Racconto di uno Spiazzamento

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI CA’ FOSCARI DI VENEZIA FACOLTA’ DI LETTERE E FILOSOFIA DIPARTIMENTO DI FILOSOFIA E TEORIA DELLE SCIENZE DIPARTIMENTO DI STORIA DELLE ARTI E CONSERVAZIONE DEI BENI ARTISTICI “G. MAZZARIOL” in convenzione con

FACOLTÀ DI LETTERE E FILOSOFIA UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI CATANIA in collaborazione con

FACOLTÀ DI SCIENZE DELLA FORMAZIONE UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PADOVA, TRIESTE E VERONA MASTER UNIVERSITARIO DI 1° LIVELLO IN COMUNICAZIONE E LINGUAGGI NON VERBALI: PSICOMOTRICITÀ MUSICOTERAPIA E PERFORMANCE

TESI DI DIPLOMA DI MASTER

LA DOCUMENTAZIONE VISIVA COME RÉCIT RACCONTO DI UN DÉPLACEMENT RELATORE: IVANA PADOAN CORRELATORE: TIZIANO BATTAGGIA DOTT. AYRES MARQUES PINTO MATRICOLA 961472

ANNO ACCADEMICO 2006 - 2007


Indice 1 - Dedica p. 4 2 - Avvertenza – Questa non è la mia tesi p. 7 3 - Mai prima di allora p. 10 4 - Nel mio zaino - La riscoperta della Fototerapia p. 15 5 - Il mio maestro è una donna p. 22 Alla ricerca della pentola concettuale (blog) 6 - I koan dei nomi p. 29 Noodle è Nudo Kosè un Koan? Trovarsi e non trovarsi Non mi trovo Mente sana in corpo rotto (blog) Non mi trovo (blog) Nomi trovo 7 - L’azione allo specchio p. 44 L’occhio e la mente – Il piede e il pallone (e-mail) 8 - La musica non esiste (blog) p. 51 Musicoterapia e Fototerapia (e-mail + forum) 9 - Mia cugina Chiara d’India p. 54 10- Samba dell’Infinìo p. 58 L’Infinito (blog) Viverlo voglio ogni vano momento (blog) Onde e dune (blog) Onde e dune (e-mails) Psicodramma, Moreno e la prepotenza adolescenziale (blog) Chaque homme dans sa nuit I tre tempi Prologo Performance o teatro??


11- Il metodo Vianello p. 80 Descrizione seduta musicoterapia 12- With a little help from my Master (and her friends’) p. 105 Raccontarsi Déplacement e récit di un’identità Il récit

Ringraziamento p. 113 Bibliografia p. 114



Alberto Caneva

Carla Xodo

Debora Sbeiz

Ezio Donato

Fiorino Tessaro

Giovanna Ferrari

Lino Vianello

Lorella Moratto

Luca Xodo

Lucio Cortella

Luigi Perissinoto

Marianella Scavi

Mario Brunello

Mario Paolini

Marta Bevilacqua

Paolo Puppa

Paolo Troncon

Sonia Compostella

Umberto Galimberti

Umberto Margiotta


al mio Maestro

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AVVERTENZA

Questa non è la mia tesi. 7


Avvertenza Questa non è la mia tesi La più fedele rappresentazione della realtà rimane comunque sempre un adulterio. Non è mai troppo ripetere il monito della Pipa di Magritte, con maggior ragione quando si utilizzano immagini fotografiche e in video: in questo caso la tentazione di identificare l’oggetto con la rappresentazione dell’oggetto è ancora più forte. Al di là della parafrasi al quadro di Magritte, la mia è una protesta che vuol dire semplicemente che la MIA tesi è un’altra e era (a grandi linee) già pronta prima che io iniziassi il Master in Comunicazione e Linguaggi Non Verbali: Psicomotricità, Musicoterapia e Performance, presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia – anno accademico 2006-2007. Non aveva ancora un titolo, un’architettura e nemmeno una solida base teorica sulla quale costruire l’argomentazione. Il terreno in ogni caso era già stato recintato: la Fototerapia. La materia prima era già stata acquisita: la mia prassi professionale di animatore nella quale da anni utilizzo la fotografia come strumento ludico-relazionale, pedagogico-terapeutico in ambiente psichiatrico, geriatrico e scolastico. Questa invece che state leggendo non è la mia tesi. Non è nemmeno una tesi. È una non-tesi. È una raccolta di materiali sconnessi tra di loro: foto, fotogrammi, appunti, emails, blogs. È un koan alla rovescio, che invece di portare all’illuminazione, spegne la luce, chiude la porta e butta via la chiave. È un caso clinico descritto dal punto di vista del paziente, che non è medico, e che alla fine muore senza neanche sapere di quale patologia. È la storia di un mio percorso, lungo il quale invece di trovare qualche certezza ho perso quelle poche che avevo. E come se non bastasse, alla mancanza di contenuti si aggiunga anche il mio stile claudicante di narratore che si esprime in un idioma straniero, in diverse lingue straniere e nella sua madrelingua che è diventata straniera anche quella a causa della prolungata lontananza. Per queste e per altre ragioni, a voi che siete arrivati fin qui, consiglio di non proseguire. Fermatevi qui. Non perdete il vostro tempo prezioso. Andate a fare qualcos’altro. Andate a prendere un caffè, andate a fare una passeggiata con il cane, andate a fare una chiacchierata con i vostri figli o con i nonni. Qualsiasi cosa farete, sarà sempre migliore e più sicura che correre il rischio di perdervi anche voi. Ma se siete dei tipi testardi, e insistete nel proseguire, non ve la prendete con me, non dite che non vi ho avvertito.

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Not the wind, not the flag Two monks were arguing about a flag. One said: “The flag is moving.” The other said: “The wind is moving.” Hui Neng, the sixth patriach, happened to be passing by. He hold them: “Not the wind, not the flag; mind is moving.”

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Hui Neng asked Hui Ming: “Without thinking of good or evil, show me your original face before your mother and father were born.�

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3 - Mai prima di allora Mai prima di allora ero partito per un viaggio sapendo a priori dove andare, come arrivare, cosa trovare, cosa non aspettarsi e cosa evitare, come quando ho iniziato il percorso del Master in Comunicazione e Linguaggi Non Verbali: Psicomotricità, Musicoterapia e Performance, dell’Università Ca’ Foscari – anno accademico 2006-2007. I miei viaggi precedenti non erano mai un andare a… ma un andare via da… o un ritornare a… o entrambe le cose. Il mio primo viaggio dell’adultità è stato nel 1978, avevo quasi 20 anni. Pensavo di essere partito per andare in Inghilterra, quando in realtà stavo soltanto andando via di casa, andando via da una terra sconosciuta, la mia, il Brasile. Fuggivo dalla dittatura che il mio passato imponeva al mio presente e che copriva di ombre il mio futuro. Nel mio intimo partivo desideroso di non tornare mai più. La scusa era di imparare l’idioma dominante, l’inglese e così poter comunicare con il mondo. Ma guardando indietro, credo che volevo imparare un idioma che potesse dare voce alla mia anima, che mi aiutasse a tradurre l’intraducibile io. Più importante che imparare un’altra lingua, è stato per me capire che esistono altri mondi, altre maniere di vedere, vivere, sentire e interagire con se stesso e con gli altri. Tutto ciò che sentivo, che pensavo, che desideravo, lo facevo all’interno di una lingua, di una cultura. A partire da allora, alla diversità individuale mi si è aggiunto il vissuto di diversità collettiva. Quel primo viaggio doveva durare 2 mesi. È durato 2 anni. Nel mio rientro mi sono reso conto insieme agli altri che quel primo viaggio era stato per sempre, che io non potevo più ritornare, perché l’Ayres che era partito 2 anni prima era un altro. Il mio secondo viaggio è stato nel 1981. Avevo quasi 23 anni. Credevo che esistesse una Verità che potesse essere capita attraverso la lettura dei grandi libri, la meditazione sui temi proposti e attraverso il dialogo con le grandi menti della storia. E così mi sono iscritto alla Facoltà di Filosofia dell’Università di Pavia. Appena dato il primo esame, Storia della Filosofia Antica con il Prof. Mario Vegetti, appena finita la mia ultima lira ho scoperto un’altra verità meno sublime, che veniva dalla pancia. Avevo bisogno anche di mangiare. Per mangiare bisognava pagare. Per pagare ci volevano dei soldi. Per guadagnare dei soldi bisognava lavorare. Il soggiorno in Italia, che doveva durare almeno 4 anni, si è interrotto dopo 9 mesi. Il mio terzo viaggio doveva essere una “vacanza lavorativa di 2 mesi” a Berlino che invece è durato 2 anni. Da studente di Filosofia che si voleva laureare in Estetica sono passato a lavapiatti nella Pizzeria Villa Borghese, il cui titolare era siciliano, la barista tedesca, il cuoco palestinese, l’aiutante-cuoco angolano e per completare la squadra c’ero io, il brasiliano.

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Abitavo in una stanza di 6 m² nel quartiere di Kreuzberg, che mio fratello Adolpho mi aveva procurato. Lavoravo 12 ore al giorno, 6 giorni alla settimana. Non capisco ancora oggi come mi rimaneva del tempo per frequentare una scuola di lingua tedesca per stranieri, per visitare spesso la Nationalgalerie, per frequentare i concerti alla Filarmonie e per uscire con le ragazze. Una di queste ragazze era un’italiana che aveva un nome un po’ particolare di cui riuscivo a capire solo la prima sillaba: Gi. Si era appena laureata in Italia, era intelligente, preparata, ma poco furba. Tanto è vero che è andata a vivere insieme a me e più tardi mi avrebbe addirittura sposato. Ero arrivato a un quarto di secolo, quando mi sono fermato davanti allo specchio e mi sono domandato: “Ma tu chi sei, dove sei, che fai, dove vai, cosa vuoi dalla vita?” A nessuna di queste domande mi sono dato una risposta soddisfacente. Non ero più uno studente, ma nemmeno un lavoratore professionale, non ero tedesco, non ero italiano, non ero inglese e cominciavo a dubitare se ero ancora brasiliano. La mia amica Hildinha, mia insegnante di Tedesco e mia allieva di Portoghese, era tornata da un viaggio in Brasile e mi raccontava di luoghi e persone che nemmeno immaginavo potessero esistere. Ho capito che, al di là dei quartieri residenziali di São Paulo, del Brasile non conoscevo niente. E così ho deciso con “Gi” di fare un breve viaggio in Brasile di 15 giorni che è durato 15 anni. A questo punto io mi fermo per un momento. Mi alzo, guardo fuori dalla finestra e chiudo gli occhi. Faccio un profondo respiro e in questo respiro rivivo quei 15 anni. E adesso io divento quel respiro, sospeso. E come l’aria, io sparisco. Immaginate Marco Polo che entra nella Città Proibita, Colombo che sbarca in America, la sua India; Armstrong che cammina sulla luna. Devono aver sperimentato qualcosa di simile a quello che ho sentito quando mi sono trovato per la prima volta davanti al “Morro do Careca”, il Monte Calvo, sulla spiaggia di Ponta Negra, a Natal, Rio Grande do Norte, Nord-est del Brasile. In quel momento è finito il mio viaggio di 15 giorni in Brasile e pensavo che fossero finiti tutti i miei viaggi, almeno per quanto riguarda gli spostamenti geografici. A Natal mi sono finalmente laureato, in Lettere, all’Università Federale del Rio Grande do Norte. Sulla spiaggia di Ponta Negra ho costruito insieme a mia moglie la nostra casa vicino al mare, con vista sul Morro do Careca; ho creato lo Spazio Babilonia e ho inventato un lavoro – l’animazione culturale. A Natal ho avuto degli amici, ho conosciuto artisti, poeti, matti, visionari, santi e assassini. A quella città ho dato tutto di me e Natal mi ha corrisposto anche formalmente, concedendomi la Cittadinanza Onoraria. Non volevo niente di più dalla vita, nemmeno un Lucano.

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Ma un bel giorno mi è capitata una cosa inattesa: Gi è rimasta incinta, a 40 anni. Dopo una gravidanza rocambolesca, il 22 ottobre 1998 è nata Marina. Gi e Marina sono andate a vivere in Italia, dai nonni Luisa e Romolo, a Loreto nelle Marche, mentre io sono rimasto nella mia Ponta Negra. Negli ultimi giorni dell’ultimo anno del millennio scorso sono partito da casa per una breve visita a mia moglie e mia figlia, ma questa visita si è prolungata fino ad oggi. In Italia, dal 2000 al 2002 ho lavorato in un’industria grafica – la Tecnostampa. Poi ho lavorato all’Ostello della Gioventù di Loreto. Fino a quando ho intrapreso il mio percorso nella Comunità Psichiatrica Il Filo di Arianna, dove ho “scoperto e reinventato” la Fototerapia. Dopo aver ottenuto la qualifica di animatore professionale per il tempo libero in casa di riposo, mi dedico totalmente alla ricerca e alla pratica di un’attività che chiamo azzardatamente Fototerapia, applicata a me stesso e ai miei simili (i vecchi e i matti). Nel frattempo, abbiamo dovuto vendere la nostra casa a Ponta Negra. Ho vissuto questa vendita come una perdita, un lutto difficile da elaborare. Come premio di consolazione, ho fatto un investimento su me stesso. Ho cercato un corso post-universitario che – immaginavo – mi permettesse di acquisire degli strumenti teorici per riflettere, condividere e dare un senso e una forma definitiva alla mia prassi professionale e alla mia idea di Fototerapia. Non avevo altre aspettative, non mi interessava nient’altro, non volevo studiare o sperimentare niente che mi togliesse dall’itinerario che mi ero tracciato. Erano da evitare vissuti esperienziali che potessero mettere a repentaglio il mio fragile equilibrio, le mie poche certezze. Non mi rendevo disponibile alla possibilità di mettermi in gioco. Il mio obiettivo era lavorare sull’oggetto della mia ricerca e non sul soggetto ricercatore. Con questo spirito ho iniziato il Master in Comunicazione e Linguaggi Non Verbali: Psicomotricità, Musicoterapia e Performance all’Università Ca’ Foscari di Venezia, portando in testa un’idea e sulle spalle il mio zaino e la storia che ho raccontato, senza farmi troppe illusioni. Nel peggiore dei casi, avrei almeno potuto vantarmi di essere stato allievo di Umberto Galimberti. Ma tutto è andato diversamente…

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4 – Nel mio zaino: La riscoperta della Fototerapia

Non sapevo niente sull’esistenza della fototerapia quando mi è venuta in mente l’idea di condividere il piacere di scattare delle foto con persone che attraversavano un momento difficile della loro vita. Semplicemente ero consapevole dei cambiamenti che occorrevano dentro di me ogni volta che uscivo portando con me la mia macchina fotografica: prestavo più attenzione alle cose intorno a me, le emozioni diventavano più forti e si creava un nuovo tipo di contatto visivo con le altre persone. Basandomi su questa percezione ho elaborato il progetto Foto-Inconscio che consisteva sostanzialmente nel coinvolgere attivamente gli ospiti di una comunità psichiatrica nei vari momenti del processo fotografico: dalla posa allo scatto (dentro e soprattutto fuori della comunità), dalla creazione dei loro album di famiglia alla scrittura dei racconti che ne scaturivano; dallo sviluppo dei rullini alla stampa delle foto in camera oscura; dalla scansione delle foto ai ritocchi delle immagini al computer; dalla scelta delle foto all’organizzazione di una mostra. L’idea di questo progetto è nata a Natal, nel Rio Grande do Norte, in Brasile, quando nel 1995 realizzavo la video-antologia “Um Dia – A Poesia” (Un Giorno – La Poesia), per la Festa Nazionale della Poesia, il 14 Marzo. Il poeta visuale Dottor Franklin Capistrano è stato il primo ad accettare l’invito a partecipare al video, facendo la sua performance nel suo posto di lavoro: il manicomio della città. Mentre lo psichiatra diceva i suoi poemi visivi lungo i corridoi dell’ospedale, ho notato che i pazienti ci osservavano con curiosità e che molti di loro volevano prendere parte alla performance. In quel periodo ho iniziato a immaginare come sarebbe stato interessante fare un percorso fotografico insieme alle persone con disturbi mentali. L’opportunità di concretizzare quella idea si è presentata nel 2001, quando un’amica psicologa ha parlato del mio lavoro alla direttrice della comunità psichiatrica Il Filo di Arianna di Ancona. Nella mia prima visita al Filo di Arianna, sono stato ricevuto da un signore molto elegante e attento che ha ascoltato con interesse la mia proposta di progetto. Alla fine della presentazione, il gentile signore mi ha condotto all’ufficio della direttrice. Soltanto allora ho capito di non aver parlato con lo psichiatra ma piuttosto con un ospite della comunità. Nell’ufficio, oltre alla direttrice, si trovavano due persone: un giovane che masticava nervosamente le punte dei suoi capelli, e una signora fortemente truccata, dai capelli rosso Ferrari, che parlava con una voce da baritono mentre fumava accanitamente. Notando il mio disagio nel parlare del progetto in presenza di quelle persone strane, Loredana, la direttrice, me le presentò: erano due educatori. 16


Con meno entusiasmo ho presentato la proposta di realizzare un percorso fotografico, “Foto-Inconscio”, insieme agli ospiti e operatori della comunità. È stato approvato. Per due anni abbiamo girato per Ancona scattando delle foto, sviluppando dei rullini e stampando le immagini che più tardi sarebbero state organizzate in una mostra che ha sorpreso tutti per la sua forza e originalità. Questa esperienza ci ha permesso di capire quanto e in quale modo gli atti del fotografare possono avere una valenza terapeutica. Qualsiasi attività è potenzialmente terapeutica: camminare, dormire, praticare sport, andare al cinema, suonare uno strumento, ridere, chiacchierare; perciò, anche scattare, guardare o mostrare delle foto può essere profondamente terapeutico, ma lo è in una maniera molto particolare che risulta dalla propria specificità della creazione dell’immagine fotografica. Dato che l’immagine fotografica non è costruita manualmente, ma viene catturata direttamente dal mondo esteriore, il fotografo è obbligato a uscire da sé, a stabilire un contatto con la realtà e così facendo crea una connessione tra il suo mondo interiore con quello che lo circonda. Inoltre, questo tipo di rapporto “dentro-fuori” mediato da una macchina fotografica dà al fotografo un potere decisionale che poche altre attività possono offrire. Il fotografo è l’unico a decidere, in mezzo ad infinite possibilità, ciò che sarà immortalato. Lungo questo percorso ho potuto osservare alcune persone, che di solito erano completamente assorbite dai loro pensieri, alzare gli occhi e cominciare a guardare il mondo, semplicemente perché portavano con sé una macchina fotografica. Ho visto delle persone con una bassa autostima mostrare al pubblico orgogliosamente le bellissime foto che loro stesse avevano scattato e stampato. Una volta ho domandato a un ospite cinquantenne, F.D., che aveva trascorso gran parte della sua vita in svariate istituzioni psichiatriche, perché a lui piaceva così tanto prendere parte al progetto; e in quale maniera riteneva che la fotografia lo stesse aiutando. Lui mi ha spiegato di essere sempre stato ansioso, ma quando usciva per fotografare era in grado di passare tanto tempo a guardare attraverso il mirino e mentre aspettava il momento esatto di scattare una foto nel modo che lui voleva, la sua ansia spariva. “Al contrario, mi sento come se fossi sospeso nel tempo, come se non ci fosse un passato o un futuro da preoccuparmi, ma mi sembra che ci sia soltanto il momento presente”. F.D. si è rivelato un fotografo molto originale con un senso acuto di composizione di tipo geometrico, nelle sue foto la città sembrava un paesaggio sempre vuoto, senza abitanti. Ho fatto una domanda simile all’ospite più giovane della comunità, L.C., un’adolescente che aveva abbandonato casa precocemente e che nonostante l’età aveva già un importante vissuto alle spalle prima di trovarsi in comunità. Lei ha spiegato di aver condotto la sua vita in una specie di simultaneità a 360 gradi: “Ho sempre voluto vedere tutto, sperimentare tutto contemporaneamente. Quando scatto però, nonostante mi 17


senta libera di fotografare quello che voglio e come voglio, sono obbligata a scegliere una piccola fetta del mondo alla volta”. Questo limite imposto dalla sua macchina fotografica le ha fatto capire che lei poteva essere se stessa e esprimersi liberamente anche quando era chiamata a fare i conti con le restrizioni imposte da un mezzo espressivo o, per estensione, dalle regole della società. Per l’allestimento della mostra L.C. ha preferito mostrare un gran numero di piccole fotografie messe insieme che formavano dei grandi pannelli, mentre gli altri hanno preferito fare delle stampe più grandi di una piccola selezione di foto. Queste due persone hanno lasciato la comunità subito dopo la mostra. L.C. si è iscritta all’università, al DAMS di Bologna. F.D. vive una vita normalissima, frequenta dei corsi di lingue straniere e viaggia per l’Europa, addirittura in aereo. Non ritengo certamente che la fotografia sia stata la responsabile del lieto fine di questi due casi, ma credo soltanto che abbia avuto un ruolo, forse importante, nel processo della loro cura. Fra i tanti fattori che hanno contribuito all’esito di questo primo intervento vorrei menzionarne tre: 1. il fatto di aver rifiutato il ruolo di istruttore di fotografia. Non mi sono mai preoccupato di insegnar loro a fotografare; al contrario, sono stato io ad aver imparato tanto da loro. Le nozioni tecniche della fotografia venivano prese in considerazione soltanto quando loro ne avvertivano il bisogno. Ho sempre ritenuto più importante valorizzare l’originalità e l’unicità del loro sguardo piuttosto che insegnare loro a creare delle belle immagini per piacere agli altri. 2. la familiarità che abbiamo con la fotografia. La fotografia è di casa per tutti noi. Siamo stati fotografati dalla nascita, da sempre vediamo delle foto appese sui muri e la maggior parte di noi ha almeno un paio di volte scattato qualche foto. Per questa ragione la fotografia è più rassicurante e richiede paradossalmente una minore esposizione da parte nostra rispetto ad altre forme di espressione molto più antiche e può rappresentare un ponte verso la pittura (attraverso il collage per esempio), il racconto, il teatro, la danza e la musica. La fotografia è diventata parte della nostra forma mentis; secondo Marshall McLuhan, l’uomo del novecento vede fotograficamente. 3. la fotografia fa gruppo! Al termine di questa prima esperienza ho avvertito la necessità di formarmi e di informarmi sulle modalità di utilizzo della fotografia come strumento riabilitativo e terapeutico. Ho iniziato a chiedere agli psicologi e agli psichiatri con cui lavoravo se potevano suggerire una bibliografia su questo tema, senza ottenere alcun risultato. Ho cercato delle informazioni presso gli amici fotografi e anche un professore di psicologia. Ma la ricerca non mi aveva portato a nessun titolo. Mi sono rivolto a Internet e ho scoperto che la fototerapia era molto utilizzata in campo dermatologico per trattare alcune patologie della pelle per mezzo dell’applicazione della luce. A questo punto ho cominciato a credere che forse avevo casualmente scoperto qualcosa di nuovo, qualcosa che ho chiamato “fototerapia attiva”. 18


Finché un giorno L.C. mi ha invitato a partecipare alla lezione di apertura dell’anno accademico di Fotografia al DAMS di Bologna, tenuta dal professor Claudio Marra. Prima di partire per Bologna, sono passato in una libreria per cercare un libro del professor Marra. Ho visto un titolo molto interessante: “Le idee della fotografia”, pubblicato dalla Mondadori. Questo libro raccoglie un centinaio di testi sulla fotografia scritti da filosofi, storici, esperti della comunicazione e della semiotica, artisti, poeti, scrittori, sociologi e anche psicologi e psichiatri. Barthes, Eco, Calvino, Valery, Sontag, Wenders, McLuhan, Dubois e Bazin sono alcuni nomi famosi che compaiono in questa validissima antologia. Fra questi testi si trovava anche un brano del libro “Fototerapia e Diario Clinico” di Giusti e Proietti, pubblicato da Franco Angeli. Questo libro, che non è più in commercio, è una guida all’utilizzo della fotografia e della scrittura in forma di diario in ambito psicoterapeutico. Gli autori dichiarano di aver seguito le strade aperte da due studiose della fototerapia: Linda Berman e Judy Weiser. Il libro di Linda Berman “Beyond the Smile: The therapeutic Use of Photography” è stato pubblicato in Italia dalla Erickson Edizioni nel 1993 col titolo “La Fototerapia in Psicologia Clinica”. In questo libro l’autrice ripercorre il suo itinerario di scoperta e di utilizzo della fotografia nella sua pratica di psicoterapeuta. La Berman racconta la sua esperienza e espone le sue riflessioni che vengono sostenute da numerosi casi clinici. Judy Weiser, psicologa americana, ha scritto il libro “PhotoTherapy Technics – Exploring the Secrets of Personal Snapshots and Family Albums” e gestisce il sito sulla fototerapia del phototherapy centre. Ho trovato particolarmente interessante la distinzione proposta da Judy Weiser fra fototerapia e fotografia terapeutica. Secondo l’autrice, il termine fototerapia dovrebbe riferirsi soltanto all’utilizzo della fotografia come strumento coadiuvante del processo psicoterapeutico, ossia, la fotografia in terapia all’interno di un formale setting terapeutico nel quale una figura professionale della salute mentale aiuta un paziente a risolvere le sue difficoltà emozionali. In altre parole, fototerapia significa fotografia in terapia. Fotografia terapeutica a sua volta sarebbe l’uso della fotografia come terapia fatto da professionisti, non necessariamente terapeuti, al di fuori del setting terapeutico. In questo caso, terapeutico ha lo stesso significato che i greci attribuivano alla parola “terapeia”, cioè, cura, attenzione, trattamento. Questa nomenclatura non è universalmente riconosciuta. Joe Spence e Rosy Martin, due importanti pioniere in questo campo, hanno una opinione diversa rispetto alla definizione della fototerapia. Per Joe Spence fototerapia significa “letteralmente, utilizzare la fotografia per curare noi stessi” e osserva che “la fototerapia dovrebbe essere vista in un contesto più ampio della psicanalisi, prendendo sempre in considerazione la possibilità della TRASFORMAZIONE ATTIVA”. In questa prospettiva, il progetto Foto-Inconscio, realizzato presso la comunità psichiatrica Il Filo di Arianna sarebbe considerato un intervento di fototerapia secondo la definizione di Joe Spence e di fotografia terapeutica secondo Judy Weiser, considerandosi che le attività non avevano luogo all’interno di un formale setting terapeutico e non servivano come punto di partenza per la verbalizzazione di sentimenti, 19


emozioni o ricordi. Il nostro unico obiettivo era il piacere di trovarsi insieme per fotografare. La nostra attenzione era rivolta alle cose e alle persone che ci circondavano, dimenticando per un momento le nostre preoccupazioni e i pensieri quotidiani, e era precisamente questo atteggiamento che trasformava i nostri incontri in qualcosa di terapeutico senza che fosse tuttavia terapia nel senso formale della parola. La ricerca bibliografica è andata avanti, cercando titoli riguardanti la fototerapia presso le biblioteche di mezzo mondo. E così è arrivata alle mie mani una raccolta di saggi che, secondo me, rappresenta ancora oggi una guida teorica per chi desidera utilizzare la fotografia sia in terapia che come terapia. Si tratta del libro “Phototherapy in Mental Health”, organizzato da David A. Krauss e Jerry L. Fryrear, pubblicato dalla Charles C Thomas Publisher. Questa opera intende “offrire una visione generale nel campo della fototerapia, introdurre il lettore alla storia della fotografia e del suo utilizzo terapeutico, mostrare come la fotografia viene usata in terapia e quali concetti di psicoterapia sono maggiormente applicabili”. Questo libro mi è stato molto utile per la progettazione dell’intervento “La Mente nel Mirino – A Spasso per la Città” realizzato presso il Centro di Salute Mentale di Osimo, dal 2004 al 2006. Questa iniziativa è stata caratterizzata dal lavoro di équipe, che era formata da due psichiatri, uno psicologo, tre infermieri e da me nel ruolo di animatore socio-culturale con esperienza in fotografia terapeutica. La figura professionale dell’animatore socio-culturale è ancora poco conosciuta e poco utilizzata. Questa nuova figura, il cui scopo è il benessere dei soggetti, individuali e aggregati, si serve di specifici strumenti ludici, espressivi e di attivazione culturale. Guido Contessa, pioniere dell’animazione italiana professionale, dimostra come l’animazione possa far parte di un processo educativo, di un progetto artistico o di un programma terapeutico pur mantenendo la sua specificità. La ridefinizione del mio ruolo nel lavoro di gruppo, il coordinamento del responsabile dell’équipe e gli incontri regolari di programmazione e valutazione ci hanno permesso di condurre un intervento multidisciplinare in maniera consapevole e organizzata. Il gruppo di utenti era formato da pazienti tra i 25 e i 40 anni, con disturbi gravi, che abitavano con la loro famiglia e frequentavano il CSM di Osimo per le visite e il trattamento ambulatoriale. Le principali attività del progetto consistevano nell’organizzazione di spedizioni fotografiche nei paesi della Provincia di Ancona e di Macerata e nell’elaborazione del materiale fotografico raccolto. Il progetto si è concluso a Loreto con la mostra-seminario “150 Anni di Fototerapia”. Professionisti di diverse aree hanno presentato e discusso le iniziative connesse alla fototerapia realizzate nella Regione Marche. Alla conclusione del seminario, una giovane psicologa si è avvicinata per commentare la sua sorpresa nello scoprire che la fototerapia esisteva da tanto tempo e non riusciva a nascondere il proprio disappunto nel constatare che la fototerapia non era una sua invenzione. La capivo molto bene, visto che anch’io avevo provato questo sentimento alcuni anni prima. Credo che ancora oggi molte persone non sappiano che il 22 maggio 1856, il Dottor Hugh Welch Diamond, fotografo amatore e psichiatra nel manicomio di Surrey, presentava alla Royal Society of Medicine, a Londra, la sua relazione sulle 20


possibilità di applicazione della fotografia nel trattamento di pazienti psichiatrici. Hugh Diamond ha avuto l’idea di valersi del nuovo strumento tecnologico, la fotografia, per documentare con maggior precisione i casi di patologie mentali. Lo psichiatra inglese ha notato che alcuni pazienti rispondevano all’osservazione delle loro fotografie in maniera sorprendente: diventavano più consapevoli della loro identità fisica e prestavano più attenzione alla loro apparenza, poiché la loro autostima era rafforzata ogni volta che vedevano una loro foto in cui “stavano bene”. Le fotografie fatte da Hugh Diamond, la sua relazione e i disegni ispirati alle sue foto sono stati pubblicati nel libro “The Face of Madness”, organizzato da Sander L. Gilman, 1997, pubblicato dalla Citadel Press. Spero comunque che molte altre persone, in tutto il pianeta, continuino a ri-scoprire la fototerapia per molti e molti anni. È con questo spirito che propongo il brindisi: Fototerapeuti di tutto il mondo, unitevi! Loreto, 22 maggio 2006 Ayres Marques Pinto – Fotografo e Animatore fototerapia@libero.it

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E nel mezzo inoltrato del cammino della mia vita, dopo aver girovagato da solo nell’inferno e nel purgatorio, già stanco di fare il pendolare, avanti-indietro, mi ritrovai sulla soglia di questo Master. A ricevermi c’era una donna strana con una treccia rossa che toccava per terra. Mi guardò con uno sguardo severo, di rimprovero. Ma forse capendo che si trovava davanti a una persona che si reggeva in piedi con un equilibrio temerario, ubriacato da una prolungata crisi d’identità, diventò gentile e, senza dire parola, infilò gentilmente una chiave nella mia tasca e rientrò richiudendo piano la porta. Nel cercare la chiave per aprire quella porta, scoprii sconcertato che io ero un re, nudo.

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5 - Il mio maestro è una donna Il primo contatto con la persona che sarebbe diventata il mio Maestro è stato terrificante. Non era passato ancora il primo quarto d’ora di presentazione dell’epistemologia del Master e avevo già annotato una cinquantina di autori che lei aveva menzionato. Mezirow, Knowles, Dewey, Wittgenstein, Schön, Confucio, Lao-Tsu, Aristotele, Socrate, Cicerone, Bruner, Freire, Watzlawick, Nietzsche, Margiotta, Maturana, Demetrio, Sacks, Pascal, Foucault, Eco, Piaget, Winnicott, venivano fuori a raffica dal suo discorso, intercalati da Gregory Bateson che ritornava sistemicamente e il cui nome era pronunciato in maniera speciale, pausatamente, con reverenza. La parte rimanente del discorso era composta da concetti. Epistemologia personale, itinerario sistemico, riformulazione, andragogia, apprendimento trasformativo, distacco cartesiano, sapere tacito, repertorio di strategie, ritualizzazione del quotidiano, doppio vincolo, costruttivismo, cognitivismo, behaviorismo, e non finiva più. Ben presto ho smesso di ascoltare le parole e guardavo soltanto quella figura vestita di nero, di capelli biondi, raccolti in una treccia lunghissima. Ogni tanto lanciava all’indietro lo scialle che era scivolato giù, con un movimento performativo. Avevo accanto a me la macchina fotografica e mi sarebbe piaciuto fotografare quel movimento. Avevo già impostato la velocità dell’otturatore a 1/15 per catturare quel movimento di chiusura. Ma nell’incontrare il suo sguardo che mi comunicava un assoluto divieto di fotografare, ho capito che non era proprio il caso. Peccato, quella foto sarebbe stata la traduzione più perfetta di quel primo incontro. Mi domandavo se sarei stato in grado di conciliare il corso serale di cucina all’Istituto Alberghiero con un Master che si annunciava molto più impegnativo del previsto. Se fossi stato obbligato a scegliere, quale sarebbe stata la mia scelta? Cucinare mi offriva la possibilità di sperimentare combinazioni di ingredienti, condividere delle emozioni nuove con gli amici che invitavo a casa per una sorta di “cena di Babette”. Il corso di sommelier, intanto, stava cambiando il mio gusto personale rispetto al vino. Improvvisamente mi ero scoperto limitato e rigido nella valutazione che facevo dei vini. Buoni per me erano soltanto i vini vinosi, cioè quelli che mi permettevano di identificare subito il vitigno di origine. Le altre qualità, come complessità, intensità, corposità non erano prese in considerazione. Con la stessa ristrettezza mi davo alla degustazione delle persone. La complessità del carattere di una persona, per esempio, non era vista da me come una qualità positiva, ma piuttosto come un difetto. La trasformazione del mio atteggiamento in relazione al vino e ai sapori degli alimenti apriva la strada ad un analogo cambiamento nella mia disponibilità a mettermi in relazione con le persone.

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Pensavo a questo mentre guardavo la Professoressa in nero che, nel frattempo, si era tramutata in una cuoca che tagliava Wittgenstein alla julienne, rosolava Mezirow e Dewey, impanava Knowles nell’andragogia e metteva tutto in un pentolone, per far maturare su fuoco trasformativo, con un fondo a base di Bateson (è chiaro). Sono rientrato nella realtà della classe quando toccava a noi, futuri masterini, parlare del nostro bagaglio culturale e professionale e delle nostre aspettative rispetto al percorso che stava per iniziare. La Professoressa in nero ascoltava in silenzio i futuri allievi, guardandoli fisso negli occhi e tenendo il mento appoggiato a una mano a forma di mezza cozza. Avevo appena iniziato a parlare della mia prassi professionale in cui utilizzavo la fotografia come strumento terapeutico, quando sono stato interrotto con un sonoro e secco NO. Allora mi sono, per così dire, corretto e ho sostituito “strumento terapeutico” con “strumento riabilitativo”; ma ancora una volta sono stato fermato con un NO ancora più enfatico. Altri due o tre NO si sono susseguiti e mi sono sembrati dei NO, non solo a quello che stavo dicendo ma anche a come lo dicevo e addirittura a me come persona. Pazienza. Non era la prima volta per me che si creava una reciproca antipatia all’inizio di un rapporto. Anche se, mai prima di allora, questa antipatia era stata esplicitata così chiaramente. La presentazione del Master è stata per me, a dir poco, indigesta. Se non avessi già pagato la prima rata, avrei forse considerato la possibilità di non frequentarlo. Alla prima lezione del weekend successivo c’era sempre lei, la Professoressa in nero. Non indossava più lo scialle nero, la stanza era un po’ più calda, ma portava un maglione nero (collo alto e cerniera) e al movimento giratorio dello scialle si è sostituito un movimento verticale della cerniera che serviva a puntualizzare in modo performativo le sue affermazioni. Le dichiarazioni dei principi-guida del Master erano eloquenti, ma sinceramente mi suonavano molto retoriche o comunque inattuabili almeno per quanto riguardava me, che arrivavo al Master all’età di quasi cinquant’anni, molto sicuro di ciò che venivo a cercare e per niente disponibile a intraprendere delle esperienze destabilizzanti. Tutto il discorso era costruito sull’idea di trasformazione. Trasformazione della cognizione, trasformazione dell’azione, trasformazione delle prospettive, attraverso una riflessione trasformativa. La proposta di fondo del Master era quella di aiutare l’allievo a inventarsi un progetto di azione che gli permettesse di riconoscere le proprie condotte soggettive personali e in questo senso il processo educativo coincideva con il processo terapeutico (Dewey, Mezirow, Padoan).

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In questo modo veniva meno la separazione fra l’atto di conoscere un oggetto e l’atto di conoscere se stesso. La figura che il percorso del Master intendeva formare era quella di un professionista riflessivo (Schön), dove per professionalità si intende la capacità di stabilire criteri di validità dei metodi e dei risultati della propria prassi. Il messaggio era attraente ma non mi convinceva del tutto. In primo luogo non credevo che il distacco cartesiano tra soggetto e oggetto potesse o dovesse essere colmato. In secondo luogo, non mi pareva realistico che un percorso breve di appena 1 anno, con incontri mensili, potesse creare le condizioni per un apprendimento trasformativo basato sulla costruzione di significati attraverso la riflessione, riflessione sui processi e sulle premesse. Mi domandavo anche fino a che punto si sarebbe veramente attuata l’andragogia di Knowles nei nostri confronti. Se saremmo stati trattati veramente da adulti e non da bambini o adolescenti, se sarebbero stati valorizzati veramente i nostri vissuti pregressi e le nostre esperienze, se sarebbero state rispettate le nostre motivazioni personali e la nostra autonomia, se l’apprendimento di tipo orizzontale (tra pari) avrebbe giocato un ruolo importante quanto quello verticale (allievo-maestro). Era chiaro comunque che dovevo riformulare le mie aspettative rispetto al Master. Nella migliore delle ipotesi, quel percorso formativo mi avrebbe aiutato a: - conoscere i processi che sottostavano al mio agire professionale per metterli in questione, migliorarli o eventualmente cambiarli; - esplicitare il mio sapere tacito; - costruire una teoria sulla mia prassi professionale. Nella pausa tra una lezione e l’altra, alcuni colleghi fumatori sono usciti per fumare, i colleghi mangioni per mangiare e io con lo stesso senso di astinenza sono andato a fare un giro per fotografare. Sono stato però fermato da un collega che non fumava, non mangiava, camminava soltanto e mi veniva incontro. Questo collega mi ha parlato di qualcosa che in un certo modo avrebbe cambiato la mia vita: il KOAN. La lezione seguente è stato un laboratorio proposto da una giovane assistente: questo laboratorio mi ha sconvolto. La notte non sono riuscito a dormire: nella mia camera d’albergo riguardavo le performance dei due gruppi che avevo ripreso e fatto riprendere con la macchina fotografica digitale (potevo fare dei brevi filmati a bassa definizione), poi creavo un koan visivo e verbale ispirato all’impressione causata da ogni collega su di me. Erano le 8.45 della domenica mattina, mancava solo un quarto d’ora all’inizio dell’ultimo incontro del weekend quando avevo finito i tre ultimi koan: quello del Tutor Tiziano, quello della Professoressa Ivana e il mio.

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Alla fine della lezione, ancora anestetizzato da una notte insonne, preceduta da una cena a base di pesce e bagnata generosamente da vino bianco, mi sono avvicinato alla Professoressa in nero per domandarle se voleva importare nel suo computer i due brevi filmati delle performance del giorno prima. I suoi occhi si sono illuminati e dopo alcuni tentativi siamo riusciti a trasferire i files in video dalla macchina digitale al computer. Ormai, eravamo rimasti in classe solo noi tre: il tutor, la professoressa e io. In quel momento, non so come, ho avuto il coraggio di consegnare i koan che avevo preparato pensando a loro. Lei ha preso il suo, lo ha aperto stupita, ha guardato l’immagine costruita con un petalo e una foglia fissati con una cucitrice su un foglio di carta comune. Sicuramente non ha capito, ma sembrava aver gradito. La sera, quando sono arrivato a casa, a Loreto, 500 chilometri da Venezia, ho aperto la mia casella di posta elettronica e ho trovato una sua mail che diceva così: “Continua a fare ciò che stai facendo… la tua tesi è pronta”. Tutto il periodo seguente del mio Master è diventato il tentativo disperato e vano di capire il significato di quella affermazione. Ma che cosa stavo facendo? Di quale tesi stava parlando?

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Alla ricerca della pentola concettuale blog

Da quando ho iniziato il Master a Venezia, ho praticamente abbandonato il corso di cucina all’ alberghiero. Questo era uno dei timori che avevo al momento della mia immatricolazione al Master, ho pensato che forse non sarei in grado di portare avanti i due impegni, come per altro è successo fino ad oggi. Sarà stato il Caffè Pedagogico che mi ha stimolato a riprendere il corso di cucina, che poi sta per concludersi tra pochi mesi? Mi ricordo di aver discusso la questione con Nenê, mia sorella, dopo l’incontro di presentazione ad ottobre a Venezia. Argomentavo che pendevo più a dedicarmi alla conclusione dell’alberghiero, visto che la qualifica di cuoco mi permetterebbe di trovare sempre un lavoro stagionale relativamente ben remunerato e così potrei spendere parte dell’anno in Brasile. Nenê non era d’accordo. Mi ha detto che ciò che in fondo io cercavo si trovava più probabilmente all’Università di Venezia che nelle pentole delle cucine dei ristoranti. In un certo modo aveva ragione Nenê. Adesso mi rendo conto che negli ultimi anni stavo cercando disperatamente una pentola, “panela” in portoghese, una pentola concettuale, un contenitore per i miei vissuti, i miei studi e le mie svariate esperienze professionali,(Schön); un contenitore dinamico, trasformativo, (Mezirow), dentro il quale mettere gli ingredienti che hanno alimentato la mia vita fin qui, (Knowles), per trasformarli in piatti. Dovevo imparare proprio a cucinare le mie idee, le mie prassi, ma mi mancava proprio la pentola, la “panela”, (Padoan), dentro la quale trasformare gli alimenti crudi, attraverso l’azione del fuoco della riflessione e delle letture mirate, in eventuali pietanze da servire a tavola. Mi serviva imparare a individuare e nominare i concetti, identificare le matrici teoriche. In altre parole, dovevo esplicitare il mio sapere implicito. Per questo la prima parte del koan che mi collegava alla Padoan era “PAH nela”. Ma perché “PAH nela” e non semplicemente “panela”, (pentola, in portoghese)? Allora, c’era un programma umoristico televisivo che mi piaceva tantissimo vedere quando ero bambino. Si chiamava, "A Praça da Alegria", La Piazza dell'Allegria, nel quale un simpatico signore, Manoel da Nóbrega, seduto su una panchina, chiacchierava a turno, con i frequentatori di questa piazza immaginaria. Uno dei quadri che mi piaceva di più era quando arrivava Walter D'Avila, un tipo molto allegro, spensierato, perspicace, intelligente ma senza scolarità. Una volta il tipo è arrivato e notando che Manoel da Nóbrega era un po’ abbattuto gli domandò cosa fossi successa. “Sono un po’ giù perché ho perso mia nonna. È morta d’infarto del miocardio.” Allora il tipo, facendo una faccia di chi non ha capito niente, diceva: “Poverina”. “Ma tu sai cos’è l’infarto del miocardio?” E il tipo rispondeva imbarazzato: “No”. Allora Manuel da Nóbrega spiegava: “L'infarto del miocardio è una sindrome che colpisce la parete muscolare del cuore e determina la morte cellulare (necrosi) di una parte del muscolo cardiaco (miocardio)”. “Hai capito?” Allora Walter D'Avila, facendo una faccia più perplessa di prima, rispondeva: “Si, certo dopo questa spiegazione, è tutto chiaro”. Improvvisamente, Walter cominciava a piangere. “Perché piangi?”, domandava Manuel da Nóbrega. “Perché mi sono ricordato che anche mia nonna è morta di recente.”, rispondeva il tipo. “E di che cosa è morta?” “È morta di panela” (pentola). “Ma tu sai cosa significa morire di panella?” “No”, rispondeva Manuel. “Allora ti spiego io: mia nonna ha attraversato la strada senza guardare bene da una parte e dall’altra. In quel momento veniva un tram e PAH (onomatopeica di impatto) nela (contro di lei). Perciò mia nonna è morta di PAH nela. Hai capito? ” Ma che c’entra questa storia con la Padoan? C’entra e come. A volte la Padoan, dovendo spiegare un concetto a noi non familiare, lo fa utilizzando altri concetti a noi ancora più sconosciuti. Ma quando capisce che non abbiamo capito niente, fa degli esempi del quotidiano, così terra a terra, che sono persino divertenti. Stasera c’è lezione di cucina e io sono diviso. Una parte di me rimarrà a casa con le dispense della Padoan e un’altra parte di me andrà all’alberghiero, ma non andrà da sola; Andrà-go-Gia… Postato da Ayres Marques Pinto su ayresnet il 1/22/2007 05:39:00 PM

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6 – I koan dei nomi

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Noodle è Nudo Ho scritto questo testo non appena tornato dal primo weekend del Master “Ho già visto questo film”. Questo è il sentimento dominante che mi accompagna in questi sei anni che vivo in Italia. L’esperienza del Master, però, doveva per forza essere diversa. Mi ero ripromesso di provare altre strategie nel mio “fare ed essere” insieme agli altri. Al di là di alcuni piccoli cambiamenti che a stento sono riuscito a imporre a me stesso, l’impegno che mi ero preso si è rivelato improbabile o addirittura impossibile. Le azioni, le reazioni, le situazioni si ripropongono come il suono “azioni” delle parole appena scritte. Tanto, è inutile. Meglio lasciar perdere. “Relaxa e goza, Ayres”, ho detto a me stesso, nella versione edonista brasiliana del proverbio italiano “Chi s’accontenta, gode”. Erano questi i pensieri che mi facevano compagnia mentre aspettavo da solo, davanti alla sala Moscerino, la ripresa delle lezioni. Ero arrivato molto in anticipo per evitare di essere, come sempre… in ritardo. Ho iniziato, senza rendermi conto, ad accarezzare le tre giapponesine che avevo portato con me: Pentax, Chinon e Ricoh. A un certo punto, non potendo più trattenermi, ci siamo alzati per fare un giro insieme, per FOTOGRAFARE!!!! Non mi sono allontanato molto per non correre il rischio di perdermi in mezzo alle fondamenta, ai rio’ e alle calle di Venezia. Dopo pochi passi mi sono imbattuto nella prima scena da immortalare: una giovane signora si sporgeva da una minuscola finestra per sistemare il bucato. La casa bassa faceva angolo con la piazza e un vicolo stretto che guidava lo sguardo verso la cupola di una chiesa che sorgeva come una montagna nello sfondo. L’intreccio di prosaicità e sacralità di quella visione riempiva il mio cuore di un’allegria birichina. Le giapponesine facevano festa, volevano tutte e tre catturare quella atmosfera. Ma ecco che proprio allora si è avvicinato con passi decisi, senza lasciarmi possibilità di fuga, uno del Master. Era quello della foto. Mamma mia, era proprio lui. Uno più matto di me. Ma ti rendi conto? Quello lì era riuscito ad inserire il suo ritratto sul sito del Master prima ancora che ci fossero assegnate le nostre password. Ma come ha fatto? Volevo domandarglielo quando eravamo nella sala d’informatica, durante la lezione del Professor Battaglia. Ma mi ero controllato. Non posso sempre ripetermi come se fosse un’eco, un’ecooo un’ecooooo co co co…

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“Tu sei un parafulmini di matti”, diceva Gi un po’ scocciata, quando abitavamo in Brasile. Per le persone “normali” i miei amici erano dei soggetti, a dir poco, particolari, strani, degli sbandati. Per me erano degli artisti, dei poeti, dei mistici visionari. Ma queste sono acque passate. Adesso sono in Italia e tutto è diverso, deve essere per forza diverso. Ma quello lì (come si chiama? non mi ricordo) mi guardava e parlava con me come se mi conoscesse da sempre. Ed io, per ironia del destino, avevo la stessa impressione. Eravamo vecchi amici dopo un minuto di conoscenza. “And while we spoke of many things, fools and kings, this he said to me…” - Hai mai lavorato con bambini autistici? Gli ho risposto che quello era un mio vecchio sogno che non si era ancora realizzato. Allora mi ha raccontato la sua esperienza con un bambino autistico. La cosa che gli era rimasta più impressa era il fatto che, lungo i due anni di convivenza, il bambino lo chiamava sempre “NUDO”. Un giorno questa storia è venuta fuori mentre parlava con il suo psichiatra. Il medico lo rassicurò dicendo: “ Il bambino, semplicemente, ti sta proponendo un Koan”. Koan, come mi ha spiegato il mio nuovo vecchio amico Noodle, è come se fosse un enigma, apparentemente paradossale, in forma di parola, di frase, di domanda o di un gesto, che viene proposto dal maestro all’allievo o viceversa e che è il punto di partenza verso la scoperta di un significato nascosto su un argomento, su una cosa o su una persona. Il mio nuovo vecchio amico si è ricordato che, da bambino, è stato molto pudico. Non si faceva mai vedere nudo da nessuno, in nessuna circostanza. Il bambino autistico aveva intuito questa storia e si rapportava con il “bambino” che gli stava davanti, appunto, NUDO. Mi sono ritrovato immediatamente nel bambino autistico. Neanch’io riesco a chiamare gli altri con i loro nomi. Qualcosa dentro di me si rifiuta di farlo. I nomi sono per me parole vuote, senza significato e perciò non riesco a ricordali. Per un altro verso, sono prodigo nell’attribuire dei soprannomi agli altri. Soprannomi che più di una volta sono diventati l’appellativo di identificazione della persona per tutta la vita. Ho scoperto che, come il bambino autistico, io proponevo dei koan alle persone. Il concetto di Koan, seguito da questa storia, è stato per me come una folgorazione, un’ illuminazione, un’epifania. Per così dire, mi ha cambiato la vita. Mi ha scombussolato ancora di più all’interno, mi ha messo in subbuglio e, certo, per cambiare, mi ha fatto arrivare in ritardo alla lezione-performance della giovane assistente…(Come si chiama? Mi sono dimenticato). La lezione-performance della giovane assistente era già iniziata quando sono arrivato, ma non sarebbe veramente cominciata fino all’ultima mezz’oretta dell’incontro.

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Kosè un Koan? Koan è una parola giapponese che viene dal cinese gong’an, principio di governo, o legge, ma i koan hanno origine nei detti dei saggi e di figure leggendarie che riconoscono Bodhidharma (sec. V e VI a.C.) come loro ancestrale. Koan può essere una frase, una parola, una storia, un gesto, un’azione che ha come funzione quella di innescare un percorso di meditazione che porta a un’illuminazione, a un risveglio, all’esperienza di un insight, al “kensho”. In occidente, koan può apparire semplicemente come una domanda che non ha una risposta o a cui non si può rispondere, o a un’affermazione senza senso. All’interno della pratica Zen i koan hanno un senso e i maestri si aspettano una risposta dai discepoli, sebbene non esista a priori una risposta corretta o sbagliata. Secondo Daisetz Teitaro Suzuki, il grande divulgatore del sapere orientale in occidente, l’esercizio di meditazione basato sui koan è stato creato per evitare due pericoli a cui poteva portare la pratica Zen: da un lato il mutismo e dall’altro l’intellettualismo. Presso alcune scuole Zen, come per esempio la Rinzai, scuola del cambiamento improvviso, la formazione dei discepoli si basa sulla pratica dei koan. L’allievo partecipa a colloqui periodici durante i quali espone il suo punto di vista sul koan sul quale sta meditando. Tre sono le raccolte più conosciute di koan: La barriera senza porta, La raccolta della roccia blu, Il libro della serenità. Uno dei commenti più ricorrenti fatti dal maestro è: “Sarà pure vero quello che dici, ma non ti servirà a niente se tu non lo sai nel profondo di te stesso”. Infatti il maestro non cerca mai una risposta specifica dei discepoli, ma un’evidenza che esso ha realizzato il significato pratico che il koan può avere per la sua vita quotidiana. In altre parole, il maestro vuole verificare se l’allievo ha abbandonato alcune abitudini mentali precedenti. Uno dei koan più famosi è il seguente: Un monaco ha domandato a Zhaozhou: “Un cane ha la natura di Buddha o no?”. Zhaozhou risponde: “Wú”. Wú, in cinese, o Mu in giapponese, significa più o meno “né l’uno né l’altro”, o “senza”, o ancora “vuoto”. Jack Kerouac, nel suo romanzo Zen The Dharma Bums ha parafrasato questo koan: “Does a dog have Buddha nature or not?” – “Woof”. Trovo dei parallelismi tra la formazione del discepolo dello Zen Buddismo, basato sulla meditazione dei koan, e l’apprendimento trasformativo di Mezirow. Ancora oggi mi domando se la provocazione del mio maestro Ivana Padoan: “Continua a fare ciò che stai facendo… la tua tesi è pronta”, non fosse altro che un koan, o per dirlo con un concetto più occidentale, un déplacement cognitivo. Chissà?

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Trovarsi e non trovarsi Trovarsi e non-trovarsi era il titolo del primo laboratorio di performance proposto all’interno del Master da una giovane assistente della Professoressa Padoan, Alessandra Petronilli. Era una proposta molto semplice e apparentemente banale: Alessandra ci aveva presentato un suo adattamento di un atto dell’opera Trovarsi di Pirandello, in cui la protagonista si trova davanti allo specchio nel suo camerino dopo lo spettacolo e non si riconosce nella sua immagine riflessa nello specchio. Il nostro compito era di decidere insieme come creare una performance basata su quel testo. Raccontata così, potrebbe sembrare un normale laboratorio teatrale, ma non lo è stato. Il senso dell’attività come vissuto non stava nella realizzazione di una messa in scena né nell’elaborazione mentale dei possibili significati del testo di Pirandello. Il valore esperienziale del laboratorio si trovava nella modalità personale di partecipazione al processo decisionale del gruppo. Fino a quel momento ci era stato chiesto, in diverse occasioni, di presentarci, di raccontare qualcosa di noi, di descriverci. Ma nel laboratorio Trovarsi e non trovarsi ci è stato chiesto di fare agire la nostra personalità, di metterci in relazione di potere con gli altri. Quel seminario mi ha permesso di conoscere meglio i miei colleghi e di entrare in contatto più profondamente con me stesso. Il tentativo della protagonista di trovare se stessa, attraverso l’osservazione diretta, era destinato al fallimento. Soltanto mettendosi in relazione è possibile svelare la propria personalità sia agli altri sia a se stessi. Il laboratorio mi ha confermato la validità del concetto di “persona come singolarità in relazione”. La classe era stata divisa in due gruppi di persone che si conoscevano soltanto attraverso l’auto-descrizione. Il mio gruppo era formato da: - Geyleen, ex-attrice venezuelana di circa 30 anni, sposata e residente a Venezia - Luca Rodella, attore di 23 anni, studente di Filosofia - Lara, psicologa di circa 25 anni, fidanzata - Marta, maestra e musicista di circa 23 anni - Antonella, maestra di origine siciliana di circa 23 anni, residente a Torino - Irene, neolaureata di circa 23 anni - Chiara, psicologa di circa 25 anni (amica di Lara) - Paola, fisioterapista e musicista panamense - Luca Scatamburlo, giornalista e pubblicista, perito chimico, laureato in Lettere, ricercatore di forme di vita aliene - Ayres, ex-attore, animatore brasiliano di 48 anni, sposato e padre di una figlia, residente a Loreto

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Geyleen è stata la prima a intervenire e a indicare Luca Rodella, l’attore, per fare il regista. Luca non ha né accettato né rifiutato la richiesta. Allora Geyleen ha suggerito che ognuno scegliesse un personaggio e ha scelto subito il suo – la protagonista. Io invece ho suggerito che si facesse il gioco della sedia: chi fosse rimasto in piedi alla fine di ogni giro avrebbe detto la battuta di un personaggio, in modo che lo stesso personaggio potesse essere rappresentato da diversi attori. La proposta finale del gruppo ha escluso il gioco della sedia, ma è stato il risultato di una negoziazione tra diverse opinioni che ruotavano attorno alle due proposte alternative. Inizialmente ero infastidito dal fatto che Geyleen non avesse permesso al gruppo una pausa iniziale di riflessione. Mi ha turbato il suo atteggiamento di comando: “Tu sei l’attore, allora fai il regista”. La risposta di Luca è stata di una maturità sorprendente, quasi una risposta “Mu”. Dato che Geyleen insisteva nella guida del gruppo, tenendo un po’ troppo corta la briglia, mi sono fatto avanti lanciando un’alternativa che lasciasse più libertà ad ogni partecipante. Dopodiché mi sono irrigidito nella mia proposta iniziale – mi sembrava così interessante! Non riuscivo a visualizzare gli altri personaggi, a parte quello della protagonista. Tutti gli altri personaggi mi sembravano amorfi. Alla fine il gruppo è riuscito a elaborare una performance in cui ognuno ha potuto fare più o meno ciò che desiderava. E, riguardando il filmato, mi rendo conto che la proposta finale non mi rispecchiava ma era molto più interessante e libera della mia. La mia tendenza sarebbe stata di auto-escludermi, dato che il mio suggerimento non era stato accolto. Rimanere e partecipare mi è costato non poco sforzo. Ma la battuta che ho scelto in fondo mi bastava: “… e non trovarmi”. La disposizione di ogni elemento del gruppo, il movimento o la mancanza di esso, la battuta che ognuno ha scelto di pronunciare, hanno rivelato molto di più su ognuno di noi che tutte le presentazioni che avevamo fatto in quel momento. Soltanto allora ho compreso perché la Professoressa Padoan aveva presentato Alessandra come un architetto di relazioni. È stato proprio così.

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Trovarsi e non-trovarsi NOME PERSONAGGIO TEMPO POSIZIONE MOVIMENTO MESSAGGIO FRASE

Paola Casal Una Donna 9” in piedi, fuori scena davanti sinistra - centro entra e esce solidarietà “ bella condanna, amarsi in pubblico… ”

NOME PERSONAGGIO TEMPO POSIZIONE MOVIMENTO MESSAGGIO FRASE

Geyleen Gonzales Attrice 1 (di carne e ossa) 74” seduta al centro davanti, in piedi al centro Seduta, in piedi, frontale, di profilo lamentazione ” Monologo: “ tutti se ne sono andati…

NOME PERSONAGGIO TEMPO POSIZIONE

Marta Prosperini Pubblico 1 17” Fuori scena, davanti, sinistra, seduta sul tavolo Gesticola senza spostarsi incoraggiamento “… il pubblico si innamora di te… ”

MOVIMENTO MESSAGGIO FRASE NOME PERSONAGGIO TEMPO POSIZIONE MOVIMENTO MESSAGGIO FRASE

Chiara Acerbis Attrice 2 (concettuale) 7” In piedi in fondo – in centro un po’ dietro Arriva dal fondo e ritorna in fondo contestazione “…non puoi saperlo tu, se non lo so io stessa chi sono… ”

NOME PERSONAGGIO TEMPO POSIZIONE MOVIMENTO MESSAGGIO FRASE

Antonella Gabellone Pubblico 2 27” Seduta sul tavolo in fondo al centro Gesticola poco, senza spostare critica - sensualità “ Se Lei gli da il suo corpo, scusi… ”

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Trovarsi e non-trovarsi NOME PERSONAGGIO TEMPO POSIZIONE MOVIMENTO MESSAGGIO FRASE

Irene Lisciotto Pubblico 3 16” Fuori scena, seduta, dando le spalle al pubblico, a destra Non si sposta constatazione “…un’attrice non può più aver segreti per nessuno… ”

Lara Benedet NOME PERSONAGGIO Attrice 3 (psico-filosofica) 3" TEMPO Seduta per terra in fondo a sinistra, in piedi POSIZIONE in fondo a sinistra Si alza MOVIMENTO riflessione MESSAGGIO “…l’unica possibilità di vivere tante vite…” FRASE NOME PERSONAGGIO TEMPO POSIZIONE MOVIMENTO MESSAGGIO FRASE NOME PERSONAGGIO TEMPO POSIZIONE MOVIMENTO MESSAGGIO FRASE NOME PERSONAGGIO TEMPO POSIZIONE MOVIMENTO MESSAGGIO FRASE

Ayres Marques Attrice 4 (fantasma) 6” Seduto in centro, dando le spalle all’attrice 1, mantenendo contatto fisico immobile fatalità “ e non trovarsi” Luca Scatamburlo Chi-Sa 9” Seduto in fondo a destra, posizione statuaria di osservatore critico Si alza, parla al centro, ritorna ammonimento “ deve essere il m omento più difficile tornare a voi” Luca R odella Attrice 5 (specchio) 12” Seduto davanti, di fronte all’attrice 1 Si siede, si alza e esce di scena Battuta ludico-filosofica “ non mi sento proprio in condizione stasera di restare in mezzo a voi. Mi ritiro!”

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Mente sana in corpo rotto

Blog Sono arrivato a casa con i muscoli acciaccati e le ossa rotte ma col cuore e la mente in ebollizione. Quattro giorni intensi di stimoli, di emozioni e di piaceri. Mi aspettavano a casa, un mucchio di cose da sbrigare. Ma oggi non era aria. Proprio non ce la facevo, ero in coma. Dovevo permettere al mio cervello quel minimo di tempo per elaborare e godersene tutto quello che abbiamo vissuto nelle ultime centinaia di ore. Credevo di rientrare subito nella mia quotidianità Loretana, ma prima di farlo ho aperto la posta elettronica. Ho letto il messaggio di Alessandra che diceva che si era divertita guardando i koan che avevo inventato e che aveva persino riconosciuto il suo. Ho conosciuto Alessandra nel primo incontro del primo weekend del Master, precisamente il 10 novembre 2006, al Palazzo Mocenigo di Venezia. Quel primo incontro è stato stranissimo. Mi ero sistemato in fondo alla sala dove c’era una presa per il portatile, visto che volevo registrare la lezione; che poi non sono riuscito a farlo. Ecco che da una porta improbabile, proprio in fondo la sala,vedo spuntare Alessandra con una mossa di chi arriva in ritardo. In una frazione di secondo ho immaginato mio notebook per terra, portato via da questa comparsa inattesa; ho guardato la persona che entrava e ho creduto di conoscerla; mi sono alzato per abbracciarla e baciarla; ma l’espressione di perplessità della persona che ha trovato davanti a sé 90 kg di una sorta di aborigene che sembrava pronta all’attacco mi hanno fatto capire che si trattava di un inganno. Per tutto lo weekend ho cercato di individuare per chi avevo preso quella giovane ragazza; una faccia così conosciuta e a me vicina. Pensavo proprio a questo quando sono arrivato a casa la domenica alle tre di notte, mentre parcheggiavo la macchina. Certo, era la mia vicina di casa, Francesca Falleroni. Una persona così discreta che quando siamo stati presentati per lavorare in un progetto insieme, ho domandato se lei era di Loreto, per poi scoprire che era mia vicina di casa. Così ho chiamato Alessandra, Francesca e d’allora, quando incontro Francesca, la chiamo Alessandra, Alessandra Petronilli. -Postato da Ayres Marques Pinto su ayresnet il 1/22/2007 01:01:00 AM

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blog Non sapevo cosa fosse un koan. Me l’ha detto Noodle (Luca), un collega del Master. Si può dire che il koan è uno strumento di meditazione orientale che consiste in proporre una domanda, un dialogo o altro, apparentemente assurdo, che serve di spunto a un percorso di scoperta. Si può capire meglio visitando il sito: http://it.wikipedia.org/wiki/Koan Un esempio delizioso si trova nella chiusura della tesi proprio su i koan, di Andrea Vittorini: Il maestro: “Che cosa è lo Zen?” L’allievo (dopo una lunga pausa): “E’ Zen” Il maestro: “Chiacchierone” (Aneddoto di D. Suzuki) www.koanseling.com Domani m’incontrerò con i colleghi del Master e gli consegnerò i koan che avevo preparato per me stesso per ricordare i loro nomi. Adesso intendo raccontare il viaggio mentale che ogni koan mi ha spinto a fare. Penso di fare altri per altre persone che conosco, utilizzando altri mezzi. Se vuoi vedere i primi koan poi visitare il sito: www.flickr.com/groups/koandeinomi . -Postato da Ayres Marques Pinto su ayresnet il 1/11/2007 10:40:00 PM

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Nomi Trovo

Avevo bisogno di trovare una rappresentazione verbale e visiva dei miei nuovi colleghi del Master che avesse un significato per me. Una password provvisoria che mi permettesse di collegare ognuno a un significante, finché, col tempo, imparassi naturalmente il nome di battesimo di ognuno. La riflessione sul meccanismo inconsapevolmente utilizzato nel processo di creazione di questi nomi mi ha permesso di capire quanto questi koan raccontano me stesso piuttosto che le persone a cui erano originariamente destinati. L'incontro con ognuno di voi è riecheggiato dentro di me e ha prodotto una sorta di musica, mi ha fatto sentire canzoni dimenticate e ricordare vecchie storie e persone a cui non pensavo più. "La vita è l'arte dell'incontro, malgrado tutti gli scontri che abbiamo nella vita", diceva il poeta brasiliano Vinicius de Moraes. Incontrarvi è stato per me un bel regalo che vorrei ricambiare con questi koan. Non ho avuto il coraggio di consegnarveli di persona temendo non fosse cosa gradita. Per questo li ho raggruppati in questo album. Sono felice di avervi incontrati. Ayres

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7 - L’azione allo specchio Il primo effetto della provocazione della Professoressa Padoan è stato di farmi fermare per riflettere sulla mia azione, su ciò che davo per scontato. Ho strutturato la mia riflessione ispirandomi allo schema dell’azione riflessiva di Dewey. Che cosa sto facendo quando fotografo o quando riprendo in video? Sto giocando, mi sto divertendo, instaurando relazioni, osservando e commentando allo stesso tempo. Ad un altro livello potrei dire che sto realizzando una sorta di documentazione come forma di celebrare la vita, come una mia modalità di “esserci nel mondo”. Qual è l’oggetto della mia documentazione, il suo contenuto? Che cosa documento? Le persone nel loro fare, nel loro modo di essere, nelle cose che fanno, che dicono e come interagiscono con l’ambiente, ma soprattutto come le persone interagiscono con me. Come documento? Qual è il processo della mia documentazione? Presento la documentazione su uno sfondo ludico, come un invito al gioco. Rispondo a un mio desiderio, un bisogno di fotografare o di riprendere, con la possibilità di offrire – in futuro, un giorno, forse – una restituzione al soggetto fotografato o ripreso, sotto forma di fotografia o di filmato del momento presente. Non si tratta di un patto “serio”, dato che io non sono serio, sono un personaggio creato da me stesso che non interpreta nessuno e agisce all’interno di una performance, proponendo allo spettatore di diventare il protagonista. Il gioco-performance è fine a se stesso, a prescindere dal risultato, ossia dalle fotografie o dai filmati. Da quanto tempo realizzo questo tipo di documentazione? Il mio lavoro è strettamente collegato a questa mia modalità di documentazione. In casa di riposo utilizzo le fotografie del passato, per organizzare l’album dei ricordi, e del presente, per creare dei ponti relazionali, all’interno di un progetto di costruzione / ricostruzione di processi identitari (Padoan). Nelle comunità psichiatriche e nei centri di salute mentale, durante le spedizioni fotografiche che organizzo, vengono enfatizzati gli aspetti ludici-relazionali della documentazione partecipativa. Riflettendo retroattivamente, scopro di aver già praticato la documentazioneperformance prima ancora che essa diventasse il mio lavoro. Ho documentato la mia esperienza lavorativa all’Ostello della Gioventù, nell’industria grafica, alla catena di montaggio, oltre alla mia vita privata da quando vivo in Italia. Ma anche prima, quando vivevo in Brasile.

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Fino ad oggi, il lavoro di documentazione per me più importante e coinvolgente, è stata la video-antologia “Um Dia – A Poesia”, una raccolta di filmati che riprendevano i poeti, famosi o perfettamente sconosciuti, della città di Natal mentre declamavano i loro versi in diversi punti della città. Inoltre, ho documentato la trasformazione del quartiere “Vila de Ponta Negra”, durante gli anni in cui vi ho abitato. Andando indietro nel tempo, prima di tornare in Brasile avevo documentato il periodo Berlinese, l’infelice soggiorno da studente a Pavia, e prima ancora la mia felice esperienza “lontano da casa” in Inghilterra. Se penso all’adolescenza e soprattutto all’infanzia, mi rivedo divertito a fare scherzi con la macchina fotografica. Non riesco a ricordare quando ho iniziato a fotografare, né quale è stata la prima fotografia scattata da me. E quale sarebbe la premessa di fondo di questa mia documentazione performativa? Forse la premessa è l’illusione che sia possibile conservare la vita, fermare il tempo, portare via sé le cose e le persone, o almeno la loro rappresentazione tangibile, meno arbitraria e astratta della memoria o dei racconti scritti. Forse è anche il desiderio di dimostrare, di raccontare - mediante la presentazione delle prove concrete (immagini) l’esistenza di genti e di luoghi in un dato momento. Che cosa è veramente importante per me nella documentazione? L’oggetto della documentazione, ciò che è davanti all’obiettivo? Ciò che non si vede nella foto o sullo schermo? L’invisibile? Ciò che è dietro la macchina fotografica: io? Wim Wenders scrive che “la macchina fotografica è un occhio che può guardare nel contempo davanti e dietro di sé. Davanti scatta una fotografia, e dietro traccia una silhouette dell’anima del fotografo”. È possibile che, per me, quella silhouette invisibile presente in ogni fotografia sia importante quanto la propria immagine fotografica. Potrei dire allora che il documentare per me è multidimensionale e è articolato in diversi livelli: - documentazione come forma di “esserci nel mondo” - documentazione come azione fine a se stessa, per gioco, per divertimento - documentazione come modello relazionale: io / l’altro – io di qua e tu di là - documentazione come celebrazione della vita - documentazione come affermazione della morte - documentazione come affermazione del diritto legittimo di ogni essere umano all’aspirazione di avere i suoi 15 minuti di celebrità - documentazione come modalità narrativa e come prova dell’esistenza di chi documenta - documentazione come sostituzione delle rappresentazioni della vita costruite verbalmente, concettualmente.

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In fondo il mio presupposto è che la vita in generale e la mia in particolare non abbia un significato che vada al di là del vivere stesso. Oppure che io stesso non possieda gli strumenti per indagare sul significato della vita. Nel mio caso, la documentazione visiva e la costruzione del significato della vita coincidono. In questa coincidenza viene a mancare la funzione strumentale dell’osservazione nella costruzione di significati (Padoan). In che modo riesco a evitare, o meglio, in che modo rimango preso nella trappola dell’osservazione? La più insidiosa fra le trappole che incontro nella mia prassi professionale basata sulla documentazione non è tanto quella dei pregiudizi, della proiezione, dei punti di vista o dei linguaggi, quanto piuttosto quella della superficialità. Spesso mi vedo trascinato dagli eventi, a volte sento di realizzare un’attività il cui significato mi sfugge e che diventa ripetitiva. Per sfuggire a questa trappola non posso contare sugli strumenti meccanici, macchina fotografica, videocamera, registratore, ma devo servirmi di strumenti mentali per la costruzione della mia consapevolezza. E come correttivo alla mia rigidità mentale, devo praticare la riflessione nell’azione e sull’azione (Schön), instaurando un dialogo riflessivo con la pratica. A questo punto mi domando: come instaurare un dialogo riflessivo con la pratica senza confrontarmi con gli altri? Per quanto riguarda il Master ho chiesto aiuto ai miei maestri, in particolare alla Professoressa Padoan e al Professor Mario Paolini; allo stesso tempo, ho potuto contare sulla collaborazione dei miei colleghi, in particolare Chiara Piazza e Luca Rodella che si sono resi disponibili per lavorare insieme a me.

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L’occhio e la mente Il piede e il pallone e-mail

At 15.00 01/04/2007, you wrote: Cara Professoressa Ivana, Le scrivo per cercare di fare il punto della situazione, prima di inviare il piano di tirocinio e la proposta per la tesi. Si tratta piuttosto di una riflessione “ad alta voce” che dovrebbe servire a me per fare un po’ di luce su alcune aree ombreggiate dai dubbi. Avevo deciso di fare questo Master perché avvertivo il bisogno di inserire in un contesto più ampio le esperienze che ho fatto utilizzando “l’agire fotografico” nelle relazioni di aiuto alle persone con disagio psichico e con i vecchietti istituzionalizzati. Cercavo strumenti che mi permettessero di capire meglio la mia prassi, esplicitare le conoscenze accumulate negli anni per poter approfondirle, riflettere su di esse e per trasmetterle agli altri. Da quando ho iniziato a lavorare con la fotografia come strumento di aiuto ho parallelamente intrapreso un percorso di ricerca indipendente su tutto ciò che è stato scritto su questa tematica, spinto dai risultati positivi degli interventi sugli utenti riconosciuti dagli psichiatri, dagli psicologi, dagli operatori e soprattutto dagli utenti 48


stessi. La questione è che la mia ricerca non mi ha portato a identificare il mio operato nelle esperienze documentate, non mi ha aiutato a capire la struttura di base e le ragioni del funzionamento della mia prassi. La maggior parte degli studi su questo tema si concentra su gli utilizzi della fotografia all’interno del setting psicoterapeutico. Si potrebbe dire in un modo semplificato che la fotografia viene utilizzata come punto di partenza per stimolare il paziente a verbalizzare le proprie emozioni, ricordi, paure e altro. Così concepita, la fotografia diventa una chiave di accesso al mondo interiore che passa però soprattutto attraverso la parola. Questa modalità di intervento viene chiamata da alcuni studiosi (Krauss, Berman, Weiser) FOTOTERAPIA, mentre tutti gli altri percorsi al di fuori del setting psicoterapeutico vengono vagamente definiti come FOTOGRAFIA TERAPEUTICA. L’atteggiamento verso la fotografia che porta a questi tipi di definizioni non prende in considerazione “l’agire fotografico” in tutte le sue possibili declinazioni ma privilegia in maniera restrittiva la “foto” come oggetto bidimensionale. Conseguentemente la ricerca che ho fatto non mi ha portato alla scoperta degli strumenti che cercavo. In questo senso mi è stato molto più utile l’incontro con la musicoterapia. Un giorno sono stato invitato a documentare una sessione di musicoterapia nella comunità psichiatrica dove lavoravo. Ho riscontrato più affinità processuale e di obbiettivi comuni tra la musicoterapia e le attività che svolgevo con i ragazzi della comunità nel nostro percorso fotografico che con la “fototerapia psicologica” proposta normalmente nei libri. Per questa ragione mi era già chiaro dall’inizio di questo corso quale sarebbe stata la linea della mia ricerca, del tirocinio e il tema della mia tesi. Mi interessava conoscere il percorso che ha portato la musica a diventare anche musicoterapia, sapere la strada che porta dalla danza alla danzaterapia, dal movimento alla psicomotricità, dalla rappresentazione allo psicodramma e alla drammaterapia, per poi verificare se ci sono i presupposti per poter proporre una reinvenzione della fototerapia. Lei può immaginare, Professoressa Ivana, la mia sorpresa quando Lei ha affermato alla fine dello scorso anno che io “avevo già la mia tesi pronta”. Non capivo come quel mio gioco di fare qualche scatto e qualche ripresa dei colleghi e dei docenti più simpatici per poi condividere le immagini con loro online potesse aver un valore al di là dell’aspetto ludico-relazionale e che potesse destare qualche interesse e diventare oggetto di studio. Sono contento di aver accolto il Suo suggerimento anche senza capire esattamente cosa significasse. Ho imparato nel mio mezzo secolo di vita ad aver un atteggiamento umile rispetto alle persone che sanno di più e che per questo possono vedere più lontano e stabilire delle relazioni che agli occhi più ingenui possono sembrare improbabili. All’inizio, in mezzo al buio, mi sono orientato dal seguente ragionamento: devo documentare il Master nella miglior maniera possibile. La riflessione che farò sarà a posteriori e indipendentemente dalla qualità della riflessione, sapevo che il materiale prodotto sarebbe stato utile all’Università, il che mi dava molto piacere e mi faceva sentire molto onorato. Nei nostri primi incontri di orientamento, ricavati nelle pause dei Caffè Pedagogici, Lei mi ha indirizzato ad un’altra via, dicendomi che il materiale che stavo raccogliendo doveva servire innanzitutto alla mia tesi e che il vero oggetto della mia ricerca ero io stesso e non il Master. Questa osservazione seguita dall’indicazione di riflettere sulle teorie di Donald Schön mi hanno permesso di 49


approdare in un altro territorio di idee per me ancora sconosciute, una piccola scoperta che per me vale tutti gli sforzi che ho dovuto e che devo fare per frequentare questo corso. Il valore della documentazione come supporto per la riflessione sulla pratica (a posteriori) è abbastanza noto e scontato, mentre l’atto di documentare come strumento facilitatore della riflessione nel corso dell’azione non è un accorgimento così ovvio e automatico. Per spiegare meglio quello che intendo dire racconterò una esperienza che ho vissuto in prima persona all’inizio degli anni 90’, in Brasile e che solo adesso, con il Suo aiuto e l’aiuto di Schön, sono riuscito capire. Mi si era presentata l’opportunità di fare il fotoreporter in un giornale, ma prima dovevo superare una prova di fuoco, che è quella di imparare a documentare delle partite di calcio professionale. Mi hanno affiancato al più bravo fotoreporter sportivo della regione. Emerson do Amaral faceva il fotoreporter dall’età di quattordici anni. Era molto rispettato nell’ambiente giornalistico nonostante avesse soltanto la terza media. Io mi aspettavo che lui mi insegnasse i trucchi del mestiere. Invece, mentre andavamo allo stadio mi parlava delle squadre, dei calciatori, della loro vita privata, del loro stile, mi parlava degli allenatori, delle tifoserie; mi riempiva la testa con tutte quelle informazioni che poco avevano a che vedere con la fotografia. Sul campo, lui sembrava più uno spettatore attento che un fotografo. Scattava poco e guardava tanto. Io invece seguivo il pallone, scattavo tantissimo e cercavo di non perdere niente. Tornavamo in redazione e lui aveva una storia raccontata con una trentina di scatti, mentre io avevo duecento scatti che non raccontavano un bel niente. Dopo alcuni tentativi senza successo, ho capito che quello non era il mio mestiere. Ho sempre pensato che Emerson avesse fatto il furbetto e che non mi avesse rivelato il suo modus operandi. Invece no; lui ha provato a spiegarmi che una partita non è un’insieme di avvenimenti sconnessi che vengono messi in relazione uno con l’altro a posteriori. Documentare una partita vuol dire capirne la trama, far emergere la struttura narrativa invisibile che trasforma un incontro sportivo in una storia. Il fotoreporter sportivo deve possedere gli elementi che gli permettono di svelare la struttura della storia nel corso dell’azione. Soltanto così il fotografo sarà in grado di anticipare le azioni, di scegliere dove piazzarsi nel campo e tante altre piccole decisioni che sono orientate da un piano e da una forma di dialogo estremamente articolato tra gli elementi che formano l’oggetto della documentazione e il soggetto che lo documenta. Questo meccanismo si applica anche alla documentazione di una lezione accademica o di un laboratorio. Questa consapevolezza mi esorta a sviluppare un tipo di concentrazione e di atteggiamento partecipativo in cui gli occhi possono trovarsi al di fuori dell’azione ma la mente deve essere in stretta comunione con ciò che viene documentato. In questo senso, l’atto di documentare, l’esercitarsi nel ben documentare può rivelarsi anche un eccellente strumento pedagogico.

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8 - La musica non esiste blog “Per me la musica è la vita. Io penso musicalmente.” Così ha esordito il Professor Lino Vianello nella lezione di oggi al Centro Studi di Musicoterapia e Linguaggi non Verbali a Campalto, Venezia. Questa frase mi ha fatto pensare a Mario de Andrade, una delle figure più rappresentative dello scenario culturale brasiliano del 900. Mario de Andrade è lo scrittore più simpatico di cui abbia mai sentito parlare. Nonostante lui pensasse che “Não devemos servir de exemplo a ninguém. Mas podemos servir de lição.”, ho trovato in lui, “paulistano” come me, un modello di vita a me congeniale. Penso di aver letto quasi tutto ciò che ha scritto e avrei voglia di rileggere tante cose sue, se avessi la mia biblioteca qui in Italia. Mi ritrovo molto in Mario de Andrade. Era amante della musica, si è innamorato di Natal e voleva andare a viverci, si divertiva con la sua macchina fotografica, era brutto ma sorridente, proprio come me e anche lui ha avuto la vita segnata dalla perdita di un fratello. L’unica differenza è che Mario de Andrade alla mia età aveva rivoluzionato la cultura brasiliana del suo tempo e io non ho ancora messo a posto la cucina di casa. Mario de Andrade ha descritto il mio carattere, ancora prima che io fossi nato, nel romanzo-fiaba-indigena “Macunaíma – l’eroi senza carattere” che ha ispirato il film omonimo di Joaquim Pedro de Andrade. Mario de Andrade si è formato al Conservatorio Musicale di São Paulo di cui è stato direttore, ma a un certo momento ha deciso di dedicare la sua vita ad altro che la musica perché “ha scoperto che la musica non esiste, ciò che esiste è l’arte”. Così si è tuffato nella letteratura e nelle arti figurative e ha contribuito a introdurre “carnevalescamente” il modernismo nel Brasile parnassiano. Più tardi avrebbe capito che ciò che lo affascinava non era l’arte, ma la vita. Allora si è dedicato al folclore, all’“antropologia fantastica”, alla fotografia e ha influenzato intellettuali del calibro di Câmara Cascudo. Ma, prima di morire, si è reso conto che la vita non è altro che… MUSICA! -Postato da Ayres Marques Pinto su ayresnet il 2/19/2007 07:31:00 PM 51


Musicoterapia e Fototerapia

e-mail

Caro Professor Mario Paolini, riascoltando le lezioni del seminario di Campalto e guardando i video mi si è confermata una mia intuizione che la musicoterapia, come metodo di intervento nella relazione di aiuto, può fornire tanti insights applicabili ad altre tecniche, come per esempio ad una eventuale fototerapia. Sarei molto interessato a fare il tirocinio di osservazione e classificazione in musicoterapia attraverso il materiale in vhs che deve essere digitalizzato. Vorrei sapere se tale progetto di tirocinio è ancora valido e se io ne posso fare parte. Se venerdì o sabato, Lei fosse presente all'esame, vorrei portare il modulo per il tirocinio così che Lei lo potesse firmare, sempre se questo fosse possibile. Vorrei inoltre consegnarLe il DVD con le riprese fatte nei seminari di musicoterapia del Master. Colgo l'opportunità per inviarLe l'intervento che ho fatto al forum che riguarda il seminario di Campalto. Spero di incontrarLa, domani o sabato a Venezia. Cari saluti. Ayres

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Intervento sulla musicoterapia forum

Il Professor Mario Paolini, nella sua prima lezione si domandava “se una cosa così normale come la musica potesse assurgere al rango di terapia”. Credo che questa questione, così come è presentata, nasconda un trabocchetto, perché viene assunto che il fattore che determina se qualcosa possa o meno essere una terapia sia la cosa stessa. Non credo che basti il valore intrinseco di qualche attività o di qualche oggetto per far sì che essa si costituisca in una terapia. Aver un gatto o un cane può essere terapeutico ma non per questo è pet therapy. Ascoltare musica o suonare uno strumento può essere terapeutico ma no è necessariamente una terapia. Tutto è potenzialmente terapeutico ma non tutto si configura come terapia. Forse si potrebbe domandare che cos’è che trasforma una cosa terapeutica in una terapia? Certamente è necessaria una base teorica che dia strumenti per capire, trasmettere, esplicitare, rendere consapevole l’utilizzo di una tecnica in una relazione terapeutica. È necessaria una pratica, una casistica che dimostri la validità di una tecnica o di una disciplina perché essa possa essere considerata terapia. Ma soprattutto è necessaria una figura professionalmente preparata, formata, che sia in grado di mettere in atto un processo terapeutico servendosi di una determinata tecnica o disciplina. Spero che nel futuro ci siano tantissime nuove terapie che oggi non sono ancora diffusamente impiegate. Spero che la fototerapia sia una di queste.

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9 - Mia cugina Chiara d’India E se io dicessi che una delle mie colleghe del Master ha un nonno che è nato in Brasile, a Franca, proprio nel paese di origine della mia famiglia e che un mio zio di 90 anni, Alvaro, che ancora vive a Franca si ricorda dei Baldassieri, voi mi credereste? Eppure è così. Per questo motivo chiamo Chiara “mia cugina”. È stata lei la prima persona che ha dato la sua disponibilità per guardare insieme a me le foto e i filmati del Master e per rifletterci sopra. Ecco il risultato.

Performance Trovarsi e non trovarsi. “Nel gruppo c’è la perdita di se stessi, per cui nel momento che mi sono accorta che la maggioranza non sentiva quello che sentivo io, non ho voluto insistere nella mia posizione, forse non l’ho nemmeno proposta, non mi ricordo bene. Nella dinamica di gruppo la performance aveva subito preso una chiave più comica, che era anche divertente ma che non mi appartiene molto, quando applicata a Pirandello. Pirandello è un nodo fondamentale della mia crescita, del mio pensiero. Perciò ne faccio sempre delle letture significative. È la questione dell’identità…”

Performance del martello La performance del martello era l’espressione del voler rompere con se stesso, in qualche misura anche dolorosa. Rompere quell’involucro che ci protegge dal mondo esterno. In questa rottura non c’era la capacità di uscire, non c’era la fuga, il mettere fuori i piedi che ti permette di andare oltre. C’era piuttosto l’adesione al muro che era la realtà stessa, quello dal quale si voleva fuggire, perciò questo appoggio era una resa, sentirsi di non poter scappare, per cui era una sconfitta in qualche misura.

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Il gioco dei circoli Nella mia partecipazione al gioco dei circoli di Vianello, non c’era un riconoscersi nei circoli da lui proposti. Veramente, quando il Professor Vianello diceva che la soluzione era all’interno di questi, c’era una non-comprensione da parte mia, un rifiuto del parametro stesso.

Performance Il mio destino era diverso Nella performance Il mio destino era diverso di Puppa, c’era questo gatto dentro le lenzuola che cercava di uscire, di spingere con le mani, con le gambe, con le braccia, senza riconoscersi. Alla fine questo gatto cade per terra, è morto, non riesce ad uscire da questo lenzuolo. Ma è riuscito a dire: Il mio destino era diverso. Per cui è stata una sorta di liberazione. C’è stata un’evoluzione.

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Performance del rito La performance di musicoterapia del rito è stata molto bella per me. In quel rito c’era l’espressione della libertà. Mentre sul muro non ero riuscita ad uscire da questo spazio, nel momento che ero sotto di voi, che facevo quella sorta di rito, di danza, di movimenti, in quel momento era l’espressione di quella persona che aderiva allo spazio di libertà, vivendo quel momento pienamente. Sempre nel quadro del destino, che era rappresentato da voi, che era la cornice. Sono ritornata nel quadro del destino stesso, però avevo trovato il momento dell’espressione.

Conclusione

Bella questa cosa! Non mi ero resa conto di aver trovato lo squarcio di quel lenzuolo. Perché intellettualmente io credo sia proprio così, che è il percorso corporeo che io ho fatto. Io credo che per l’individuo, anche all’interno della sua quotidianità, è possibile trovare quello squarcio che gli permette di stare bene. Queste performance hanno rappresentato l’evoluzione non cosciente di questo mio pensiero. Perché io non sapevo come il mio corpo avrebbe vissuto il lenzuolo. Quando mi trovavo di fronte al muro, non avevo in mente quello che avrei fatto. Come martello io sapevo che avrei colpito il muro con la testa, ma non avevo in mente il mio progetto. In questo senso è stato un vero atto performativo che ha preso forma nel momento che io ho iniziato a muovermi. Per cui il corpo stesso è stato un adattamento del pensiero. È stato molto utile aver rivisto le performance, perché io mi sono resa conto del cambiamento che era avvento, di volta in volta. Non mi ero resa conto di questa evoluzione.

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L’Infinito blog

Stasera siamo andati a cena con Nazzareno e Carla alla Trattoria Donzelletta in mezzo alla campagna di Recanati. Il ristorante prende il nome da un verso dell’illustre poeta recanatese Giacomo Leopardi, del canto Sabato del Villaggio. La donzelletta vien dalla campagna, In sul calar del sole, Col suo fascio dell'erba; e reca in mano Un mazzolin di rose e di viole, Onde, siccome suole, Ornare ella si appresta Dimani, al dì di festa, il petto e il crine. Dopo cena, dopo il vino e la grappa, ho riletto uno dei miei poemi preferiti, “L’Infinito”, uno dei poemi più tradotto nel mondo. Mi sono ricordato della “trascriazione” di Haroldo de Campos, che è stato nostro ospite allo Spazio Culturale Babilonia di Natal, il 15 settembre 1992, una serata indimenticabile. Haroldo è arrivato a casa per le mani di Francisco Ivan. È arrivato con Jota Medeiros, João da Rua, Afonso Martins e Abimael Silva. Stelle di prima grandezza. Pure Vinicius de Moraes ha tradotto L’Infinito e che traduzione! Considero “L’Infinito” di Leopardi una “anticipazione” del training autogeno. Hai mai provato il Training Autogeno? Quale traduzione preferisci? Fammi sapere. Sempre caro mi fu quest'ermo colle, E questa siepe, che da tanta parte Dell'ultimo orizzonte il guardo esclude. Ma sedendo e mirando, interminati Spazi di là da quella, e sovrumani Silenzi, e profondissima quiete Io nel pensier mi fingo; ove per poco Il cor non si spaura. E come il vento Odo stormir tra queste piante, io quello Infinito silenzio a questa voce Vo comparando: e mi sovvien l'eterno, E le morte stagioni, e la presente E viva, e il suon di lei. Così tra questa Immensità s'annega il pensier mio: E il naufragar m'è dolce in questo mare.

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Trascreazione di Haroldo de Campos A mim sempre foi cara esta colina deserta e a sebe que de tantos lados exclui o olhar do último horizonte. Mas sentado e mirando, intermináveis espaços longe dela e sobre-humanos silêncios, e quietude a mais profunda, eu no pensar me finjo; onde por pouco não se apavora o coração. E o vento ouço nas plantas como rufla, e àquele infinito silêncio a esta voz vou comparando: e me recordo o eterno e as mortas estações, e esta presente e, viva, e o seu rumor. É assim que nesta imensidade afogo o pensamento: e o meu naufrágio é doce neste mar. Traduzione di Vinicius de Moraes Sempre cara me foi esta colina Erma, e esta sebe, que de tanta parte Do último horizonte, o olhar exclui. Mas sentado a mirar, intermináveis Espaços além dela, e sobre-humanos Silêncios, e uma calma profundíssima Eu crio em pensamentos, onde por pouco Não treme o coração. E como o vento Ouço fremir entre essas folhas, eu O infinito silêncio àquela voz Vou comparando, e vêm-me a eternidade E as mortas estações, e esta, presente E viva, e o seu ruído. Em meio a essa Imensidão meu pensamento imerge E é doce o naufragar-me nesse mar. -Postato da Ayres Marques Pinto su ayresnet il 2/07/2007 06:42:00 PM

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Viverlo voglio ogni vano momento Blog

Il nostro tutor del Master, Professor Tiziano Battaggia, ci ha inviato un messaggio dicendo le cose che dobbiamo portare per il laboratorio di psicodramma alla Giudecca: “i corsisti che suonano portino i loro strumenti; tutti portino un oggetto personale, indumento o altro, ivi compreso cibo, a cui sono particolarmente affezionati e che sia in grado di suscitare delle emozioni; a memoria un verso di una poesia o la frase di un racconto a scelta con lo stesso criterio degli oggetti; tutti dovranno aver letto gli appunti”. Porterò il cappello che ho fatto con le foglie della palma da cocco che avevo piantata nel giardino di casa mia a Natal, ma porterò anche un tricorno veneziano poiché Venezia comincia a far acqua alta nel mio cuore. Porterò gli ingredienti per preparare il brigadeiro, (popolare dolcetto brasiliano al cioccolato), aggiungerò un po’ di pistacchi tritati che penso si abbinano bene. Proverò a memorizzare un popolare sonetto di Vinícius de Moraes e la traduzione che ne ha fatto Ungaretti. Soneto da Fidelidade Sonetto della Fedeltà De tudo, ao meu amor serei atento In tutto avrò riguardo del mio amore Antes, e com tal zelo, e sempre, e tanto Prima e con tale zelo e sempre e tanto Que mesmo em face do maior incanto Che pur di fronte ad un supremo incanto Dele se encante mais meu pensamento. Di lui sia più incantato il mio pensiero. Quero vivê-lo em cada vão momento E em seu louvor hei de espalhar meu canto E rir meu riso e derramar meu pranto Ao seu pesar ou ao seu contentamento.

Viverlo voglio ogni vano momento E in lode sua sprigionerò il mio canto Riderò il riso e spargerò il mio pianto Alla sua pena o al suo contentamento.

E assim, quando mais tarde me procure Quem sabe a morte, angústia de quem vive Quem sabe a solidão, fim de quem ama

Così, quando più tardi mi cercasse Forse la morte, angustia di chi vive O lo star solo, fine di chi ama

Eu possa me dizer do amor (que tive) Que não seja imortal, posto que è chama Mas que seja infinito enquanto dure.

Possa io dirmi dell’amor (che è stato) Che immortale non sia, posto che è fiamma Ma che sia senza fine, finché dura.

Postato da Ayres Marques Pinto su ayresnet il 1/23/2007 10:31:00 PM

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Onde e Dune

blog

Ognuno di noi doveva portare un oggetto che suscitasse emozione e che avesse un significato personale. Ho portato un cappello che avevo confezionato in Brasile utilizzando una foglia di palma da cocco del albero che stava nel giardino di casa mia sulla spiaggia di Ponta Negra a Natal. Ne avevo fatto tre. Uno ho regalato all’Ambasciatore del Brasile a Roma, Paolo Tarso Flecha de Lima, come ringraziamento per aver ospitato la mostra “Natal a Roma”che avevo allestito all’Ambasciata Brasiliana in Italia nel 1999. L’altro cappello l’ho offerto al prete–imprenditore Don Lamberto Pigini che mi ha preso per lavorare come operaio nella sua industria grafica Tecnostampa nel 2000. L’ultimo cappello è quello che ho portato al seminario di psicodramma oggi. “Che cosa vorresti vedere?”, mi domandò Ezio Donato, come psicodrammatista. “Non senti la mancanza del Brasile, la SAUDADE?” Allora chiesi di vedere ciò che vedevo dal giardino di casa mia: la Duna Calva, (Morro do Careca) e il mare di Ponta Negra. Per ricreare il paesaggio invitai Antonella Moscardini, la collega del Master con cui più mi identifico, per rappresentare la Duna Calva e “l’Epifania Smeralda”, la “Morellino di Scansano” e la Gabellone; tre fra le più belle colleghe del master per simbolizzare le onde soavi della baia, e io in mezzo. “Che vuoi che facciano le onde, che ti accarezzino?” suggerì il siciliano direttore. E così mi ritrovai davanti la Duna , in mezzo alle onde-donne, alla Giudecca, di fronte a Venezia. Chiusi gli occhi e naufragai nel dolce mare di carezze. Ciò che vissi e sentii è più o meno questo. -Postato da Ayres Marques Pinto su ayresnet il 2/04/2007 06:26:00 PM

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Onde e dune e-mails

Caro compagno d'avventura, aspetto con impazienza i filmati.....................son 4 giorni che accendo il pc e mi chiedo: <<Chissà se Ayres ha potuto inviare>>. Grazie per tutto il lavoro che fai per noi, per renderci più gruppo attraverso le immagini, i suoni, i gesti che facciamo nelle nostre 3 giornate assieme. Con stima, Massimiliano From: Ayres Marques Pinto <ayresmarques@libero.it> Subject: ayresnet : Onde e Dune Date: 4 Feb 2007 11:35:03 -0800 Ayres Marques Pinto ti ha inviato un link a un blog: Ti invio questo blog per condividere con te l’emozione che ho provato nella mia seduta di psicodramma. Mi piacerebbe molto se trovassimo il modo di elaborare insieme la documentazione della tua partecipazione al seminario. Dimmi cosa ne pensi. Un forte abbraccio da Ayres. Blog: ayresnet Post: Onde e Dune Risp. Chiara Caro Ayres, credo ci accomuni la nostalgia per una terra, la mia è una terra che mi ha cambiato la vita e la mente e si chiama india... E' una terra incatenata alla mia anima, è una sensazione e ricopre la mia pelle. In questi giorni avrei tanta voglia di partire, ma ora so di non potere. A luglio potrò andare, e so sarò nuovamente felice. Se hai voglia di vedere un po' di quello che mi ha trasformato gli occhi puoi visitare il sito internet dell'associazione di cui sono fondatore. www.sostegnoadistanza.it Lì vedrai i miei molti bambini... Le immagini del tuo video parlavano. Grazie Chiara

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Risp. Antonella Carissimo Ayres, ho letto con piacere il tuo blog e ho visto fotografie e filmato . Mi sono emozionata tanto e mi sono sentita onorata per essere stata scelta nel ruolo della Duna.Guardando il filmato mi sono venuti i brividi e nuovamente ho provato l'emozione della Giudecca. Sarei molto felice di elaborare con te il materiale della mia performance , ma ...esistono delle foto? Tu non le hai potute fare perchè in quel momento eri parte di me all'interno della scena, Tiziano pure..... Si possono riprodurre le immagini " stamapate" nella mia mente? Scherzo.....Se ti viene in mente qualcosa .....spara!!!! Un grande abbraccio...da Duna. Antonella Risp. Geyleen Ayres!!! Pienso demasiadas cosas!! Lo que me enviaste es demasiado bello. Yo estoy realemente movida por dentro... Creo que pensaré todo el día en tu presentación, en tu trabajo... En esa forma de ser tan sincero, tan honesto, tan bello!!! Gracias Gey From: "Ivana Padoan" To: "Ayres Marques Pinto" <ayresmarques@libero.it> Sent: Monday, February 05, 2007 11:17 AM Subject: Re: ayresnet : Onde e Dune Molto bello . E proprio vero che il passato e la storia non muoiono mai ma rivivono con altre forme altri segni e si riattualizzano quotidianamente. ipadoan

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Psicodramma, Moreno e la prepotenza adolescenziale blog

La domenica pomeriggio degli incontri del Master produce nella mia testa un rumore come quando si mettono dei ghiacci nel frullatore. Tutti gli stimoli, le parole, le risate, i gesti si mettono ad urlare nel mio cervello esausto. Oggi, in mezzo a questa confusione interiore, ho riascoltato la domanda del Professor Ezio Donato: “Avevate mai sentito parlare di psicodramma e di Moreno prima di leggere la dispensa che vi ho dato?” Questa domanda mi ha portato lontano nel tempo e nello spazio. 1978, San Paolo del Brasile quando ho conosciuto Fernando Uzeda, che sarebbe poi diventato un mio carissimo amico e una delle persone chiavi, nel bene e nel male, per la mia formazione. È stato lui ad aspettarmi all’aeroporto di Heathrow nel mio primo viaggio-trasloco all’estero. Con lui ho conosciuto la Parigi che i turisti non vedono. Da lui ho ricevuto l’abbraccio solidale al mio rientro in Brasile dovuto a una tragica perdita familiare. Con lui sono andato ad abitare quando ho lasciato la casa dei miei genitori. Ed è stato a casa dei suoi genitori, Pedro e Vera, lui psichiatra e lei psicologa dove ho sentito parlare di psicodramma e di Moreno per la prima volta. Suo padre, Pedro Moreira Uzeda è stato uno dei principali divulgatore dello psicodramma in Brasile. Ricordo con molta ammirazione quella coppia. Dottor Pedro, una persona brillante, la Signora Vera, una donna elegante, di una bellezza e di una sensualità difficilmente paragonabile. Non so perché pensavo che Moreno fosse argentino e che lo psicodramma fosse un fenomeno di moda dei ricchi spensierati brasiliani, e così non mi sono mai interessato a sapere di più su questa disciplina. Il Brasile è oggi il paese con maggior numero di psicodrammatisti e dove lo psicodramma viene più ampiamente praticato. Dopo trent’anni, ho scoperto che Jacob Levy Moreno non era Argentino, ma che in fondo non aveva nessun’altra nazionalità definita. È nato su una nave senza bandiera, da padre ebreo spagnolo e madre slava, ha preso la cittadinanza rumena, è vissuto e studiato a Viena e trascorso gran parte della sua vita negli Stati Uniti. A questo punto potrebbe anche essere argentino. Ho scoperto anche che lo psicodramma non è una moda dei ricchi brasiliani. E mentre il traghetto mi portava dalla Giudecca a Venezia, mi facevano compagnia i ricordi degli Uzeda, dell’amico-artista Fernando, e mi faceva ridere la mia prepotente ignoranza adolescenziale che forse trascino con me fino ad oggi. Postato da Ayres Marques Pi nto su ayresnet il 02/05/2007 08:30:00 PM 66



Chaque homme dans sa nuit

Il Professor Paolo Puppa si definisce un professore di Storia del Teatro oltre che commediografo in giro per l’Italia. Certo che Puppa (così lo chiamano tutti) ha un’idea molto personale di commedia. Il suo laboratorio è stato esso stesso una commedia, una performance che è iniziata il 25 novembre 2006, ha avuto il suo apice il 25 febbraio 2007 e non è ancora finita, visto che se ne parla sempre quando due masterini della classe 2006-2007 si incontrano. Paolo Puppa è entrato in classe e con il pretesto di conoscere la nostra attitudine per il teatro, la nostra voce, il nostro ritmo sonoro, ha chiesto di leggere, uno alla volta, alcune righe di un’opera teatrale che ha chiamato commedia, del commediografo tedesco Heiner Müller, intitolata Hamletmaschine. La “commedia” inizia con il funerale del padre di Hamlet, che degenera presto in un banchetto cannibalesco, durante il quale Hamlet maledice sua madre e tutte le madri del mondo, lamentandosi che non si potesse “ricucire il buco” per avere un mondo migliore, senza madri e senza figli. La “commedia” continua con l’incesto di Polonio e Ofelia, l’incesto di Hamlet e Gertrude, scene di stupri, suicidi, orgie, necrofilia, ferite di tumori esposte, tutto questo letto dai masterini fin quando una delle nostre colleghe è svenuta e caduta a terra. Ci siamo precipitati tutti ad aiutare la compagna svenuta e, mentre lei si riprendeva, Puppa ha raccontato che era appena tornato da una cena in cui l’anfitrione era stato colpito da un attacco cardiaco fulminante mentre faceva il discorso di benvenuto. Tutti abbiamo potuto assaporare in prima persona una porzione della “commedia” di Heiner Müller, e in seguito abbiamo potuto presentarci dicendo di noi stessi solo due informazioni: nome e attività. Il resto del laboratorio è stata una lunga lettura di testi che Puppa aveva appena scritto e ai quali Hamletmaschine serviva da antipasto. Terminato quel primo laboratorio, la classe era distratta e sconvolta. Erano tutti disgustati, tutti tranne me. A me era piaciuto tantissimo. C’era qualcosa di assurdo e allo stesso tempo estremamente familiare. Riconoscevo in quell’operazione che aveva iniziato Puppa un espediente molto utilizzato da mia madre. Si dice che in ogni famiglia ci sia uno scheletro nell’armadio. Nella mia famiglia le cose andavano diversamente: l’armadio era pieno di scheletri, talmente pieno che le porte non si chiudevano bene e si intravedevano piedi, mani e teschi… e questo ci faceva paura.

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Allora mia madre, Marilva, un bel giorno ha deciso di aprire l’armadio, togliere gli scheletri e metterli comodamente seduti in sala, in cucina, nei corridoi, in bagno e davanti alla porta di casa. In un primo momento siamo rimasti tutti sconcertati, ma con il passar del tempo ci siamo abituati a quelle presenze che non ci facevano più paura, al contrario, ci facevano ridere. Per questo motivo le “commedie” di Heiner Müller e di Puppa mi divertivano ed ero impaziente di frequentare il laboratorio seguente, a febbraio del 2007. Al secondo laboratorio di Puppa si è presentata solo la metà del gruppo. Ognuno portava una proposta di improvvisazione che aveva come pretesto un personaggio, una frase o una situazione presente nei testi letti nel primo incontro. Rivedendo il video della performance che ognuno ha creato e confrontandola con le scene dello psicodramma del Professor Ezio Donato, basate su vissuti reali, sono emersi dei punti di contatto sorprendenti. Era come vedere la luna e il lato oscuro della luna.

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I tre tempi Sant’Agostino diceva che invece di parlare di presente, passato e futuro sarebbe più corretto dire: presente del passato (la memoria), presente del presente (l’intuizione diretta) e il futuro del presente (l’attesa). Il giorno 13 agosto 2007 è stato coniugato in questi tre tempi simultaneamente. Mentre aspettavo l’ora di andare a prendere Luca Rodella alla stazione di Ancona, sono finalmente riuscito a vedermi mentre facevo l’attore negli anni ’70. Era un brevissimo spezzone di Vila Sesamo, un programma per l’infanzia a cui ho partecipato all’età di 14 anni. È stato il mio ultimo lavoro. All’inizio non mi riconoscevo, perché mi aspettavo di vedermi bambino, invece ero già adolescente. Ero alto! È stata una grande emozione ritrovarmi nel Web. È un vero peccato che non ci siano registri in video delle novelas o dei programmi televisivi in cui sono apparso. Avevo già trovato dei registri scritti sulla mia carriera di attore che era iniziata quando avevo 4 anni e finita nell’adolescenza. Quei 10 anni hanno segnato me e la mia famiglia in modo indelebile. Dopo l’adolescenza però non ho più pensato a quel periodo, soltanto recentemente ho iniziato a cercare dei materiali che testimoniassero quella fase della mia vita. Se non fosse per questo brevissimo spezzone, non avrei nessun documento in movimento della mia attuazione in televisione. Al contrario del cinema, la televisione di quegli anni ha lasciato poche tracce. Per questo mi sento proprio fortunato di averne trovata una.

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Performance o teatro?? Luca e io ci trovavamo d’accordo su un punto: la differenza tra performance e teatro sta nel patto implicito che esiste tra attore e spettatore. Nel teatro vengono definiti i rapporti tra autore, attore, spettatore, luogo di rappresentazione e la realtà, come elementi ben differenziati. Nella performance la distinzione tra questi elementi viene attenuata o addirittura scompare. Alcuni elementi si fondono, si confondono, si alternano. Per Luca la performance è tutto e non è niente, perciò non è un concetto utile. Per lui la performance è semplicemente una modalità teatrale o comunque è così strettamente legata al teatro che non sarebbe necessario distinguerli nettamente. Per Luca il teatro è una lingua, mentre la performance è un dialetto. Io invece credo che esista, sì, una differenza tale da considerare il teatro e la performance come due lingue diverse, anche se originarie da un tronco comune. Abbiamo rivisto le foto e i filmati dei laboratori di performance del Master, senza aver trovato un accordo sui nostri punti di vista. E per questo abbiamo deciso di realizzare una serie di performances (secondo me) o improvvisazioni teatrali (secondo Luca), durante i 5 giorni che abbiamo trascorso insieme nelle Marche.

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11 - Il metodo Vianello Il Professor Mario Paolini ha risposto alla mia richiesta di aiuto fornendomi alcune videocassette con decine di ore di registrazione di sedute di Musicoterapia, realizzate dal Centro di Musicoterapia e Linguaggi Non Verbali di Campalto. La prima constatazione che ho potuto fare, dopo aver visto le registrazioni, è che esistono importanti variazioni nell’applicazione di uno stesso metodo, dovute soprattutto allo stile personale del terapeuta. Guardare le diverse riprese di tante sedute, nonostante fosse utile per entrare in contatto con un metodo, non mi permetteva di percepire in profondità il funzionamento del metodo stesso. Mi sono ricordato dello stratagemma utilizzato da Don Milani per insegnare meccanica ai suoi alunni. Don Milani si è procurato una motocicletta e l’ha fatta smontare e rimontare pezzo per pezzo da loro. Indipendentemente dall’esito immediato dell’esperimento, è chiaro che l’azione stessa di separare i pezzi e rimetterli insieme permetteva ai ragazzi di costruirsi un tipo di comprensione dell’oggetto che non sarebbe stata possibile altrimenti. Ho seguito lo stesso procedimento con la ripresa in video di una seduta del Professor Vianello. Mi fermavo ad ogni azione e ad ogni reazione, ad ogni cambiamento di attività ed estraevo un “frame”, un fotogramma che lo rappresentasse. Mettendo i fotogrammi in ordine cronologico, li descrivevo. Questo lavoro di decostruzione mi ha permesso di quantificare e classificare gli stimoli e le risposte agli stimoli proposti dal terapeuta, rendendo così più visibile la struttura della seduta. Da questa decostruzione mi è apparso chiaro che la seduta di Musicoterapia si costruiva su una base performativa. Il performer, il terapeuta, agiva nel senso di trasformare il paziente in protagonista di un’azione “improvvisata” a due, con l’obiettivo di stabilire un dialogo ludico tra le due parti. Affinché questa modalità raggiunga i suoi obiettivi, si richiede al terapeuta: a. un vastissimo repertorio di proposte, di stimoli, di attività che gli permettano di tenere alto il ritmo della seduta; b. il dominio di una metodologia che guidi le sue scelte immediate; c. un talento naturale rafforzato da studio ed esperienza sul campo. Il lavoro di decostruzione del video si è rivelato un eccellente strumento autodidattico e penso che potrebbe essere proposto come attività nei laboratori di Musicoterapia in cui le riprese in video – sezionate, messe in sequenza e analizzate – diventerebbero materiale autentico-empirico di supporto al lavoro teorico in classe.

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Descrizione Seduta Musicoterapia 001 Vianello – Franco 1990 immagine

descrizione P- seduto, immobile T- arriva si toglie la giacca e si piazza davanti a P

0016 P- tocca i tasti della tastiera spenta T- “Riesci a suonare? Suona! Non suona. La facciamo suonare? P- sorride “Sì”

0031 T- inizia ad accendere la tastiera T- fa notare che la spina è staccata

0042 T- chiede a P di collegare la spina P- si alza e collega la spina

0052 T- dice a P di togliersi la giacca a vento (come aveva fatto T all’inizio) P- prova a togliersi la giacca a vento

0112 T- aiuta P e lo fa proseguire a togliersi la giacca a vento

0119 P- riesce a togliersi la giacca a vento

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0130 T- dice a P di andare a sistemarla sulla sedia

0136 P- non risponde e consegna la giacca a vento a T T- “la prendo io?”, “la prendi tu?”, “la prendo io?” P- “Tu”

0142 T- “sai come mi chiamo io?”, “mi chiamo Lino, e tu?”, “dimmi come ti chiami” P- dice il nome in modo incomprensibile T- “come?” P- ripete T- “Bianco?” P- tace T- “Io mi chiamo Lino e tu?” P- tace T- “Franco?” P- sorride “Sì” si danno le mani

0200 T- porta via la giacca a vento di P “la metto vicino alla mia?” P- “No”

0223 T- “si sente suonare?” P- “no” T- “è rotta?” P- “si” T- “l’aggiustiamo!” “si è accesa la lampada rossa”

0233 88


P- prova a suonare T- “non suona ancora?” P- “no” T- “allora forse si deve azionare questi altri pulsanti” “provaci!”

0302 P- preme i pulsanti, tutti. Reagisce al rumore dell’accensione T- “hai premuto tutti i pulsanti!!!” P- tocca i tasti P- reagisce con sorpresa e soddisfazione al suono della tastiera T- reagisce con sorpresa e soddisfazione al suono della tastiera “ahhhhhhh!!!” 0307 T- “fammi sentire un po’” P- “la luce”

0314 T- “devo spegnere la luce?” P- “sì” T- “la spengo io o la spegni tu?” P- “spegni tu”

0331 T- riaccende la luce P- continua a suonare per conto suo T- “Franco, quando accendo la luce tu suona, quando la spengo tu ti fermi” T- “la luce è accesa. Forza, suona! Vai, continua T- alza il volume. “Vai, continua”

0404 T- spegne la luce P- continua a suonare

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T- “Franco, ho spento la luce”

0416 P- continua a suonare T- riaccende la luce P- continua a suonare T- si avvicina e chiede a P di fermarsi T- “adesso suono io” T si mette dietro a P T- preme un tasto T- “adesso suona tu” P- suona nella stessa sezione della tastiera T- “adesso io” suona una nota nella sezione grave P- suona nella sezione grave T- “attento” suona una nota nella parte alta P- suona la parte alta T- “attento adesso” suona due note consecutivamente

0511 P- ripete le stesse note T- suona tre note P- prova a ripetere le tre note T- suona più note P- riprende a suonare per conto suo T- “aspetta un attimo”

0534 T- si mette davanti a P T- “quando faccio così (gesticola come fa un pianista) tu suoni”

0547 T- “prova a suonare” T- abbassa le mani. “Basta!” P- smette di suonare

0556 90


T- riprende i movimenti delle mani variando i gesti

0601 T- si ferma P- continua a suonare T- “fermo!” “guarda le mie mani” P- si ferma e sorride

0613 T- riprende a gesticolare P- riprende (piano) a suonare T- si abbassa mentre gesticola T- abbassa le mani P- continua a suonare T- “le mani!!!” P- si ferma e sorride T- “bravo!!!” si danno le mani “bravo!!!”

0633 T- “vieni qua, prova ad andare vicino alla cassa” P- si alza e va a toccare la cassa T- suona la tastiera P- sente con la mano la vibrazione

0653 T- prova a suonare un’altra volta P- dice qualcosa che T capisce come “metti tu la mano davanti alla cassa mentre io suono T- va alla cassa e ci mette la mano sopra T- “fammi sentire”

0711 P- suona T- dimostra di aver sentito la vibrazione 91


T- “prova sull’altra cassa” P- Si alza e va a mettere la mano sull’altra cassa più distante

0733 T- “pronti?” P- “via” T- “pronti?” P- “via” T- suona P- è attratto dalla video camera. Va verso la video camera T- fa vedere la video camera

0810 T- “lasciamo questa cassa per adesso” T- accompagna P verso la lavagna P- entra in un’altra porta e va via

0824 T- lo va a riprendere e ritorna con P con le braccia incrociate

0836 T- propone di disegnare sulla lavagna P- non accetta

0844 P- ritorna a sedersi alla tastiera T- tocca la spalla destra di P e chiede a P di suonare

0920 P- è infastidito T- cambia spalla

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P- è infastidito

0936 T- “lasciamo perdere” P- sorride T- “suona” P- “la luce”

0945 T- “se spengo la luce, non suoni” “se accendo la luce, tu suoni, va bene?” “sicuro?” P- “sì” T- spegne la luce P- suona T- “la luce è spenta!!!” P- si ferma T- accende la luce P- dice a T di stare più lontano T- cambia registro sulla tastiera

1106 P- suona e si sorprende per il suono del nuovo registro T- fa la mossa di chi si è sorpreso

1109 P- si diverte T- fa capire che il volume è troppo alto T- chiede di abbassare il volume (con i gesti)

1124 P- abbassa il volume T- “sentiamo” P- suona T- con i gesti fa capire che è ancora troppo forte 93


P- cerca di abbassare il volume P- continua a suonare T- fa capire che è ancora troppo forte P- sorride e fa capire con il gesto che non ci può fare niente

1141 T- fa il gesto di abbassare con la manopola P- (con i gesti) come? Questa manopola? In quale senso devo girare?

1146 T- vai P- suona. È riuscito ad abbassare il volume P- riprende a suonare per conto suo T- “adesso ci provo io a sistemare il volume” P- “no, no” T- “fammi provare a me” P- “no, no” T- insiste e abbassa il volume T- “prova a suonare adesso” P- suona, ma il suono non c’è P- fa un gesto di scocciatura T- alza un po’ il volume P- gira la manopola del volume e suona P- fa capire con il gesto: Ah, adesso sì T- “più forte, non sento” P- con il gesto: no, va bene così T- insiste “più forte” P- è scocciato T- “adesso suono io, tu vieni di qua” P- si alza e prende la posizione di T davanti alla tastiera

1320 P- va a prendere un flauto T- “vieni qua” P- si avvicina con il flauto in mano

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T- “che cos’è questa roba?” “suona!” P- “suona prima tu” P e T suonano insieme

1406 T- si ferma P- continua T- fa il gesto del silenzio

1411 P- si ferma T e P suonano insieme T- “ben fatto!!!” si danno le mani

1419 T- “pronti?” inizia a suonare P- suona T- si ferma P- continua T- “fermo!” P- si ferma T- fa un suono breve P- fa un suono lungo T- “fermo!”

1434 P- propone a T di scambiarsi gli strumenti

1437 T- “dopo” T- “adesso cantiamo”, “vieni qua”

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T- suona e canta

1448 T- “adesso tu” P- vuole sedersi T- toglie la sedia T- suona insieme a P

1523 P- vuole suonare da solo

1535 T- tocca la spalla destra di P e gli chiede di suonare con la mano destra T- fa vedere che deve suonare con la mano destra

1552 P- lentamente accoglie lo stimolo

1555 T- fa i complimenti e dà la mano a P

1613 T- riprova P- risponde più rapidamente T- “bravo” e dà la mano a P

1621

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T- prolunga la pausa del tocco alla spalla

1633 P- si distrae T- “pronti?” P- non vuole più fare quel gioco

1702 T- “va bene, allora suoniamo” T- si appoggia alla tastiera con le due mani P- ripete il gesto di T

1720 T- suona due volte P- suona una volta T- “attenzione!” P- s’inginocchia davanti alla tastiera. Vuole suonare

1739 T- offre la sedia P- accetta T- toglie la sedia

1752 T- invita P a cambiare attività e andare da un’altra parte della sala P- inizia a suonare una mattonella

1817 T- chiede a P di prendere un quadretto colorato (giallo)

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P- prende il quadretto giallo P- (correndo) porta il quadretto giallo al pannello bianco T- “Franco, verde!” P- prende un quadretto rosso T- “dov’è il verde?” T aiuta P a trovare il quadretto verde

1911 P- prende il quadretto verde e corre dall’altra parte della sala per mettere il quadretto verde nel pannello bianco P- vuole suonare la tastiera

1926 T- lascia P suonare un po’ la tastiera e dice: “rosso!” P- corre a prendere il quadretto dall’altra parte della sala

1939 T- “rosso, rosso, come il tuo maglione” P- cerca il rosso, lo trova e corre verso il pannello bianco (saltando sopra i fili) 2017 T- “metti il quadretto rosso sul pannello”, “adesso suona” P- obbedisce (suona)

2041 T- “celeste” P- non capisce T- “blu” P- corre a prendere il blu (saltando sopra i fili). Ne prende più di uno

2049 T- “uno blu” P- prende 1 quadretto blu e lascia gli altri 98


T- “no, due blu”

2115 P- prende un blu e un rosso T- “non rosso, blu” “due blu” P- cerca l’altro quadretto blu. Lo trova P- porta i due quadretti blu verso il pannello. P si ferma davanti alla tastiera per suonare 2153 T- “suona dopo aver messo i quadretti sul pannello!” P- mette i quadretti sul pannello T- “adesso suona!”

2203 P- suona T- suona lento P- suona lento T- “quando cammino veloce, tu suona veloce” P- inizia a suonare prima che T inizi a camminare T- cammina nella velocità del ritmo del suono prodotto da P T- “più veloce!”

2354 P- suona più veloce T- cammina più lentamente P- si diverte T- “prendi il celeste” P- prende un quadretto celeste T- “quando prendi il celeste suona qui” (grave)

2437 P- suona (grave)

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T- adesso prendi il… (pausa) fammi pensare… il rooooooosso

2457 P- “aspetta” cerca e prende il quadretto rosso T- “adesso con il rosso suona lì” (acuto) P- suona nella sezione acuta

2527 T- adesso prendi il… (lunga pausa) P- si diverte con la lunga pausa

2543 P- si distrae

2559 T- “Franco, prendi il blu” P- prende il rosso T- “che cosa ti ho detto?” “Prendi il blu!” “Che colore è questo?” P- “rosso” T- “prendi il blu” fa vedere il quadretto blu con la mano destra P- prende il blu T- “adesso cosa suoni?” P- suona il grave T- mostra il rosso con la mano sinistra e domanda: “adesso cosa suoni?” 2659 P- suona acuto T- fa vedere il blu con la mano destra P- suona grave T- fa vedere il rosso con la mano destra

2719 P- suona acuto 100


T- fa vedere il blu con la mano sinistra P- suona acuto T- fa vedere il rosso e il blu con le due mani contemporaneamente T- “adesso cosa suoni?” P- suona con le due mani

2757 T- nasconde una mano “adesso?” P- suona con una mano T- mostra le due mani P- suona con le due mani T- “bravo!” si danno le mani

2834 P- vuole suonare T- propone un altro gioco P- non accetta T- “che cosa vuoi fare?” P- “suonare” T- “allora suona” T- prende la mano sinistra di P, preme il pollice e chiede a P di suonare con la mano destra 2930 P- suona con il pollice della mano destra T- preme l’indice della mano sinistra e fa vedere che P deve suonare con l’indice della mano destra P- non riesce a cogliere il comando T- cambia mano

3016 P- non capisce bene T- “chiudi le mani, apri le mani” T- “chiudi quella mano là, chiudi questa mano qua” “apri, chiudi”

3048

3048 101


P- si diverte aprendo e chiudendo le mani T- “batti le mani!” P- apre e chiude le mani T- prende le mani di P e batte le mani

3102 T- “apri questa mano, chiudi questa mano” P- esegue T- “batti le mani!” P- batte le mani da solo T- “batti le mani sulle gambe” P- “come?” T- “così”

3134 P- batte le mani sulle gambe T- “batti le mani in testa” P- “in testa???” P- batte la mano in testa

3142 T- “batti la tua mano sulla mia mano” P- obbedisce T- “più piano” P- batte la mano più piano T- “più piano ancora” P- batte la mano più piano T- batte la mano due volte P- si diverte

3319 P- suona liberamente

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P- si sorprende di ciò che ha appena suonato

3356 T- propone esercizio di respirazione P- esercizio di respirazione: respira e suona

3420 P- riprende a suonare T- “un po’ suona tu, un po’ suono io” T- suona melodia (registra)

3617 T- “adesso suona tu” P- suona (registra)

3642 T- fa sentire quello che ha suonato T e P T- domanda chi aveva suonato ogni melodia P- sente la melodia di T e ci suona sopra P- sente la melodia di T e ci suona sopra P- sente la melodia di P ( si sorprende) e ci suona sopra

3829 T- propone un’altra attività P- rifiuta P- riprende a suonare P- è molto soddisfatto

4034 Fine

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12 - With a little help from my Master (and her friends’) Di solito ricavavamo uno spazio di tempo per i nostri colloqui nelle pause dei Caffè Pedagogici. Questa volta, essendo la questione più complessa, l’abbiamo discussa mentre aspettavamo l’arrivo della nostra ordinazione durante il “pranzo pedagogico” dell’11 maggio. Facendo sembrare la cosa più semplice del mondo, la Professoressa Padoan mi ha orientato così: “Aries, – così mi chiama la professoressa e così mi piace essere chiamato da lei – tu devi avere ben distinte due possibili strategie per la stesura della tua tesi: 1. Puoi raccontare il tuo percorso trasformativo durante il Master in una chiave autobiografica. Se tu scegli questa via, ti sarà utile leggere i libri di Duccio Demetrio e un libro molto bello scritto da due mie amiche, Donata Fabbri e Laura Formenti, che si chiama Carte d’identità. 2. Altrimenti puoi basarti su una delle discipline del Master e…” In questo momento è arrivata la mia birra e i nostri piatti e non si parla mentre si mangia.

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Raccontarsi Far raccontare agli anziani la loro storia di vita è una delle attività che svolgo come animatore in casa di riposo. Al contrario di ciò che potrebbe sembrare, non è semplice far emergere i vissuti di una persona, anche se questa persona ha vissuto tante cose. Se si lascia l’anziano raccontare liberamente gli avvenimenti che ritiene più importanti, capita spesso che riassuma i suoi 80 anni in 8 frasi e che finisca dicendo: “E adesso eccomi qua, in una casa di riposo… fino a quando Dio vorrà.” Rileggendo Raccontarsi. L’autobiografia come cura di sé di Duccio Demetrio, mi si è rinnovata la convinzione che la costruzione sistematica dell’autobiografia può essere un antidoto efficace alla mancanza di progettualità che ammutolisce l’anziano istituzionalizzato. Quando possibile, chiedo ai famigliari e all’anziano stesso di mostrarmi delle foto. Se le foto sono mantenute in scatole, le organizziamo in album e mentre lo facciamo i ricordi affiorano generosi. Durante la rilettura di Raccontarsi, mi sono reso conto di aver aiutato tante persone a costruire il loro album dei ricordi, ma che io stesso non ho un mio album fotografico. Ho capito di non aver sviluppato l’abitudine di riflettere sul mio passato, per imparare dalla mia propria storia. Fra tanti viaggi che ho intrapreso, mi manca il viaggio formativo autobiografico. Non ho mai provato a organizzare sistematicamente le tracce della mia esistenza: le mie foto, le lettere, le mail sono tutte sparse. Non ho mai stabilito dei collegamenti tra i miei ricordi. Tante volte sono entrato in camera oscura, ma mai per “sviluppare i negativi della mia vita” (come dice Proust). Ho sempre giudicato il lavoro autobiografico, applicato a me stesso, come un’attitudine egocentrica e in fondo inutile, da fare soltanto quando sarei diventato ancora più vecchio. Non contemplavo la possibilità che “assumersi se stesso come oggetto di conoscenza e campo di azione allo scopo di trasformarsi” (come afferma Foucault) non è altro che prendersi cura di sé. Ho sempre vissuto i miei ricordi come presenze silenziose ma vive, e perciò incostanti, in perenne trasformazione e impegnate in un dialogo misterioso con il mio presente. Non ho mai osato attribuire dei significati precisi alle mie esperienze. Ho sempre creduto che soltanto il tempo potesse dare un senso alla vita e che la sentenza delfica (Conosci te stesso) dovesse rimanere sempre a un livello intuitivo, perché è impossibile fotografare la nostra fisionomia interiore. E allora, chi potrebbe essere in grado di “disporre in linea retta il gomitolo aggrovigliato della mia vita” per cercarne il senso (come consiglia Fernando Pessoa)?

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Ho dato inizio così al paziente lavoro di srotolamento del mio gomitolo e mi sono subito sorpreso del fatto che non avevo a portata di mano, per esempio, una foto della personachiave della mia vita: mia madre. Sarebbe mai possibile che fra le migliaia di foto che ho non ci fosse neanche una foto di mia madre? Sono andato a cercare tra i miei negativi. La prima immagine sua che ho trovato è stata proprio l’ultima sua fotografia, scattata da me. È una foto che, al primo sguardo, colpisce e forse in modo non piacevole, ma che stranamente mi ha colpito il cuore di allegria. Al di là del viso di una donna che non era anziana ma che sembrava vecchia, segnata dagli effetti della malattia, c’era il sorriso e dietro il sorriso anche una storia divertente. Eravamo a casa di mio fratello Adolpho, in una fredda mattinata paulistana. Ero arrivato da Natal, a 3000 chilometri da São Paulo, alcuni giorni prima. Ero stato chiamato perché sembrava che la fine era proprio molto vicina. Io ero in sala, mio fratello Adolpho era in camera, in fondo alla casa, e mia madre nella camera vicino all’entrata. C’era un silenzio e una penombra di attesa. All’improvviso sento dei passi svelti di pantofole: non poteva essere Adolpho. Sono andato a vedere, era mia madre che si era alzata per andare in cucina a prendere una tazza di caffè. Vedendo la mia faccia sorpresa, mi ha guardato come chi dice: “Che c’è? Sto soltanto prendendo un caffè!” Infatti lei aveva ragione: sono andato in camera a prendere la macchina fotografica e sono tornato in cucina per farle una foto. Dal mirino ho visto una faccia incredula e quasi arrabbiata, mi sono fermato per guardarla dritto negli occhi. E allora lei ha sorriso, come se ricordasse qualcosa di divertente. Ho sorriso anch’io, perché ci siamo ricordati di una scena simile a questa, accaduta molti anni prima. Ero un bambino, avevo circa 8 anni, era una tarda mattinata di domenica. Il giorno prima ero andato con mio padre e con i miei due fratelli più piccoli a comprare una macchina fotografica come regalo della festa della mamma. Eravamo tutti e quattro molto eccitati perché, se quel regalo avesse funzionato, avrebbe messo fine a due torture: per noi, andare dal fotografo e per mio padre, pagare le sedute e le centinaia di foto che venivano scattate. A quell’età la mia vita era divisa in due momenti: il periodo in cui attuavo nelle telenovelas e il periodo delle vacanze, in cui godevo della massima libertà – potevo giocare a pallone sotto la pioggia, in mezzo al fango, andare in bicicletta fino a perdermi e andare a dormire da mia nonna. Ciò che veramente non mi piaceva era il passaggio dalla libertà scatenata agli impegni che precedevano l’inizio delle riprese in studio. Quel periodo di transizione iniziava con l’andare dal fotografo.

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Eravamo dunque eccitati: con quella macchina fotografica mia madre avrebbe potuto scattare lei stessa delle foto di noi bambini, invece di portarci dal tedesco Tobias. Quella domenica mia madre era in cucina, preparava il pranzo. Siamo arrivati con il suo regalo: “Guarda mamma, è per te!” – “Cos’è?” “È una macchina fotografica.” – “Una macchina fotografica? E che me ne faccio di una macchina fotografica?” “Ci scatti delle foto, così non ci sarà più bisogno di andare dal fotografo.” Dopo un breve silenzio, lei ha risposto: “No, è troppo complicato fare delle foto.” Allora le ho fatto vedere che era molto semplice: se voleva fotografare qualcosa lontano, impostava l’obiettivo così… invece, se era qualcosa vicino, faceva in quest’altro modo… Poi bastava premere il grilletto. Ho rivolto la macchina verso mia madre. Lei aveva una patata in una mano e uno spilucchino nell’altra, aveva un fazzoletto in testa e indossava un grembiule macchiato di sugo di pomodoro. “Che fai, mi fotografi così? Non scattare questa foto!” Non ha fatto in tempo a finire la frase che si è sentito il clic della macchina. Quella foto, la mia prima foto, è diventata il divertimento preferito di mio padre che ogni tanto faceva stampare una copia per essere sistematicamente strappata da mia madre. Mia madre non ha mai utilizzato quella macchina fotografica che è diventata la mia compagna di viaggio. Il primo rullino era pieno di immagini del tipo: mia sorella che si tagliava le unghie dei piedi, mio nonno che dormiva con la bocca aperta o il mio fratellino che piangeva. Pensavamo a tutto questo, mentre ci guardavamo mia madre e io, qualche istante prima che scattassi quest’ultima foto. Il suo sorriso diceva: “Accidenti, figliolo, sono passati tanti anni e tu non sei per niente cambiato”. Mia madre invece era cambiata – non mi riferisco al suo aspetto fisico, ma al suo atteggiamento – perché questa volta lei si è avvicinata alla finestra per far illuminare il suo volto e mi ha regalato questa fotografia.

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Déplacement e récit di un’identità Il libro di Donata Fabbri e Laura Formenti racconta il come e il perché di una ricerca sull’identità. La ricerca si basa sull’intervista fatta a un gruppo di adulti che hanno accettato di rispondere ad alcune domande sulla loro identità. L’intervista inizia con una domanda che non ha niente a che fare con l’identità: “Vorrei che mi spiegassi come mai, secondo te, lo specchio scambi la destra con la sinistra e non scambi invece l’alto con il basso?” Questa domanda è doppiamente spiazzante: in primo luogo perché non è un tipo di domanda che ci si aspetta di trovare in un’intervista sull’identità, in secondo luogo ci si trova all’improvviso a doversi inventare una teoria su qualcosa che è familiare ma su cui non ci si ferma mai a riflettere. Ma alla fine, è anche giusto domandarsi: che cosa c’entra la domanda dello specchio con la mia identità? C’entra e come! Attraverso l’analisi delle strategie utilizzate per rispondere a questa domanda, apparentemente senza senso, le autrici hanno potuto capire le modalità personali degli intervistati per indagare sulla realtà e per costruire il loro sapere. In altre parole, la domanda serviva per far emergere l’identità cognitiva degli intervistati. Questa destabilizzazione improvvisa ma portatrice di significati, viene definita déplacement. Si è rafforzato il mio sospetto che la Professoressa Padoan avesse in mente il déplacement quando mi ha lanciato la sua “provocazione”: “Continua a fare ciò che stai facendo… la tua tesi è pronta”. Con il comando batesoniano “Continua a fare ciò che stai facendo”, lei mi ha fatto riflettere su qualcosa che davo per scontato. Con l’affermazione “la tua tesi è pronta” mi ha spinto a costruire una teoria, una tesi per dare un significato al mio agire. Come per la Fabbri e la Formenti, per la professoressa non era importante il contenuto della mia risposta (la metafora del sacco), quanto piuttosto il percorso della mia ricerca (la metafora del cammino). Le autrici hanno identificato quattro azioni cognitive: propositive (P), descrittive (D), relazionali (R), esplorative (E). E, all’interno di queste azioni, hanno identificato undici mosse. Quali mosse cognitive ho eseguito lungo il percorso della mia ricerca? Utilizzando i parametri proposti dalle autrici di Carte d’identità, potrei affermare che ho eseguito le seguenti mosse: 1. la mia prima reazione è stata considerare l’affermazione della professoressa una semplice battuta, uno scherzo, una maniera per dirmi “Bravo! Ti permetto di fare ciò che ti piace fare!” (R 2 = dichiarazione di illegittimità del quesito = rifiuto) 2. vedendo che la professoressa parlava sul serio e che il senso della sua affermazione mi sfuggiva, ho provato a riformularla e a tradurla in questi termini: “Documenta le attività del Master e questa documentazione sarà la tua tesi” (P 1 = riformulazione) 3. una volta tradotta la proposta della professoressa, l’ho accettata così come era e ho iniziato a documentare tutto (D 1 = accettazione esplicita della formulazione)

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4. una volta iniziata la documentazione, mi sono domandato quale sarebbe la valenza formativa del mio documentare, in quale modo l’azione del documentare contribuiva alla mia crescita professionale e – forse per imparare a documentare meglio, per diventare un documentarista riflessivo (R 1 = ingaggio = manifesta tensione nel risolvere il problema) 5. non convinto delle risposte che mi sono dato, sono passato alla sperimentazione effettiva, ho preso due cavie (Chiara e Luca) per verificare se e come il materiale che stavo producendo potesse permettere agli altri di capire meglio l’esperienza che stavano facendo durante il Master (P 3 = manipolazione diretta) 6. poi ho voluto sperimentare su me stesso la possibilità di utilizzare sia la documentazione prodotta da me, sia quella prodotta dagli altri come strumento autoformativo (E 2 = ricorso all’esperienza personale + E 1 = ragionamento esplorativo) 7. in seguito ho suggerito alla professoressa di ritornare alla mia proposta originale: una tesi sulla fototerapia, includendo anche l’esperienza della documentazione del Master (R 3 = ridefinizione del contesto) 8. a questo punto, ho fatto riferimento a delle fonti autorevoli per costruire una teoria sul mio vissuto nel Master (Duccio Demetrio e Fabbri-Formenti) (D 3 = riferimento a un sapere riconosciuto)

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Il Récit La Fabbri e la Formenti fanno notare che nelle società primitive il sapere era trasmesso tramite la narrazione e che soltanto nelle società moderne il sapere scientifico si è distaccato dal linguaggio narrativo. Da allora, il linguaggio viene utilizzato per parlare di realtà e di vissuti, ma non di verità. Più recentemente si è fatta una rivalutazione del linguaggio narrativo, definito come récit, in ambito scientifico, riconoscendo in esso uno strumento di comunicazione e di trasmissione di conoscenza (Latour e Woolgar). Si utilizza il termine récit perché in francese questa parola contiene l’idea di narrazione, recitazione e messa in scena. Questo concetto considera la narrazione non separata dal suo produttore e dal suo fruitore. Il récit, come la documentazione, è una dichiarazione di esistenza di ciò che è documentato ma anche di chi lo documenta. Il tipo di sapere che veicola è di carattere culturale: il sapere che proviene dall’esperienza e dalla riflessione su di essa. Inoltre, il récit veicola un sapere di ordine psicologico. Forse per questo la Professoressa Padoan – il mio maestro – diceva all’inizio del Master che la mia tesi era già pronta. Si è però dimenticata di dire che bisognava raccontarla. E è questo che ho provato a fare in questa non-tesi: La documentazione visiva come récit. Racconto di un déplacement.

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