Lavoro economia società

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Brevi note sul lavoro, l’economia e la società.

1. Lavoro atipico-precario, lavoro a tempo determinato. La genesi della affermazione e diffusione delle tipologie di lavoro precario è da rintracciarsi, principalmente, nella evoluzione del mercato del lavoro internazionale, dove rinnovate esigenze di competitività hanno indotto a scardinare, nella nostra area più che in altre, la rigidità delle forme contrattuali in vista di un adeguamento alle necessità della produzione just in time. Ciò ha ingenerato un mutamento sociale significativo, anche di valenza antropologica e culturale. Si pensi solo al mutamento dei contenuti della prestazione lavorativa: competenze trasversali, aleatorietà e contingenza, ecc. Oppure – in un perverso effetto volano tra diversi comparti produttivi - alla percezione di maggior ammissibilità di forme di lavoro senza tutela o sottoinquadrato. Comunque sia, la flessibilità non è riuscita a configurarsi come funzionale mobilità o arricchimento soggettivo, cosa per la quale sarebbe stato necessario valorizzare il binomio formazione-occupabilità e legarlo maggiormente ad effettivi inserimenti. 2. Allo stato attuale delle cose resta importante riaffermare la necessità dell’intervento pubblico nel settore della formazione e nelle operazioni volte a favorire l’incontro tra offerta e domanda di lavoro: formazione per l’occupabilità e flessibilità come reale mobilità, non come precarietà. Pur se i contratti a tempo determinato restano una risposta adattiva “in positivo” nei confronti della ben maggiore frammentazione configuratasi nel settore economico, puntare strategicamente alla stabilizzazione dei contratti, come messo in evidenza da un recente studio di Andrea Ricci per ISFOL, si inquadra in un percorso possibile di maggiori garanzie e condizioni più favorevoli per la stessa “agglomerazione” di capitale umano. Insomma, con la stabilità si può crescere e innovare meglio, si fanno meglio le cose, in particolare nella direzione dell’aumento del “valore della produzione”, per aumentare, in questo modo, la produttività e la profittabilità dell’azienda in modo alternativo alla unilaterale scelta di una profittabilità perseguita col solo strumento della “riduzione del costo del lavoro”. Su questo versante, del resto, potrebbe benissimo non esserci alcuno sbocco, nessuna possibilità di concorrenza con le produzioni realizzate in aree dove i lavoratori hanno un minimo fisico vitale socialmente ed economicamente determinato a livelli inferiori rispetto a quelli della nostra area. Occorre, dunque, lavorare per una produttività da intendersi come “qualità sociale”. 3. Il tessuto produttivo italiano è caratterizzato dalla prevalenza di imprese di ridotte o ridottissime dimensioni. Spesso a conduzione familiare. Il suo carattere di economia reale, di manifattura, ci ha posto in parte al riparo dalle ripercussioni della crisi originatasi nell’ambito dell’economia finanziarizzata. La piccola dimensione delle unità produttive, d’altro canto, costituisce spesso un ostacolo ai processi di internazionalizzazione-delocalizzazione, vale a dire: il volume della produzione non cresce sufficientemente per riuscire a proiettare l’impresa in un mercato più grande. La stragrande maggioranza di queste imprese assume familiari, parenti, affini o comunque conoscenti, attraverso il “passaparola”. In tal modo, grazie al “familismo”, il reclutamento della manodopera si “sgancia”, per così dire, da una relazione utile e funzionale con le agenzie formative, che sono lasciate a una deriva a tratti autoreferenziale. Quantità infime di manodopera sono reclutate attraverso i Centri per l’impiego o a seguito di presentazione del curriculum. Per giunta, col “familismo” si bypassano il “merito” e la competenza, cosa che produce la “fuga dei cervelli” ecc. Tutto sommato, la “famiglia” svolge un importante ruolo sia nel campo del lavoro affettivo e di


cura che come fattore di welfare sostitutivo o complementare configurandosi con ciò elemento di coesione sociale e di tenuta. Non può sfuggire comunque, a margine, la circostanza che il “familismo” talvolta si esacerba e traligna in imprenditoria “clanica” illegale, parte cospicua della criminalità organizzata. 4. Occorre a mio avviso, per quanto detto, puntare sul “civismo”, (insieme e aggiuntivamente al “familismo”), e sulla “qualità” (in riferimento all’aumento del “valore della produzione”). Le peculiarità che ci contraddistinguono sono note: patrimonio culturale, archeologico, museale e storico ed artistico in genere, il settore della moda e del design, il settore agroalimentare, l’industria del turismo e il patrimonio paesaggistico, una grande tradizione ed eccellenza nell’ambito della ricerca scientifica (“Scienze fisiche” in particolare). Occorre valorizzare le proprie potenzialità, rispondere ai virtuali incitamenti del reale, coltivare le proprie attitudini… Altri nostri punti di forza sono: un buon grado di civiltà nella disponibilità di una sanità pubblica, la solidarietà, la laboriosità e lo spirito sia cooperativo che competitivo, e una scuola dell’infanzia e una scuola elementare il cui valore è internazionalmente riconosciuto.

Giampaolo De Amicis Luglio 2014


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