scritto di come quello culturale sia nel frattempo rapidamente mutato). Collocati in prospettiva storica, PdA e Burrasca possono essere visti come successive fasi evolutive dei rapporti tra cultura architettonica e nuovi mezzi di comunicazione, e di quelli tra tra periferia e centro; in qualche modo, seppure non risultino legami diretti tra le due riviste, senza la prima non avrebbe potuto esserci la seconda. Nel caso di PdA la possibilità, seppur ancora tecnicamente acerba, di produrre e diffondere (anche) digitalmente una pubblicazione di architettura, le esperienze formative e lavorative all’estero, il contatto con altre realtà universitarie italiane hanno stimolato l’intenzione programmatica di portare importare nell’ambito della Facoltà di Architettura genovese ciò che sembrava condannato a restare all’esterno (fuori da Genova, fuori dall’Italia, fuori dall’accademia): la pratica concorsuale, la centralità del progetto, l’importanza della pratica professionale, i temi ignorati dall’insegnamento, uno stile grafico più dinamico, un entusiasmo apparentemente sopito. In ultima analisi lo sguardo di PdA è globale

per quanto riguarda il reperimento di contenuti, idee, orientamenti, ma dirige la propria voce al contesto locale, agli studenti genovesi. In questo senso “mettere la testa fuori” dall’Università è una tattica temporanea volta a rendere più stimolante e più fruttuosa la propria – e altrui – permanenza all’interno di essa. Nel caso di Burrasca la possibilità di produrre digitalmente una rivista (software specialistici, competenze degli studenti) è ormai consolidata e raffinata, consentendo risultati di elevata qualità ormai privi di ogni naïveté pionieristica, mentre l’estrema facilità nel promuoverla online, in particolare in virtù della pervasiva diffusione dei social network (sostanzialmente inesistenti dieci anni prima), permette di diffondere la pubblicazione a livello nazionale e internazionale addirittura, paradossalmente, in formato cartaceo. Queste condizioni spingono a compiere un percorso inverso rispetto a quello seguito da PdA; la relazione con l’Università viene ribaltata: se nel caso precedente si è trattato di migliorare la formazione universitaria per mezzo di strumenti esterni, Burrasca utilizza strumenti accademici (ISBN, call for papers) per accreditarsi fuori dall’accademia. – viene esportata. Burrasca – il gruppo di persone che la produce, le competenze che essa incorpora, i contenuti che essa veicola – e per estensione il contesto locale nella quale si è sviluppata, vengono esportati inseriti nel circuito globale del dibattito architettonico, che peraltro risulta sempre più

policentrico, o meglio sempre più indifferente alle categorie stesse di centro e periferia, proprio per via del moltiplicarsi – e dell’intensificarsi in termini di qualità – di esperienze di autoproduzione bottom-up analoghe a quella di Burrasca; della ricchezza e del valore di questo tessuto di soggetti editoriali indipendenti offrono una conferma proprio le due edizioni di Clip Stamp Upload (2015-2016), il seminario sull’editoria indipendente di architettura organizzato a Genova da Burrasca da cui è scaturita la presente pubblicazione.

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BURRASCA

Burrasca is an independent cultural association interested in provoking the disciplinary debate of architecture adopting multiple strategies. Among these the publication of monographic bookazines, each regarding a relevant theme within the architectural debate. Until now, we have selected the contributions via call for submissions in the attempt of producing clusters of tensions between different points of view: we don’t look for dichotomies of statements, we have always looked for multiplicity developing a research on a given theme, widen trough the contribution of selected experts. In fact, every issue as a unique theme, layout and poster. Besides conventional articles, we encourage the submission of any kind of inventive material: photo-essays, graphics, illustrations or projects. Burrasca has been invited to show its work at various symposiums and conferences including “Little magazines” and “Postproduction” in Milan and has organized events about architectural culture. The clearest example is “Clip Stamp Upload” in Genoa: an event about the new forms of communication, organized in collaboration with ICAR65. Moreover, we have worked on different levels. We have set up exhibitions including a monographic one about Michel Kagan in Genoa and one about a research on Durban city developed by the University of Genoa in the South African city. Moreover, we have always tried to “stay local” developing projects for the municipality of Genoa. One example is “GENOVA2492”: an imaginary provocation that imagines the Genoa of a far future. Members: Andrea Anselmo, Federica Antonucci, Alice Baiardo, Ilaria Cazzato, Daniele Di Fiore, Chiara Federico, Enrico Galdino, Giulia Garbarini, Francesco Garrone, Luigi Mandraccio, Carlo Occhipinti, Giacomo Pala, Francesco Pestarino, Federico Sarchi, Greta Scarzo, Stefano Stecchelli

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Dialoghi Emergenti Luigi Mandraccio «Eppure, sulla scia del ’68 e dei suoi slogan più consumabili prendono piede movimenti già delineatisi negli anni precedenti, pronti ad occupare gli spazi lasciati vuoti dalla cultura oggetto di più immediata contestazione. Di nuovo, si fa appello all’avanguardia, e questa volta per il suo potere dissacrante. […] Le tesi dell’«architettura radicale» sono così definite. Da un lato, esse ereditano le velleità eversive vive fin dai primi anni sessanta nell’ambiente fiorentino; dall’altro, esse si fregiano di intenti antistituzionali, appellandosi al ceppo «negativo» delle avanguardie storiche. Non più lo sperimentalismo del Gruppo ’63, bensì teatri per azioni psichedeliche, in cui si spera di trascinare un mitico proletariato. […] Per questa via non era difficile avviarsi a un luddismo intellettuale tanto più irresponsabile quanto più verbalmente dedotto dalla frettolosa lettura delle riviste della «nuova 1. Manfredo Tafuri, Storia dell’Architettura Italiana 1944-1985 (Torino: sinistra» Einaudi, 2002), pp. 124-125. 1 […]» Se Manfredo Tafuri esprime una chiara posizione critica in merito ai movimenti cosiddetti “di avanguardia” degli anni a cavallo tra la sesta e la settima decade 2. Dapprima mostra itinerante iniziata allo Storefront di New York nel 2006, del Novecento, poi divenuto un libro: Beatriz Colomina, e Craig Buckley, ed., Clip Stamp Beatriz Fold: The Radical Architecture of Little Colomina, Magazines 196X to 197X (Barcelona: con Clip Actar, 2010). La ricerca è il frutto di un gruppo di lavoro organizzato presso Stamp Fold2, la Princeton University e coordinato applica una dai curatori Beatriz Colomina e Craig Buckley.

linea neutralista stabilendo un certo distacco rispetto alle tematiche affrontate dai little magazine: non traspaiono giudizi a corollario della ricerca e dell’esperienza maturata dal team nelle interviste con i protagonisti di quella stagione. I due storici forniscono elementi importanti per riuscire a inquadrare questo primo grande momento dell’editoria indipendente di architettura, quella fase culturale e quell’insieme di risultati a cui si è guardato con crescente interesse negli ultimi anni in quanto punto di riferimento per il proliferare di piccole iniziative editoriali indipendenti. Tafuri e Colomina, in modi differenti, riconoscono la rilevanza di quelle esperienze. Mentre Clip Stamp Fold è interamente dedicato ad analizzarle, Tafuri – che le “condanna” non condividendone gli esiti, né per forma né per sostanza – ne articola una lettura critica, da cui emerge chiaramente il rapporto di causa-effetto tra il contesto socioeconomico, oltre che culturale, e la reazione da parte delle singole figure che compongono la galassia della cosiddetta “architettura radicale” con le loro opere. Un principio che rimane vero anche se si analizzano i primi due decenni del XXI secolo, con il loro carico di crisi economica e sociale a cui il mondo dell’architettura non è certo indifferente. L’ambiente in cui le prime forme di editoria indipendente si sviluppano – come parte di un ampio fenomeno di innovazione nel campo della comunicazione del pensiero di

architettura – è considerato da entrambi i critici come un fattore determinante. Per Tafuri 3. La gravità dei dati raccola risposta lti all’inizio del capitolo V di alla crisi Storia dell’Architettura Italia 1944-1985 è evidente: solo il profonda, sia 36% dei laureati in architettura svolge la libera professione professionale mentre il 57,5% è impiegato che in lavori salariati, ma a questo si aggiunge che nel 1974 accademica, soltanto il 3% circa dei metri dell’architettura cubi totali costruiti in Italia fa 3 in Italia sembra capo agli architetti; il sistema accademico non si dimostra svolgersi con in grado di far recuperare un generale competitività al titolo di studio, né riesce a far evolvere il atteggiamento ruolo culturale e intellettuale di astrazione dell’architetto. e disimpegno. Tuttavia è solo la visione sintetica di uno schema molto più complesso, composto dai punti di vista dei singoli gruppi, con le proprie tematiche e forme espressive. Sempre secondo la lettura di Tafuri, Archizoom – gruppo fiorentino seguace delle lezioni di Leonardo Savioli e Danilo Santi, oltre che di Ugo la Pietra ed Ettore Sottsass – punta sull’arte “pop” come terapia liberatoria per la folla, oppure avanza, ad esempio con la No Stop City, soluzioni progettuali con basi oniriche, che però non vanno al di là di vignette ironiche dalla non semplice comprensione. Superstudio condivideva con Archizoom la volontà di cimentarsi in forme progettuali, espresse ad esempio nel Monumento Continuo, passando poi alla scala del design al pari di molti altri, Sottsass su tutti. I gruppi Strum e 9999 avevano invece rifiutato il progetto per concentrarsi su altre forme di comunicazione, come i fotomontaggi, che in generale

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sono stati uno dei mezzi espressivi principali del periodo. Colomina e il suo co-curatore Craig Buckley affiancano al ritratto dello scenario di crisi di quel periodo un’ampia disamina su alcuni temi che, nonostante suscitino turbamento e conflitti, offrono spunti di grande interesse per chi abbia la sensibilità per coglierne il potenziale. Le visioni catastrofiche sul futuro del pianeta elaborate soprattutto tra il 1968 e il 1970, da un lato, e le prospettive aperte dai programmi spaziali di Stati Uniti e Unione Sovietica dall’altro, sono state fonte d’ispirazione per l’intero immaginario architettonico, spesso attraverso visioni indipendenti come quelle di Archigram, oppure affermandosi in contesti prestigiosi e su testate come Architectural Design o Casabella. I problemi delle istituzioni accademiche sono visti sia in termWini di semplice protesta, come sul magazine Megascope, oppure come occasione per avanzare proposte di riforma – è il caso di Melp! – o addirittura delineare modelli del tutto alternativi come propone, tra gli altri, Architectura Autogobierno. La sessualità diventa un argomento molto presente sulle pubblicazioni indipendenti, senza badare alla rottura degli schemi sociali e al turbamento che questa cesura, insieme alle molte altre che prendono piede in quel periodo, può creare nella società. L’influenza della rivoluzione sessuale si deve anche al fatto che per la prima volta le donne riescono a farsi strada in alcune redazioni, come quelle di Utopie e On Site. Storia e Teoria di architettura, escluse fino a quel momento da un

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ruolo di primo piano, acquistano importanza proprio a partire da questa fase, soprattutto per merito di alcuni little magazines, tra i quali spiccano Form, Oppositions, Arquitecturas Bis, ecc. Questa novità ha comportato considerevoli cambiamenti, a volte anche conflittuali, la cui evidenza si può cogliere dalle principali linee di tendenza della post-modernità, culminate nella Biennale del 1980, La Presenza del Passato. Il valore delle avanguardie, editoriali o meno, a cavallo degli anni Sessanta e Settanta, non risiede nella valutazione dei singoli casi, bensì nella considerazione dell’esperienza complessiva. L’insieme è molto più delle parti, ma non in quanto semplice somma di voci, temi, punti di vista. Nelle relazioni che si possono creare tra questa moltitudine di elementi, e che un individuo può autonomamente costruire a partire da essi, risiede la grande potenzialità del settore dell’editoria indipendente di architettura, e la grande ricchezza che essa rappresenta per l’intera disciplina. Accade come alle singole parole che – per quanto ricche di significato e di implicazioni etimologiche – assumono vera importanza solo quando sono organizzate in una frase o in un discorso. Allo stesso modo ciascuno spunto diventa davvero rilevante nel momento in cui stimola una riflessione e permette di collegare tra loro altre conoscenze e altri ragionamenti. Da questo punto di vista le attività indipendenti hanno importanza in seno all’architettura soltanto nel

momento in cui vengono attivate e fatte interagire tra loro, cioè quando formano un prodotto collettivo. D’altra parte noi difficilmente ricordiamo tutti i gruppi delle avanguardie o tutte le esposizioni o tutti i libri che le riguardavano. Ricordiamo nel suo complesso un momento di particolare vivacità intellettuale in cui riconosciamo le basi di certi sviluppi seguiti dalla nostra cultura, salvo poi scendere nel dettaglio e fare riferimento ai casi più famosi o importanti. È un po’ come se queste relazioni necessarie tra i singoli casi fossero un dibattito virtuale tra le varie “voci” in campo, pur con i propri limiti: un conto è il confronto diretto tra le posizioni e le interazioni che i protagonisti realizzano sul momento tra di loro e tra le loro idee, un altro conto è la lettura estemporanea. Però la nostra mente elabora i concetti per relazione e confronto reciproco e questo vale sempre, anche nel caso di un dibattito serrato: l’individuo media ciò che ascolta – o che legge – attraverso la sua coscienza. Perciò possiamo immaginare che una persona dia vita a una sorta di discussione interiore quando si trova a riflettere, dando idealmente vita alle varie posizioni. Con questa idea di dialogo, o dibattito, tra varie posizioni il campo dell’editoria indipendente di architettura guadagna un ulteriore livello di analisi riguardo questa specifica forma di comunicazione e di interazione, anche perché il coinvolgimento dell’individuo che


ascolta o che legge può essere anche molto elevato. L’attuale condizione del dibattito pubblico è stata indicata come uno dei segni della crisi della civiltà occidentale. Una delle analisi più illuminanti è stata scritta da Christopher Lasch nel suo testo La Ribellione delle Elite (Milano, 2001) ed evidenzia come la vita civica in generale si trovi in una fase di profonda involuzione. La conversazione informale all’interno di luoghi comuni e collettivi è fondamentale, ma è stata compromessa da alcuni effetti del progresso. A causa della crisi delle istituzioni pubbliche, della politica, e della progressiva scomparsa, sia fisica che in quanto luoghi di valore, di parchi pubblici o altre occasioni di incontro informale, la conversazione si è fatta fortemente settoriale, al pari della produzione di conoscenza. Piccoli nuclei di persone – in base a parametri sociali o economici, oppure per via di una qualche forma di ideologia – parlano solo a se stessi secondo codici difficilmente penetrabili per un estraneo. All’osservazione di Lasch su come shopping mall, fast food e take away minaccino le interazioni sociali sviluppate per consuetudine in luoghi più raccolti e personali, come bar o coffee shop, si affianca il fatto che le forme tradizionali di comunicazione e di informazione sono sotto scacco da parte dei social network, con la loro violenta brevità, sia di lettura che di scrittura, e delle discussioni virtuali: risse, fortunatamente non fisiche, a cui si assiste senza quasi alcuna eccezione, attraverso i “commenti” o i thread su Twitter o

nei forum. Siamo di fronte a una crescente indisponibilità ad ascoltare le opinioni altrui, ad ammettere i nostri errori e ad accettare di essere corretti. Tutto questo ruota intorno a un falso senso di uguaglianza e all’illusione di egualitarismo creata dall’immediatezza dei social network, come nota Tom Nichols in The Death of Expertise (Oxford, 2017). Fiducia e rispetto nell’interlocutore sono erosi irrimediabilmente e la figura dell’esperto non è più riconosciuta, o viene piuttosto tragicamente autoattribuita a chiunque. Il libro di Lasch – attraverso alcuni riferimenti al lavoro di altri studiosi – rappresenta un’ode al vero e genuino dibattito pubblico come funzione intellettuale, cioè nel senso più attinente all’editoria indipendente di architettura. William James e John Dewey vengono interpellati per esprimere con chiarezza come la necessità di informazioni affidabili scaturisce dalle domande che nascono durante le discussioni. Soltanto sottoponendo le nostre idee – e quindi noi stessi – all’esame del dibattito possiamo capire quello che sappiamo e quello che ancora dobbiamo imparare. Finché non arrivano alla prova della discussione, le nostre opinioni rimangono quello che Lasch sintetizza dall’opera di Walter Lippmann: convinzioni non ben definite, fondate su impressioni casuali e assunti arbitrari. Il solo tentativo di articolare e di difendere il nostro punto di vista lo eleva al di sopra della categoria di “opinione”. La discussione conferisce ai nostri pensieri una forma e una definizione che permette agli altri di riconoscerle

come espressione di un’esperienza comune. Solo discutendo con gli altri, perciò, noi comprendiamo davvero il nostro punto di vista. Non senza rischi: tentando di convincere gli altri ad abbracciare la nostra prospettiva è possibile che le convinzioni altrui ci contagino e che la nostra opinione finisca per cambiare. Entrare con l’immaginazione negli argomenti degli altri, allo scopo di confutarli, almeno inizialmente, può finire per convincerci della correttezza di una tesi diversa dalla nostra. Alla fine, quindi, la discussione pare essere un’esperienza fortemente educativa. Lippmann fornisce anche una definizione molto netta del dualismo verità-opinione: la verità nasce esclusivamente da un’indagine scientifica disinteressata, mentre tutto il resto è solo ideologia. La fase della discussione (che lui definisce provocatoriamente come uno scontro di dogmi rivali) rappresenta quindi il processo, il percorso, tra opinione e verità. Stabilita l’importanza della discussione e del dibattito e ammettendo a priori che i loro valori intrinseci (informativi, comunicativi, educativi e culturali) si estendano anche all’architettura – pur senza approfondire le interessantissime implicazioni tra “parola”, “linguaggio” e architettura – non resta che riaffermare come lo scenario dell’editoria indipendente costituisca una forma di discussione e, quindi, quanto parteciparvi possa contribuire alla personalità di ciascun architetto o studioso di architettura

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e all’arricchimento della disciplina stessa. Il valore dell’editoria indipendente come forma di “discussione” si può identificare a partire da alcune peculiarità. In quanto insieme di punti di vista, questi prodotti sono eccezionali perché offrono una varietà e una ricchezza unici, che le testate maggiori difficilmente riescono a dare. Al di là dei principali dati statistici, relativi ad esempio all’età o alla nazionalità degli autori, è importante il fatto che si venga a creare un circuito di conoscenze ed esperienze alternativo e indipendente rispetto al mercato e all’accademia, portando in superficie, e a disposizione del pubblico, chiavi di lettura che non sempre riuscirebbero altrimenti a farsi strada. La consistenza di questi contributi è un altro fattore importante. Anche su questo la varietà messa a disposizione è veramente incredibile. Quando si parla di editoria indipendente di architettura non si può intendere un settore monolitico e sviluppato secondo un’unica linea direttrice. È vero invece il contrario, ossia che ciascun gruppo, ciascun soggetto, crea la propria tipicità non solo in base a quello che pensa, ma anche a come lo produce. Sono state sperimentate le forme di più diverse del tipo “magazine” o “libro”, portando queste categorie su nuovi livelli, fino alla necessità di definire generi nuovi, come è stato per “bookazine” ad esempio. Queste tipicità e questi punti di forza sono sempre soggetti a un fattore di scala, nel quale però

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si mantengono in tutta la propria forza. Pertanto i punti di vista sono vari giudicando i prodotti nella loro interezza e confrontando così situazioni diverse soprattutto per via del proprio contesto, tuttavia non è raro notare una notevole varietà di sfumature concettuali all’interno di uno stesso prodotto, frutto magari di un diverso approccio alla materia. Se c’è differenza, a volte anche notevole, tra il “formato” delle diverse attività editoriali – inteso come l’insieme delle scelte più propriamente del “contenitore” delle idee, e quindi dell’oggetto – è anche vero che le forme di ricerca in architettura si possono affrontare sulla base di materiali pressoché di qualunque tipologia, e così anche la comunicazione di esse (si pensi alla novità rappresentata in passato dal fotomontaggio e all’impatto che ha avuto sull’architettura). Non si possono neppure stabilire delle gerarchie quantitative: a fianco di attività con un registro più classico, o semplicemente più elaborato, che propongono visioni complete e approfondite, molto spesso gli autori – per consapevolezza verso la vastità del proprio campo di azione – adottano dei linguaggi e un registro impostato sulla sintesi e sulla brevità, preferendo fornire degli spunti in “pillole” piuttosto che avanzare elaborazioni troppo strutturate e definitive. Importante, per un architetto come per chiunque sia interessato alla nostra disciplina, sarebbe riuscire a incontrare lungo il proprio percorso di formazione e di

crescita almeno qualche esempio di editoria indipendente. La teoria della complessità ci dice che dalle interazioni tra le parti di un insieme nascono nuove proprietà, nuove idee. Questo processo è emergente e sempre in crescita, secondo uno sviluppo per aggregazione, nel quale nessuno è condannato a essere solo spettatore, ma ciascuno può farsi parte attiva del processo, al di là di quanto possa aspettarsi.


ROSA SESSA Alla laurea in Architettura presso l’Università degli Studi di Napoli Federico II è seguito il conseguimento del master «Architettura, Storia e Progetto» presso l’Università degli Studi Roma Tre e la University of Waterloo. I suoi interessi riguardano gli scambi culturali nel campo dell’architettura tra Italia e Stati Uniti, a cui si può ascrivere il tema della sua tesi di Dottorato (completato tra l’Università degli Studi di Napoli e la University of Pennsylvania): gli anni di formazione e le prime opere di Robert Venturi. È docente a contratto di Storia dell’Architettura presso l’ateneo federiciano.

AMOR VACUI STUDIO

MARZIO DI PACE Laureato in Architettura presso l’Università degli Studi di Napoli Federico II, la sua tesi di laurea sul restauro della Fabbrica di Ceramiche Solimene a Vietri sul Mare ha ottenuto riconoscimenti in vari premi di architettura, guadagnando il primo premio all’ArchiPrix 2013 come miglior tesi italiana in restauro. Ha inoltre conseguito il master «Advanced Architecture and Interior Design» presso la London Metropolitan University. Attualmente è iscritto alla Scuola di Specializzazione in Beni Architettonici e del Paesaggio dell’Università degli Studi di Genova.

GIAN LUCA PORCILE Ha accumulato – nell’ambito del suo interesse per l’influenza dei modelli naturali in relazione alla teoria architettonica ed allo sviluppo urbano – una copiosa produzione di saggi e articoli tra cui si possono citare: L’inattualità del futuro. Modelli urbani e tipologie edilizie: la città e il grattacielo nell’opera di Renzo Picasso, Una foresta di edifici. La metafora energetica e lo sviluppo del grattacielo, Radical Patterns – Biological Roots. Fa parte dei fondatori del collettivo di ricerca multidisciplinare ICAR65. Con Katia Perini ha curato il volume Architettura ed Energia (Genova University Press).

ICAR 65 RROARK!

FOSBURY ARCHITECTURE Nella sua attività come collettivo di progettazione e ricerca ha ricevuto diversi premi (Tallinn 2013, Porto 2013, Bologna 2014, Milano 2015, Torino 2015, Leeuwarden 2015) ed è stato coinvolto in mostre collettive ad Atene (2015), New York (2016) e Roma (2017), oltre ad aver partecipato alla Biennale di Venezia del 2016 e alla Milano Design Week del 2017. È curatore, insieme ad Alterazioni Video e Antonio Laruffa, di Incompiuto Siciliano, il primo resoconto estensivo sulle opere incompiute italiane.

PAPER 011+

DAVIDE RAPP Architetto e videomaker, vive e lavora a Milano. Nel 2005 si è laureato in Architettura e nel 2015 ha conseguito il Dottorato in Interior Design presso il Politecnico di Milano. Ha sviluppato un’ampia serie di collaborazioni nazionali e internazionali con studi di architettura, istituzioni accademiche e di ricerca, magazine specializzati. Ha partecipato alla 14a Biennale di Architettura di Venezia – Fundamentals – con “Elements”, un film di montaggio di oltre 500 sequenze cinematografiche.

DAVIDE TOMMASO FERRANDO Critico di architettura con una lunga esperienza di lecture e interventi presso istituzioni accademiche ed eventi quali festival o biennali, rappresenta una delle figure emergenti più autorevoli nel suo campo. Ha sviluppato un’ampia produzione di testi e pubblicazioni, sia come autore che come curatore, ad esempio in quanto vice-direttore di Viceversa. Personalità di riferimento per l’ambiente culturale torinese – con collaborazioni che vanno dal Politecnico all’Ordine degli Architetti – attualmente è Post-Doc University Assistant nel Dipartimento di Teoria dell’Architettura dell’Università di Innsbruck.

VALTER SCELSI (Genova, 1964) architetto e ricercatore nel Settore ICAR/14 (Composizione Architettonica e Urbana) nel Dipartimento di Architettura e Design, insegna progettazione presso la Scuola Politecnica di Genova. Ha svolto attività didattica per istituzioni accademiche nazionali e internazionali, affiancandovi l’impegno da progettista. È autore di saggi monografici e di testi critici, oltre che curatore della collana di teoria Testi di Architettura (Sagep Editori).

EMMANUELE J. PILIA Alla fascinazione per il mondo dell’editoria, nonostante la sua formazione come architetto, ha fatto seguire le prime esperienze concrete all’interno del settore, inizialmente in modo più tradizionale – con Deleyva Editore, Monza – avendo ruoli di direzione di collana e di comunicazione, per poi incontrare l’Associazione Italiana Transumanista (di cui è attualmente Dirigente Esecutivo) nel 2006, spinto da un interesse di lunga data per le contaminazioni tra cybercultura, epistemologia ed estetica. Nel 2015, con Massimiliano Ercolani ed Emidio Battipaglia, ha fondato D Editore.

D EDITORE


MONU

STUDIO© Architecture and Urban Magazine

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JOURNAL ILLUSTRATIF

archphoto.it archphoto 2.0

EMANUELE PICCARDO Dopo essersi laureato in Architettura nel 2000, dal 2004 svolge la sua attività di critico di architettura, oltre che di fotografo e regista di film documentari, con i quali ha conquistato un considerevole numero di riconoscimenti. Al 2015 risale “L’architetto di Urbino”, cortometraggio su Giancarlo De Carlo; di recentissima realizzazione è invece “La balena nel bosco” incentrato sull’opera dell’architetto Vittorio Giorgini. Ha tenuto lecture e conferenze pubbliche presso istituzioni prestigiose sia in Italia che negli Stati Uniti.

MinKyung Han Con la sua tesi di laurea (Politecnico di Milano, 2014) si avvia il progetto REM magazine. La collaborazione con Davide Rapp alla realizzazione di ELEMENTS – un video esposto nel padiglione centrale alla 14. Biennale di Venezia e a «ELLE DECOR - Design for life», presso il Palazzo Reale di Milano durante il Salone del Mobile 2015 – è la concretizzazione del suo interesse verso le connessioni che legano arte, architettura e cinema. Attualmente sta seguendo un progetto per lo studio Andrea Caputo a Seoul.

REM

Marco Belloni Dopo la laurea in Architettura nel 2014 al Politecnico di Milano, con cui si avvia il progetto REM magazine, i suoi interessi – incentrati soprattutto sul legame stretto e inevitabile tra arte e architettura – lo spingono a collaborare con Davide Rapp alla realizzazione di ELEMENTS, un video esposto nel padiglione centrale alla 14. Biennale di Venezia e a «ELLE DECOR - Design for life», esposto al Palazzo Reale di Milano durante il Salone del Mobile 2015.

ENRICO FORESTIERI Nel 2011 si laurea presso il Politecnico di Milano. Nello stesso istituto ricopre dal 2012 il ruolo di assistente nei corsi di Progettazione e di Teoria. Sempre dal 2012 è assistente nel corso Alternative Practice Theory alla Newcastle University. Le sue esperienze internazionali si consolidano attraverso l’insegnamento in numerosi workshop (Erasmus Intensive Program 13 e 14; Elisava Creative Marathon). Alla cura di seminari (tra gli altri: Little Magazines, LOST (but not least), Around Robin Hood Gardens) affianca pubblicazioni su Dash, Fuoco Amico, Burrasca. Ha ottenuto il secondo premio al concorso “Re-call: beyond Memorialisation”. MATTEO PACE Consegue la laurea magistrale con indirizzo “Landscape Architecture” presso il Politecnico di Milano nel 2009. Dopo un Master in Collective Housing (2012) presso la ETSAM di Madrid e diverse esperienze in studi professionali in Italia e all’estero (Scandurrastudio, Studio Boeri), nel 2013 fonda a Milano lo studio Forestieri Pace Pezzani con il quale oggi porta avanti la ricerca e la professione mediante la progettazione, la partecipazione a concorsi e a testi critici.

STATEMENT Forestieri Pace Pezzani Enrico Forestieri, Matteo Pace e Pietro Pezzani hanno fondato il loro studio a Milano nel 2013. Attraverso gli strumenti del progetto (da piccole commissioni private a concorsi strategici), della curatela (LOST (but not least), Material Contexts, L’Ambizione di Perdere) e della critica (San Rocco, Bracket, Dash, Fuoco Amico, Burrasca) sperimentano nuove strategie di ridefinizione dei limiti disciplinari dell’architettura. ANTONIO LAVARELLO Dopo aver conseguito il Dottorato di Ricerca in Architettura con una tesi sulle relazioni tra la cultura architettonica della Cina contemporanea e il pensiero cinese tradizionale, accanto all’attività professionale – presso lo Studio Lavarello di Genova – si occupa di storia, teoria e critica dell’architettura contemporanea, sia in termini di didattica che di ricerca. Ha fondato il collettivo di ricerca multidisciplinare ICAR65 e il collettivo SPLACE, attivo nel campo dell’architettura temporanea e dell’arte pubblica. LUIGI MANDRACCIO Laureato presso il Dipartimento di Architettura e Design della Scuola Politecnica di Genova, frequenta da novembre 2017 nello stesso istituto il Corso di Dottorato in Architettura con una ricerca che coinvolge i legami tra Scienza e Architettura. All’attività professionale affianca l’interesse per gli aspetti comunicativi della disciplina, tra la grafica editoriale e l’editoria indipendente. Nel 2013 co-fonda Burrasca per la quale co-cura diversi numeri dell’omonima collana di pubblicazioni.


E D ITORI A I N D I PE NDE NTE DI A RCHITE TTURA N E I S E M I N ARI CL IP.STAM P.U P LOAD.


C.S.U. CL IP. STA M P.U P LOA D.

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