Sanseverino 2004. Appunti di stasi

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Lorenzo Paciaroni

Sanseverino 2004:

Appunti di stasi

Istant book

Derupe produzioni



Lorenzo Paciaroni

Sanseverino 2004: Appunti di stasi

Istant book

Derupe produzioni


Proprietà letteraria e fotografica riservata © 2004 Lorenzo Paciaroni – Derupe produzioni 1ª edizione: dicembre 2004

In copertina: Bernardino di Mariotto, Madonna del Soccorso, 1509 (particolare). Sanseverino Marche, Pinacoteca civica.


Sanseverino 2004: Appunti di stasi

a Federica che corre verso non sa dove E non vuole saperlo



S

Non temer d’esser solo se sei teco, che se non sei teco, anche se fossi in mezzo al popolo, saresti solo Francesco Petrarca

e un viaggio è anzitutto avere nuovi occhi, la stasi è anzitutto mantenere i vecchi. Guardare il mondo da un diverso punto di vista, per quanto impegno ci si metta nell’immaginare quello che non c’è, è desolante ammetterlo ma non ha nessun risvolto taumaturgico: le cose – o almeno certe cose – non diventano altre al cambio dell’ottica che le inquadra. Nemmeno se dal guardarle si passa al vederle. Sì, sono ancora loro. E’ sempre la stessa minestra. Al massimo un po’ più saporita, ma non di molto. Quindi, la stasi. Stattene fermo per un po’ e vedrai da te quante più scene ti vengono addosso di quando chissà quanto ti affannavi a cercarle. Loro lo capiscono. Lo sentono. Si svelano in tutto il loro essere – che poi, in realtà, è sotto gli occhi ovunque e sempre – nel momento in cui nessuno ne sente il bisogno. Per questo, perlopiù, scivolano via inosservate. E’ altro quello che passa, è quello che viene forzato, spinto, imposto. E dimenticato in sette respiri. Il tempo necessario a far predisporre al promotore di emozioni di turno la prossima esperienza sensibile “che non si dimentica facilmente”. Già fatto. Peccato. Perciò, la stasi. Che se ne esce dal turbinio di nulla vestito a festa per godersi il nulla così com’è. E è molto meglio. Nulla inteso come nulla di particolare, perché a pensarci bene è tanto: sta lì da un bel pezzo e con tutta probabilità per tanto altro bel tempo ci resterà. Se non oltre. In giorni in cui la “certezza del domani” è un’espressione vuota come l’aria – e altrettanto leggera – pensare che


qualcosa preceda e sopravviva basta a far girare una testa non abituata a pensare più lontano del naso. Va da sé che quel nulla è bello grosso. Forse anche troppo per chi non gravita proprio tra l’infinito e la scheggia. Tanto grosso che se non ti allontani qualche metro non riesci manco a distinguerlo, visto che ce l’hai proprio di fronte. Comunque stasi non è per forza assenza di moto. Se non altro perché staticizzarsi su un qualcosa che si muove, se tanto mi dà tanto, in ultima analisi è pur sempre un muoversi. Un moto sì parassitario, certo, ma la fatica è meglio lasciarla a chi ha voglia d’affaticarsi. E ci gode pure nel farlo. A chi vorrebbe far muovere anche gli altri e ancora non s’è accorto che fermo, qua, non ci sta nessuno. A chi crede ancora di correre verso un punto che, nell’altra direzione, si gode lo spettacolo come al cinema: non s’interpreta ciò che è chiaro, non si nasconde ciò che è palese, non si costruisce quello che già c’è. Soprattutto. E gli occhi a questo punto puoi anche chiuderli, che l’impatto è già abbastanza traumatico da imprimertisi in mente anche al buio. Per quanto sia impattante una realtà assolutamente normale, sì, ma di una normalità che cattura. O meglio, non attrae il consumatore “mordi e fuggi”. Aspetta che ti fermi. Allora ti si avvicina e, stringendotisi alle costole con un abbraccio pieno te lo sussurra all’orecchio, piano e seducente, che era ora di farlo. Di solito non ci si pente.


R

Per il fatto di poterlo anche solo pensare attesta una facoltà dell’animo superiore a ogni misura dei sensi Immanuel Kant

ipetere scenari a cerchio, per anni, per chilometri, annoia. Il tempo annoia, la natura annoia. Dal giorno-notte non si sfugge, ovvio. Al più ci si abitua. Si accetta pressoché volontariamente la gabbia. Che in un certo senso è un po’ come prendere le distanze. Dal mondo si scampa, invece, a quanto pare, proprio fuggendo. Ne cerchi un altro, diverso, lontano. Sbagliato. L’errore non sta tanto nel desiderare qualcosa che non si stia già vivendo – legittimo, ci mancherebbe – quanto nel supporre che sia sempre e comunque altrove. Il tentativo – di per sé, anche quando non ha successo – sconfigge la noia. O così sembra. E non è. Perché se va grassa vinci una battaglia; contro un nemico che non ha mai perso una guerra. Sa riciclarsi, acquisisce informazioni utili, impara dall’esperienza molto più di te e si reimmette nel mercato della vita dove, prima o poi – più prima che poi – te lo ritrovi di fronte. E faccia a faccia non si fa buttare al tappeto due volte. Men che mai di seguito. Alla fine lo capisci che tra tanto e quanto cambia poco. Tanto vale assecondare il mutamento. Che a gestirlo non bastano i politici, non nella misura che l’individuo assorbe come personale apprendimento. Non è rassegnarsi. C’è differenza. E’ un aprire gli occhi, prendere il toro per le corna e dare atto al fatto che se qualcosa sta lì, da millenni, imperturbabile, il suo scopo deve pur averlo. E raramente è qualcosa di futile. Di certo anche un oggetto, per il cui soggetto altro non


chiede che donare. Donarsi. Per cui quel qualcosa è un tramite. Il fatto che ammetti di averlo saputo già da prima che il mondo – mentre dissanguato dal “grande evento” del caso, che t’aveva rosicchiato ogni energia, perdevi tempo a domandarti cosa gli altri si domandassero per prevenirlo e tornare con qualche forza indispensabile a sostenere l’impatto – non t’avrebbe aspettato è un’esplicita confessione di colpevolezza. E visto che ci sei, tanto vale sapere pure che nessuno si chiedeva nulla di te. Non essersene accorgerti in tempo è uno spreco. Quando si spreca e si è sprecato già troppo. Non serve un commercialista per capirlo. Non può esistere estinzione senza un disegno preciso, o almeno un volere alle spalle. Troppe testimonianze stanno ancora in piedi – e con quale dignità – a dimostrare la volontà di un passato di creare qualcosa che fosse sopravvissuto nei secoli. E’ stato creato. A volte non è durato. E’ stato distrutto. La conversione in altro di più attuale non sempre ha funzionato, anzi, con la sterilità del tentativo ha iniettato ulteriore squallore all’iniziativa, oltre alla pateticità dell’atto. Non tutto si trasforma. Se nasci quadrato difficilmente muori rotondo. E anche fosse, in pochi ti riconoscerebbero.


D

Ciò che in noi non è natura e non soggiace alle sue leggi, non ha nulla da temere dalla natura fuori di noi considerata in quanto potenza Friedrich Shiller

ando ascolto a certi movimenti pare di poterlo sentire, se non quasi toccare, il battito del cuore della terra. Pompa sangue, diffonde ossigeno, dona vita. E ne chiede. Evidente. Niente per niente. Superati i dogmi, superate le innovazioni, superate le tendenze e le avanguardie, resta ben poco. Tanta era la fretta d’andar oltre che s’è persa la concezione di cosa ci fosse dentro. Così, dal di fuori, il tempo attuale è d’attesa per la prossima mareggiata che sappia risommergere. Per aver qualcosa da cui poi voler uscire, mica per altro. E se non vi si entra, la si fa entrare. Il meccanismo o lo domini o ti domina. C’è un vincolo che lega uomo e prodotto, ma non è il lavoro. E’ il riscatto. Niente a che far riferimento con testi sacri, sia chiaro. Il fatto è che di fronte al mondo si è disarmati: catapultati in realtà che altro non si può che ratificare con la stessa passione di un notaio a pochi giorni dal pensionamento – realtà che non appartengono, situazioni sostanzialmente pregresse che chiunque sarebbe stato ben lieto di non ereditare –, l’unico strumento per urlare che si esiste è l’attività. Ma detta così ancora non basta. La produzione è anche e soprattutto imposizione, intesa come edificazione su dal nulla, quando la primadonna d’ogni scena – la natura,


che è forza; e se visioni romanticiste sono passate di moda ci pensa l’attualità degli elementi, col loro volere, a tradurre il tutto in termini concreti – semina distruzione. Sarà anche meno navigato – e si parla di milioni di anni, ossia un nonnulla – ma nella sua pur breve esperienza a contatto con l’entità che qui l’ha messo e qui ha intenzione di farlo rimanere, l’uomo una cosa l’ha imparata: non vince il più forte, in combattimento. Vince il più cattivo. Da bravo adolescente, questo è abbastanza cafone da non restare a terra in attesa che l’arbitro conteggi manco fino a uno. Eppoi, lavorare è sempre meno noioso che divertirsi.

A

Le probabilità di una catastrofe si riducono nella stessa misura in cui nel singolo diminuisce la paura Ernst Jünger

ppunto. Perdi fiato a giustificare l’indefinibile per non accorgerti che il tanto dato per scontato, a pensarci bene, tutto questo scontato poi non è. Che non cambiano le altezze delle cose, con gli anni; casomai è l’altezza degli occhi che va su. E sminuisce sempre ciò che ha davanti. Ma prima di quanto credi s’arresta anche quella. Che col calar della notte la luce, tutt’al più, da naturale si fa artificiale. E che il buio è tutt’un’altra cosa. Che l’unica cosa che sa tenere davvero bene assieme le persone è l’odio. Che il nemico comune regge solo finché lo si combatte; mantenersi compatti anche da vincitori è un bel po’ più difficile. Che tanti dettagli – volti, nomi, date, dati – si dimenticano. Ed è un peccato. Ma qualcosa d’indelebile – come il ricordo – alla fine sei costretto ad ammetterlo che resta; epperò, quando è bello, è dura che resista tale


per una vita: di solito peggiora. Figurati quando è brutto. Che gli spazi aperti diminuiscono nelle dimensioni quando ti ci trovi in mezzo. Che dietro un albero non per forza dev’esserci una foresta. Che davanti alla fretta, con buona pace degli ansiosi, nove volte su dieci c’è altra fretta; nient’altro. Che il sentirsi bene non dista molto dal sentirsi tristi. Che a prendere le cose così come vengono, senza tante paranoie, scopri che puoi stare bene uguale; e anche di parecchio. Ma tanto non ci riesci. E la forza di gravità è una giustificazione di comodo al non saper volare. Tanto che – per quello di cui sopra tra natura e cultura – da sempre si è protesi alla salita. All’ascesi. Dove la prospettiva è altro da terra, le cose hanno un sapore nuovo, diverso. Come scavalchi il punto di fuga senti quanto chi ha tracciato il disegno c’ha goduto nello schiacciarti in basso. E in un duepiùduequattro ecco che gliel’hai data a bere. Cioè, meglio crederci, che se no non ne esci incolume. Ostinarsi a cercar risposte a domande mai chieste – perlomeno non nel codice umano – ha lo stesso spessore logico di una piramide sferica. La procedura verte su un principio di chiusura, ovvero la retrocessione del processo dal risultato all’ipotesi. Per vedere la fine dev’esserci l’inizio, da qualche parte, ma nessuno può avere la presunzione di stabilire se il percorso che da alfa porta a omega parta da sinistra o da destra. Iniziare dalla fine fa afferrare, sempre, molte più ottiche. Il qui e ora si fa là e allora, ogni sentenza passata in giudicato estingue i suoi effetti


per rimettersi in gioco in quel viaggio all’inferno e ritorno perennemente posto in forse. L’istante non è più identico al precedente, ma non per questo si ha un futuro. Un tentativo magari sì, ma il presente, già al momento del suo accadere, scompare nell’oblio senza essersi neppure accorto d’aver vissuto. Punto e a capo. Il passato manco è il caso di coinvolgerlo. La sensazione è che la rottura sia dietro l’angolo, tutto la indica come prossima ventura. Ma se ne resta lì minacciosa, a un passo dal saltarti addosso. Immobile. E di fatto fa più effetto così che non a cose fatte. Specie quando sei giù in trincea, solo, tu e quella cosa lì. Poi, d’un tratto, le distanze si colmano, i parallelismi convergono, i punti fermi vacillano e vengono inghiottiti da una spirale confusa di ovvietà tanto fuori dal mondo nel loro non-senso quanto difficili da cogliere nella loro globalità. E’ il parossismo, la retta si fa spezzata, poi curva, poi s’avvolge su se stessa e scompare inghiottita da spire tendenti verso il vuoto. Non si contrasta perché non ha efficacia. Infetta il sistema periferico per fondersi in lega col centrale. E all’ennesimo avvitamento il percorso riparte. Lasciandoti a sentire la mancanza di qualcosa che non hai mai conosciuto. interstizio La strada è stretta, non si vede dove conduce per le pareti che verso l’orizzonte s’abbracciano, compressa tra due file di alti palazzi, tanto alti da nascondere quasi il cielo, per quanto sia tanto scuro da confondersi col cemento degli ultimi piani, e qualcosa simile a un’enorme bolla di calore sta salendo dal ventre, riempiendo di brividi che corrono lungo la spina dorsale, dal basso verso l’alto, per poi diradarsi lungo le spalle


e le braccia, le gambe pesano, di piombo, una fatica immane muoverle, paura, di cosa non è chiaro, ma ne è tanta, il sistema nervoso proietta negli occhi tante immagini, troppe, non se ne mette a fuoco nessuna, sono tanto veloci da non farsi vedere, il tempo interno è triplicato nel suo scorrere rispetto all’esterno, che appare come al rallentatore, movimenti di una paralisi, nulla che domini, o almeno gestisca, una scena cui non s’aggiunge nessun particolare con lo scorrere dei metri e dei secondi, e allo stesso tempo è già satura, ma inizia a piovere, gocce invisibili tangibili, fittissime, s’infilano nella pelle e vengono assorbite dalle ossa, sembrano un banco di nebbia imperforabile o un muro d’acqua tagliato e sminuzzato in tante minuscole parti, con la stessa efficacia d’urto, che si schianta addosso e ad ogni particella rende più pesanti, ansia, sta per succedere qualcosa di terribile, il cervello pulsa istericamente come se pompasse sangue infetto, preme alle pareti delle tempie minacciando l’esplosione, tipo un grosso cuore battente nel cranio, un senso di vertigine nauseante, come l’essere sospesi a mille metri d’altezza e viene a mancare il suolo sotto i piedi, gli occhi proiettati verso la fine della strada, che non si vede, colpa della nebbia acquosa che continua a bagnare e all’improvviso si fa freddo, milioni di aghi congelati sembrano entrare in tutto il corpo, tremore

S

un passo

Il bene e il male sono una questione d’abitudine, il temporaneo si prolunga, le cose esterne penetrano all’interno e la maschera, a lungo andare, diventa il volto Marguerite Jourcenar

a vendicarsi, il destino, quando gli si manca di rispetto. Manda sistemi in crack e giù a chiedersi cosa ha cortocircuitato l’impianto. Come se non si sapesse. Il segreto è fermarsi in tempo. Lo senti quando è il momento. Staccarsi un attimo prima di colare a picco. Che solo il capitano affonda con la nave; gli altri hanno il diritto di salvarsi. Apri gli occhi. Non serve cambiarli, ormai s’è capito. Che sotto gli occhi – e sotto il sole – da sempre c’è poco di nuovo. Qualche chilo di carta e centinaia di pagine provano a dire il contrario. Mentono e sanno di mentire. Ci sono dettagli che nella loro sconvolgente


normalità urlano lo svolgersi della vita senza infamia e senza lode. La più tragica ordinarietà. Gesti che mai godranno di un secondo di

celebrità. Volti che dimostrano di saperlo. E non sembra si disperino un granché per questo. Parole vuote. Tanto da ingombrare ogni spazio libero. Tanto da scacciarti per deficit dimensionale, che tutt’eddue lì non c’entrate. E se non te ne capaciti dai la colpa al vento, “accecato da Nessuno”. C’è il vuoto al centro circondato dal pieno; in tensione quasi a volersi tuffare in quello per colmarlo. Una grandezza che l’occhio misura sempre diversa; ci metti dentro tre o quattro corpi e è tutta un’altra storia. Profumi che si dissolvono nell’aria. Silenzio, più che altro, pochi rumori ovattati, attutiti da un riverbero surreale. Spalmati nei minuti che scorrono lenti. Lentissimi. Regolari, a tempo, quasi muovendo la testa a seguire surreali il ritmo. Una vecchia spalanca le persiane e stringe gli occhi abbaiata dalla luce. Un uomo in terrazza rientra mezzo nudo


nel buio della sua stanza. La sigla di un tg. Un’auto in manovra s’infila liquida tra altre due. Il sorriso sul volto di una ragazza, il suo passo lento. Le rughe sulla fronte tirata del vecchio, il bastone, le mani grosse. Enormi, callose. Il sangue della città che scorre lento, caldo. Senti il cuore che lo pompa. Ne senti il respiro, il torace che si solleva e si abbassa. Schegge di luce riflesse sulle superfici convesse. Qualcosa di malato che affiora. A lampi. Appena un attimo, poi scompare, torna al nascondiglio. Qualcuno che ha qualcosa da dimenticare. Qualcuno che quel qualcosa non l’ha voluto dimenticare. L’asfalto a chiazze, il cielo profondo, pensieri sospesi. La linea netta dell’ombra dei palazzi, quella nitida delle torri sul cielo. Le bandiere stanche al balcone. Uno sguardo attento sul nulla, a mezz’aria. La risata rotonda lucente della bambina, i suoi occhioni che s’allargano. Voglia d’arrendersi, assorbiti dall’istante. Spostamenti che non fanno rumore, rumori senza nulla di mosso. Immagini di tremolante stasi. Visioni ansiose nell’attesa di qualcosa che già è successo. Un vetro riflette un pensiero caldo, il suo salire leggero. Sogni persi a manate. Desideri indistinguibili. E ogni tanto il passato. Ricordi. Il bambino correva, il ragazzino passeggiava, il giovane si appoggiava. L’uomo se ne andava. Il vecchio ritornava. Oggi no. Non tutti ritornano. Non lei, né lui. La tua lei, il tuo lui. A volte pensi che errori, in qualche allora, ce ne sono stati da entrambe la parti. A volte. Tutte le altre ne escludi una, ma non serve. Peggiora. interstizio Fa ancora più freddo, la scena si sta scurendo, un buio premonitore, angoscioso e opprimente, non notturno, è giorno, ma grigio scurissimo, pesante, assorbe la poca luce presente e sta schiacciando a terra, ci sono degli alberi, non tanti, giusto tre o quattro, alla base dei palazzi, dietro le ringhiere, alberi secchi, scheletrici, spogli, grandi tronchi e lunghe secche minacciose diramazioni che si protendono verso la strada, a rendere ancora più desolante il senso di solitudine che si respira forte per dar conferma dell’essere vivi, come se da un momento all’altro venga a mancare l’aria, già così rarefatta densa, masti-


cabile, una strada come una specie di buco nero, un universo concentrato in un punto vicino, da qualche parte, che sta velocemente risucchiandone un altro, quello che gli gravita attorno, assorbendo tutto per sgretolarlo in pura essenza, affanno, respiro che fatica, come un tappo ai polmoni, nebbia che attraversa il corpo, entra dal naso e si deposita nel cuore, sta cadendo l’ultima barriera tra interno e esterno, i ruoli si stanno amalgamando, o si sono già invertiti senza averlo detto a nessuno un passo

Siccome nella natura del tempo essere e passare sono sinonimi, una cosa non cessa di essere per il fatto di essere passata Umberto Galimberti

N

on coi rimpianti si onora la memoria. E tanti cambiamenti non portano chissaché. Tutto sommato non cambiano neanche tanto. Tutto è andato e andrà esattamente come doveva e dovrà andare. Nient’altro che una presa d’atto. Distante come lo sguardo del tipo che s’incrocia sull’ascensore. Forse qualche domanda in più ogni tanto è il caso di farsela. Del tipo: «Può un elemento sopravvissuto testimoniare davvero qualcosa?». E

soprattutto, «era quello che voleva?». Reperto, monumento, complesso o edificio che sia. Banalizzando, è un modo come tanti altri per passare alla storia. Sottilizzando, è un modo più costoso, scontato, pacchiano, retorico, ridondante, inflazionato e consumato di tanti altri. Ma la ten-


denza sembra leggerci il non plus ultra. Sarà. Sarà che manca fantasia. Sarà che di fronte al rischio dell’innovazione si scoprono tutti neoclassicisti. Sarà che una linea non la si cambia in corsa. Sarà che è più facile riciclarsi che rinnovarsi. Sarà che per fermare il tempo serve qualcosa di resistente. Appunto, le azioni è raro che tengano a lungo. La memoria è breve. Dicono. Ecco allora che un nome s’aggancia a un manufatto per riprodursi in parallelo con l’individuo. Quando il genere – è questo che dura, considerato che l’altro ogni tanto ha a che fare con la morte, e di rado la spunta – non sa che farsene di tante scatole vuote. Sì, di ciò si tratta: scatole vuote. Non ci si illuda, non serve. E evita delusioni. Farlo è inutile come mettere un abito da sera a un manichino. Gli oggetti non hanno un’anima. Non finché l’uomo non la dona loro, è l’uomo stesso l’anima delle cose. Essere più perfetto nel creato, vanta un certo diritto di proprietà sul creato stesso. Non in questo caso: la scatola non ha vita, la barca abbandonata ammuffisce sulla spiaggia, il palazzo – res nullius – è solo con se stesso. Protetto da se stesso. Per lui non c’è nessuno che metta assieme le forze per urlargli «Tu esisti». Nessuno che, oltre a spostarne saltuariamente l’ordine dei


contenuti, ne mantenga il battito cardiaco appena appena più increspato di una linea retta. E dicono anche che per ognuno qualcuno dovrà pur esserci, da qualche parte. Magari è anche vero. Magari c’è anche per te. Ma tu sei qui, non da qualche parte dove t’aspetta questo qualcuno. E qui, se non limitatamente a quella parte che è qui, non è qualche parte, dove il qualcuno di cui sopra sta facendo con buona probabilità l’identico discorso. Così restate lontani. Ciò premesso, che vuoi sperare se non che il mondo muoia con te? Non così la pensavano allora, visto quanto hanno lasciato al prossimo venturo. La mira era pure giusta, l’obiettivo sbagliato. Il tentativo patetico come lo sforzo per urlare, nel sogno in cui non hai un filo di voce. Ok, va riconosciuto l’essere stati, ma non basta a produrre d’ufficio l’essere. Quanto mai il sarà. Con buona pace di quanti s’aspettano una sopravvivenza immortale degna del loro mortale esistere d’allora. Passano gli anni, ma non volevano immaginarlo. Cambiano i tempi, e questo sì che s’è sempre saputo. Se l’oggi non si fa domani diventa eternità, quando il più delle volte sei sicuro che non riusciresti a sopportare il trascorrere di nemmeno un


altro secondo. Poi passano i secoli, ma è l’attimo che ferisce. Tanto che esci crivellato dal breve periodo, tanto quanto ogni segno materiale riconduca anche per un solo istante all’ancorare certi momenti a certe situazioni eterne, va maledetto all’infinito. Poveri magnati, che hanno tirato su città non immaginando di far così male. Quello che poi ci fotte è sempre il futuro. Il passato lo conosci, ci scendi a patti, lo tieni provvisoriamente buono con chissà quale compromesso, che tanto il momento in cui torna a chiederti il conto – c’è sempre quel momento – nell’attimo in cui lo pensi sembra lontano. Come d’altra parte neanche la storia è mai storica mentre la vivi. Comunque. Ecco, il presente non lo vivi. Te ne accorgi sempre tardi di quello che era, quando ormai non è più. E anche volendo ricordarlo, l’hai perso, che non torna mai

com’era. Il presente del passato, la memoria. Cui segue la “visione”, poi la “speranza”. Per il futuro, ovvio, considerato quanto poco c’è da sperare nel passato. E lì crolli. Sopraffatto dalla spiazzante semplicità


del fatto che il futuro fa paura proprio perché non lo conosci. Proprio perché puoi immaginarlo ma non arriva mai come te l’aspetti. Proprio perché ogni calcolo vale zero. Proprio perché, mentre ancora ti domandi se sia questo il futuro, t’accorgi che è stato così veloce da non aspettare sipario né applausi per andarsene. E al momento stesso in cui ti rimetti alla sua volontà è già lontano.

P

La nostalgia è l’arte dell’imperfezione, il dono di una mancanza, ovvero la capacità di trasformare un vuoto in una ricchezza, una perdita fisica in un risarcimento metafisico Marcello Veneziani

oi la vita ritorna. Non sempre e nemmeno tanto spesso, ma ogni tanto lo fa. Ogni tanto ce la fa. Epperò l’ottimismo è fuori luogo. Sopravvalutare la faccenda è caricarla di significati che vanno troppo al di là del significante, falsando il senso. L’espressione “vita”, nella specie, veicola un contenuto non molto distante da concetti di esistenza in cui l’uomo non è indispensabile. Difatti il più delle volte manca. “Vita” è sistema, è movimento, è fatto e notizia, è consapevolezza, è decadenza, è gioia e tristezza, è ambiente, è contesto interno e esterno; è paradossalmente anche morte, perché la morte non è la fine della vita, non per ciò che non è uomo. E l’uomo qui c’entra poco. In ogni caso, la vita ritorna. Da assumere come variabile indipendente al netto di dimostrazioni certo non agevoli. Come certo è che a questa vita manca ancora tanto – troppo perché un’esistenza attuale possa anche solo sperare di vederla un giorno realizzata – per autodeterminarsi. Per guardarsi allo specchio e definirsi tale. Per toccarsi il volto, fissarsi negli occhi, illuminarsi in viso, abbracciarsi, sorridere e proclamarsi vita. Al più è un tentativo, un’intenzione, una tensione indice inconfutabile che da qualche parte lì dentro qualcosa si muove. Non un’onda


sismica dalsottosuolo, ma almeno un formicolio. Che spinge per portare al livello zero dall’attuale meno nonsisamancopiùquanto. Dal fondo si riparte, sotto il fondo si rinuncia. L’uomo l’ha capito e ha rinunciato. Se n’è andato. Accompagnato dal lamento animale di rumori meccanici, lo sguardo nascosto da una montatura d’occhiali troppo spessa, la camminata di quelle cui le braccia danno talmente fastidio da doverle arpionare dietro la schiena; un ciao fatto con la mano, veloce. La voce che si abbassa. La natura no. Ha preso possesso. In una situazione in cui chi abita il mondo è tenuto a modellarlo e tutelarlo nel suo servizio, le parti si sono ribaltate. Il mondo s’è fatto l’uomo a misura di natura: assente. Un ingombro edilizio preesistente il contesto urbano sostitutivo. Il faro di un’auto sfumato tra i sanpietrini bagnati la luce. I colori delle facciate fresche d’intonaco la confezione, lo specchio per le allodole. Il vuoto dentro le tante quattro mura la consistenza di un gioco che non dura poco. Quindi non è bello. E non è neanche il caso di chiamarlo gioco. Può non essere piacevole apprenderlo. E’ sicuramente spiacevole ammetterlo. Ma è quanto: le conseguenze si pagano. Sempre. E più si spinge in là il momento più crescono gli interessi. Al punto che c’è chi preferisce l’esilio. La solitudine, di per sé, non avrebbe motivo di far paura. Le cose cambiano un po’ se arriva come reazione. O imposizione. O successione. In ogni


caso, il brutto sta se e nel caso c’era prima – e c’è sempre, per forza di conseguenza temporale – qualcosa di diverso. Preferibilmente bello, dove “bello” va inteso in senso estensivo. Piacevole sarebbe un sinonimo adeguato, ma in punta di lessico e di vissuto nemmeno triste andrebbe escluso. Il tempo smussa gli angoli – e il ricordo non taglia più il cuore in due – ma non cancella. Qua e là cambia qualcosa, lo arrotonda, ma ciò che è scritto resta. E sia quel che sia, ci si affeziona. Al passato finisci per voler bene – se non altro perché è quello che sei stato, in buona parte sei e con tutta probabilità sarai – anche e soprattutto quando lui non te ne vuole. Perché gli anni appesantiscono da un lato e dall’altro alleggeriscono, tagliano il superfluo, semplificano. Tanto che alla fine resta l’essenziale – la sintesi, il ricordo, appunto – e senza più tante contestualizzazioni lo spaccato di vita vissuta appare quello che è. Al novantapercento migliore di com’era sul momento. E quel diecipercento è scritto con un nuovo alfabeto, che tradotto riporta una versione del fatto per cui è valsa la pena aspettare tanto: l’occasione persa non esiste, al di fuori di quella che non si è mai neanche lontanamente presentata. L’occasione sprecata, di per sé, non è andata persa proprio in virtù del vuoto vissuto. Nessun ossimoro. Il fatto che ancora ci pensi lo dimostra.

C

Nessuno può tracciare una linea che non sia una linea di separazione: ogni linea divide una singolarità in una pluralità Mauritz Cornelius Escher

ome una sorta di terribile ciclicità c’è nel riproporsi degli scenari. Mai uguali ai correnti, certo, ma la matrice condi visa è inconfondibile. Molto più d’un déja vù, qui si parla di un nero su bianco, quasi scientificamente dimostrabile. Un po’


spaventa: dopo il punto X0 si sono verificate svariate Y, ma al devastante subentrare dell’X1 svaniscono. Tamquam non essent, di fronte alla potenza del richiamo a suoi simili – capace di annullare tutto e tutti in suo nome – di una situazione. Memorabile o no che fosse. Ma nulla, preso in e per sé, produce null’altro. C’è un contesto che lavora dietro le quinte, non ci mette faccia né nome, ma sai bene che senza di lui tutto il resto non ce la fa neanche un attimo ad esistere con pari dignità. Semplicemente non è. Maledettamente semplice e impossibile allo stesso modo. Come accettare che il colore è un fatto mentale quando certi accostamenti che vedi in giro fanno fisicamente male agli occhi. Come bere un bicchier d’acqua – acqua per comodità – quando già ne hai buttata giù litri e litri. Come una ragazza così bella abbia un rapporto così brutto con la sua bellezza; e un’altra non se ne renda neanche conto; e un’altra ancora la usi come arma. Anche se a doppio taglio e non di rado finisce per farle male. La bellezza, certo. Come due possano cercarsi tanto da non volersi trovare; che flirtare all’infinito a certi piace più che un flirt finito. Come un determinato elemento in un determinato posto potresti spostarlo in milioni di altri luoghi, anche più attraenti, ma non sarebbe più lo stesso; il testo senza contesto – quello originario – vale zero. Come basta un metro a destra o a sinistra e il mondo cambia volto. Come dirsi tutto guardandosi negli occhi sia una cosa da rimandare al momento in cui due dei quattro occhi in questione guarderanno altrove; e gli altri due al suolo. Come l’accusare una parte sia una scappatoia facile facile per giustificarla


e – nemmeno tanto en passant – dare sempre e comunque la colpa all’altra. Come più si desidera qualcosa più questo qualcosa lo capisce. E resiste. Il freddo conserva. Mantiene la carne, la mente, il ricordo. Soprattutto il ricordo, lo richiama. Lo tiene in vita, come compresso nella nebbia che arriva assieme alle prime gelate notturne. Fino a che il sole non la dirada e i ricordi si sciolgono piovendo sui cuori. Per un po’. Poi evaporano. E il ciclo riparte. Puoi quasi toccarlo, nel freddo del mattino, con tutta la lucidità che dà l’inizio, quella chiarezza così netta che ti sorprendi a non crederci, a volerla vedere a tutti i costi come una prosecuzione di un sogno già dimenticato. E’ la prima coscienza del giorno, un preavviso di quanto verrà. Sarà lungo. Questo emerge subito nel silenzio, nei secondi dilatati dal ticchettio della lancetta, dal fruscio azzurrognolo di qualcosa di elettrico, dal continuo urlo a bassa voce del cielo sereno. L’eco del buio in fuga che va a nascondersi. Arriva il momento in cui basta un dettaglio – anche il più piccolo, certo – a scaraventarti indietro chissà quanto. A volte ore, altre anni. Con l’impatto che ha sul volto un gancio – veloce, pulito – che ti colpisce alla mascella senza che l’avessi minimamente visto partire. Non è un semplice riportare a, ma un vero e proprio coinvolgere tutti e cinque i sensi nel baratro che inghiotte. Paralizza. Fa cessare all’istante


ogni attività che lo precedeva. Le aspira le forze, riducendoti in un secondo ad un sacchetto vuoto. Esperienza non spiacevole a priori, né per forza fin dal principio. Ovvio un certo grado di dolcezza percepibile nel vivere quel quid che “se nessuno te lo chiede” sai di conoscere perfettamente. Che in realtà è una bomba. E meno la tieni in mano meglio è. Buttala, che di terra bombardata in giro troppa ce n’è. Non la cambi tu la geografia della vita. Non è solo una questione di prospettiva: l’incastonarsi degli elementi parla. Tante lingue quanti sono i punti di vista da cui l’inquadri. Quel raggio di sole polveroso che filtra come da un vetro, ferendo gli occhi rossi porta in presa diretta al cervello tutte le parole che ha raccolto scendendo dall’alto. Acquisisce gli elementi che incontra, che gli si mettono al rimorchio già sapendo dove

andranno a sfociare. E tu li accogli, volente o nolente. Ti riempiono. Sarà suggestione, ma è come se le ombre che galleggiano fino ai tre quarti


delle pareti strette sui vicoli assorbano le tinte tenui. Lasciando in vita solo le forti, condite dai rumori che le mura imprigionano a distanza e restituiscono moltiplicati. Poi si personificano, si assemblano in un’unica cosa. Vicina. Tanto da sentirne il fiato sulla pelle, la presenza come occupazione dello spazio p r os s imo. E l’alone è positivo, inequivocabilmente positivo. Qualcosa che hai già conosciuto – sei pronto a scommetterci sopra –, già visto. Sotto sotto l’aspettavi, anche; lo cercavi perché ne sentivi la mancanza. Che sia la felicità? Quando per te non esisteva affermavi il vuoto mentendo e sapendo di mentire. Proprio perché l’avevi conosciuta. Le avevi sfiorato i capelli e il tuo volto aveva preso luce, come adesso, adesso che i suoi occhi si abbassano come per cercare in sé la concentrazione per dirti quelle tre parole così elementari e faticose da pronunciare con la dignità del tono che spetta loro. E il bacio che ti avvolge – non lo ammetti ma lo sai – era quello che per talmente tanto hai aspettato che mò non ti sembra neppure vero.


Ma adesso riesci a guardare in faccia l’infinito, a confrontarti con quel sentirsi forti fin’ora solo sentito dire. E ti piace, chiaro. Ora è tangibile come una certezza; come se non si fosse nati che per quello. Smetti di correre perché è lui che ha trovato te. Ponendo la parola fine al senso di mancanza che ti opprimeva da quando hai visto andarsene ciò che rendeva la tua vita tale proprio perché rispondeva «presente» al momento giusto. Né prima né dopo, proprio quando serviva. E’ molto più che legittimo, una vera liberazione quel sorriso sulle labbra. Segno palese di pacificazione. Che indietro non si torna, il passato ormai è assolto; anche se sussiste, e quanto poi. Il faccia a faccia con te stesso da ora potrebbe anche risultarti stimolante. Addirittura. Ti scrolli le ombre di dosso, resti con una sola, la tua. Ma per una volta ti trovi dal lato giusto di questa. E quanto raccolto è finalmente solido. Finalmente, quando non basterà la buona volontà a scovare le forze per stringere il pugno a sua difesa, il vento non lo farà scivolare tra le dita come sabbia. INTERSTIZIO E’ davvero un’attesa snervante, forte stanchezza, le gambe faticano a reggere il peso e il corpo fa troppa pressione e affidamento sulle cedenti ginocchia, pesantezza, crollo imminente da un momento all’altro, il cuore spinge il sangue all’organismo sempre più lentamente e l’impressione è che ad ogni battito non ne segua un successivo, dal ventre non sale più calore, ma tra le costole e l’addome ora c’è come un buco, un vuoto incolmabile, che lentamente sta inglobando nel suo nulla tutti gli organi interni, il resto è immobile, braccato, angoscia che paralizza, per certo, è la scena ricorrente a confermarlo, che al prossimo passo l’attesa finirà, la scena cambierà, il fiume d’asfalto scomparirà, pugni stretti forte, sperando in una riattivazione circolatoria che infonda vita e forza per avanzare, occhi chiusi e volto compresso in una smorfia ermetica, vicina al dolore, qualche secondo, occhi aperti di colpo, denti serrati in un’espressione combattiva il passo.


E

E se il mondo ti avrà dimenticato di’ alla terra immobile: Io scorro. All’acqua rapida ripeti: Io sono Rainer Maria Rilke

ppoi non te ne saresti mai accorto non fosse stato per quel gioco di luci-ombre ora netto ora sfumato, con soluzione di continuità, con una tale perfezione di definizione d’insieme che stenti a credere sia opera dell’uomo, ma di fronte a un messaggio trasmesso con tanta – esagerata a tratti – chiarezza devi farlo solo apposta a non capirlo, e infatti lo cogli in pieno, e infatti stai già mezzo tramortito ché piùcchealtro lui ha colto in pieno te, non accontentandosi di lasciarti a bocca aperta ma pretendendo proprio di aprirti la testa – sì, in due parti – per ficcarcisi dentro e veicolarti gli occhi fino a farti vedere quel qualcosa in quel daqualchepparte che da sempre sta lì ma da sempre mai l’hai voluto notare e fidati che da mostrarti ne aveva e pure parecchio, niente d’atteso, stupefacente con tanti grossi avverbi messi davanti e altrettanti apertelevirgolette, di certo capace di metterti in quattroequattrotto a disagio con te stesso quasi quanto quella densità che attribuisci con enormi punti interrogativi all’acqua che butti giù quelle mattine che c’hai la bocca rivestita d’antracite al retrogusto di vaniglia, e se A è uguale a B e B a C forse sta a monte l’incongruenza qui palese, in quello sbalzo temporale – nel senso proprio di sobbalzo, del tempo che scavalca a pié pari se stesso, come la puntina che salta con uno «sfrush» i solchi del disco – insomma in quel lasso mai esistito eppure bypassato in cui in testa ti circolava tutt’altro – oppure nulla, ai fini del discorso cambia poco – ed


è bastato il passaggio nemmeno poi così vicino di quei due occhi grandi grandi che t’ha svuotato da ogni pensiero con la velocità con cui la brocca frantumatasi a terra ha perso l’acqua, e anche con lo stesso rumore – l’hai sentito chiaro – lasciandoti quel nulla a galleggiare tra le orbite oculari e la nuca che sai per certo quanto stia a significare dituttoeddipiù, ma nel dizionario non c’è una sola parola – dico una – che si avvicini magari anche un poco a suggerirti come spiegarlo, semanticamente parlando, s’intende, che chi ti vede te lo legge in faccia quanto certe cose da nulla – ... – scombussolano il tutto, ma dura poco quel perdersi in una trasparenza così solidamente piena, tanto satura da restarne unti al minimo guardarci attraverso, dura poco perché c’è il mondo che ti richiama all’ordine con un senso di vertigine come se guardandoti i piedi ti scopri improvvisamente alto chilometri, e il riprendersi a tutti gli effetti dura tanto di più, forse infinitamente di più, eccolo il brutto, tutte le difficoltà del fluire sono caratterizzate, funzionali e finalizzate a un solo momento che sta irrimediabilmente prima o dopo il percorso di preparazione ad esso – nel primo caso coglie impreparati e nel secondo esausti – tanto che presi dalla frenesia di catturarlo al meglio, ignari che lui non aspetta altro che di trovare la falla nel sistema difensivo – e la trova sempre – questo arriva puntuale per far sprecare quanto ad esso era indirizzato,


così è la vita, altro che i film, resta solo l’ansia in fin dei conti, poi la delusione, senza la soddisfazione in mezzo, ma è quando ne afferri il senso che viene a mancarti il fiato, come un pugno nello stomaco, e ci

ripensi – non puoi farne a meno – vale a dire che ci pensi ancora, torni indietro e rivedi quelli che c’erano – e ci sono ancora, manchi solo tu che in quella foto mentale stai lì in mezzo, peraltro preso pure bene – rivivi quello che facevano – e facevi – riprovi certe emozioni che mò hanno tutt’altro sapore, amaro senz’altro, il gusto della perdita, il profumo acre dell’essersi ridotto a unità per meglio chiudersi compatto in un buco, dove nessuno – te compreso – potesse scovarti, dove l’accelerazione del tempo interno t’ha appiccicato al sedile della vita e la frenata contemporanea di quello esterno ha creato un gran casino, ma sei consapevole della tua corresponsabilità nel sinistro, dell’inadempienza per la quale – vista la ritorsione e relativa inadempienza anche dell’altra parte, nella miglior prassi della doppia defezio-


ne – puoi solo schiaffeggiarti allo specchio, lo stesso specchio che adesso, con tutta la pioggia che t’è caduta in testa e tutto lo schifo che t’è caduto addosso – eccazzo se pesavano –, non dimostra un briciolo di clemenza nello sputarti di rimando con tutta la verità del mondo quella faccia con le mascelle che s’induriscono, i denti che spingono, le labbra che si ritirano, nel ricordarti che domattina faticherai non poco a dare delle spiegazioni in merito a non saprai esattamente cosa, «poco male» ti dici, ma una delle poche cose che sai e sai di aver fatto e sai che non era dovuto è criticare senza avere la posizione di vertice necessaria a permettertelo, tanto che porta solo ad autostringersi alle corde, quando per prassi il passo seguente – che più e più volte hai già percorso, evidentemente senza trarne un granché a livello d’insegnamento – è il knock out, che il mero castigo ancorché medievale dell’erosione di te stesso non raggiunge mai nella sua pienezza, quella che si svela quasi a sorpresa, dato l’ignorare sistematico di ogni messaggio premonitore e lo squalificarlo con un semplice «tanto non è l’ultimo», ma a conti fatti c’è poco da ridere a voltarsi indietro – e non solo per non guardare avanti –, non è per niente un divertimento notare che la messa in atto di quello che è – per un prodotto – il “ciclo di vita”, metaparadossalmente si appiccica aderente come una calza alla vita stessa, o almeno a delle sue parti, e prendi atto ingenuamente e per certi versi teneramente stupito – suvvia, è quanto di più


ovvio – che dopo il lancio c’è l’ascesa, poi la maturità in crescita e in assestamento, che poi decresce ed ecco già il primo indice di stazionamento, già il primo passo del declino, ma se a questo punto il prodotto si rilancia, per la vita c’è qualche problema in più, che se va male non te ne lavi le mani portando i “libri in tribunale”, non c’è procedura concorsuale che sia un colpo di spugna sull’indelebile, già adesso i nomi li ricordi a tratti, i volti è utopia definirli anche solo per linee somatiche estreme, ma i fatti, quelli non te li toglie nessuno dalla testa, ergo l’indelebile non lo cancelli, non scompare, non si spreca perché non si consuma, si legittima a posteriori con effetto retroattivo, dura per sempre perché è il sempre, brucia ogni futuro nel momento in cui annulla il passato inglobandolo, per proiettarsi in qualità di se stesso addosso a ogni avvenire, buffo sì, e triste, ma vero, come quell’anomala combinazione di meccanismi cerebrali per cui le cose che più ti hanno segnato finisci per richiamarle visualizzandone come icona solo e sempre il dettaglio più inutile, quello che non spiega proprio un cazzo della faccenda – e chi c’ha mai pensato che evidentemente era proprio quello che contava –, come nelle situazioni più difficili, estremamente difficili, per quanto ti sia spiritualmente preparato anni a far loro fron-


te, in testa si mette a girare la cosa più fuori luogo che tra miliardi di sue simili a disposizione potevi pescare per aggrapparti a un aiuto, come il godere nel pensare al momento prima che accada, nel pensare al dopo nel suo mentre e nel ricordare il prima nel dopo, tutto controtempo e contronatura, un cliché talmente usurato che ti trovi perfino in difficoltà nel riutilizzarlo, per paura che ti si rompa in mano, ogni qualvolta serva – e serve sempre, visto che l’iniziativa a coniarne di nuovi latita –, ma alla fine, nella sua ultracollaudata garanzia non ti delude mai, richiede fiducia per funzionare, dà il meglio solo se ci credi, nella più semplice, quasi banale suggestione della profezia che si autoadempie ogniqualvolta strofini la lampada dei desideri al contrario, e non è paradosso ma purissima statistica inferenziale, l’uno è funzione dell’altro – l’andar tutto peggio e il consentirlo senza impedimento alcuno, con sotto sotto un velato incoraggiamento al caso – e ancor più precisamente l’uno è direttamente proporzionale all’altro, e quanto fornisci contributi all’aumentare di uno qualsiasi dei due termini è un dato palese di cui, a cose fatte, limitarsi a prendere atto, anche a malincuore, magari, ma tant’è. E non te ne saresti mai accorto non fosse stato per.


B

E’ meglio far la cosa più piccola del mondo piuttosto che considerare mezz’ora del nostro tempo una cosa da nulla Johann Wolfgang Goethe

utta là qualche lettera. S come sole, che scioglie la solitudine col solo farti seguire dall’ombra per tutto il suo stare su. Come sollievo nel proprio stato dell’essere quando tutto intorno si stringe l’assedio, come sangue e spavento e stupore e somma delle cose fino alla soluzione. Sentimenti e sogni, sotto e sopra, sintomo e sospensione. Come la speranza sia un salto tra il sicuro della serenità e il supposto del sospetto. La sensazione che in un secondo nulla starà più dove sarebbe dovuto stare. T come timore, tramonto su terra tormentata che da tanto è troppo tesa, è il tempo che si trasforma più veloce dell’idea che se ne tiene, tratti del tracciato che, andando a tentativi, tentano di trasferire la retta t alla sua tangente, tensioni tattili tendenti al trasformismo, torsioni lessicali per tradurre dalla testa al testo. Come tutto si tramuta al tenerlo in mano con rinnovata tenacia, che niente resta tale se tira un’aria tesa. A sta per attacco, quindi azione. Ancora. Altro. Adesso è l’attimo per andare, all’assalto della propria angoscia, all’assurdità attanagliata alla propria autonomia come agente esterno. Autocoscienza e adattamento all’ambiente, farsi parte attiva dell’arrivo dalla a alla zeta, un alfabeto


che non basta ad attutire l’ansia dell’attesa quando l’attrazione verso l’altro si fa un’altra cosa che comincia con la a ma che non si è mai capito come in realtà possa anche solo apparire nell’altrui agitazione come automaticamente amica. Ancora S, che sanno tutti quanto sia sterile sostenere una soggettività che non si dà per solida, ma lo si fa lo stesso. Senza senso, solo per sentirsi sazi di vita. Sparisce ogni sostanza al sottrarsi del significato delle storie, soffoca il sistema, la sincerità si smobilita e sconnette le sinapsi. Schiavi degli scempi, basta un sassolino nello stagno a creare scandalo perché stando in separati sentieri ciò che separa è immensamente superiore a ciò che fa sentire due soggetti una singolarità. Poi I come innocenza, immensità dell’infinito, inconscio e Io. Inizio e interstizio, istituzione e interruzione. Intelligenza che non intraprende quando l’indizio è inconfutabile, come l’incongruenza che insorge se l’istinto resta intatto. Ed è un inferno oppure inerzia, un incrocio o un impatto, sempre un incontro tra individui e tra ideali. Istante improvviso. E’ ciò che immagini sia importante, anche se inutile, anche se ingiusto. Anche se inconsistente. Ecco che hai fatto la stasi. Quando di strada, in ultima analisi, troppa ne hai macinata. Poi il viaggio continua, se chiudi gli occhi. Sempre quelli. Ché il mondo che c’hai dentro lo batte non di poco quello fuori. E tu che correvi tanto per farlo tuo. Ma la stasi, là in un angolo, t’ha aspettato tutto il tempo. T’aveva dato solo un bacio. Tanto lo sapeva che prima o poi tornavi.


Finito di stampare, in proprio, nel mese di dicembre 2004 per conto della Derupe produzioni (Proud 2 prod)



Se un viaggio è anzitutto avere nuovi occhi, la stasi è anzitutto mantenere i vecchi


Lorenzo Paciaroni

Sanseverino 2004: Appunti di stasi


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