Astrid Oriani percorso intorno al cibo

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Liceo Scientifico Statale “Primo Levi” Roma Esame di Stato

Il cibo, tra piacere e cultura

Astrid Oriani Cl. 5^ B

1 AS 2013‐2014


Il cibo, tra piacere e cultura di Astrid Oriani è distribuito con Licenza Creative Commons Attribuzione ‐ Non commerciale ‐ Non opere derivate 4.0 Internazionale. © 2014 Astrid Oriani, Roma

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Il cibo, tra piacere e cultura Filosofia

Cibo e filosofi

FEUERBACH: "Siamo ciò che mangiamo"

Letteratura latina APICIO: De Re Coquinaria

PETRONIO:

Satyricon: La cena di Trimalcione

Letteratura italiana

Arte

MARINETTI: Futurismo

Cucina futurista

WARHOL: Pop‐Art

Wild Raspberries

SOMMARIO 5

Introduzione

1. Filosofia 8 10

1.1 Cibo e filosofi 1.2 Feuerbach: “L’uomo è ciò che mangia”

2. Letteratura latina

2.1 La cucina nella Roma imperiale 2.2 Apicio, il primo gastronomo 2.3 Petronio e la sfarzosa cena di Trimalcione

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3.1 Il futurismo e il cibo 3.2 Il Manifesto della cucina futurista

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3. Letteratura italiana

4. Storia dell’Arte

4.1. La Pop‐Art 4.2 Andy Warhol e la sua passione per i dolci: Wild Raspberries

Conclusioni Bibliografia

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29 33 34

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INTRODUZIONE Il cibo dà spesso l’avvio a una molteplicità di conversazioni non soltanto sul cibo stesso: per esempio, un piatto dalla tradizione vicina alla (o lontana dalla) nostra cultura o la provenienza dei suoi ingredienti e le diverse modalità di impiego offrono spunti per ricordi e storie. Il gusto di una pietanza è spesso un’occasione per gustare sapori non soltanto palatali, ma affettivi e culturali, ricordare persone o posti lontani, oppure avvertire la vicinanza di una persona (o sentire il gusto amaro della sua mancanza). Un po’ come accade a Proust quando tanti ricordi della sua infanzia fuoriescono da una semplice tazza di te con le immancabili madeleines!

La cultura del cibo caratterizza ogni comunità umana e va oltre la

semplice (ma fondamentale) nutrizione, uno dei suoi bisogni primari il cui soddisfacimento è necessario per sopravvivere. La scoperta della possibilità di manipolare, cuocere e trasformare gli alimenti, anche grazie all’impiego di erbe aromatiche e condimenti, ha consentito all’uomo di sviluppare l’arte culinaria.

Nell’antichità la preparazione del cibo e la trasformazione che subivano

gli ingredienti avevano qualcosa di misterioso e magico: non a caso il termine “cuoco”

(ma

anche

macellaio, nonché addetto ai sacrifici) veniva reso con “mágeiros”. L’arte culinaria o (dal greco) magirica ha reso il cibo uno dei maggiori piaceri della vita, fonte

di

soddisfazione,

appagamento non solo del palato,

anche

ma

consolazione (quando gli affetti non riescono). Figura 1 Epidromos, 510 ‐ 500 a.C. Parigi, Museo Louvre, (commons.wikimedia.org/wiki/File:Sacrifice_boar_Louvre_G112.jpg)

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In ogni tempo e

parte del mondo, sia dal


punto di vista storico che geografico, si può riscontrare come sia attribuito al cibo un profondo valore culturale, religioso e sociale. Il cibo è anche, inevitabilmente, cultura,1 fatta non soltanto della storia dell’essere umano, ma anche delle sue aspirazioni, delle sue abitudini e tradizioni, della sua creatività e capacità di comunicare. Nella specificità e nel patrimonio culturale di ogni popolo rientra perciò anche il cibo, che viene rappresentato e celebrato dalla letteratura, dalla pittura e da altre arti (fotografia inclusa).

Nell’antichità esso veniva celebrato in riti religiosi oppure, in epoca

romana, in sontuosi banchetti,2 ai quali si partecipava mangiando coricati sul triclinio sia per poter mangiare di più, sia per riposarsi tra una portata e l’altra.

Nel medioevo, le differenze (e disuguaglianze) di ceto, il divario tra

ricchi e poveri trovano un’espressione significativa anche nel cibo.

Nel rinascimento, con il rifiorire dell’economia e della cultura,

l’intensificarsi delle scoperte geografiche e degli scambi con paesi lontani e, quindi, l’introduzione di nuovi alimenti, spezie e colture, si assiste a un notevole

Figura 2 Vincenzo Campi, Cristo nella casa di Maria e Marta, 1580 ca., Modena, Galleria Estense.

1 http://wineandshout.blogspot.it/2012/04/il‐triangolo‐culinario‐di‐levi‐strauss.html

2 ZANASI, F., I riti del cibo nell’antica Roma: come mangiavano i Romani, homolaicus.com,

http://www.homolaicus.com/storia/antica/roma/cibus.htm

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cambiamento nel gusto e alla sperimentazione di sapori nuovi. I pasti rinascimentali, invoglianti sin dal loro aspetto esteriore, comprendevano arrosti, zuppe, insalate e pasta, tutti di solito accompagnati da una grande varietà di contorni.

L’illuminismo dà origine a una profonda riforma culinaria che, dalla

Francia, si diffonderà in tutta Europa portando all’affermazione della nouvelle cuisine (cucina borghese), grazie ai primi grandi gastronomi e cuochi dell’800 come Brillat‐Savarin, autore de La fisiologia del gusto. In Italia possiamo ricordare Luigi Carnacina e Pellegrino Artusi, considerati tutt’oggi pietre miliari della storia della tradizione culinaria italiana.

In questo suo lungo viaggio nella “sublimazione del gusto”, il cibo è

divenuto oggi ricerca affannata, appagamento della vista e del palato, vera e propria opera d’arte. Come già accennato, fra le cose che distinguono l'uomo dagli altri esseri viventi vi è il particolare legame che egli, sin dall'inizio della sua storia, ha istituito con il cibo. Gli animali si nutrono, l'uomo mangia e, nel mangiare, non si accontenta di consumare gli alimenti, ma insieme li pensa, ha, cioè, nei confronti dei cibi, un rapporto fortemente simbolico.

Anche in certi modi di dire traspare l’intima relazione tra cibo e

cultura: siamo “affamati” o “assetati” di sapere, ma certi concetti o nozioni ci possono risultare “indigesti”! La cultura umana si specchia, infatti, tanto nelle parole del linguaggio (che fuoriescono dalla bocca), quanto negli alimenti e pietanze che entrano nella bocca. Nelle nostre società, sempre più multietniche e multiculturali, i cibi locali (a km “0”) si incontrano e con i cibi provenienti da diverse culture e ci stimolano a riflettere sulle mille storie, conoscenze e tradizioni che ci sono dietro e comprendere il rispetto per la dignità umana, riconosciuta dall’ONU, “fondamento della libertà, della giustizia e della pace del mondo”.

Nei punti che seguono, questo lavoro affronta, seppur sinteticamente, il

rapporto complesso tra cibo e alcune dimensioni dell’uomo, in particolare quella filosofica, la letteraria e l’artistica, per sottolineare come il cibo sia un bene culturale, prodotto dalla cultura e generatore di cultura.

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1. FILOSOFIA

1.1 Cibo e filosofi Nelle antiche raffigurazioni iconografiche la filosofia è rappresentata come un'orsa colta nell'atto di divorarsi la zampa: è un’immagine che simbolizza l’autosufficienza della disciplina in quanto “ipse alimenta sibi”, ovvero “trae da se stessa il suo proprio nutrimento”. Non va trascurato il fatto che i filosofi stessi hanno spesso mostrato, in quanto uomini prima ancora che pensatori, le loro preferenze in fatto di cibo.

L’attenzione verso il cibo emerge sia dalle autobiografie (in cui sono

spesso nominati i cibi preferito) sia dalle loro stesse opere filosofiche, in cui metafore culinarie ricorrono spesso e rivelano l’attenzione alla sfera eno‐ gastronomica. Tra i filosofi dell’antichità, Platone, era ghiotto di fichi al punto di essere

Figura 3 Platone, “Simposio”, il discorso di Aristofane. Giambattista Gigola, Il simposio platonico. Ca. 1790, Brescia, Musei Civici di Arte e Storia.

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soprannominato “mangiatore di fichi”, che raccomandava a tutti per rinvigorire l’intelligenza3 e divorava anche tra una lezione e l’altra all’Accademia; Aristotele

aveva abitudini alimentari più raffinate, come si può intuire dalla vasta collezione di pentole che possedeva.

A Pitagora sono attribuite le prime prescrizioni dietetiche in filosofia,

come la dieta vegetariana (già un secolo prima di Socrate e Platone) per i suoi allievi consistente in “pane e miele al mattino, verdura fresca la sera”, con lo scopo di armonizzare la salute del corpo con la leggerezza dello spirito, o “pneuma”, come veniva definito dagli antichi greci.

Diogene e i cinici, favorevoli al cibo da consumarsi in strada, possono

essere considerati i precursori del “fast‐food”, perché per primi predicarono la necessità di consumare i cibi per strada e in piazza, senza troppe formalità, mangiando del pane farcito di lenticchie o lupini, fichi secchi o olive.

Tra i filosofi moderni troviamo:

Immanuel Kant, noto per la predilezione per la senape, immancabile

condimento dei pranzi che preparava per i suoi studenti prediletti;

Soren Kierkegaard, le cui opere filosofiche sono piene di riferimenti al

cibo,4 amava abbinare il vino al pollo;

Friedrich Nietzsche, teorico del “Superuomo” e affetto da una sfrenata

passione per il cibo, soprattutto per le salsicce (ma anche per uova, noci, riso ecc.) di cui si cibava disordinatamente ‐ causa, secondo la sorella, della debolezza e dei problemi di stomaco del filosofo ‐,5 per finire, nel 1888, suo ultimo anno di lucidità, con il mischiare alimenti vari, per esempio, “bistecca, omelette, prosciutto e tuorli d’uovo crudi con pane”. 3 Diogene Laerzio (180‐240), scrittore e storico greco, riporta che Diogene il Cinico, mentre

stava mangiando fichi secchi, incontrò Platone che, invitato ad assaggiarli, li mangiò tutti. Risentito, Diogene precisò che lo aveva invitato ad assaggiarli, non a divorarli tutti. http://www.ficusnet.it/index.php?option=com_content&view=article&id=56&Itemid=65&lang= it, 4 http://countlan.com/2014/01/29/book‐philosophical‐food‐crumbs‐cooking‐kierkegaard/ 5 Cfr. YOUNG, J., Friedrich Nietzsche: a Philosophical Biography, Cambridge, Cambridge University Press, 2010, p. 276: “she attributed his condition not to the Basel climate but to his dietary asceticism: ‘he lived entirely on fruit, rusks [Zwieback], vegetable soups specially made for invalids, and cold roast meat, prepared for him each day by a delicatessen. There is no doubt my brother was trying at this time to imitate Diogenes . . . he wanted to find out the minimum required to satisfy a philosopher’s wants’, http://nazbol.net/library/authors/Friedrich%20Nietzsche/Julian_Young%20‐ %20Friedrich_Nietzsche_A_Philosophical_Biography_(2010).pdf.

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1.2 Feuerbach: “L’uomo è ciò che mangia” Se ci spostiamo dai personali gusti alimentari dei filosofi verso un piano di indagine filosofica, dobbiamo soffermarci su Ludwig Feuerbach, il quale, con la famosa (e spesso banalizzata) massima “l’uomo è ciò che mangia” (in tedesco, “der Mensch ist was er isst”), pone l'accento sull'importanza di considerare l’individuo nella sua fisicità, “in carne ed ossa”, e nella sua interezza, corpo e mente. Gli alimenti solidi e liquidi sono molto importanti perché sono il carburante che consente lo sviluppo e la propulsione di quella macchina complessa che è il corpo, ma anche di quella rappresentata dalla mente.

L'uomo ‐ ricco o povero, sano o malnutrito e malaticcio ecc. ‐ è tale in

base a cosa mangia, ma anche a come mangia ‐ se da solo o in compagnia, con avidità oppure in maniera misurata, frettolosamente o lentamente, rispettando (oppure no) l’ambiente, essendo consapevole (oppure ignaro) del fatto che ciò che è buono da mangiare non sempre coincide con ciò che è buono da produrre, commercializzare ecc.

Gli stili e i consumi alimentari sono spesso condizionati da vari fattori

come la densità demografica, la disponibilità o meno di certi tipi di cibo, le tradizioni

culturali,

politiche

in

le

campo

agroalimentare, ma anche vere proprie strategie di gruppi interessati al cibo non come alimento ma, piuttosto, per il profitto che possono ricavarne.

Anche le usanze

religiose, tribali oppure tabù di vario genere possono

influire

personali

sulle scelte

alimentari. 10


“Il cibo fa l'uomo" è un’affermazione da intendersi in senso integrale: il cibo supera la dimensione soltanto fisica dell’uomo, la sua sussistenza e sopravvivenza; influisce anche sulla coscienza e sui comportamenti, sulla dimensione spirituale e morale dell’uomo, in quanto contribuisce a "fare anima". Il modo di alimentarsi di una

Ludwig Andreas Feuerbach

non si riconosce più quel valore al cibo,

(Landshut 28.07.1804 – Norimberga 13.09.1872) Filosofo tedesco tra i più influenti critici della religione ed esponente della sinistra hegeliana. Si occupa dell’uomo concreto e rivaluta i sensi. Studi: Università Ruprecht Karl di Heidelberg Attività filosofica: 1) periodo hegeliano, dalla dissertazione (1828) al 1838; 2) periodo umanistico, fino al 1845; 3) periodo naturalistico, dal 1845 fino alla pubblicazione degli ultimi scritti (1866). In quest’ultima fase, prevale il concetto di natura, come presupposto necessario per l’intendimento dell’uomo: il sentimento di dipendenza dell’uomo dalla natura è ora considerato all’origine della religione. F. volge la sua attenzione al sostrato fisiologico dell’uomo, e sembra avvicinarsi al materialismo di J. Moleschott espresso nell’opera Physiologie der Nahrungsmittel (1850; trad. it. Dell’alimentazione). Sono di questo periodo Das Wesen der Religion e la Theogonie (1857). Tra le altre opere si ricorda Grundsätze der Philosophie der Zukunft (1843; trad. it. Principi della filosofia dell’avvenire).

ormai considerato un oggetto come un

(Fonte: treccani.it)

persona esprime una scelta personale e sociale, a meno che non intervengano fattori come mancanza di cibo, particolari patologie ecc. Proprio perché il cibo è espressione di comportamenti individuali e

sociali,

esso

può

influire

sui

comportamenti stessi, sulle coscienze e addirittura sull'economia. Possiamo dire che vi è una coincidenza tra essere e mangiare: siamo in quanto mangiamo e quel che siamo, nel corpo e nella mente, nelle cellule e nello spirito, nel vivere sociale, lo dobbiamo anche a ciò che scegliamo per nutrirci e a come scegliamo di nutrirci.

In uno scenario non più individuale

ma collettivo si può osservare che "il mangiare" è diventato un problema, anche e soprattutto, nel mondo occidentale. Si tende a comperare ciò che conviene economicamente a discapito della qualità,

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altro propagandato dalla società consumistica.

Il cibo è anche unione. Secondo lo scrittore E. M. Foster, gli eventi

principali della vita di un essere umano sono cinque ‐ nascere, mangiare, dormire, amare, morire: mangiare e amare sono quelli che più ci avvicinano gli uni agli altri e che più si avvicinano tra loro. Abbiamo bisogno di un cibo che soddisfi il palato (e sia perciò "buono da mangiare"), ma anche "buono da pensare" (Claude Lévi‐Strauss), buono cioè dal punto di vista etico e mentale quando il nostro bene e il bene della società coincidono. Poiché noi siamo animali sociali, il bene è anche e soprattutto bene sociale. Potremmo allora dire che se l'uomo è ciò che mangia, e mangia bene, l'uomo sta bene con se stesso e con gli altri, riconosce la gioia, ed essendo portato per sua natura a condividerla, gli sarà più facile essere buono. Se gli riuscirà di essere buono, non avido, non sfrenatamente individualista finirà anche col sentirsi bravo, ovvero accettato e premiato socialmente.

Feuerbach è il precursore di tale pensiero perché con la sua filosofia,

dalla forma di un umanismo (in quanto pone al centro l’uomo) naturalistico (in quanto fa della natura la realtà primaria da cui tutto dipende, compreso l’uomo) rifiuta di considerare l’individuo come astratta spiritualità, e lo concepisce invece come essere che vive, soffre, fa delle scelte e ha vari bisogni.

Per sottolineare questa dimensione materiale dell’uomo, il filosofo,

accetta l’idea che vi sia una coincidenza tra l’essere e il mangiare; il materialismo di Feurbach acquisisce un’impronta antropologica importante perché l’uomo viene inserito in un contesto sociale. Ricompone la scissione tra corpo e mente e sostituisce al “Cogito ergo sum” cartesiano l’“edo ergo sum” nel corpo e nella mente, evidenziando l’unità psico‐fisica delle due dimensioni: l’uomo umano e l’uomo spirituale.

Elabora così la teoria degli alimenti ossia afferma che una buona

alimentazione è fondamentale per il vigore spirituale e morale dell'uomo. I cibi si trasformano in sangue, il sangue in cuore e cervello, in pensieri e sentimenti. L’alimento umano è il fondamento della cultura e del sentimento: “Se volete far migliore il popolo, dategli un’alimentazione migliore”. 12


2. LETTERATURA LATINA

2.1 La cucina nella Roma imperiale Come abbiamo visto, il cibo va considerato un importante elemento culturale che assume, nelle diverse società, caratteristiche ed espressioni diverse. Ogni cultura, con i suoi piatti tipici, privilegia determinati alimenti, quale riflesso delle specifiche condizioni ambientali, geografiche, socio‐economiche, storiche e culturali.

La gastronomia (“gaster”, ventre e “nomos”, legge), inizialmente “legge

del ventre”, come diritto allo stomaco pieno, diventa l’arte di regolare lo stomaco e, successivamente, di mangiare e stare bene a tavola. Infatti, condividere i propri pasti con altre persone, il cosiddetto “stare a tavola”, è un momento di convivialità che abbiamo ereditato dagli antichi. Ai nostri antenati, che hanno reso il cibo una vera arte e scritto i primi trattati, dobbiamo la nostra cucina.

A partire dall'età di Augusto, grazie alla conquista dell'Oriente e agli

intensi scambi con l'Asia, arrivarono a Roma nuovi prodotti, spezie, profumi e modi di cucinare. Ciò contribuì a raffinare l'alimentazione dei patrizi romani,

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che scoprirono la varietà dei sapori, e a far nascere la cultura del cibo, della tavola, della convivialità.

Ma come si nutrivano i nostri antenati? L’alimento fondamentale della

cucina romana erano i farinacei di cereali, prima di tutto il farro (Triticum dicoccum), un cereale oggi relativamente poco diffuso, un grano duro senza barbe che andava leggermente tostato prima della lavorazione.

Le farine di cereali furono inizialmente usate per preparare delle specie

di polente (pultes), e solo dal IV secolo a.C. fu introdotta la panificazione: inizialmente si preparavano focacce non lievitate, poi fu introdotto il pane lievitato, che si diffuse rapidamente in diverse varietà: nero (panis plebeius o rusticus o cibarius), scuro (secundarius, poco pregiato ma molto apprezzato anche dai ricchi), bianco ecc. Centrali nell’alimentazione romana erano i legumi e le verdure (zucca, cavolo, asparagi, cipolle, aglio, e, per i più ricchi, funghi).

Molto diffusa era la salsa garum, preparata mescolando piccoli pesci

grassi come sgombri o sardine con viscere di pesci più grossi, poi si mettevano a macerare, sotto sale, in un grosso recipiente con spezie aromatiche. Si lasciava a riposo per una settimana, e poi un’altra mescolando; il liquido che filtrava era appunto il garum o liquamen, che si usava su carni, pesce, minestre, focacce e verdure, la parte restante era l'allec, una salsa usata su ostriche e triglie.

Il rimpianto per un’epoca passata, più sobria, traspare nell’opera di

scrittori e filosofi, come Seneca che rimpiange la parsimonia veterum e l’alimentazione primitiva dei latini alla cui base vi sono vari tipi di polenta, o puls. Questa era una sorta di polenta di farina di farro, piuttosto insipida, cotta in acqua e sale, che veniva accompagnata prevalentemente da legumi, piccoli pesci salati, frutta, formaggi e, raramente, dalla carne. D’altro canto una dieta prevalentemente vegetale era propria anche della società etrusca grazie alla fertilità dei campi della Tuscia.

Proprio gli Etruschi cominciarono a presentare sulle tavole dei ceti più

agiati, che si potevano permettere un’alimentazione più variata, selvaggina o carne di allevamento, decisamente più gustose e più ricche di proteine e di grassi rispetto ai vegetali.

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Fu con la fine della Repubblica e l’inizio dell’Impero che la condizione alimentare dei Romani cambiò radicalmente. In particolare la battaglia di Azio (31 a.C.) segnò l’avvio dei contatti commerciali con l’Egitto, e quindi con l’Oriente e l’Asia così che, a partire dall’età augustea, iniziarono ad arrivare a Roma prodotti provenienti dai diversi paesi, che introdussero nuovi sapori. È in questo periodo che si supera l’esigenza di nutrirsi per soddisfare un bisogno primario e istintivo e si passa al cibo come portatore di piacere, al cibo come sapore e, per certi versi, come sapere.

La ricchezza viene ora esibita in banchetti sfarzosi con tavole imbandite

con prodotti esotici ed elaborate pietanze. Allestire bene la tavola diventa una parte indispensabile del convivio e una vera e propria arte, oltre che sfoggio di ricchezza e potere: Svetonio riporta l’enorme somma spesa da Nerone per le decorazioni floreali (Nero, XXVII).

Come vedremo più avanti in questo lavoro, un esempio efficace della

fastosità dei banchetti dell’epoca è offerto dal racconto della cena del ricco Trimalcione (2.3), descritta con raffinata ironia da Petronio, nel Satyricon. Interessante, nella narrazione della stravagante serata, è senza dubbio l’elogio rivolto dal padrone di casa al suo cuoco, capace, come egli dice, di “trasformare un lardo in un piccione, un prosciutto in una tortora, uno zampone di maiale in una

gallina”.

affermazione importante

Questa

ci

indizio

un sul

concetto di cucina presso i Romani,

i

quali

sostanzialmente tendevano ad apprezzare i cibi quanto più venivano elaborati.

È evidente che tali

preparazioni essere impegnative

dovevano

particolarmente per

la

digestione dei commensali, e 15


di questo ci fornisce ancora una prova lo stesso Trimalcione quando si scusa con i propri ospiti di una improvvisa assenza dalla tavola, perché confessa di avere, da più giorni, disturbi di ventre a cui i medici non erano riusciti a porre rimedio. L’ostentazione dei ceti più ricchi è ben rappresentata attraverso la descrizione di alcuni piatti fantasiosi in maniera spropositata, serviti nell’occasione come una lepre guarnita con le ali per raffigurare Pegaso, il cavallo alato di Bellerofonte, e una scrofa di cinghiale ripiena di tordi vivi con tanto di cinghialini, fatti di pasta, nell'atto di succhiare alle mammelle della madre. Gli eccessi alimentari e le follie gastronomiche descritte da vari autori latini riguardo a celebri banchetti e fastose cene, come quella appena ricordata, favorirono ben presto, specie presso i ceti più abbienti ed elevati della società, l’insorgere di malattie di origine alimentare, legate nella fattispecie all’abuso di cibo.

I medici romani, per la verità, avevano sempre sostenuto la moderazione

nel nutrirsi, ma il fatto che confluissero nella Capitale molteplici ricchezze comportò la diffusione di nuovi e sempre più accattivanti e ricercati alimenti. Pertanto aumentarono i disturbi legati all’alimentazione, quali obesità, calcolosi e gotta, dovuti anche alla natura delle sostanze, dalla mescolanza di cibi talvolta “incompatibili “ tra loro o dall’eccessiva elaborazione dei piatti, sorprendenti da un punto di vista scenografico, ma dannosi per la salute. Si pensi ad esempio agli ingredienti che costituivano

una

delle

pietanze

predilette dall’imperatore Vitellio: un complicato

trionfo

gastronomico

composto da cervelli di pavoni, lingue di fenicotteri e lattigini di murene, o ai quadrupedi

preparati

interi

con

elaborate farciture (Apicio, De re coquinaria, VIII). 16


2.2 Apicio, il primo gastronomo Parlando di ars culinaria6 non si può fare a meno di ricordare la figura del più famoso buongustaio dell’età imperiale: Marco Gavio Apicio. Vissuto sotto Tiberio (14‐37 d.C.) questo personaggio rappresentò un simbolo del suo tempo,

allorché

Marco Gavio Apìcio (lat. Apicius)

mitigatasi

la

corrente

moralizzatrice del periodo augusteo, la ricerca dei piaceri della vita divenne per i Romani

fondamentale

punto

di

riferimento. di

Appartiene a lui il celebre trattato gastronomia

romana

De

re

coquinaria una raccolta di ricette e consigli in 10 libri. Apicio fu un ricchissimo patrizio appassionato di gastronomia e abile cuoco (a differenza della maggioranza dei cuochi dell'epoca, che erano schiavi, seppur molto contesi e trattati con ogni riguardo), molto famoso alla sua epoca per la stravaganza e il lusso

dei

ricercatezza

suoi degli

banchetti

e

la

ingredienti:

si

racconta che in una cena offrì ai suoi ospiti, tra l'altro, talloni di cammello stufati, intingoli di creste di volatili (tagliati ad animali vivi), triglie uccise nel

Autore d'una raccolta di ricette gastronomiche (De re coquinaria) di cui ci resta un rifacimento in latino volgare (forse 4º sec. d. C.). A lui è attribuita la nascita della storia della gastronomia. Patrizio romano nato intorno al 25 a. C., Apicio era un personaggio originale, un gaudente, un raffinato gastronomo e maestro di arti culinarie. Si dedicò ai piaceri della vita e, in particolare, a quelli della buona cucina. Modello di stravaganza per l'alta società romana ma nello stesso tempo bersaglio per i filosofi della moderazione, tra i quali si distinse Seneca che la morte di Apicio, quasi con piacere. Il suo nome rimane collegato al primo e famoso ricettario, De re coquinaria, probabilmente frutto della fusione e della trascrizione di due sue opere gastronomiche, ancora oggi un classico della letteratura gastronomica, oltre che testimonianza importante della vita quotidiana di quell’epoca.

6

http://www.beniculturali.it/mibac/multimedia/MiBAC/minisiti/alimentazione/sezioni/etastor ica/roma/articoli/ricettario.html

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garum, lingue d'usignolo, fenicotteri e pavoni, oche ingrassate ripiene di fichi e pappagalli lessi. Si racconta che amava inventare ricette e che dissipò, nella ricerca di prelibatezze gastronomiche,gran parte delle sue ricchezze.

De Re Coquinaria: struttura L'opera è divisa in 10 libri, che trattano diversi argomenti: 1°: consigli pratici vari riguardo al vino, al miele, alla carne, alla verdura ed alla frutta: riconoscere quando sono buoni, come conservarli, come ricavarne salse. 2°: piatti semplici, a base di carne tritata e spezie. 3°: ortaggi, verdura, frutta, farinacei ed erbe, considerati da Apicio sani e aggiunti a rimedi naturali. 4°: verdura e frutta cotta, salse, torte, antipasti e formaggi. 5°: legumi, farine di legumi, paste e farce ricavate da legumi. 6°: cacciagione da piuma e uccelli da cortile (compresi anche struzzi, gru, pavoni, fenicotteri, pappagalli) e salse da accompagnare alle loro carni. 7°: ghiottonerie varie dell'epoca, dalle più comuni (prosciutti, rognoni ecc.) alle più stravaganti (mammelle di scrofa ecc.) 8°: ricette con carne di quadrupedi (cinghiale, cervo, camoscio ecc.) 9° e 10°: prodotti del mare (pesci, crostacei e molluschi).

Inoltre Seneca narra che Apicio

preferì il suicidio, una volta accortosi di aver sperperato quasi tutto il suo patrimonio (10 milioni di sesterzi). Se vogliamo dar credito a Plinio, (N.H., VIII, 209) è proprio a questo stravagante personaggio, da lui definito “il più grande tra tutti gli scialacquatori”, che andrebbe attribuita l’invenzione del foie gras, il fegato ingrassato coi fichi, da cui il termine ficatum che passò poi genericamente ad indicare l’organo epatico. Relativamente alla cottura dei cibi, alcune delle “prelibatezze” apiciane erano realizzate cuocendo e ricuocendo più volte le carni, in acqua, nel latte, in olio ed infine in una salsa arricchita di spezie (De re coq., VIII,6). Seneca criticò la figura di Apicio, da considerarsi un “corruttore del suo tempo”, un “cattivo esempio” per i giovani (Cons. ad Helviam, X, 8); invece Marziale lo ricorda positivamente per la generosità fino a scegliere il suicidio.

Fino al IV secolo d.C. la raccolta

subì

numerosi

adattamenti

e

manipolazioni: vennero infatti aggiunte 18


ricette di varia provenienza divenendo un notevole documento storico, che ci fornisce una

serie

d’informazioni

sugli

usi

alimentari dei Romani, sugli ingredienti adoperati e sulle tecniche di cottura.

Dall’analisi dell’opera si comprende

come fosse privilegiata la presentazione dei piatti, confezionati in modo tale da non lasciare individuare a prima vista il tipo di cibo,

e

nella

quale

una

parte

preponderante spettava alle spezie e alle salse, che avevano lo scopo di camuffare

odori e sapori.

2.3 Petronio e la sfarzosa cena di Trimalcione Ancora più interessante è la descrizione della cena di Trimalcione contenuta nel Satyricon di Petronio Arbitro: in questo piccolo gioiello satirico è descritta una cena sontuosa offerta dal ricco liberto arricchito Trimalcione. Egli fa preparare delle portate spettacolari, quasi teatrali. Il racconto descrive con abbondanza di dettagli lo svolgersi della cena dominata dai liberti amici di Trimalcione e dalle loro chiacchierate. Del Satyricon, ci è giunta un’ampia raccolta di estratti dai libri XIV e XVI e libro intero

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Petronio, “arbiter elegantiae” Petrònio (lat. Petronius). ‐ Scrittore latino (sec. 1º d. C.) dell'età neroniana. Uomo di potere valido ed efficiente, fu proconsole e poi console in Bitinia. Faceva parte della corte di Nerone, al quale era particolarmente gradito per la sua raffinatezza e il suo senso estetico: non a caso può essere considerato l’antesignano del “dandismo”. Scrisse, parte in prosa parte in versi, il Satyricon, considerato, con le Metamorfosi di Apuleio, l'unico «romanzo» della letteratura latina. Coinvolto nella congiura pisoniana (66 d.C.), morì suicida.


XV; non sappiamo quale fosse il contenuto dei libri precedenti, e neppure se il XVI fosse l’ultimo. Il titolo non ci deve far pensare a un intento di satira moralistica dei costumi; esso si riallaccia piuttosto alle Saturae Menippeae di Varrone, essendo l’opera un misto di prosa e di versi, intessuta di argomenti e stili diversi, il tutto animato da uno spirito giocoso e beffardo. Il Satyricon è una sorta di parodia del romanzo d’amore, i cui protagonisti sono una strana coppia omosessuale formata da Encolpio, uno studente che tira avanti servendosi di truffe e raggiri ai danni degli altri, e dal suo amante Gitone, adolescente capriccioso e astuto. Alla coppia si unisce prima un altro studente grossolano e violento, Ascilto, poi un vecchio e corrotto poetastro, Eumolpo. I protagonisti attraversano molte avventure a prevalente sfondo erotico; l’azione si svolge dapprima nei bassifondi di una città greca dell’Italia meridionale (poi a Crotone.

Sarebbe semplicistico considerare il Satyricon soltanto in base all’intento

umoristico o parodistico. L’opera – e in particolare la “Cena di Trimalcione” – non è un divertimento letterario, ma ha l’intento realistico di raffigurare la realtà quotidiana dei ceti medio‐bassi del suo tempo. Il racconto è dominato dalla figura di Trimalcione, un liberto di origine asiatica, arricchitosi in maniera esagerata, proprietario di numerosi servi, a cui impone i suoi ordini. Si vanta di essersi fatto da sé, dal nulla: è una sorta di imprenditore capitalistico ante litteram, secondo il quale l’uomo vale per il denaro che possiede. Di fronte ai suoi commensali, l’ostentazione della ricchezza è il suo maggior piacere: ogni atto della fastosa e lunghissima cena è accompagnato dalla musica e da trovate spettacolari: “Quanto al vassoio v’era piazzato sopra un asinello in lega metallica corinzia, con una bisaccia piena di olive bianche in una tasca, nere nell’altra. L’asinello portava in groppa due piatti, sui cui margini era inciso il nome di Trimalchione e il peso dell’argento. V’erano anche saldati dei ponticelli che sostenevano ghiri conditi con miele e papavero. E c’erano dei salsicciotti sfrigolanti su una graticola d’argento, e sotto la graticola prugne di Siria e chicchi di melagrana. Eravamo fra queste leccornie, quand’ecco lui, Trimalchione, portato a suon di musica. Come fu deposto fra cuscini tipo mignon, fece sbruffare a ridere chi non se l’aspettava.”7

Come tutti gli arricchiti, secondo una lunga tradizione letteraria, egli è un efficace esempio del cattivo gusto. Fra le sue manifestazioni di grettezza rientra 7 PETRONIO, Satyricon, a cura di Luca Canali, Milano, Bompiani, 1990, p. 57.

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l’ostentazione di una certa cultura letteraria: egli disprezza la filosofia, e si vanta di non essere mai andato a lezione da un filosofo, ma in compenso ha tre biblioteche, e inserisce nel suo discorso continue citazioni letterarie e mitologiche, che ovviamente sono sempre sbagliate e rivelano una grande confusione di idee; inoltre ha una grande passione per i giochi di parole e per gli indovinelli, e si compiace di battute di spirito pesanti e di sottolineature volgari. Il crescere dell’ebbrezza favorisce lo scatenarsi del fondo grossolano dell’animo di Trimalcione, che rispetta sempre meno le regole dell’etichetta.

La cena termina con la grottesca e macabra scena del finto funerale del

padrone di casa, al suono di una rumorosa marcia funebre: Trimalcione, come tutti i nuovi arricchiti, è assillato dall’idea di lasciare una fama adeguata alla sua colossale ricchezza. Nella Cena, accanto a Trimalcione sfila un insieme di persone di bassa estrazione, plebei e liberti. Il loro modo di esprimersi è originalissimo nel panorama letterario antico e utilizza un misto

di

metafore gergo

termini

greci,

popolaresche

da

taverna.

e

Tale

linguaggio ha una forza espressiva

tale

da

rappresentare il pensiero e il modo di comunicare di gente infima, attraverso discorsi convenzionali e assurdi che rendono efficacemente tipi, atteggiamenti,

debolezze,

vanità ecc. tipici dell’uomo di fronte allo scorrere della

quotidianità. Si tratta di una

Trimalcione (qui rappresentato in un affresco pompeiano) è il protagonista di un largo frammento dell'opera Satyricon di Petronio (a noi giunta incompleta).

vita quotidiana dominata da un’etica

rovesciata,

nella

quale la ricchezza (facile e 21


ostentata) è la nuova misura di valore. Ma, accanto ai tipici temi ‐ cibo, denaro e sesso ‐, cari al gaudente, compare ripetutamente quello della morte, un pensiero presente tra i liberti e Trimalcione, il quale, privo di eredi, sa che sarà costretto a lasciare i beni accumulati. Non esiste soltanto il godimento, spesso sfrenato, ma anche una realtà amara, accompagnata dalla nostalgia per un passato perso per sempre.

La vita e l’opera di Apicio e questo frammento dell’opera di Petronio ci fanno comprendere quanto fosse diffuso (ovviamente tra i patrizi), nella Roma imperiale, il gusto del cibo e della tavola, luogo che assume sempre di più un significato simbolico e culturale. Il convivio, il banchetto simboleggiano il passaggio tra il piacere della vita e il sopraggiungere della fine dell’esistenza. E proprio per esorcizzare la morte, ci si abbandona alle sfrenatezze indotte anche dal vino: Bacco (il greco Dioniso) rappresenta la sfrenatezza e l’estasi

Così se i primi vini dei Romani dovettero essere non molto diversi da un

mosto fermentato di gusto incerto, già durante la fine della Repubblica, con la coltivazione di più qualità di uve, si iniziò a migliorare “il palato” e ad apprezzare le innegabili doti di questa bevanda. Fu comunque con l’età imperiale che cominciarono ad affluire sulle tavole dei Romani i migliori vini allora conosciuti, molti dei quali importati dalla Grecia. Anche nella scelta dei pasti vi fu un ritorno all’originaria frugalitas privilegiando, per motivi di sobrietà, cibi poveri come i legumi, le verdure, il latte e i formaggi, mentre le carni ed i piatti elaborati furono accantonati, rinunciando così, per un precetto religioso, ai piaceri del palato; a tale proposito ammoniva infatti S. Ambrogio: “chi indulge in cibi e bevande, non crede nell’aldilà” (Hel. 3,4; 4,7; Ep‐ 63,19).

Già nel corso del V secolo, tuttavia, sotto la spinta moralizzatrice della

Chiesa, il fenomeno degli abusi alimentari iniziò progressivamente a mitigarsi, tanto che nella prima metà del VI sec. La stagione di Apicio e delle sue dissolutezze poteva dirsi definitivamente conclusa.8 8

http://www.beniculturali.it/mibac/multimedia/MiBAC/minisiti/alimentazione/sezioni/etastor ica/roma/index.html

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3. LETTERATURA ITALIANA

3.1 Il futurismo e il cibo Come nell’antica Roma si incontravano e si mescolavano cibi e culture diversi, altrettanto avveniva nell’Italia a cavallo tra ‘800 e ‘900, attraverso i contatti e gli scambi con le colonie italiane. Frutta, prodotti e modalità di lavorazione fanno piano piano capolino nelle cucine e nella letteratura del settore: per esempio, un esotico

“gelato

nell’edizione

del

di

banane”

1909

del

compare prestigioso

ricettario italiano La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene di Pellegrino Artusi; pochi anni dopo (nel 1929) Ada Boni, nel Talismano della felicità, parla del karkadè (o “tè rosso d’Abissinia”, coltivato in Eritrea); propone una “Torta Eritrea”, le “Africanelle” ecc.

Proprio mentre il rassicurante e

tradizionale Talismano si diffonde nelle cucine italiane, il Futurismo si occupa anche di cucina, promuovendo (invano) una crociata contro la pastasciutta (colpevole di frenare gli italiani) a favore di “un’alimentazione agile, scientifica, chimica, aerea, fantasiosa, libera, sinergica”.

Il Futurismo esalta la fiducia nel progresso decretando la fine delle

vecchie ideologie. Nato nel segno della ribellione, il Futurismo affonda le proprie radici in un periodo di cambiamenti radicali: le trasformazioni sociali, gli sconvolgimenti politici e le nuove scoperte in campo scientifico e tecnologico. E sono proprio gli intellettuali e gli artisti ad avvertire questo cambiamento con consapevolezza che il mondo sta cambiando e con esso persino la percezione dello spazio e del tempo e, di riflesso, i gusti, le abitudini e il modo di vivere della gente.

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Telegrafo senza fili, radio, aeroplani, macchine costituiscono la base del futurismo la ricerca per la velocità e per il nuovo: è in questo contesto che si colloca il Manifesto Futurista. I punti salienti sono la ricerca verso il futuro, il progresso, il pericolo, la velocità, la ribellione. Sono contro la cultura precedente che reputano immobile; mentre loro vogliono cantare la lotta, la guerra come sola forma di igiene del mondo arrivando infine ad ammettere di distruggere biblioteche e musei. Gli artisti futuristi esplorano ogni forma possibile (pittura, scultura ecc.), compresa la gastronomia, campo che vogliono rivoluzionare, a partire dalla tradizionale pasta, colpevole di fiaccare anima e corpo e ostacolare ogni innovazione.

3.2 Il manifesto della cucina futurista Il 28 dicembre 1930, ne «La Gazzetta del Popolo», Filippo Tommaso Marinetti (1876‐1944), fondatore del movimento futurista italiano (definito “caffeina d’Europa” per la sua vivacità culturale), pubblicò Il manifesto della cucina futurista, un originale documento dal carattere innovativo e trasgressivo per i contenuti proposti da Marinetti e altri futuristi. Il linguaggio dissacrante, polemico e provocatorio, caratteristico dei futuristi, è utilizzato per provocare una reazione nel pubblico, smuovere le masse, suscitare indignazione (ma anche violenza …). Nei teatri di diverse città venivano organizzate le cosiddette “serate futuriste”, durante le quali si leggevano poesie e altri testi futuristi, per finire con lo scagliarsi contro il comune e le autorità, suscitando in tal modo reazioni anche molto violente. Nel 24


Manifesto della Cucina Futurista9 Marinetti rivolge un invito che suona quasi sacrilego nel nostro paese: non consumare più la pastasciutta, considerata dall’Autore una “assurda religione gastronomica italiana” e ritenuta, in quanto grassa e pesante, un ostacolo allo sviluppo. Dovrebbe perciò essere abolita e sostituita con un’alimentazione meno elaborata, più essenziale e salutare, come il riso.

Il fatto che gli italiani si ingozzino di pasta è sintomo, per Marinetti, di

debolezza, passività, incapacità di prendere una posizione chiara. Inoltre, la produzione di pasta implica la dipendenza dal grano straniero, mentre la produzione e un maggiore consumo di riso affrancherebbe da tale servitù.

Anche nella gastronomia, i futuristi si impegnarono inoltre a italianizzare

secondo un processo di autarchia linguistica10 (quale riflesso dell’autarchia del periodo fascista), alcuni termini di origine straniera: il cocktail divenne così la "polibibita" (che si poteva ordinare al "quisibeve" e non al bar), il sandwich prese il nome di "traidue", il dessert di "peralzarsi" e il picnic di "pranzoalsole".

Ecco allora che Marinetti elabora, assieme a Fillìa, un vero e proprio

manuale: La cucina futurista (Sonzogno, 1932), un’opera dalla quale traspaiono l’apprezzamento e l’esaltazione della politica coloniale (dal punto di vista gastronomico).11 Il volume è ricco di ricette e idee per imbandire originali banchetti e pranzi dalle spiccate caratteristiche organolettiche – odore e sapore, colore e forma ‐. Le prime due caratteristiche devono combinarsi con le altre due, attraverso gli ingredienti elaborati in maniera innovativa per originare “complessi plastici saporiti e tattili”, vere opere d’arte. Il tatto, quale senso attraverso il quale conoscere la realtà circostante, riveste grande importanza al punto che Marinetti invita a mangiare con le mani. Come le posate, l’eloquenza e la politica (con l’eccezione della poesia e della musica) sono bandite dalla tavola, durante il pasto, per favorire il dialogo tra i commensali.

La celebre pietanza "rombi d'ascesa", (risotto decorato con spicchi

d’arancia) o il “carne plastico” (variante di polpettine con verdure e mele), di 9 http://www.ilcornodafrica.it/uc‐isacchini.htm 10 A. CAPATTI, A. – MONTANARI, M., La cucina italiana. Storia di una cultura, 4. ed., Roma‐Bari,

Laterza, 2010, p. 240. 11 http://www.ilcornodafrica.it/uc‐isacchini.htm

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cui parla il Manifesto, e le ricette de La cucina futurista costituiscono le fondamenta della successiva cucina creativa italiana, in quanto catturano e ampliano l’attenzione di tutti i sensi dell’uomo impiegati nella degustazione dei cibi. La presentazione delle pietanze per i futuristi, diventa un terreno particolarmente favorevole per sperimentare, come già accennato, nuovi colori, forme, sapori, odori, abbinamenti, e offrire diversificati stimoli sensoriali, un vero invito ad alimentarsi con … arte (e a mangiare non soltanto per nutrirsi). A questo proposito, è nota la frase di Marinetti (che ben si raccorda a quella già citata di Feuerbach) "Si pensa si sogna e si agisce secondo quel che si beve e si mangia".

Ma, in piena contraddizione con quanto aveva dettato in maniera radicale

e intransigente, proprio Marinetti fu immortalato da “Biffi”, noto ristorante milanese, mentre gustava un bel piatto di spaghetti, cosa che non gli risparmiò la derisione popolare così sintetizzata: «Marinetti dice basta, messa al bando sia la pasta. Poi si scopre Marinetti che divora gli spaghetti».

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4. STORIA DELL’ARTE

4.1 La Pop‐Art La Pop‐Art è

un

movimento artistico nato

tra

l'Europa

e

l'America negli anni Cinquanta e Sessanta del ventesimo secolo. Questa nuova forma d’arte parla un linguaggio che tutti conoscono: quello dei mass media, della pubblicità, della televisione e del cinema, ovvero il linguaggio tipico della società dei consumi. Il termine Pop‐Art è un’abbreviazione di popular, popolare in quanto rivolge la propria attenzione agli oggetti, ai miti e ai linguaggi della società dei consumi, arte di massa, cioè prodotta in serie, anonima, per una massa senza volto, anch’essa anonima.

A differenza del futurismo (che critica e provoca la società), la Pop‐Art

non vuole criticare la società, che è basata sul consumismo più sfrenato, assecondando questo stesso modello di sviluppo. Infatti, di fronte al nuovo interesse per il mondo dei mezzi di comunicazione di massa, della pubblicità martellante, la realtà, appiattita e snaturata, viene dipinta con colori sintetici. Anche le emozioni cambiano, a vantaggio delle emozioni oggettive (e a scapito di quelle personali).

Vengono sperimentate nuove tecniche: così alla pittura si accompagna

la fotografia, le immagini vengono alterate e ritoccate; si usano il collage e la serigrafia (procedimento meccanico di stampe a colori realizzato utilizzando matrici in tessuto a seta), che ben si prestano a rappresentare la massificazione del gusto. 27


I maggiori esponenti del movimento sono:

Claes Thure Oldenburg (1929)

artista e scultore svedese naturalizzato statunitense, prendeva spunto dal cibo che mangiava nei fast food, dagli oggetti abbandonati per strada e beni di consumo quali sigarette, trasformandoli in morbide e soffici sculture;

James Rosenquist, pittore

statunitense, è considerato uno dei padri storici della Pop Art, insieme a Andy Warhol e Roy Lichtenstein. È famoso per i suoi enormi e coloratissimi cartelloni pubblicitari; Roy Fox Lichtenstein (1923‐1997) è stato un artista statunitense, tra i più celebri esponenti della Pop Art. A lui è dedicata l’omonima fondazione che documenta e tutela i suoi lavori (visitare

il

sito

web:

http://www.lichtensteinfoundation.org/frames. htm).

Andy Warhol, una delle figure più eclettiche del tempo, che trasformò

l'opera d'arte da oggetto unico in un prodotto in serie, come nella celebre serie dei barattoli di minestra Campbell, con la quale egli confermò, di fatto, che il linguaggio della pubblicità era ormai diventato arte e che i gusti del pubblico si erano a esso

uniformati

e

standardizzati. 28


4.2 Andy Warhol e la sua passione per i dolci: Wild Raspberries Andy Warhol (1930‐1987), uno dei maggiori rappresentanti della cultura pop americana, costruisce sin dall’inizio il suo personaggio in maniera molto attenta. Infatti fin dagli esordi adotta lo pseudonimo di Andy Warhol, considerando troppo poco americano Andrew Warhola.

Anche il suo aspetto è in linea con il personaggio: veste in maniera

eccentrica, indossa parrucche o si tinge i capelli dai colori più bizzarri, spesso calza scarpe bucate e camice lise al punto che lo chiamavano “lo straccione”. Adotta un look “bohémien” artefatto, che unito ai suoi modi timidi e alla voce sussurrata affascinò gli art director delle maggiori riviste: «Vogue», «Harper’s Bazar», «Glamour», «McCall’s», il magazine del «New York Times» nel giro di quattro anni erano già tutti suoi clienti. Lo stile di Warhol, caratterizzato dal ricorso alla tecnica della “blotted line”12 e da oggetti/temi “feticcio” ricorrenti (come le scarpe, le farfalle ecc.), si diffuse rapidamente e influì sull’estetica dell’epoca. Nonostante il successo, l’aspetto di Warhol non migliorò; l’artista continuava a indossare vestiti con strappi e macchie di colore e inchiostro.

12 http://www.warhol.org/education/resourceslessons/Blotted‐Line/

29


Le prime opere vedono la luce nel 1960, quando decide di intraprendere la carriera di pittore, ispirandosi al cinema, ai fumetti, alla pubblicità, senza alcuna scelta estetica, o senza alcun messaggio morale o alcuna polemica nei confronti della società di massa. Non a caso, intervistato, dichiara: “Se volete sapere tutto di Andy Warhol, basta che guardiate la superficie: quella delle mie pitture, dei miei film e la mia, lì sono io. Non c’è niente dietro. Io non credo che la mia posizione di artista riconosciuto sia in qualche modo precaria, i cambiamenti di moda in arte non mi abbattono, non fa veramente alcuna differenza: quando si pensa di non avere niente da perdere, allora non c’è da avere paura e io non ho niente da perdere. Non fa alcuna differenza che io sia Andy Warhol (1930‐1987) accettato da una folla alla moda: se succede è meraviglioso e se non succede tanto peggio. Figlio di un minatore Potrei essere altrettanto improvvisamente cecoslovacco emigrato negli dimenticato. Anche questo non ha molta Stati Uniti, l’artista nasce a importanza. Ho sempre avuto la filosofia del Pittsburgh, in Pennsylvania. «questo non ha una reale importanza». È una filosofia orientale più che occidentale. È Si forma in America: la sua troppo duro pensare alle cose. Credo che conoscenza dell’arte e delle comunque le persone dovrebbero pensare di avanguardie europee è sempre meno. Io non mi sforzo di insegnare alla mitigata e mediata attraverso la gente a vedere le cose o a sentire le cose nei cultura e la sensibilità statunitensi. miei quadri: non vi è in essi assolutamente nessuna forma di educazione.”13 A New York l’artista lavora La sua arte vuole quindi essere semplicemente un momento di pura registrazione delle immagini più popolari e significative: Marilyn Monroe, le lattine, le bottiglie di Coca Cola ecc.

Per le sue opere l’artista adotta il

procedimento della stampa serigrafica che gli consente la riproduzione meccanica dell’opera in numerose copie e la massima impersonalità dell’esecuzione, requisito base nell’arte pop. 13 GRAZIOLI E., a cura di, Andy Warhol, «Riga», 2012, 33.

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come vetrinista per catene di grandi magazzini e si avvicina alla grafica pubblicitaria e dell’illustrazione. Nel 1960 intraprende la carriera di pittore ispirandosi a personaggi, marche, prodotti popolari, che incontrano il gusto delle masse. Ricorre principalmente alla stampa serigrafica proprio per produrre un alto numero di copie.


Nel 1963 raccoglie intorno sé numerosi giovani artisti, costituendo una comune a cui diede il nome di “Factory”, il suo personale laboratorio di sperimentazione artistica. Abbandona la pittura nel 1965 per dedicarsi esclusivamente alla produzione cinematografica alquanto insolita: per esempio, riprende una persona che dorme per sei ore di fila. Il ritorno alla pittura avviene intorno al 1972, con una produzione incentrata soprattutto sui ritratti. Parallelamente si dedicò all’editoria, rivisitando le opere dei grandi maestri.

Non tutti sanno che un’abitudine che non abbandonò fino agli anni ’80,

quando si fece più salutista, fu quella di cibarsi quasi unicamente di dolci: sin dal periodo in cui viveva in appartamenti fatiscenti, Warhol frequentava le più lussuose pasticcerie della città dove si sedeva e ordinava una torta da compleanno, capace di mangiarsela tutta da solo e di portarsi a casa pure un vassoio di paste.

Non solo goloso, ma sempre attratto dalle cose belle, si cimentò anche nei

disegni di dolci, gelati e gelatine. Così, durante la sua attività di grafico, dalla collaborazione con la scrittrice Suzie Frankfurt, nasce Wild Raspberries, (che significa “lamponi

selvatici” ma

anche, in slang, pernacchia) un volumetto in edizione limitata: a sue spese, nel 1959, ne pubblicò solo 34 copie, dai disegni tutti colorati

a

possedeva

mano. delle

Warhol copie

ottocentesche dei più celebri manuali di cucina francese, chef dei reali russi e prussiani. Si trattava

di

pregiati

volumi,

riccamente illustrati, che devono aver influenzato l’immaginario 31


dell’artista americano, il quale, più che essere famoso come creatore di qualcosa di veramente nuovo, era sveltissimo a intuire il potenziale creativo delle idee di altri che convogliava ed esprimeva nella sua opera.

A distanza di quasi un sessantennio, i dolci immaginati da Warhol,

tratteggiati con eleganza e leggerezza, restano un simbolo assoluto di armonia e bellezza, una parodia dei raffinati libri gastronomici che andavano molto in quel periodo. Dalle torte farcite ai mirtilli a simpatiche invenzioni come la Torte a la Dobosch, la Salade de Alf Landon e l’Omelet Greta Garbo, “da consumarsi rigorosamente a lume di candela”, i disegni dissacranti dell’artista sono accompagnati da ricette di origine europea scritte da Suzie Frankfurt, con la consulenza di mamma Warhol (che considerava la cucina una vera e serissima arte), alla quale fu affidato il compito di trascrivere tutte le ricette a mano, inserendovi di proposito anche errori e cancellature, per dare maggiore veridicità ai testi.

Wild Raspberries (un esemplare è conservato alla Biblioteca nazionale

centrale di Firenze) diventa quindi una sorta di piccolo capolavoro dadaista, ricco di humour e nonsense, leggero e brioso, che all’epoca non ebbe il successo sperato e divenne un regalo natalizio per un gruppo ristretto di amici.

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CONCLUSIONI

Ho voluto affrontare questo percorso perché ritengo che sempre più spesso si parli di cibo a sproposito. Se da un lato sta aumentando l’attenzione per la qualità e la provenienza degli alimenti (con la diffusione di colture biologiche e “mercati del contadino” che offrono prodotti a “km 0”), dall’altro lato vi è anche una tendenza alla spettacolarizzazione e alla mercificazione, determinata dai media, dalle industrie alimentari, dalle lobby politiche e commerciali. Ho tentato di riportare il discorso intorno al cibo su un piano filosofico, storico‐letterario, sociale e artistico per evidenziare le sue molteplici dimensioni, sfaccettature e implicazioni, poiché ritengo il cibo, ora più che mai, un vero ponte tra culture, tradizioni, saperi, capace di ridare piena dignità all’uomo, in quanto diritto umano universale all’alimentazione, al lavoro e all’espressione della creatività. Si tratta, in definitiva, di un prezioso bene culturale da tutelare, sviluppare e innovare, al quale ci si dovrebbe educare, come all’arte, alla musica ecc., sin dall’infanzia, in famiglia e a scuola. Roma, 28 giugno 2014. 33


BIBLIOGRAFIA14

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