Dottore, che cosa sono le cure palliative alessandro gambini

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Alessandro Gambini

Dottore, che cosa sono le Cure Palliative? Intervista con il dott. Alessandro Gambini

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Collana BibliHospice Dottore, che cosa sono le Cure Palliative? Intervista con il dott. Alessandro Gambini Autore: Alessandro Gambini © Ponte Blu Edizioni • 2013 Consiglio editoriale: Ayres Marques, Alessandro Finucci, Marina Baldoni Consulenza: Gigliola Capodaglio Fotografie: Marina Marques (copertina), Ayres Marques (ritratto dell’autore) Stampa

• Recanati • 10/2013

ISBN 978-88-98132-04-1 2


Prefazione Il testo che andrete a leggere in questo opuscolo informativo e formativo è la trascrizione, riveduta e corretta dall’Autore, di un’intervista nel corso della quale i volontari GVHL e BibliHospice hanno posto al dott. Alessandro Gambini molte di quelle domande che più spesso ricorrono tra coloro che si avvicinano per la prima volta a questa realtà. L’intervista è stata realizzata in occasione degli incontri “Percorsi Interdisciplinari per le Cure Palliative”, che hanno avuto luogo a Loreto nel giugno del 2013. Ayres, Alessandro e Marina Curatori della Collana BibliHospice

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Dottore, che cosa sono le Cure Palliative?

Intervista con il dott. Alessandro Gambini

Siamo convinti che molte persone non sanno che cosa è un hospice e che cosa sono le cure palliative. Lei è d’accordo con noi? Sì, tanto è vero che da anni i miei colleghi ed io ci impegniamo a diffondere la filosofia e tutto quanto concerne questa strana parola che è “palliazione”, organizzando eventi e percorsi formativi. Le cure palliative sono delle particolari cure che si mettono in atto attorno ad una persona che, ad un certo punto della sua vita, vede il tempo accorciarsi per una patologia, solitamente neoplastica o degenerativa, che volge al termine. Non ci sono più speranze, gli oncologi o gli specialisti dicono che è giusto tornare a casa, interrompere le chemio, è giusto pensare ad altro. Noi riempiamo questo spazio di tempo che c’è tra questa comunicazione e la fine. Si fa comunque del tutto perché questa fine giunga il più tardi possibile, ma il senso è quello di dare un valore a questo tempo residuo, che noi passiamo assieme a queste persone e anche alle loro famiglie. Perché una 5


delle caratteristiche delle cure palliative è proprio quello di occuparsi non dell’ammalato, bensì dell’intera famiglia dell’ammalato che soffre con lui, che viene sconvolta spesso da queste patologie drammatiche, alle quali noi, uomini facenti parte di una società civile, non tanto come medici, ma in quanto uomini, dobbiamo dare una risposta, una rete, un aiuto, un sollievo. Approfondendo il concetto delle terapie palliative, possiamo dire che proprio una delle caratteristiche della palliazione è la proporzionalità dell’intervento, sia a livello umano, psicologico, ma anche a livello medico. Quando parlo di interventi proporzionati, chiaramente non alludo all’accanimento terapeutico, ma soprattutto al fatto di non adottare terapie inutili: non applicare, cioè, determinate terapie che non possono più far guarire, e invece elargire quelle terapie che devono servire a curare, ma soprattutto a prendersi cura. Quindi, il concetto è proprio questo: umanizzare una medicina che spesso è molto aggressiva. Purtroppo noi ci troviamo ad umanizzarla solo alla fine. È un limite questo, al quale noi, proprio con queste iniziative e con i gruppi futuri, di cui vorrei parlare in seguito, cerchiamo di dare una risposta. Con il nostro lavoro cerchiamo proprio di abbattere i limiti di questa nostra medicina che è molto tecnologica, ma che spesso va in crisi e non riesce a supportare le persone nei momenti più critici, dei quali il culmine è proprio l’accompagnamento alla fine. 6


In qualità di aspiranti volontari, ci interroghiamo molto spesso sulla nostra attitudine ad affrontare la tematica dell’accompagnamento alla morte. Ci chiediamo se davvero ognuno di noi è adatto ad intraprendere questi percorsi di aiuto. Lei pensa sia lecito porsi queste domande? Sicuramente sì. All’inizio si potrebbe pensare che l’accompagnamento fino alla morte non sia un’esperienza per tutti. Ma io potrei anche dire che morire è una cosa talmente difficile e importante che non può nemmeno essere lasciata soltanto ai medici. Occorrono altre figure che affiancano il medico. Spesso il medico si maschera dietro il camice oppure si difende con la tecnologia. Arrivati alla fine della vita, non servono né il camice né la tecnologia. Serve ben altro. Quindi, come dicevamo prima, serve il saper essere e non il saper fare. E poi serve anche non essere soli. Io sto parlando degli operatori, chiaramente. Non si può essere soli né fra gli operatori, né fra gli ammalati. Ecco quindi che la palliazione prevede una tipica organizzazione di gruppo, di équipe, con delle regole ben precise, con dei bisogni, e anche dei diritti e dei doveri, che vanno rispettati, pena il burnout. Non si può transigere quindi. Ma non sull’accogliere il volontario: non si può transigere sulla formazione del volontario, che lo porterà a una consapevolezza sempre maggiore, 7


chiaramente mai al cento per cento, perché si tratta comunque un percorso, un cammino di avvicinamento verso noi stessi attraverso l’altro. È un’esperienza, diciamo, che comunque deve essere vissuta insieme, nell’ambito di un’équipe. Quindi il sostegno è fondamentale, i briefing settimanali lo sono altrettanto, così come lo sono anche gli incontri extra-reparto. Iniziando questo percorso può anche darsi che qualche amico, qualche compagno di viaggio ci lasci, non in senso fisico, bensì nel senso che la paura, oppure il sentimento d’inadeguatezza, oppure ancora un’analisi profonda, che è pur sempre una crescita, gli farà dire di no. E quelli che rimangono, normalmente il venti o il trenta per cento dei candidati, saranno quelli giusti, quelli che potranno affiancare gli operatori e, forse, fare anche più degli operatori; perché dove non arriva l’hitech, laddove non c’è più bisogno di hi-tech, c’è bisogno di hi-touch. Cioè, non per fare del facile inglesismo, il toccare, la fisicità, la presenza, l’ascolto sono cose che spesso i medici non sono capaci di prestare, per mancata formazione. Perché in realtà, a noi medici nessuno ha mai insegnato come prendersi cura di un malato terminale: l’università non ci prepara a queste cose, le dobbiamo vivere, le dobbiamo sperimentare sulla nostra pelle. Così anche il medico spesso è solo e ha bisogno di qualcun altro. Quindi oltre agli infermieri, agli operatori sociosanitari, c’è bisogno anche dei volontari. I volontari hanno 8


questa leggerezza, questa autonomia, questa laicità, tutte quelle caratteristiche che spesso rappresentano un valore aggiunto. Noi, dopo un anno abbondante di esperienza, possiamo dire che veramente il volontario fa la differenza: fa la differenza nelle cose semplici, quando organizza il momento del tè, ad esempio, oppure l’incontro del collage foto-biografico; quando è vicino anche nel momento del pasto, magari nel momento in cui non c’è un familiare adatto o presente, o quando parla con i familiari che sono in crisi. Quindi il volontario fa la differenza. È previsto comunque anche a livello scientifico, in tutta Europa: il volontario in hospice è una figura contemplata. Noi abbiamo lottato, abbiamo dovuto lottare con tante difficoltà, anche e soprattutto culturali, per far entrare in reparto delle figure non mediche, però adesso si vedono i risultati, e quindi siamo contenti, fieri di avere allargato il gruppo operativo con delle persone che veramente danno qualcosa di più, di altro rispetto alle figure tradizionali che operano in hospice.

Ci può fornire qualche informazione riguardo ai percorsi formativi a cui ha accennato prima? In realtà, non si tratta esattamente di veri e propri corsi di formazione, in quanto coloro che superano questa 9


prima fase di contatto, soltanto in un secondo tempo hanno accesso ai corsi veri e propri, che sono un po’ diversi, molto più personalizzati, resi soggettivi. Questa iniziativa, che noi portiamo avanti ormai da alcuni anni, è in realtà una sorta di avvicinamento, un percorso di conoscenza proprio per accostarsi all’argomento. Si tratta di incontri basati su esperienze: ci sono vari operatori che parlano dei loro momenti di vita vissuta all’interno e all’esterno del reparto hospice. Quindi non si può parlare di veri e propri corsi, bensì di testimonianze, sulle quali noi puntiamo per far conoscere la realtà dell’hospice alle altre persone. Fra i partecipanti che arrivano a questi incontri, soltanto una parte decide di diventare volontario: questo è il nostro obiettivo. E, a quel punto, iniziano i corsi veri, quelli individualizzati, che tendono a valutare, a far conoscere anche le personalità e le peculiarità di coloro che desiderano prestare il loro volontariato, determinandone l’idoneità o meno a farlo. Quindi si tratta di incontri preparati dai vari operatori, quali infermieri, operatori socio-sanitari e medici, ma anche da volontari chiaramente, in cui ognuno porta la propria esperienza, illustrando alcuni casi, raccontando tutte le sensazioni che si vivono all’interno del reparto, ma anche al di fuori del reparto, quando si esce a mangiare una pizza insieme. Alla fine le chiacchierate in questi frangenti non sono mai banali: si finisce sempre col parlare dell’essenza della 10


vita, delle proprie difficoltà. Insomma, quei valori veri che noi stiamo cercando di portare avanti tutti i giorni. Un’altra grande motivazione ci spinge, poi, ad organizzare queste iniziative. Noi lavoriamo da tredici anni, però, nonostante tutto e nonostante il movimento degli hospice sia oramai diffuso -esiste addirittura una Società Italiana di Cure Palliative, vengono pubblicati giornali e libri che trattano questi argomenti - ancora oggi ci troviamo di fronte a grosse incomprensioni culturali. Abbiamo difficoltà anche nell’ambito medico: mi riferisco, ad esempio, alle difficoltà dei percorsi di cura che spesso sono delle vere e proprie corse ad ostacoli. Noi purtroppo abbiamo l’opportunità di valutare i percorsi degli ammalati a noi affidati partendo proprio dalla fine, e questo, “partendo dalla fine”, è anche un nostro slogan. Partendo dalla fine, noi abbiamo la possibilità di ricostruire il percorso di una persona a ritroso, fino al momento in cui le viene consegnato il referto istologico e diagnosticato un cancro. A partire da quel momento in poi, per quelle persone inizia un percorso, che alcune volte può anche avere un lieto fine, perché allo stato attuale le possibilità di guarigione, o perlomeno le possibilità di convivenza sana con la malattia, sono aumentate. Però spesso ci troviamo di fronte a delle patologie in fase talmente avanzata, oppure a tipologie di tumore molto gravi, contro le quali non si può fare più nulla. In questi 11


casi, dunque, inizia un percorso molto arduo, che noi, proprio nel momento finale, vediamo essersi più volte interrotto, nei momenti di passaggio da uno specialista all’altro, ad esempio: momenti che sono deleteri, a dir poco micidiali, per l’ammalato e per tutta la famiglia. Allora, ritornando al nostro slogan “partendo dalla fine”, noi avremmo la presunzione di dire basta a queste interruzioni, a questi passaggi inutili, perché la palliazione, secondo noi, dovrebbe iniziare da subito, dal giorno in cui viene fatta la diagnosi e l’esame istologico risulta positivo per un cancro. La palliazione è una filosofia. Non si occupa soltanto dei malati terminali, non si occupa soltanto della cura del dolore necessaria in quei casi, ma si occupa di accompagnare umanamente la persona che sta attraversando una fase della propria esistenza molto delicata, a volte risolvibile, a volte irrisolvibile.

Esiste il problema di come aiutare i pazienti di altre culture o religioni? O, meglio ancora, c’è spazio in hospice per una dimensione religiosa? Assolutamente sì, anche se è preferibile parlare di dimensione spirituale piuttosto che di dimensione religiosa. Chiaramente, in qualità di operatori di una 12


struttura pubblica, noi dovremmo essere pronti a rispettare la dignità, le volontà espresse, oppure, in mancanza di queste ultime, la storia dell’individuo, le caratteristiche di quella persona, che ci vengono a volte raccontate da coloro che hanno il diritto di farlo o hanno la conoscenza per farlo; pronti a dare a quella persona, alla fine della sua esistenza, la possibilità di lasciare di sé un ricordo: ma un ricordo vero, reale. Noi vorremmo che quella persona fosse ricordata per le sue reali caratteristiche. È un obiettivo particolarmente difficile da raggiungere, però noi ci proviamo. E chiaramente tra quelle caratteristiche il rispetto maggiore va al suo credo, alla sua cultura. In hospice abbiamo già accolto anche persone straniere, di altre culture o religioni, quindi siamo pronti ad offrire la possibilità di un sostegno spirituale consono alla religione e soprattutto alla cultura di ciascuno. Sono progetti ambiziosi, lo capisco benissimo. Pur non essendo il nostro un gruppo numeroso, abbiamo già fatto delle esperienze in questo campo, addirittura accompagnando le persone fino alla sepoltura, cercando di esaudire qualsiasi richiesta, per quanto ci fosse possibile, sempre rispettando la cultura di ognuno. L’hospice è una struttura aperta a tutti, una struttura laica anche sotto il punto di vista medico, e noi che vi operiamo dobbiamo necessariamente rispettare ogni religione e ogni cultura. 13


Dottor Gambini, vorremmo porle un’altra domanda cruciale: l’ammalato deve sempre essere messo al corrente della sua condizione clinica? Questo è un altro degli aspetti più rilevanti che noi operatori dell’hospice ci troviamo ad affrontare quotidianamente. Consapevolezza o non consapevolezza? Ci sono delle realtà che sono più avanti di noi, che ci hanno preceduto, che sono quelle dell’Europa del Nord, dove la consapevolezza sembra sia un requisito indispensabile, quasi automatico. Noi siamo mediterranei, e io penso che la medicina o l’interesse verso il prossimo debba sempre essere contestualizzato nella cultura e nel luogo dove si vive. Ora, non essendo, noi italiani, i primi nelle graduatorie internazionali, dobbiamo rifarci sempre ad esperienze che ci precedono, oppure a lavori realizzati prima di noi. Per cui io credo che, come gente del Mediterraneo, dobbiamo contestualizzare queste teorie nella nostra immensa cultura mediterranea. Tanto è vero che, riguardo al tema della consapevolezza, non esiste nulla di regolamentato. Ci sono esperienze che dimostrano che la consapevolezza aumenta la possibilità di essere parte attiva del processo di terapia e di cura. Quindi verrebbe da dire che la cosa migliore è quella di mettere sempre il paziente al corrente della propria situazione. Ma noi, da buoni mediterranei e da abitanti della culla della civiltà e della filosofia, possiamo dire che 14


anche qui è tutto proporzionato, cioè che occorre dire la verità quando serve. Vale lo stesso discorso che facciamo per la terapia: va applicata quando serve, nella misura in cui serve, nel momento in cui è ora di farlo. Solitamente è l’ammalato stesso che ci pone delle domande. Spesso, ci fa sapere quando desidera parlarne con delle comunicazioni che non sono verbali, ma che sono sottintese. Di frequente, quando arriva un paziente, la prima cosa che ci chiede è di non dire nulla della sua malattia al marito o alla moglie, perché altrimenti “ne soffrirebbe tanto”. Uscendo fuori dalla camera, è il familiare in questione che si raccomanda con noi di non dire all’ammalato che ha un tumore o un cancro. Quindi entrambi sanno, ma non se lo dicono. In casi come questi, si è visto che, una volta che le due persone riescono a comunicare, le cose vanno molto meglio. Però, ripeto, non esiste una regola. Esiste il buon senso. Ed è un bene che l’ammalato riesca a comunicare in modo tranquillo e sereno con il medico, e non soltanto con il medico, ma anche con l’infermiera, con l’operatore socio-sanitario o anche con il volontario. Spesso infatti può benissimo crearsi un feeling tra l’ammalato e il volontario, che porta quest’ultimo ad essere la figura più adatta a cui comunicare timori, sensazioni, riflessioni personali. Non c’è una supremazia di competenze in questa comunicazione. La comunicazione non guarda il camice, non guarda il cartellino che ci identifica quando entriamo in camera, 15


guarda negli occhi. Si entra nel mondo dell’empatia. Ecco la parola esatta.

Si è parlato molto di comunicazione e consapevolezza, ma quando l’ammalato non è in grado di parlare, che tipo di linguaggio possiamo utilizzare? Il linguaggio giusto è il linguaggio del corpo. Il toccare, la fisicità, il tenere la mano; anche ascoltare la musica, quando è possibile; oppure avere un animale in camera, un gatto, un cane, avere quindi la possibilità di sentire accanto una forma di vita. Se poi quel cane, o quel gatto, è l’animale che ti ha accompagnato per tutta la vita, allora è come un familiare, la sua vicinanza ha un valore altissimo. Quindi da noi, in hospice, non esiste l’atteggiamento mentale secondo il quale l’ospedale è un luogo asettico, dove non si può portare nulla. Se un ammalato ha un animale che gli fa compagnia da sempre può tranquillamente portarlo in camera. Tutto questo può risuonare come una provocazione, ma di fatto vuol dire che la fisicità, il toccare, può sopperire, spesso molto efficacemente, alla mancanza degli altri sensi.

A proposito di cura, esiste una linea di demarcazione precisa tra l’intervento curativo e l’accanimento terapeutico? 16


Di questo si potrebbe parlare veramente molto a lungo. Però io con uno slogan posso dire: un medico deve avere sempre dei dubbi, il medico che ha certezze è un medico pericoloso. Mi spiego meglio: il medico che ha dei dubbi, specialmente in questa fase della vita, è un medico virtuoso. Le domande che deve porsi è: quello che faccio serve alla qualità della vita di questa persona? Riesco a farlo star meglio? Riesco a dargli dignità? Se la risposta è affermativa, allora qualsiasi intervento che si pone in atto non è accanimento. Tutto quello che dà qualità alla vita residua non è accanimento terapeutico. Tutto il resto lo è.

Dottor Gambini, possiamo chiederle che cosa pensa dell’eutanasia? La domanda è del tutto lecita. Ci siamo trovati molto spesso di fronte a richieste di chiarimenti sull’eutanasia, di come questa si ponga nei confronti delle cure palliative e della terapia del dolore. È naturale che ci vengano poste delle domande a riguardo, però è necessario fare una netta distinzione. L’eutanasia è un intervento attivo che procura la morte di una persona che la chiede. Ci sono dei Paesi che hanno legiferato in questo senso, e dei Paesi che non lo hanno ancora fatto. Io, riguardo all’eutanasia, posso esprimere 17


una mia idea personale e non in qualità di medico che lavora in un hospice. Come libero cittadino, posso dire che sarei favorevole ad una legge che desse la possibilità di compiere un atto eutanasico, nei casi in cui ce ne fosse bisogno. Ma in qualità di medico che vive e lavora in Italia e che, quindi, rispetta le leggi vigenti e anche la nostra cultura, potrei affermare che la palliazione mi offre lo strumento per negare la necessità dell’eutanasia. Sono convinto che, se applico una buona palliazione, nessuno mi chiederà mai di porre fine alla sua vita. Tanto è vero che, nei casi conosciuti, gli atti eutanasici raramente sono avvenuti per pazienti oncologici terminali, che di norma costituiscono il nostro target. Al contrario sono stati richiesti da persone affette da malattie neurologiche, non terminali, bensì interminabili, tali da portare a questa richiesta proprio per la loro lunghezza esasperante, per la loro debilitazione esasperante. Il fatto di prenderci cura di malati oncologici, paradossalmente, ci aiuta. La progressività della malattia oncologica di per sé porta alla fine e il nostro compito è restituire dignità a questo periodo terminale. Quindi, come ripeto, una buona palliazione, anche nelle patologie neurologiche o nelle patologie molto lunghe, sicuramente fa diminuire di tanto, se non addirittura cancellare, la necessità di un atto eutanasico, proprio perché si riesce a dare un senso alla vita residua della persona malata. E quando la vita ha un senso, non c’è 18


bisogno di negarla. Il concetto di eutanasia è poi strettamente legato alla cultura dell’individuo e alla sua concezione di libertà. Detto questo, ribadisco comunque che l’eutanasia e la palliazione sono due cose completamente diverse. Spesso mi trovo a parlarne, su richiesta, come adesso, ma sono due cose che viaggiano in direzioni assolutamente opposte.

Abbiamo parlato di hospice e di cure palliative, ma, visto l’esiguo numero di strutture esistenti, che futuro possiamo ipotizzare per tutti quegli ammalati che non possono usufruire di questi servizi? Esistono le cure palliative domiciliari? La nostra esperienza è un po’ anomala, perché nasce da una disponibilità che si era creata all’ospedale di Loreto. Così, avuta l’opportunità di utilizzare alcune stanze che erano rimaste libere, è partito il progetto hospice. C’era già una legge, la legge del ministro Bindi, che favoriva questa riconversione degli ospedali in strutture territoriali, come l’hospice appunto. Quindi siamo partiti con una struttura residenziale, prima di andare a lavorare a domicilio sul territorio. La maggior parte delle iniziative, ad esempio Roma con l’Anthea, o Milano, o Bologna con il Bentivoglio, sono partite con esperienze territoriali: vale 19


a dire che esistevano, ed esistono ancora, delle équipes specializzate in cure palliative che si recano a casa dei pazienti e lì organizzano l’assistenza. In queste realtà, dove sono presenti sia l’assistenza a domicilio che l’hospice, quest’ultimo ha la funzione di occuparsi dei malati terminali proprio a fine vita, in quei casi per i quali c’è necessità di un po’ di tecnologia, o qualora le famiglie non siano all’altezza, per motivi di spazio, di disponibilità o a causa di problemi sociali. L’ideale sarebbe, quindi, avere un’organizzazione tale da garantire un’équipe per l’assistenza domiciliare e un hospice che supporti le carenze sul territorio. Questo è per noi un progetto futuro, al quale stiamo lavorando da tempo. Spesso ci troviamo anche di fronte a casi di pazienti che muoiono non soltanto a casa o in ospedale. Prevalentemente incontriamo le persone più fragili nelle case di riposo, tanto è vero che abbiamo iniziato a lavorare proprio su questo versante, cioè esportare la palliazione, che noi facciamo in hospice, anche in queste strutture. In due grandi regioni italiane, la Toscana e la Lombardia, si sta lavorando per realizzare un progetto denominato V.E.L.A. e che parte dall’iniziativa di un gruppo di terapisti di Firenze, sotto il nome di “leniterapia”. Siamo a casa dell’Accademia della Crusca e quindi questi dottori hanno ben pensato di ribattezzare le cure palliative col nome di leniterapia, sarebbe a dire “terapia lenitiva”. Scherzi a parte, si è ritenuto 20


opportuno sostituire la parola “palliativo” con l’aggettivo “lenitivo”, che, rispetto alla prima, ha un’accezione più rispondente alle peculiarità della tipologia d’intervento che si va a porre in atto. Questo gruppo di leniterapisti ha concepito un progetto molto interessante, che prevede la diffusione delle cure palliative anche nelle case di riposo, occupandosi prevalentemente di malati affetti da Alzheimer o da demenza senile. Questo perché, da studi fatti su malati anziani, fragili e dementi, affetti da Alzheimer, è risultato che questi pazienti assumevano dosi di farmaci antidolorifici molto inferiori rispetto ad un gruppo parallelo di anziani non dementi. Allora ci si è chiesto: il malato anziano, affetto da Alzheimer, forse non sente dolore? No, lo sente benissimo, forse lo sente di più, ma non è capace di manifestarlo, quindi non è capace di chiedere aiuto. Perciò il mancato ricorso a terapie del dolore è dovuto soltanto a questo motivo. Da tali conclusioni, si è alzato il grido di allarme: occupiamoci di questi casi! Questo progetto è nato proprio con queste finalità, per la possibilità di rivedere, di misurare il dolore, chiaramente non secondo le scale classiche che si usano nei reparti ospedalieri, bensì attraverso un’accurata analisi della postura, dei messaggi non verbali e delle smorfie del viso, in modo tale da poter vedere il dolore e andare a curarlo. In questi casi prendersi cura e curare il dolore è fondamentale. Quindi proprio da queste considerazioni parte il progetto di esportare anche nelle case di riposo la terapia del dolore, 21


che è uno dei capisaldi delle cure palliative. Anche noi stiamo iniziando a farlo, seppure tra mille difficoltà. Ciò che vorremmo evitare è il ricorso al pronto soccorso, che riteniamo un fattore altamente negativo. Mi spiego meglio: in casa di riposo arriva un ammalato, che sta benino, che ancora cammina, porta con sé le sue cose. In quell’ambiente invecchia e naturalmente la sua salute, con l’età, peggiora. Dopo anni durante i quali ha praticamente fatto della casa di riposo la propria residenza, la propria casa, questa persona si trova, di notte, per una acuzie, ad essere portata al pronto soccorso con il 118 e spesso muore proprio lì. Per una persona magari molto anziana, che ha vissuto per anni in una struttura che è diventata la sua casa, non è dignitoso spegnersi in un pronto soccorso, nel quale si devono seguire dei protocolli ben precisi. I medici, necessariamente, non fanno differenza tra un novantenne e un cinquantenne. Quando arriva un anziano con un edema polmonare acuto, oppure con un’insufficienza respiratoria grave, i medici sono tenuti a trattarlo in egual maniera, come se curassero un giovane, occupandosi della patologia e non della persona anziana nella sua particolare situazione, che può essere anche d’inguaribilità. Per noi medici palliativisti, questo non è un intervento proporzionato. Quindi, chiaramente preparando adeguatamente gli infermieri, gli operatori socio-sanitari e i medici che operano nelle case di riposo, stiamo proponendo il progetto V.E.L.A., grazie al quale gli 22


ammalati anziani e inguaribili, in fase veramente avanzata di malattia, possano essere seguiti fino alla fine nel luogo che loro stessi hanno scelto come ultima dimora. È una grande sfida: sembra banale, sembra semplice, ma in realtà è difficilissimo. Stiamo lavorando per questo. È un progetto ambizioso, oserei dire azzardato. Però noi giudichiamo il pronto soccorso un “non-luogo” per morire. I luoghi dove morire sono i luoghi dove la persona è vissuta, dove la persona si sente a suo agio, si sente circondata da persone che conosce. A novant’anni non si può morire intubati o trasfusi, sopraffatti da interventi tecnologici messi in atto da qualcuno che non sa nemmeno il tuo nome.

Per concludere, possiamo riassumere nella parola “palliazione” tutte quelle pratiche che mettono al centro del nostro interesse l’uomo, inteso nella sua complessità fisica, spirituale e relazionale? È proprio quello che cerchiamo di fare. Parlare di questi argomenti e di queste esperienze senza cadere nell’ovvio è già difficile e imbarazzante. Si rischia ad ogni passo di cadere nelle banalità oppure nel pietismo. Dico che è necessario prendersi cura della persona nella sua totalità. Forse non sempre ci riusciamo, ma ci proviamo comunque avvalendoci di un’équipe composta da varie figure: una 23


psicologa, un assistente spirituale, un sacerdote, formato pure lui. Perché non è detto che il sacerdote, per il semplice fatto di vestire un abito talare, debba considerarsi pronto a questo compito. A tale proposito vorrei raccontare un aneddoto. Quando, tempo fa, venne a mancare un sacerdote, mi ricordo che andammo dal Vescovo. Proprio in quella occasione, noi medici manifestammo la necessità di un supporto spirituale per il nostro hospice e il Vescovo stesso ci disse: “Cari dottori, voi mi chiedete qualcosa di molto difficile. Non abbiamo per adesso sacerdoti adatti a questo compito”. E, con grande chiarezza, con grande sincerità, riconobbe il ruolo fondamentale, ma anche difficile, che riveste un sacerdote che si occupa della palliazione nei confronti di una persona che non conosce e che può anche essere di un’altra religione o di una cultura diversa. Quindi noi ci proviamo e cerchiamo di riuscire. È un cammino arduo e complesso quello che noi tutti stiamo percorrendo, nella speranza che ci porti verso traguardi sempre più alti, sia all’interno che al di fuori del reparto. Ma soprattutto quello che noi riteniamo fondamentale è la diffusione della palliazione e della filosofia delle cure palliative.

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