Mestieri d'Arte e Design - Raritas

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RARITAS
“ LA BELLEZZA RISIEDE NEI DETTAGLI DELLE STRUTTURE PIÙ GRANDIOSE E PIÙ RAFFINATE.”

ORA ÏTO, CREATORE DI FORME, INDOSSA UN VACHERON CONSTANTIN TRADITIONNELLE.

LO STUPORE DELLA RARITÀ

Un mestiere raro racchiude il fascino della scoperta, di un segreto che si tramanda con sacrificio, è il contrario dell’ordinario e del replicabile. Un mestiere raro è un manifesto a favore di un nuovo Umanesimo da promuovere e sostenere.

di Alberto Cavalli

“Raro” è un termine che descrive qualcosa che accade di rado, che ha un’aura di distinzione. Raro è qualcosa che ha valore, che è difficile da trovare. Raro è anche un termine associato ad alcune caratteristiche fisiche: pensiamo alle terre rare, o all’aria rarefatta che si respira sulle cime dei monti. Applicato alle qualità di una persona, a fenomeni naturali straordinari o a creazioni umane davvero uniche, il concetto di rarità incorpora sempre un elemento di desiderabilità, un’aura di preziosità, persino un velo di mistero.

Oggi, è utile notare, la stessa rarità sembra però farsi… sempre più rara. I progressi tecnologici, che si infrangono come onde possenti sulle scogliere delle nostre certezze e delle nostre aspettative, sembrano ammonirci sul fatto che tutto può essere replicato – dalle pietre preziose ai corpi umani –in numeri infiniti, in imitazioni senza limite.

Pertanto, quando ci siamo dati il compito di presentare i mestieri d’arte “rari” su questo numero della rivista di Fondazione Cologni, abbiamo investito lunghi mesi nel considerare il concetto stesso di rarità, e come rappresentarlo. Siamo partiti dalla ricerca che la Fondazione ha commissionato a Nurye Donatoni, curatrice e appassionata esploratrice di territori e mestieri: grazie a una metodologia rigorosa, pur se umana e dunque empatica, abbiamo selezionato storie esemplari e persone particolari, che meritano una narrazione speciale. Una narrazione nuova:

non solo nello spazio di queste pagine, ma anche nell’agorà dove l’opinione pubblica incrocia l’informazione, e dove le politiche dovrebbero incontrare le necessità.

La narrazione che abbiamo deciso di sviluppare è legata alle diverse accezioni che abbiamo assegnato al termine “rarità”.

Rara è la tecnica. O la presenza dell’artigiano su un territorio più o meno vasto. Raro è il fatto che una donna scelga un mestiere tradizionalmente svolto da un uomo. O che un giovane, vincendo mille difficoltà, decida di dare nuova vita a un’attività che sembrava destinata all’estinzione.

Rari sono i materiali, e le competenze. Questi differenti punti di vista formano i capitoli di una storia in cui il protagonista è un concetto contemporaneo e inedito della rarità, e in cui il “cattivo” – se ce ne deve essere uno –non è certo la tecnologia, ma l’omologazione.

Questi talenti rari, questi straordinari artigiani ci ricordano che è possibile trasformare una passione in una professione. Sono la prova che essere unici, diversi, straordinari non è uno stigma, ma una benedizione. Ci connettono con i loro territori, con le storie, con una conoscenza che magari non fa parte delle nostre esperienze quotidiane, ma che ha il potere di sorprenderci e di darci speranza. Speranza in un mondo in cui le mani dell’uomo sapranno sempre offrire il dono più prezioso e raro di tutti: il tocco generoso della passione. •

7 MESTIERI D’ARTE & DESIGN

7 EDITORIALE

Lo stupore della rarità

Alberto Cavalli

20 Album

Stefania Montani

30 Giovanni Ascione.

Genio Mediterraneo

Alba Cappellieri

38 Specchio, specchio

delle mie brame

Jean Blanchaert

48 A me le mani, please

Andrea Tomasi

54 Dagli agrumeti al mare, tutti i colori della Sicilia

Stefania Montani 60 Patrimonio di pietra

Ugo La Pietra

66

Eugenio Di Rienzo

Memoria e innovazione

Nurye Donatoni

74

Stamperia Pascucci

Tesori di Romagna

Stefania Montani

82 Dipingere con il legno

Simona Cesana

90 Un mestiere da grandi

Anna Carmen Lo Calzo

96 Uno storico saper fare di prestigio

Maria Pilar Lebole

102 Quando il talento sposa il territorio... per sempre

Giovanna Marchello

110 Coppie d'ingegno

Alberto Cavalli

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N°28 SEMESTRALE DELLA FONDAZIONE COLOGNI
indice
con piqué in oro, Giovanni GENIO MEDITERRANEO Giovanni Ascione di Alba Cappellieri Una mostra antologica, un volume monografico, il racconto di un viaggio artistico ricco di suggestioni. Giovanni Ascione, eclettico interprete di eleganza e raffinatezza, fecondo creatore di preziosi gioielli e oggetti sacri in corallo, lascia in eredità un tesoro di rara bellezza da preservare. di Jean Blanchaert Elegance realizzato Glass Week 2019). bombato bisellato, e pietra con foglia Francesco Allegretto l'azienda veneta Portego, Specchio, specchio DELLE MIE BRAME L’eredità di una passione continua a vivere in un mestiere speciale. A Murano, la famiglia Barbini riflette l’anima dei propri antenati rinnovando la tradizione e realizzando raffinati specchi veneziani con tecniche cinquecentesche. 30 di Stefania Montani Terra generosa di tradizioni e di mestieri, nel cuore della Romagna la bottega artigiana di una famiglia talentuosa conserva gelosamente un raro savoir-faire. La Stamperia Pascucci di Gambettola rappresenta felicemente il grande sodalizio tra arte e artigianato. Tesoro di Romagna STAMPERIA PASCUCCI
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Raritas: dove trovare l'eccellenza Ugo La Pietra

MESTIERI D’ARTE & DESIGN. CRAFTS CULTURE

Semestrale – Anno 15 – Numero 28 - Aprile 2024 mestieridarte.it

DIRETTORE RESPONSABILE

Alberto Cavalli

DIRETTORE EDITORIALE

Franco Cologni

DIREZIONE ARTISTICA

Lucrezia Russo

CONSULENTE EDITORIALE

Ugo La Pietra

REDAZIONE

Susanna Ardigò

Alessandra de Nitto

Lara Lo Calzo

Francesco Rossetti Molendini

PRESTAMPA E STAMPA

Grafiche Antiga Spa

MESTIERI D’ARTE & DESIGN. CRAFTS CULTURE

è un progetto della Fondazione Cologni dei Mestieri d’Arte

Via Lovanio, 5 – 20121 Milano fondazionecologni.it © Fondazione Cologni dei Mestieri d’Arte

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PUBBLICITÀ E TRAFFICO

Mestieri d’Arte Srl

Via Statuto, 10 - 20121 Milano

Cammeo su conchiglia sardonica. Manifattura Ascione, 1925. Incisore Antonio Mennella. Napoli, Museo Ascione. Foto di Emilio Pinto.

9 MESTIERI D’ARTE & DESIGN RARITAS FONDAZIONE COLOGNI DEI MESTIERI D’ARTE I.P. MESTIERI D’ARTE & DESIGN. CRAFTS CULTURE 28/2024 RARITAS Crafts_Aprile_24_21.02.24_COVER_esecutivo.indd Tutte le pagine IN COPERTINA:
LE
OPINIONI 16
120 La poetica della rarità
mano. Lo stampo, essere stato posizionato appoggiato sul tessuto Un gesto caratteristico che nella bottega della perpetua dal 1826. 74 Dipingere con il legno di Simona Cesana Ereditare un mestiere raro come quello dell’intarsio rappresenta una responsabilità, oltre che un privilegio. Ad Anagni, antica città papale, sede di raffinate botteghe di alta ebanisteria, da oltre mezzo secolo le Tarsie Turri rivestono un ruolo d’eccellenza nel contesto delle arti applicate. Esplorare territorio italiano, percorrendolo in lunghezza seguendo le coste o la dorsale dell’Appennino, o attraversandolo da est a ovest per riunire idealmente due mari, l’Adriatico il Tirreno, significa imbattersi, chilometro dopo chilometro, in città paesi che ci sorprendono per la loro unicità: particolari architettonici urbanistici, tradizioni culturali, artigianali gastronomiche, riti e credenze rendono ogni territorio diverso dal precedente quindi fucina di esperienze nuove scoperte. Poco sud di Roma, nella cittadina di Anagni (conosciuta come “la città dei Papi”) riscopriamo una bottega-studio che mantiene viva, grazie alla passione alla professionalità di Rita Turri, la tradizione della tarsia lignea, una preziosa lavorazione di alta ebanisteria che crea partiture di colore materia, grazie piccole tessere di pregiate essenze lignee intagliate giustapposte con precisione millimetrica. Nata in questa cittadina nel 1963, Rita fin da giovanissima segue le orme del padre Carlo affiancandolo in laboratorio 82 Annangela Lovallo racconta le suggestioni di tutta una vita dedicata all’arte del ricamo in un piccolo centro della Basilicata, culla di un saper fare d’eccellenza. Una scelta controcorrente rispetto ai tempi, ma guidata da una sentita passione, dal rispetto per le tradizioni e da un sogno che si realizza. di Giovanna Marchello Quando il talento sposa il territorio… per sempre Sensibile tema della antiche, come nel caso pizzo chiacchierino Foto di Maria Teresa Quinto 102
18 Alla ricerca delle eccellenze rare Nurye Donatoni
Franco Cologni

Senzafine , Mattia Bonetti, 2010. Opposite: Embassy , Historical Archive with Piero Pinto, 1940. Discover

on bonacina.it
more

Artigiani della parola

I caratteri tipografici fanno parte della collezione della Tipoteca Italiana (www.tipoteca.it)

Jean Blanchaert

Gallerista, curatore, critico d’arte e calligrafo, da più di trent’anni conduce la galleria di famiglia fondata dalla madre Silvia nel 1957 e da sempre specializzata in opere contemporanee. Dal 2008 è collaboratore fisso del mensile Art e Dossier (Giunti Editore). È stato curatore della sala Best of Europe di “Homo Faber” 2018 e della sala Next of Europe di “Homo Faber” 2022, alla Fondazione Cini, Venezia.

Siciliana di nascita, milanese di adozione. Freelance da sempre, collabora con quotidiani e periodici, spaziando dalla moda alla bellezza, dal lifestyle alla cultura. Ama incondizionatamente gli animali, Leone dalla criniera grigia (ma non per questo spelacchiata!) vive con il leggendario gatto Arancino.

Alba Cappellieri

Professore Ordinario di Design del Gioiello e dell’Accessorio Moda al Politecnico di Milano. Dal 2014 è direttore del Museo del Gioiello, all’interno della Basilica Palladiana di Vicenza, il primo museo italiano dedicato al gioiello.

Simona Cesana

Laureata in Design al Politecnico di Milano, si occupa di curatela e organizzazione di progetti culturali e editoriali tra arte e letteratura. Dal 2007 affianca l’architetto Ugo La Pietra nelle attività di studio e curandone l’Archivio.

Artista, architetto, designer e soprattutto ricercatore nella grande area dei sistemi di comunicazione. La sua attività è nota attraverso mostre, pubblicazioni, didattica nelle Accademie e nelle Università. Le sue opere sono presenti nei più importanti Musei internazionali.

Nurye

Laureata in conservazione dei beni culturali, esperta di artigianato artistico e di tradizione, è direttrice artistica del MAV –Museo dell’Artigianato Valdostano di tradizione. Attualmente svolge per Fondazione Cologni una ricerca per la mappatura dei mestieri rari e a rischio di scomparsa in tutta Italia.

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Sofia Catalano Donatoni Ugo La Pietra

Pilar Lebole

Giornalista, dirige la Rivista OMA ed è responsabile di Osservatorio dei Mestieri d’Arte per Fondazione CR Firenze. Da oltre venti anni è impegnata nella ricerca e promozione dell’artigianato artistico con iniziative e progetti culturali, tra cui mostre, contest dedicati alle giovani promesse dell’artigianato artistico, esperienze di didattica e di formazione per i mestieri d’arte.

Anna Carmen Lo Calzo

Ex modella internazionale, musa ispiratrice di stilisti come Gianfranco Ferrè e Giorgio Armani, archiviate le sfilate e i servizi fotografici, ha trasformato in professione la passione per il mondo del lusso e del made in Italy. Giornalista pubblicista dal 2003, è scrittrice e consulente di comunicazione.

Dopo una lunga carriera nel global business development e licensing maturata in prestigiose maison italiane, dal 2011 si occupa dello sviluppo di nuove iniziative imprenditoriali e culturali, anche nel Terzo Settore, specializzandosi nell’ambito dell’artigianato d’eccellenza.

Andrea Tomasi

Stefania Montani

Giornalista, ha pubblicato tre guide alle botteghe artigiane di Milano e una guida alle botteghe artigiane di Torino. Ha ricevuto il Premio Gabriele Lanfredini dalla Camera di Commercio di Milano per aver contribuito alla diffusione della cultura e della conoscenza dell’artigianato.

Laureato in Discipline delle Arti, della Musica e dello Spettacolo a Bologna, inizia la sua carriera come critico cinematografico. Dopo aver lavorato come caporedattore per diversi settimanali, nel 2018 inizia la sua collaborazione con la Michelangelo Foundation per la realizzazione della prima edizione di “Homo Faber”. Dal 2020 dirige la Homo Faber Guide , una piattaforma online che consente di scoprire artigiani d’eccellenza in Europa e e in altri Paesi extra-europei.

13 MESTIERI D’ARTE & DESIGN
Maria Giovanna Marchello

craftsmanship

Explore
near you
Want to discover the best craftsmanship across Europe and beyond? Explore over 47 countries of craft on the Homo Faber Guide Curated by homofaber.com
Signe Emdal ©Kristine Funch

c ato

l a pietra

Siamo tutti consapevoli dell’eccezionalità del nostro territorio italiano, un grande territorio artisticamente fertile e fatto di un patrimonio sedimentato nei secoli, ma sappiamo anche quanto questo patrimonio sia spesso fragile.

Raritas: dove trovare l’eccellenza

Un territorio che non è mai stato ben definito e valorizzato rispetto alle due aree confinanti: l’arte e il design. Negli anni, infatti, si è andata consolidando la disciplina artistica, con il riconoscimento delle Accademie (ormai equiparate alle Università) e con la crescita del sistema museale; anche il design ha avuto una sempre più ampia valorizzazione come disciplina autonoma, soprattutto attraverso la crescita di scuole specialistiche e Università. Al contrario il territorio dell’artigianato artistico negli stessi anni ha perso le ultime scuole (gli Istituti d’arte) e anche una grande fascia di committenza, quella riferita all’arredo domestico, tema di interesse sempre minore per le nuove generazioni.

Rimangono “sacche” di esperienze ancora vitali nei territori legati alla tradizione, finalizzate a un mercato turistico, ma che propongono pur sempre ripetizioni di stereotipi ormai consumati nel tempo: è la grande proliferazione del sotto-artigianato artistico, fatto di tante, troppe esperienze ridotte a oggetti da bancarella o da fiere locali. Un tempo, entrando nelle botteghe, si potevano notare i tanti disegni lasciati dal Professore di Ornato, dall’Architetto e dal Decoratore, che alimentavano la cultura del fare coltivata e tramandata con grande impegno ma ora, all’interno di questo panorama impoverito, le esperienze vitali sono sempre più rare e assistiamo al lento e progressivo abbandono della pratica dell’artigianato artistico. Questi sono i grandi temi che affliggono questo settore, che può sembrare ormai del tutto confinato alla memoria nostalgica dei tempi passati.

Comunque ci sono ancora diverse occasioni di lavoro che rappresentano per quest’area disciplinare esperienze di eccellenza. Nel tempo molte opere si sono accumulate: dagli edifici storici (chiese e palazzi), alle sculture, alle pitture e agli affreschi, alle architetture e decorazioni degli interni…

Tutte queste opere, per essere mantenute hanno bisogno di maestranze (artigiani artisti) altamente specializzate. Maestranze che con il loro impegno (attraverso le varie commesse istituzionali e non) continuano a mantenere in vita la grande tradizione del nostro artigianato artistico. Sono quindi tanti i nostri bravi artefici a cui manca purtroppo lo stimolo per una progettualità contemporanea. Progettualità che invece si manifesta, in una sorta di continuità che si rinnova di anno in anno, nel settore della “moda di lusso”. È da questi due settori, ancora vitali, da cui dobbiamo partire per far crescere quella eccellenza che ci accompagna e che fa sì che l’Italia sia ancora portatrice di valori artistico-artigianali. Per fare questo occorre che le Istituzioni (mancando i musei attivi, il mercato legato alle gallerie di settore, il collezionismo diffuso…) si attivino per garantire lo sviluppo di queste eccellenze.

Basterebbe ripristinare alcune leggi, come la “Legge del 2%” per l’arte negli spazi pubblici che garantiva, per ogni costruzione architettonica, un finanziamento per opere artistiche a completamento del progetto (legge ora notevolmente ridimensionata); oppure riuscire ad aprire un mercato (per progettisti e artigiani) di alto livello per il merchandising museale, o ancora partecipare alla costruzione di “società di servizi” (regionali) capaci di dare qualità in termini di progetto, comunicazione e vendita, ai più meritevoli artigiani, facendoli crescere attraverso una struttura in grado di fornire cultura del progetto e strumenti imprenditoriali.Tutte queste iniziative, se attivate, potranno senza dubbio far crescere un artigianato artistico più diffuso sul nostro territorio, più consapevole della propria qualità e delle proprie potenzialità, uscendo così da quel fenomeno di “eccellenza rara” che lo caratterizza. •

16 OPINIONI
FATTO AD ARTE certifi
da ugo

La Fondazione Cologni promuove una mappatura dei mestieri d’arte italiani più rari. Un eccezionale viaggio alla scoperta delle origini e delle caratteristiche di saperi artigianali unici, profondamente radicati nel territorio, dei Maestri e delle loro storie, affinché non si perdano.

Alla ricerca delle eccellenze rare

Mi sono mossa per l’intero anno 2023, da gennaio a dicembre, sul territorio nazionale, regione dopo regione, con l’obiettivo di scoprire e poi mappare coloro che vivono di artigianato d’eccellenza e raccontano saperi artigianali rari e probabilmente in sparizione. Grazie alla ricerca ho riconosciuto una splendida Italia, che conserva, anche nelle sue province, grandi eccellenze. Gemme nascoste e non note, o meglio conosciute solo in zona o, paradosso, all’estero, ma non nel resto del Bel Paese. L’indagine è nata per volontà della Fondazione Cologni che da molti anni si batte per la valorizzazione e trasmissione dell’artigianato d’eccellenza e della sua mirabile bellezza. Una visione lungimirante e di conoscenza. Mappare i saperi artigianali rari e in via di sparizione ha il nobile fine di evitare, se possibile, la loro estinzione o semplicemente di estrarli dall’oblio, dando loro voce. Un’urgenza che purtroppo a pochi pare tale. Una doverosa ricerca sul campo. Bottega dopo bottega.

La Fondazione Cologni, per voce del suo direttore generale Alberto Cavalli, ha voluto intraprendere tale percorso sulla falsa riga del ciclopico lavoro svolto, dal 2014 ad oggi, nel Regno Unito dal Presidente di Heritage Crafts, l’ex principe di Galles e attuale re, per costituire, attraverso un gruppo di lavoro, una Red List of Endangered Crafts, ossia una lista rossa dell’artigianato in pericolo di estinzione, con l’obiettivo di creare un elenco completo dell’artigianato storico e tradizionale. Le sue parole sono illuminanti: «We would like to see the government recognise the importance of traditional craft skills as part of our cultural heritage, and take action to ensure they are passed on to the next generation.»

All’interno del magmatico mondo dei saperi artigianali l’individuazione di una rarità o del pericolo di una sua eventuale sparizione è indagine complessa, che necessita di competenze trasversali. L’artigianato che ci viene proposto, tra bancarelle, fiere e web, è spesso lontano dai “canoni base” dei saperi eccellenti da salvaguardare. L’attenzione si poteva, allora, rivolgere sui patrimoni che rappresentano l’eccellenza dell’artigianato italiano, sui grandi maestri già in buona parte conosciuti. Ma anche questa non è sembrata la via utile alla mappatura.

Nella categoria “Artigianato raro o a rischio di sparizione” abbiamo deciso di far rientrare solo i mestieri tradizionali d’eccellenza, praticati da più generazioni oppure appresi dopo una formazione presso un anziano maestro e caratterizzati non solo dalla grande abilità manuale, ma anche dalla conoscenza dei materiali, delle forme e delle tecniche tradizionali, che a causa di trasformazioni sociali, culturali e di mercato si stanno perdendo. Sono mestieri storicamente e culturalmente riconosciuti in un’area territoriale precisa (regioni, province, comuni), che raccontano le tradizioni di comunità identitarie. Sono mestieri che diventano “a rischio di sparizione” quando gli artigiani che li praticano sono gli ultimi detentori del sapere e non riescono a trasmettere l’abilità artigianale alle nuove generazioni, oppure sono un numero esiguo nel territorio di riferimento. Spesso non li conosciamo.

L’individuazione delle botteghe appartenenti alla categoria delle raritas prevede uno studio composito. Innanzitutto, la conoscenza della storia dell’artigianato locale di ogni regione, poi la pratica sul campo (metodo di analisi proprio dell’antropologia) e infine la schedatura dei beni demoetnoantropologici

certifi c ato da Nurye D onatoni 18 OPINIONI PENSIERO STORICO

(materiali e immateriali). Senza scomodare l’illustre antropologo strutturalista Malinowski, che per primo evidenziò l’importanza dell’indagine diretta sul campo della specificità di ogni cultura, ho ritenuto fondamentale stabilire un metodo di analisi basato su un unico osservatore. L’osservazione partecipante. Come evidenzia un altro antropologo, Mondher Kilani, «la presenza sul campo è anche un’esperienza personale, una situazione di interazione dinamica – un dialogo continuo fra l’interprete e l’interpretato – e un processo di conoscenza che fa intervenire problemi e livelli differenti di risoluzione di essi.»

Al fine di fissare i dati raccolti nell’inchiesta e ottenere un metodo reiterabile nel tempo, è stato necessario immergersi in un altro ambito, quello dell’analisi catalografica con la creazione di uno strumento, la “scheda inventariale tipo”, che schematizzasse i campi identificativi essenziali, elaborata semplificando le schede di catalogazione ministeriali dell’ICCD (Istituto Centrale per il catalogo e la documentazione) utilizzate per la rilevazione dei beni culturali. Per svolgere un’analisi esaustiva sulle diverse e peculiari capacità artigianali presenti in ogni regione, è stato basilare uno studio delle fonti storiche. La comprensione delle specificità dei manufatti prodotti nel mondo agro-pastorale italiano nei primi trent’anni del Novecento è la base per capire la cultura materiale e immateriale di una determinata area. Al riguardo è stata utile la riscoperta delle prime grandi mostre etnografiche di “arte popolare”, che permettono un’immersione nei manufatti artigianali eccellenti, raccolti ed estratti dalla civiltà agropastorale e dal quotidiano, per osservarli in virtù della loro bellezza e della “narrazione” culturale. L’inizio dell’interesse risale alla fine dell’Ottocento con la prima mostra allestita a Palermo da Giuseppe Pitrè, seguita poi dalla prima grande “Mostra di Etnografia Italiana” nel 1911, curata da Lamberto Loria, con l’acquisizione di materiali provenienti da tutte le regioni, manufatti in grado di raccontare gli usi e i costumi popolari. Scriveva Luigi Pigorini, nel lontano 1881, che «è necessario comprendere ciò che hanno tuttora di speciale le nostre popolazioni campagnole nelle industrie, negli utensili ed ornamenti, nelle fogge degli abiti.» Infine, il volume “Arte popolare italiana” di Paolo Toschi, del 1960, è stato un testo fondamentale, una bussola per la mia ricerca. Regione dopo regione ho studiato le “storiche” eccellenze regionali e da questo elenco sono partita per scoprire se, dopo sessant’anni, esistessero ancora le maestranze in grado di realizzare e raccontare quei saperi.

Ho indagato sul web, ho parlato con esperti del settore e sono partita. L’indagine ha previsto l’incontro da quattro a dieci artigiani per regione, previa analisi delle province prescelte per le loro caratteristiche. In regioni molto grandi è stato necessario fare scelte analitiche legate all’identità della comunità e ai saperi artigianali di tradizione. Ho svolto il sopralluogo presso i laboratori artigiani effettuando un’intervista (strutturata o semi strutturata). Oltre a ciò ho realizzato una piccola documentazione fotografica. Rientrata alla “base” ho compilato le schede: tre maestri artigiani per venti regioni, un totale di ottantasette artigiani intervistati e sessanta schede. La ricerca è stata rivolta, sempre e solo, alle botteghe attive, quelle che, seppur nella tradizione, affrontano il mercato contemporaneo e vivono grazie al loro lavoro. Spesso sono piccole aziende a conduzione famigliare che si tramandano di padre in figlio il mestiere. Hanno grandi richieste dagli acquirenti, facoltosi, molto spesso stranieri, in grado di apprezzare la loro produzione e l’eccellente qualità.

I saperi artigianali significativi, profondamente radicati nel territorio, raccontati da Toschi nel lontano 1960, generazione dopo generazione esistono ancora e negli articoli che compongono questo magazine potrete conoscere le loro peculiarità e apprezzare la maestria di alcuni dei loro interpreti. Le eccellenze rare finora mappate, seppure a macchia di leopardo, sono l’inizio di un sentiero ancora da scoprire, con un lavoro di investigazione e approfondimento che potrei fare per anni, e ci dicono che è possibile, citando ancora Kilano, una sintesi fra il passato e il presente, una nuova forma di modernità che concili le esigenze economiche e sociali con le nuove aspirazioni e l’equilibrio ecologico. •

19 MESTIERI D’ARTE & DESIGN OPINIONI

Album

Andrea De Simeis Cubiarte

Via Roma, 71

Caprarica di Lecce (LE)

Tel. 346 5232827 www.cubiarte.it

La ricerca inesauribile della perfezione ha portato Andrea De Simeis, appassionato di stampa e di incisione, a sperimentare tutti i metodi più antichi e geograficamente lontani per fabbricare la carta. «Ho studiato a Lecce, Urbino e Firenze specializzandomi nella stampa. Poi ho iniziato la ricerca della carta migliore, il supporto essenziale per la stampa e l’incisione: alla fine ho preso la decisione di fabbricarla da me.» E qui è cominciato il suo viaggio, che lo ha portato allo studio non solo delle famose carte di Fabriano e di Amalfi ma anche della carta giapponese Washi. «Ho fatto delle comparazioni tra le essenze orientali e quelle del bacino del Mediterraneo per scoprire che ci sono tante similitudini tra le piante. Per esempio, il fico è sorprendentemente affine come composizione morfologica al gelso cinese. Io ho la fortuna di possedere un giardino e questo mi consente di avere tutte le risorse necessarie per realizzare la carta. Nulla viene buttato durante il processo di fabbricazione, nemmeno la cenere: sono un sostenitore dell’economia circolare.» Sempre spinto dalla

ricerca del sapere, Andrea è andato in Giappone da uno dei Maestri chiamati “Tesori Viventi”: qui la sua tecnica è diventata talmente perfetta da essere stato insignito del premio per la migliore carta prodotta fuori dal Giappone.

Nel laboratorio di De Simeis ci sono tanti strumenti di lavoro in legno, da lui fabbricati a mano. C’è un vecchio torchio a stella, una pressa per schiacciare i fogli, delle vasche, una rastrelliera per l’asciugatura. «I miei clienti sono artisti, architetti, proprietari di grandi marchi con i quali studio dei packaging speciali per celebrare eventi o lanciare un prodotto.» Tra le invenzioni recenti di questo Maestro d’arte c’è una curiosità meccanica progettata e realizzata insieme a un team di architetti e musicisti. Si chiama Totentanz ed è una macchina di legno, montata su ruote, che produce musica ruotando come un carillon ed emettendo fogli. «Girando una manovella suona il Dies Irae e muove tre cilindri con diciotto illustrazioni che sono state stampate al torchio. Le immagini di questo carosello si ispirano alle più celebri danze macabre europee,» spiega De Simeis. «La boîte à musique, alla fine del suo motivo musicale, sorteggia un fascicolo per il suo manovratore: una plaquette illustrata con un breve dialogo, una massima, un aforisma, una poesia, scritti da autori che hanno accolto l’invito a “raccontare” le illustrazioni,» conclude Andrea.

Fratelli Castagnari

Via Risorgimento, 77 Recanati (MC) Tel. 071 7574294 www.castagnari.com

Il loro laboratorio è stato paragonato alla caverna di Alì Babà. In effetti, la bottega dei fratelli Castagnari, nel cuore di Recanati, è un luogo magico che si snoda tra sale e salette, tavoli e scaffali, un’infinità di attrezzi del mestiere, molti dei quali ereditati dal nonno o realizzati dagli stessi fratelli artigiani. È qui che avvengono le molteplici operazioni che servono a creare i loro straordinari organetti. «Un modello-studio basico è composto da ben 1756 pezzi: ci vogliono circa 28 giorni per costruirne uno,» confida Massimo Castagnari, che insieme ai fratelli Sergio e Corrado, ai cugini Fabio e Sandro, nonché alle rispettive mogli e ai nipoti, costruisce questi strumenti musicali famosi nel mondo. Tra i loro clienti, musicisti di fama internazionale, tra cui Sting e i Negramaro.

«La nostra bottega è stata aperta da nonno Jà, ovvero Giacomo, nel 1914. Da allora sia i suoi figli, Bruno e Mario, sia noi nipoti e bisnipoti, siamo stati contagiati dalla sua passione: attualmente in laboratorio siamo in 18, tutti di famiglia.»

I loro aerofoni meccanici a mantice sono mossi da tasti tradizionali in legno, con asta in ferro, oppure da

tasti moderni in alluminio, ottone, e teflon. Per costruire un tasto occorrono 28 operazioni: con pinze, lime, trapani, pialle, seghetti a mano, levigatrici, danno forma a ogni parte dei loro organetti. Le griglie, poi, sono vere e proprie sculture, una diversa dall’altra, personalizzate. «Le fisarmoniche diatoniche, comunemente conosciute come organetti, sono strumenti musicali in cui il suono è generato da un flusso d’aria che fa vibrare le ance, sottili linguette di metallo, generando il suono. Ogni tastiera aziona infatti una serie di valvole che consentono il passaggio dell’aria attraverso le ance. L’afflusso dell’aria avviene attraverso un mantice di cartone rivestito di stoffa o di pelle che collega le due casse: la tastiera della mano destra e quella della mano sinistra. Il numero dei tasti può variare da 12 a 33, secondo la complessità dello strumento,» spiega Massimo.

Ma oltre alle straordinarie capacità creative di questa grande famiglia di maestri artigiani, va menzionato il loro grande amore verso il mestiere. «Noi tutti ricerchiamo la perfezione del suono perché questo ci dà gioia: è questo il comun denominatore che ci lega ai nostri clienti musicisti.»

Celestino Tessuti d’Arte

Via Monaci, 14

Longobucco (CS)

Tel. 0983 71048

www.mariocelestino.it

Nel cuore della Sila c’è una tessitura d’arte che da tre generazioni porta avanti un’antica e rara lavorazione per la quale la Calabria era famosa. Ad aprire il laboratorio negli anni Trenta del secolo scorso è stato Eugenio Celestino, un maestro artigiano che ha saputo recuperare le antiche tradizioni del territorio e promuoverle attraverso esposizioni e mostre mercato, per farle conoscere, giungendo a servire la Casa Reale e importanti firme dell’alta moda.

Oggi a continuare questa rara attività artigianale sono il figlio Mario con la moglie Gina e i nipoti, Eugenio e Barbara, terza generazione del prezioso laboratorio.

«La nostra lavorazione ha una tradizione molto antica e molto particolare,» racconta Gina Celestino. «Qui a Longobucco abbiamo trovato dei tessuti che

risalgono all’Ottocento e insieme ad altri più recenti li abbiamo esposti nel museo che abbiamo creato una decina di anni fa: per non disperdere questo patrimonio che aveva reso famosa la nostra Regione. In paese tutte le donne avevano un telaio e le ragazze si confezionavano il corredo in casa. La differenza della nostra lavorazione rispetto ad altre tecniche di tessitura consiste nel decorare a mano la tela mentre viene tessuta a telaio. Una tecnica antica che richiede grande abilità. I motivi decorativi possono essere geometrici, oppure floreali, o ancora antropomorfi: bambini stilizzati che si tengono per mano, cervi, colombe. Il cervo in gabbia è uno dei disegni più antichi,» spiega, lei che ne ha realizzati tanti. «Anche il “punto del giudice” è uno dei più complessi perché raffigura l’albero della vita, la bilancia della giustizia, le colombe della pace, l’abbondanza delle messi. Sui nostri telai si possono decorare le tele con due diverse tecniche: con il punto piatto oppure a rilievo.»

In laboratorio ci sono 8 telai tradizionali con 4 licci e tutta l’attrezzatura: orditoio, canne, arcolaio. I Celestino tengono anche corsi di scuola-lavoro, per trasmettere l’antico sapere. Realizzano arazzi, coperte, tende, copriletti, asciugamani, tovaglie, sciarpe, biancheria, anche su ordinazione. «Per l’ordito utilizziamo il cotone, mentre per la trama la seta, la lana, il lino, un tempo anche la ginestra. Quando negli anni Trenta vigeva l’autarchia, Eugenio Celestino aveva coltivato le ginestre e realizzava bellissimi capi col filo che ne ricavava,» confida la signora Celestino. «Nel museo conserviamo un tessuto realizzato con filo di ginestra il cui ricamo riporta i versi della celebre poesia di Leopardi, La ginestra.»

Fabio Comelli

Via Taipana, 21

Torlano di Nimis (UD)

Tel. 347 4329733

www.metalcomelli.it

Un’officina delle meraviglie: è quella di Fabio Comelli, figlio d’arte, che dopo aver frequentato la Scuola d’Arte e Mestieri del gioiello a Vicenza e approfondito con corsi di specializzazione i segreti del metallo, ha deciso di tornare nella sua città di origine e riaprire il laboratorio del padre Ivano, noto per le sue abilità di forgiatore. «Mio padre nel 1982 aveva trasformato il vecchio mestiere di calderaio con genialità, realizzando arredamenti. Non più solo pentole e cappe da cucina, ma anche mobili da interno e da esterno,» racconta Fabio. «Aveva seguito la scuola di sbalzo, cesello e doratura a Venezia e si adoperò molto per restaurare le chiese e i campanili danneggiati in seguito al terremoto del Friuli. Io, dopo un periodo trascorso alla Scuola del gioiello di Vicenza, ho deciso di unire le conoscenze apprese nel mondo dell’oreficeria con il mestiere di fabbro. In bottega ho una quantità di strumenti manuali, alcuni appartenuti a mio nonno: circa 300 martelli di diverso peso e dimensioni, ognuno con i ceselli per plasmare il rame e l’ottone, e poi presse, taglierine,

piegatrici. Ho ancora il vecchio maglio in fucina.»

Fabio Comelli è anche noto per l’abilità nello sbalzo, cioè l’incisione a rilievo di una sottile lamina metallica di figure, forme, motivi decorativi, ottenuta premendo le superfici con strumenti a punta viva o arrotondata.

«Realizzo su ordinazione tavoli, vasi e lampade, insegne, complementi per le navi, lavorando il ferro, il rame, l’ottone, l’acciaio. Una delle opere che ricordo con maggiore soddisfazione è la statua realizzata nel 2018 per la Moto Guzzi a Mandello del Lario: una moto rivisitata in acciaio inossidabile, molto impegnativa per la difficoltà nel plasmare questo materiale.»

Ma Fabio Comelli è anche famoso per il restauro. «Ho restaurato l’Angelo del Castello di Udine, una statua segnavento di 5 metri datata 1777, in rame con il telaio portante in ferro. Abbiamo dovuto sostituire le parti interne danneggiate ricostruendole in acciaio. E poi rivestire la superficie con la doratura in foglia d’oro come era in origine. È stato un lavoro impegnativo e appassionante, anche emotivamente, perché lavoravo a 40 metri di altezza su un’impalcatura creata ad hoc,» confessa lo straordinario maestro artigiano che, per la competenza e l’abilità, viene spesso chiamato dalle Soprintendenze per gli interventi più delicati di ripristino.

Solaria Opere

Piazzetta San Bernardo, 4 Saluzzo (CN) Tel. 335 337189 www.solariaopere.eu

Fabio Garnero è un dinamico architetto che, affascinato dai quadranti solari, ha deciso di dedicare tutta la sua energia allo studio e alla realizzazione di questi meravigliosi misuratori del tempo, diventando uno dei maggiori esperti di questa rara specialità. Figlio d’arte (il padre scultore), il colpo di fulmine l’ha avuto all’università. «Stavo preparando un esame e dovevo fare uno studio per catalogare i colori delle meridiane,» racconta. «Rimasi talmente colpito dalla gnomonica che iniziai ad approfondire questa disciplina antica fino a esserne totalmente assorbito. Così decisi di aprire una società, Solaria Opere, e di costruire intorno alla gnomonica la mia attività lavorativa. Una decisione azzardata che in alcuni momenti mi ha fatto temere di aver sbagliato strada. Per fortuna nel tempo si è rivelata una scelta giusta.» Oggi non si contano i progetti da lui realizzati con diverse tecniche di lavorazione e materiali. Dai modelli pittorici di ispirazione antica fino alle sculture di modernissima concezione. «L’inizio in genere avviene nel mio studio, ovvero nel mio “antro”, tra schizzi, scarabocchi, proiezioni al computer che simulano il risultato

finale sulle facciate.»

Alcuni quadranti sono realizzati con lavorazioni moderne, a taglio laser, in marmo, legno, plexiglass, granito. Altre meridiane, in ceramica, le ha concepite in collaborazione con l’artista Michelangelo Tallone. Vere e proprie sculture con all’interno le meridiane. «Per i quadranti solari utilizzo pittura a calce e ai silicati, creando personalmente i colori con ossidi o paste coloranti. Non uso colori acrilici perché non hanno il rendimento desiderato. Mi sono anche divertito a realizzare degli emisferi concavi, prendendo a modello la prima meridiana emisferica, quella descritta nel III secolo a.C. dall’astronomo caldeo Berossus.» Oltre a realizzare meridiane ex novo, Garnero è anche uno stimato restauratore. «Uno dei lavori più entusiasmanti che mi siano capitati è stato il restauro della linea meridiana a camera oscura di Palazzo Reale a Torino, nel 2023. Una vera e propria sfida che ha comportato lo studio di tutto il sistema. Io ho restaurato il foro gnomonico che è in facciata, opera del 1650 circa, e che era stato quasi completamente alterato nel 1950, mentre la linea meridiana era stata distrutta e il pavimento originale coperto nell’Ottocento. Ora la linea meridiana è nuovamente funzionante, con grande soddisfazione di tutti quelli che hanno collaborato al ripristino della situazione originale.»

Fonderia Virgadamo

Piazza Roma, 1

Burgio (AG)

Tel. 0925 64088

Cell. 320 9071949

Quello di Luigi Cascio Mulé è un mestiere d’arte che richiede tante competenze: il disegno, la scultura, la manualità artigiana, l’accensione dei fuochi, l’analisi matematica, l’orecchio musicale per individuare le frequenze sonore. Un mondo davvero complesso.

«La nostra è l’unica fonderia di campane della Sicilia, una delle più importanti in Italia,» racconta Luigi, che ha appreso dal nonno e dallo zio i segreti di quest’arte antica. «La nostra bottega è stata fondata nel 1500 dai miei antenati Virgadamo, che l’hanno tramandata di padre in figlio fino ai nostri giorni. Quando l’ultimo erede diretto, mio zio Mario Virgadamo, è morto, ho deciso di continuare l’attività mettendo in pratica gli insegnamenti avuti frequentando questa fonderia storica.» Oltre alla pratica in bottega, Luigi ha arricchito le sue conoscenze con gli studi all’Accademia di Belle Arti di Palermo e con dei corsi di specializzazione all’estero sull’analisi delle frequenze sonore. «Per creare una campana,» spiega Luigi Cascio Mulé, «si parte dal disegno su carta calcolando le misure:

questa parte è importantissima perché da qui dipende il suono che si vorrà ottenere. Ci sono delle tabelle che enumerano il rapporto tra le note, il peso, il diametro che vanno rispettati. Dalla carta si passa al modello in legno che viene sagomato. Come per le statue, si realizza uno scheletro, il maschio, poi il negativo o falsa campana, infine la cappa, stendendo diversi strati di argilla e annegando il filo di ferro come un’armatura metallica. Si procede con la tecnica a cera persa, dando fuoco alla parte interna: la temperatura elevata permette l’essicazione delle forme e la fuoriuscita dell’umidità.» Continua Luigi: «Per versare il bronzo fuso negli stampi, si creano i canali di scolo con mattoni e argilla. I tempi di attesa di solidificazione variano da due a tre giorni a seconda della grandezza e dello spessore della campana. Una volta realizzata, per controllare la frequenza della nota musicale ci avvaliamo di un programma a computer messo a punto da uno scienziato americano. A volte si deve affinare l’accordatura, limando internamente il bronzo fino a raggiungere il suono voluto.»

Anche la parte esterna della campana richiede molta abilità e competenza per le decorazioni. «Noi apriamo la fonderia anche alle scolaresche: il nostro laboratorio diventa così centro di studi per le università e per le tesi degli studenti.» Conclude Luigi: «Il mio sogno è quello di realizzare un museo dove esporre il materiale di famiglia che racconti tanti secoli di attività: possiedo circa 70 campane antiche che vorrei mettere in mostra, insieme agli strumenti più significativi. Ho già trovato uno stabile: ora lo sto restaurando e spero di dare vita presto al mio progetto.»

Johann Zacher

Via Castello, 2

San Candido (BZ)

Tel. 0474 913535

www.haunold.info

Haunold, ovvero Monte Baranci, è la montagna che sovrasta San Candido. Una specie di nume tutelare che protegge gli abitanti del paese. «Per questo il mio bisnonno decise di accostare il nome della montagna al nostro cognome, nella denominazione della nostra azienda,» ci confida Christina Zacher. Giovane ed entusiasta, Christina continua insieme ai suoi fratelli l’attività della lavorazione del feltro iniziata dalla sua famiglia già nel 1560. Anche la sede della manifattura è quella di sempre: un antico palazzo nel cuore del paese che a piano terra, sotto le volte, ospita i prodotti realizzati. «Le fasi della lavorazione della lana sono rimaste quelle di un tempo,» ci racconta l’abile artigiana. «La lana viene dapprima sfioccata a mano nella manifattura. Quindi, con l’aiuto della cardatrice si pettina il tutto in un vello soffice che viene messo nello scuotitore. Qui, grazie all’uso dell’acqua, del calore e del vapore, il vello pressato in varie tappe viene trasformato nel cosiddetto pre-feltro. A questo punto, entra in scena lo storico follone a martello che, dal 1901, effettua la battitura e la sodatura della materia prima,

sino a dare vita a un prodotto unico: il feltro di lana Haunold, morbido e compatto.» Le loro pantofole sono famose per la lavorazione particolare: nascono da un cono di feltro che viene messo in acqua calda e poi messo in forma a mano. «Non ci sono cuciture: le nostre pantofole sono morbide, danno sostegno grazie alla suola rialzata, realizzata con fibre di lana sovrapposte e fissate con acqua e lana.»

Per rifornirsi della lana la famiglia Zacher collabora con tanti contadini della zona, proprietari di piccole greggi in Val Pusteria, Vallelunga e Val Senales, oppure con allevatori di pecore provenienti dalla Val Venosta che, dalla primavera all’autunno, pascolano sugli alpeggi. Oltre alle loro pantofole iconiche, gli Zacher realizzano vari accessori per la casa, tra cui sedute, cuscini, sacche per la legna, cesti di feltro per la tavola, sottopiatti, che oltre a essere esposti nello showroom della loro casa sono anche in vendita in vari negozi non solo in Italia ma anche all’estero. «Oltre a noi 6 fratelli, ci sono anche 15 nipoti di varie età che si stanno preparando per entrare nella manifattura di famiglia,» conclude Christina Zacher. Una garanzia perché la tradizione di questo raro mestiere non vada perduta.

Margherita Busio Costumenes

Via Alberto Lamarmora, 75 Nuoro

Tel. 388 6189707 www.costumenes.com

Margherita Busio è una straordinaria maestra artigiana che ha affinato nel tempo la capacità di riprodurre antichi ricami della sua terra, riscoprendo i decori che hanno caratterizzato l’abbigliamento sardo nei secoli passati. Già sua madre Mallena, negli anni Ottanta, aveva iniziato a recuperare e studiare i costumi del suo Paese, confezionandoli con abilità.

«Mia madre è rimasta vedova giovanissima con cinque figli e per aiutarci ha cominciato a intensificare il commercio di tessuti che avevano già i miei nonni. Lei era sarta e da lei ho appreso i primi rudimenti sartoriali. Però la mia passione era il ricamo. Ho imparato gli ornati e l’arte del ricamo da un’amica di mia madre, osservando e riproducendo i punti che vedevo fare a lei. Poi ho

voluto approfondire le tecniche e ho fatto una specie di “praticantato” da una nota ricamatrice di Oliena, un paese vicino a Nuoro che è da sempre un centro di eccellenza per il ricamo su seta.»

I suoi lavori sono riconoscibili per la ricchezza dei punti di ricamo che impreziosiscono di fiori multicolori, di spighe, di motivi geometrici gli scialli neri, gli abiti tradizionali di panno, lana, velluto, cotone o seta. «I tessuti, tutti di grande qualità, provengono da una fabbrica di Brescia che mia madre aveva rilevato,» continua a raccontare Margherita. «Spesso applichiamo pizzi e merletti per decorare un costume, oltre al ricamo. Io sono un’appassionata del macramé. Ogni zona della Sardegna, anche se dista pochi chilometri da un’altra, si distingue per il dialetto e per l’abbigliamento diverso. Anche le decorazioni e i ricami variano a seconda dei paesi. Io mi sono applicata nel recuperare tutte le tradizioni, per farle conoscere.» Nel suo laboratorio di Nuoro, coadiuvata da alcune esperte lavoranti, Margherita ricama gli scialli su telai di legno, o a cerchietto, con punto raso oppure punto pieno, praticando prima una imbastitura preliminare e ricoprendola poi con il filo di seta. A proposito delle diverse tradizioni sarde, Margherita ci confida che a Orgosolo si ricama sul ginocchio: «Da qui la diversità dei punti, meno tirati.» Nel suo laboratorio si confezionano anche costumi che ricordano i modelli spagnoli. Confida Margherita: «Il nostro lavoro è nato da una passione ma è diventato, forse, anche una missione: comunicare, divulgare, coltivare e trasmettere l’appartenenza a una cultura, attraverso gli abiti e i tessuti che rispettano le particolarità delle tradizioni delle varie zone dell’“Isola dei Sardi”.»

Piero Ricci

Via Petrarca, 9

Isernia

Tel. 335 386940

Ha rivoluzionato la costruzione della zampogna, introducendo una canna di grafite all’interno del legno, rendendone stabile il suono, aumentando il numero delle canne e ampliando da due a dodici le possibilità di accordi dello strumento, praticando nuovi fori e utilizzando la tecnica “a forchetta”. Parliamo del Maestro Piero Ricci, liutaio, compositore molisano doc, che dopo aver frequentato il Conservatorio per diplomarsi in flauto, ha seguito il richiamo della sua amata terra per studiare e costruire zampogne.

Un tavolone pieno di attrezzi da falegnameria, colle, pinze, sgorbie, un tavolo con dei computer e un diapason, poco più in là una tastiera, degli strumenti. Al piano inferiore un

tornio. Ogni parte dello strumento è da lui progettata, sperimentata, costruita con sapienza, abilità e tanta pazienza.

«Tutta la mia famiglia ha sempre suonato questo strumento e anch’io da bambino mi divertivo a produrre suoni, giocando. Poi mi sono reso conto dei suoi limiti e ho cercato di modificarne la costruzione per ampliare la gamma delle note e rendere più stabile l’accordatura,» racconta il maestro, che ha effettuato una vera e propria rivoluzione nel campo.

«La canna in grafite è l’anima della zampogna,» ci spiega.

«Difficile determinarne la conicità giusta, il diametro di entrata e quello di uscita. Le mie zampogne hanno canne di misure diverse, ognuna con fori e dimensioni studiati ad hoc, come pure le ance. Con le canne in grafite ho evitato che l’accordatura cambi a seconda della variazione naturale del legno, che comunque non deve essere tenero. Un tempo si suonava solo con l’accompagnamento della voce o della ciaramella, proprio per la difficoltà dell’intonazione con altri strumenti. Con la stabilizzazione del suono, ho superato questo inconveniente e ho reso possibile suonare la zampogna con altri strumenti.»

L’abilità e la maestria di Ricci nel campo musicale è riconosciuta sia in Italia che all’estero, tanto che è stato chiamato a suonare con orchestre di musica classica quali I Solisti Aquilani, l’Orchestra Scarlatti e la Princeton Orchestra.

E non solo: il maestro Riccardo Muti l’ha chiamato al Teatro alla Scala per suonare il suo strumento nell’opera Nina di Paisiello.

Attualmente Piero Ricci sta suonando con un’orchestra di mandolini, alla ricerca di nuove possibilità di armonie.

Selleria Le Cuir

Località Amérique, 40

Quart (AO)

Tel. 0165 765936

www.lecuir.it

Alle porte di Aosta c’è un laboratorio davvero inusuale: si chiama Le Cuir e il proprietario, Fabrizio Martini, si è specializzato nel realizzare collari per mucche. «Qui in Valle d’Aosta c’è un’antica tradizione che risale all’Ottocento, quando gli allevatori che portavano le mucche in alpeggio avevano necessità di distinguerle e ritrovarle col suono delle campane appese al collo. Da lì iniziò la produzione dei collari, decorati diversamente a seconda dei desideri dei proprietari. Ancora oggi vengono prodotti dei disegni particolari secondo le zone di provenienza: Savoia, Valle d’Aosta, Svizzera, Francia... Io ho realizzato anche dei collari molto fantasiosi per le elezioni delle mucche regine e per alcuni clienti americani di passaggio che volevano portarseli come ricordo negli USA!» Martini ha aperto il suo laboratorio artigianale nel 1979 e da allora ha confezionato una grande quantità di collari. «Il mio è un lavoro prevalentemente manuale: utilizzo

punteruoli, forbici, martelli, utensili a scalpello affilati sui due lati. Una volta deciso il disegno, procedo tracciando col compasso i bordi, poi imprimo dei tagli attraverso i quali faccio passare i laccetti colorati che formeranno il disegno. Le cuciture vengono realizzate a mano, così come l’inserimento delle borchie e dei punzoni. A volte dipingo il cuoio con disegni quali sagome di mucche oppure fiori, a seconda delle richieste. Molti collari mi vengono commissionati per decorare chalet e appartamenti di montagna,» spiega Martini, al quale l’estro non manca. Il suo è un lavoro creativo di abilità e pazienza. Infatti, dopo aver praticato i fori nel cuoio, Fabrizio infila i sottili laccetti di pelle colorata con diverse tecniche: incrociandoli a stella o a freccia, lasciando una coda di circa 5 centimetri, lavorando avanti e indietro in diagonale verso la tacca successiva, fissando poi i laccetti sul retro del collare. «Ultimamente l’Institut Agricole di Aosta mi ha proposto di tenere dei corsi pomeridiani di produzione di collari in cuoio per mucche per i ragazzi che frequentano la scuola. Perché questa antica tradizione propria del nostro territorio non vada perduta,» conclude Martini. Con Fabrizio, oltre a due dipendenti artigiani, collabora la moglie Erika Lenna, che gestisce il loro negozio nel centro di Aosta.

Selleria Rovo

Via San Lorenzo, 8

Fossa (AQ)

Tel. 0862 1966319

Cell. 348 7618235 www.selleriarovo.com

È un’eccellenza nel settore delle attrezzature per cavalli, grazie alle selle, ai finimenti, agli accessori lavorati a mano con una precisione e una cura davvero straordinari dai fratelli Rovo, proprietari della selleria aperta dal loro bisnonno alla fine dell’Ottocento e trasmessa poi di padre in figlio, fino ai nostri giorni. Racconta Paolo che con il fratello Giannettore continua la tradizione di famiglia: «Il nostro bisnonno iniziò a fabbricare corde con le quali riforniva i proprietari terrieri della zona, sia per creare recinzioni, sia per fare i gioghi per gli animali. Poi il nonno iniziò a realizzare le selle che divennero in breve famose per la loro perfezione artigiana. Nostro padre imparò da lui e da due suoi lavoranti (che provenivano dalla Selleria Regionale dell’Esercito) alcuni segreti: grazie a questa speciale lavorazione del cuoio divennero noti nell’ambiente e iniziarono a produrre ogni tipo di attrezzatura per i cavalli,» conclude Paolo. Appena si entra nell’ampio laboratorio dei fratelli Rovo si viene avvolti dal profumo della pelle mista a quello della colla e della cera. Tutto intorno alle pareti ci sono scaffali con rotoli di pelle e cuoio

di vari colori, ganci con appese briglie e cavezze di diverse misure, pettorali sottopancia, sacche, staffili delle staffe, tracolle e zaini. Sui tavoli da lavoro pinze, sgorbie, forbici, taglierini, gomitoli di corda, aghi, barattoli di colla e di cera, cinture. Nel centro del locale alcuni cavalletti sorreggono gli arcioni in attesa di essere rivestiti.

«Per realizzare una sella,» spiega Giannettore «si parte da una struttura in legno o in fibra chiamata “arcione”. Si prosegue realizzando il cuscino per la parte inferiore della sella che resta a contatto del cavallo. Noi lavoriamo esclusivamente il cuoio italiano che viene dalla Toscana ed è conciato al naturale senza additivi chimici.

Per realizzare la nocca, cioè il rialzo imbottito per l’appoggio delle gambe, cuciamo il cuoio a mano con due aghi, usando un filo cerato molto resistente. In laboratorio realizziamo anche le bardelle maremmane, delle selle molto comode senza la struttura rigida interna, che vengono usate dai butteri per controllare le mandrie. Sono costituite da una sacca inferiore imbottita di crine o di lana, e di una sacca superiore o cuscino. Nel tempo questa sella prende la forma del cavallo e del cavaliere ed è comodissima oltre che leggera.»

Tra selle da trekking, bardelle maremmane, selle tipo western con pomolo per avvolgere le corde, non c’è che l’imbarazzo della scelta: un vero eden a cinque stelle per ogni cavaliere.

Ventagli Camurati

Via Torino, 25 Cassano d’Adda (MI) www.ventaglicamurati.com

Chi non ricorda l’eleganza degli ambienti e degli abiti nello straordinario film di Luchino Visconti Il Gattopardo? Ebbene, parte degli accessori provenivano da un laboratorio specializzato in ventagli, il laboratorio artigianale di Eugenio Camurati, per gli amici “Genio”. «Quando ho iniziato a lavorare con mio suocero,» racconta Giuliana Dodi, attuale titolare dell’atelier, «ho capito che questo mestiere era un’arte a iniziare dalla scelta dei tessuti e dei materiali. Tessuti, pizzi, sete, tulle, taffetà, cotoni, ma anche piume multicolori. Mi ricordo ad esempio il ventaglio che abbiamo confezionato per una Traviata alla Staatsoper di Vienna realizzato con delle piume colorate nelle tonalità che andavano dal rosa al fucsia: un vero spettacolo! E dei ventagli costruiti per una sfilata di Dolce & Gabbana, di pizzo su legno. Molto scenografici. Accessori di grande femminilità che in passato venivano anche utilizzati per comunicare a distanza, a teatro e nei salotti... Un vero e proprio alfabeto segreto, fino alla fine dell’Ottocento.»

Nel laboratorio di Cassano d’Adda la lavorazione dei ventagli è interamente artigianale e i dettagli

sono curati con pazienza e impegno, trasformando ogni pezzo in un vero e proprio gioiello.

«La scelta del tessuto è fondamentale,» confida Giuliana Dodi, «perché deve essere non solo bello ma anche adattabile. Nella fase iniziale si lavora su un semicerchio, si appretta il tessuto a mano, poi lo si stira con grande cura per renderlo rigido. Si attacca eventualmente il pizzo, si segna, si mette nel forno a vapore per la plissettatura. Poi lo si ritaglia a misura, e lo si incolla al fusto di legno, stecca per stecca, con grande precisione. Ci vuole una grande manualità in ogni singola operazione, nello stendere la colla, nella “raspatura” che permette al tessuto di aderire bene al fusto, senza subire degli aloni, nella lavorazione su semicerchi.»

La talentuosa artigiana possiede un notevole numero di “giri”, delle speciali sagome ad arco di varie dimensioni che permettono di tagliare in modo corretto il tessuto. Sono parte dell’archivio della Camurati, e alcuni risalgono agli anni Cinquanta.

«Il nostro campionario è molto vasto,» conclude Giuliana, «e numerose sono le collaborazioni con il teatro, l’opera, il cinema, per non contare le sfilate dell’Alta Moda non solo in Italia ma anche all’estero. Oggi siamo la sola ditta in Italia a produrre ventagli e a esportarli in tanti Paesi,» ci confida con giustificato orgoglio.

© Dario Garofalo per Venezia su Misura

GENIO MEDITERRANEO Giovanni Ascione

Scatoline in tartaruga con piqué in oro, Giovanni Ascione, 1934-1939. Napoli, Museo Ascione. Foto di Emilio Pinto. di Alba Cappellieri

Una mostra antologica, un volume monografico, il racconto di un viaggio artistico ricco di suggestioni. Giovanni Ascione, eclettico interprete di eleganza e raffinatezza, fecondo creatore di preziosi gioielli e oggetti sacri in corallo, lascia in eredità un tesoro di rara bellezza da preservare.

QUI: Spilla in oro, corallo e perle, Giovanni Ascione, 1955. Monile realizzato come dono di nozze per sua moglie Maria Rosaria Irolli. Napoli, Museo Ascione.

PAGINA ACCANTO: Sautoir in corallo, copia di quello donato a Maria José di Savoia in occasione di una sua visita ai laboratori Ascione. Manifattura Ascione, 1934. Napoli, Museo Ascione. Entrambe le foto di Emilio Pinto.

Le gambe accavallate, il braccio stretto intorno al corpo esile e nervoso, lo sguardo chiaro e dritto oltre gli occhiali, la bocca serrata, a difesa di sorrisi rigorosamente privati. Il ritratto di Giovanni Ascione (1915-1994) che introduce il volume e la mostra monografica che il Museo Ascione, di per sé una raritas, gli ha dedicato, entrambi ben curati da Caterina Ascione, racconta molto di questo uomo singolare e ingegnoso, cui si devono importanti innovazioni nelle nobili arti del corallo e del sacro. Non un artigiano, con il tradizionale camice da lavoro, le mani operose e gli attrezzi del mestiere; questa è l’immagine di un artista che ricorda nella posa, negli abiti e finanche negli occhiali, il celebre ritratto coevo di Le Corbusier. Un uomo, dunque, che appartiene al suo tempo, di cui ha saputo interpretare le inquietudini e gli slanci nelle sue creazioni, senza per questo rinnegare le tradizioni millenarie della sua arte. «Nostro padre era un uomo molto riservato e semplice – ricorda Caterina Ascione – di poche parole ma dalle molte idee, era un uomo con un carisma d’artista e un’autorevolezza che non ammetteva repliche, soprattutto con noi figli. Eppure, nonostante il rigore della sua educazione ottocentesca, ci ha lasciato molto, sia dal punto di vista affettivo che da quello professionale. Ho imparato tanto semplicemente standogli accanto.»

Giovanni Ascione era il primogenito di Giuseppe e Caterina Mazza, e rappresenta la terza generazione di una famiglia che fin dal 1855 aveva avviato, a Torre del Greco, un’azienda fiorente per la trasformazione del corallo grezzo in prodotto

finito. Nelle orme del nonno, del padre e dello zio Carlo, fin da giovanissimo Giovanni Ascione era stato educato al lavoro e alla manifattura dei coralli, ma anche allo studio e alle arti. A 9 anni venne mandato a studiare all’Abbazia di Montecassino dove conobbe lo scultore Francesco Vignanelli, che lo introdusse alle avanguardie artistiche che in quegli anni infiammavano Parigi. Da questo apprendistato tornò con la rivelazione di un talento splendente nel disegno e nella progettazione, attitudini che sorpresero il padre e gli zii che, nel 1934, decisero di affidargli la progettazione delle loro creazioni. Fu chiaro fin da subito che Giovanni Ascione avrebbe lasciato il suo segno nell’azienda familiare, con l’originalità di gioielli depurati dalla persistente influenza neoclassica, come dimostrano i primi bozzetti per lavori in corallo, tartaruga e madreperla del 1931-1932 tra i quali ricordiamo il bozzetto di un bracciale dalle eleganti geometrie Deco con tubolari di corallo e losanghe in malachite. Il viaggio all’Esposizione Internazionale di Parigi dedicata alle “Arts et Techniques dans la Vie moderne” del 1937 fu rivelatore, con il celebre Guernica di Picasso (che Giovanni confessò di non amare) e con i gioielli meravigliosi delle Maisons di Place Vendôme, esposti insieme a quelli dell’Union des Artistes Modernes

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QUI: Isabelle, legno, feltro e cuoio naturale, 2012. L’inimitabile icona di Bottega Conticelli

“dondola” su una delle più recenti creazioni, il Baule dei sogni, realizzato per il resort Villa Passalacqua, sul lago di Como, nel 2022. Foto: Francesco Marano.

33 MESTIERI D’ARTE & DESIGN

(UAM), di Raymond Templier, René Herbst, Robert MalletStevens, Jean Puiforcat, Hélène Henry e Pierre Chareau. La Ville Lumière lo affascinò, e anche se la guerra arrestò i suoi progetti non frenò il suo entusiasmo creativo.

Prima da Cremona e poi dal Comando Sud delle Forze Armate di Sessa Aurunca, dove prestava servizio come interprete e traduttore, Giovanni inviò alla madre e alle sorelle disegni per ricamare i lini dei loro corredi e agli zii disegni di gioielli, scatole, trousse e una infinità di bozzetti e studi di animali e teste, forse destinati alla realizzazione di piccole sculture in corallo o per nuovi soggetti da incidere a cammeo sulla conchiglia. Finita la guerra, si ritrovò solo alla direzione dell’azienda, senza la guida e il supporto degli zii e fu allora che iniziò a concepire il gioiello in una nuova veste: nella sua relazione con la donna che lo avrebbe indossato, con la sua personalità, fino all’abito che avrebbe sfoggiato. Iniziarono così le collaborazioni con le case di moda per le quali creava gioielli preziosi o bigiotteria di pregio, appositamente ideata per le prime sfilate della moda italiana

che, grazie a Giovanni Battista Giorgini, muoveva i primi passi dopo la sfilata di Firenze del 1951.

«Sotto la sua guida la manifattura compì una salto qualitativo notevole,» afferma Caterina Ascione. «Sul piano organizzativo mio padre innovò la struttura aziendale razionalizzandone le funzioni, mentre sul piano della produzione si ricavò uno spazio personale che gli consentì di applicare le proprie doti di disegnatore e progettista.»

La sua attività progettuale spaziava dall’alta gioielleria, realizzata in pezzi unici, alla produzione di bijoux in argento o metallo con corallo, conchiglie e madreperla, all’oggettistica più preziosa, dagli arredi domestici agli arredi sacri, cui si dedicò con spirito pioneristico. Già nel 1939 aveva ideato il calice in argento dorato con malachite e corallo che Umberto II di Savoia, allora principe di Piemonte, donò al santuario della Madonna di Montevergine, seguito dalla importante pisside in avorio e argento dorato donata dal cardinale di Napoli

Alessio Ascalesi a papa Pio XII nel 1952. Da quel momento le commesse di arte sacra si moltiplicarono: ricordiamo la

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realizzazione della teca delle spoglie di San Gennaro nella cripta della cattedrale di Napoli, il reliquiario di San Paolo in argento, corallo, agate e smalti, custodito a Malta, quello di San Ciro a Portici, il razionale al museo dell’Abbazia di Montecassino, fino al trittico di mosaico di madreperla policroma della Madonna di Loreto con gli Angeli, alto due metri e trenta, per l’abside della cappella dell’Accademia Aeronautica di Pozzuoli del 1964. Nell’ultimo decennio della sua attività il suo stile ebbe una svolta insolita, sembrò tornare all’antico in una reinterpretazione eclettica delle forme del passato: dalle collane piatte e bidimensionali che ricordano l’antico Egitto, alla ripresa dell’oreficeria etrusca, fino alle fibule romane e alle stilizzazioni delle cornucopie di gusto rinascimentale. «Pur non potendo affermare che Giovanni Ascione abbia condiviso i principi del post-moderno che si andava affermando in quegli anni – chiarisce la curatrice – si può facilmente intuire come ne abbia respirato le condizioni culturali che lo avevano prodotto, ma ancora una volta riuscì ad elaborare un proprio linguaggio che restituisce alle sue produzioni il valore di unicità.» •

PAGINA ACCANTO: Negli storici laboratori della famiglia Ascione a Torre del Greco (Napoli) si sceglie con cura il corallo più adatto al tipo di lavorazione desiderata.

QUI: Tecnica dell’incisione a cammeo con il bulino su conchiglia sardonica. Entrambe le foto di Peter Elovich per “Una Scuola, un Lavoro. Percorsi di Eccellenza”.

35 MESTIERI D’ARTE & DESIGN
QUI: Pisside in oro, corallo e malachite. Manifattura Ascione, 1931. Dono di Umberto II di Savoia alla Deputazione della Real Cappella del Tesoro di San Gennaro. Napoli, Museo del Tesoro di San Gennaro. PAGINA ACCANTO: Cammeo su conchiglia sardonica. Manifattura Ascione, 1925. Incisore Antonio Mennella. Napoli, Museo Ascione. Entrambe le foto di Emilio Pinto.
37 MESTIERI D’ARTE & DESIGN

QUI: Specchio Nirvana

Elegance, realizzato per la mostra “Materia Eterea” (The Venice Glass Week 2019).

Cornice composta da ritagli di vetro sagomato, bombato e bisellato, successivamente inciso con ruota in diamante e pietra e con foglia d'oro graffita. Foto di Francesco Allegretto

PAGINA ACCANTO:

Specchio realizzato per l'azienda veneta Portego, su design di Nikolai Kotlarczyk.

L’eredità di una passione continua a vivere in un mestiere speciale. A Murano, la famiglia Barbini riflette l’anima dei propri antenati rinnovando la tradizione e realizzando raffinati specchi veneziani con tecniche cinquecentesche.

Specchio, specchio DELLE MIE BRAME

di Jean Blanchaert

Si potrebbe pensare che gli specchi siano strumenti al servizio della nostra immodestia. Non è però così, perché lo specchio, non soltanto riflette l’immagine della persona che gli passa davanti, ma ha in sé lo spirito di chi l’ha fatto. Lo spirito Barbini è composto da più strati: c’è la patina semplice e antica di settecento anni oro sono, ci sono le tecniche di ieri, oggi e domani e, a volte, c’è anche una superficie vitrea, levigata e sfarzosa, che fa entrare chi guarda nel mito di Narciso. In questo madrigale di Torquato Tasso (1544-1595), lo specchio non restituisce alla donna la sua immagine, ma l’effigie del mondo, intrisa dalla luce che lei emana: Donna, il bel vetro tondo che ti mostra le perle e gli ostri e gli ori, in cui tu di te stessa t’innamori, è l’effigie del mondo, ché quanto in lui riluce raggio ed imago è sol de la tua luce. In fondo, gli specchi Barbini sono degli psicanalisti: tirano fuori l’anima di ognuno. Vincenzo e Giovanni, eredi del fondatore Nicolò, hanno trasmesso ai loro figli Marco, Nicola,

Giovanna, Andrea, Pietro e Filippo, il desiderio di continuare il lavoro di famiglia nella bottega-laboratorio di Murano. Oggi si parla spesso di heritage, di retaggio culturale. I Barbini ne sono un esempio eclatante. Il laboratorio fa parte del loro DNA, è la loro casa, è la loro famiglia e questo, prima di essere un lavoro, è passione. Vanno in bottega animati non soltanto dal desiderio di non perdere un sapere tramandato da generazioni, ma anche dalla curiosità di vivere in prima persona, da protagonisti, tutti i cambiamenti che l’arte e il design propongono oggi, nel terzo millennio. I sei fratelli e cugini provengono da percorsi e studi diversi; tutti diplomati, qualcuno ha frequentato l’Accademia di Belle Arti, qualcuno si è laureato in filosofia e qualcun altro era idraulico.

Murano, come certe antichissime culture legate a un filo che dovrebbe spezzarsi da un momento all’altro, in realtà resiste. Un esempio recente è stato quello del grande aumento della bolletta del gas. Dopo aver chiuso temporaneamente per alcuni

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PAGINA ACCANTO: Superfici in vetro che compongo lo specchio realizzato per Portego.

QUI: in alto, montaggio di uno specchio presso il laboratorio creativo AAV Barbini. In basso, i fratelli Vincenzo e Giovanni Barbini, Maestri d’Arte e Mestiere, titolari dell’atelier di famiglia. Entrambe le foto di Francesco Allegretto.

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QUI: Sakura, specchio disegnato dal capostipite Nicolò Barbini, rivisitato in occasione di “Homo Faber 2022”. Le incisioni, realizzate a mano con ruota in pietra arenaria e i colori degli elementi vitrei tipici degli specchi veneziani, rappresentano il ciliegio, simbolo importante nella cultura giapponese. Foto di Simone Padovani per Michelangelo Foundation

PAGINA ACCANTO: Console, collezione Laguna, composta da ritagli in vetro a specchio sagomato, bisellato ed inciso. Foto di Francesco Allegretto

mesi, le fornaci hanno riaperto grazie al supporto finanziario della Regione Veneto che ha capito cosa sarebbero state Venezia e l’Italia senza vetro. Quando, nel settembre del 2019, si aggiudicarono il Premio Bonhams, alla terza edizione della

The Venice Glass Week, i Barbini si presentarono a ritirare l’attestato sul palco della grande sala di Palazzo Loredan, in otto persone, suscitando nel pubblico presente grande ammirazione e un fragoroso applauso.

La loro attività si muove fra tradizione e innovazione. Ecco, quindi, che possiamo trovare tecniche cinquecentesche in opere dalla forma assolutamente nuova e contemporanea. Alla Barbini, tutti i giorni si sperimenta, si cerca di andare al di là del muro del suono, rischiando anche rotture perché gli esperimenti non riescono mai al primo colpo. I Barbini si occupano di tutte le fasi della lavorazione dello specchio, dalla progettazione al taglio, dalla molatura all’incisione, dall’argentatura al montaggio.

Collaborare con la Barbini Specchi significa anche entrare nella loro grande famiglia. Con questo spirito, da diversi anni, hanno aperto le porte del loro laboratorio, offrendo la loro manualità ed esperienza ad artisti e designer di tutto il mondo, da Philippe Starck a India Mahdavi, da Martino Gamper a Bethan Laura Wood, da Victoria Wilmotte a Rio Kobayashi, da Omri Revesz a Quentin Vuong, da Chris Wolston a Lucia Massari, da Sara Forte a Serena Confalonieri. La più recente delle illustri collaborazioni è quella con Barnaba Fornasetti che ha saputo immaginare, tradotte in vetro a specchio inciso, alcune delle creazioni di suo padre Piero Fornasetti. In passato, durante il Rinascimento, “bottega” era lo studio di artisti e artigiani affermati, che lavoravano assistiti da aiuti e discepoli, parenti e non. Si andava “a bottega” per imparare. Negli anni Cinquanta del secolo scorso, Murano aveva ancora quattromila maestranze attive nel campo vetrario. Oggi sono

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quattrocento. Nella seconda metà del ventesimo secolo, i genitori muranesi cominciarono a incoraggiare i figli affinché intraprendessero una strada diversa da quella tradizionale: non più vetreria, ma un impiego sicuro, non ad alta usura e al riparo da rischi finanziari. Passate molte decadi, sono stati premiati “i rimasti”, quei figli che hanno creduto a oltranza nella tradizione e non hanno ascoltato il richiamo delle sirene impiegatizie e aziendali. Alcuni di loro, i grandi maestri vetrai d’oggi, sono proprio quei figli che non erano stati considerati idonei a fare il gran salto professionale fuori dall’isola. Oggi i migliori fra loro sono chiamati in tutto il mondo per mostrare la millenaria tecnica muranese a esterrefatti giovani studenti, colleghi e spettatori.

Mettere piede nell’atelier-bottega Barbini Specchi non è soltanto un’esperienza visiva unica nel suo genere, ma anche un’esperienza puramente sensoriale. Chiudendo gli occhi, si

sentono i clangori degli strumenti, l’odore del vetro, il profumo dell’argento e si ode un grande silenzio che tutto ovatta in favore della concentrazione. Otto persone si muovono con movimenti sincronici accompagnati da pochissime parole pronunciate in veneziano con cadenza muranese. I telefonini sono spenti, gli unici suoni sono quelli dei gesti. Proprio come nel Medioevo.

Questo desiderio di laboriosa pace arcaica si sta fortunatamente diffondendo in tante parti d’Italia. Un altro esempio di bottega rinascimentale contemporanea è quella della Fucina di Efesto, a Milano, dello scultore e maestro d’arte Alessandro Rametta. Anche qui, abilità manuale, estetiche filosofiche, design, architettura e arte si mescolano quotidianamente, forgiando idee in ferro, come se fossero pensieri. Fucina di Efesto e Barbini Specchi non si conoscono, ma è come se fossero fratelli. Anzi, sorelle. •

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Specchio Nirvana Elegance, motivo floreale, dettaglio con foglia d'oro graffita e argentato con una speciale tecnica. Foto di Francesco Allegretto. Specchio ottagonale Beroviero, collezione Amurianas. Cornice in rilievo, realizzata con lastre in vetro di Murano colorato, bisellato ed argentato. Foto di Francesco Allegretto

, collezione

Laguna: trumò in stile settecentesco che fa parte della produzione dei fratelli Barbini da sempre. Il mobile è interamente ricoperto da ritagli di specchio, leggermente antichizzato, bisellato e inciso. Anche l'interno è a specchio e le mensole in cristallo. Foto di Studio Pointer

Goldoni

Da una visione a un progetto a una missione. Patrizia Ramacci racchiude in un calco talento, sapienza e manualità. Raccogliendo le impronte delle mani di artisti e artigiani che creano oggetti destinati a durare nel tempo, realizza il sogno di renderli immortali.

In occasione della presentazione del progetto “L'Archivio delle Mani Maestre”, nel novembre 2022 a Gubbio, sono state esposte per la prima volta le mani dei maestri artigiani raccolte da Patrizia Ramacci, titolare della Bottega d’Arte Gypsea. Foto di Giampaolo Pauselli

A me le mani, PLEASE

di Andrea Tomasi

Le mani. Le sue le descrive come nervose, sempre in movimento, le dita lunghe, il palmo leggermente ingrossato dal tempo. «Di solito non sono particolarmente curate, ma per fortuna hanno pochi segni: qualche taglio, tracce delle bruciature della colla a caldo. A voler trovare un aggettivo le definirei dense, fatte per accarezzare oggetti e persone». E le mani sono il punto da cui Patrizia Ramacci, maestra eugubina dello stucco, inizia il suo racconto. Un inizio che coincide con una fine temporanea, l’ultimo progetto nato da un dolore personale e divenuto quasi una missione: racchiudere la memoria di grandi artigiani e artisti prendendo loro il calco delle mani, in un’ideale galleria di talento e sapienza dove ai volti si sostituiscono gli strumenti umani che trasformano un’idea in realtà. «In un mondo di non cose, in cui siamo bombardati di notizie e stimoli che durano frammenti per lasciare il posto a qualcosa di fintamente nuovo, mi è sembrato

necessario esaltare l’arte di coloro che creano oggetti destinati a restare, a essere usati e spostati nel tempo. L’idea mi è venuta grazie al ritrovamento del calco di una grottesca del Settecento nel quale erano impresse le impronte digitali degli artigiani che lo avevano realizzato: toccandole mi sembrava di percepire la loro presenza. Pian piano il progetto si è insinuato nella mia mente, ma è solo quando mio marito è morto all’improvviso che ho deciso di iniziare a raccogliere le mani dei grandi maestri affinché sopravvivessero a loro, cosa che purtroppo non ero riuscita a fare con lui. Nel giro di pochi anni ho dato vita a un archivio di circa un centinaio di mani che vanno dal più anziano maestro ceramista di Gubbio a Michelangelo Pistoletto, una sorta di totem laico della nostra comunità artigiana e artistica che ha saputo riunire intorno a sé diverse persone, tanto da dare vita a un’associazione per la promozione del sapere artigiano.»

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PAGINA ACCANTO: Le mani di Giancarlo e Daniele, padre e figlio, tornianti. I calchi in gesso dei due artigiani mostrano i segni lasciati nel tempo dalla riproduzione sapiente dei gesti.

Foto Archivio Gypsea

QUI: Per dare forma sferica ai monumenti della città di Gubbio, lo stucco viene adagiato in uno stampo curvo che segue la superficie della palla di vetro soffiato.

Foto di Federico Minelli

C’è un concetto chiave che accompagna e guida Patrizia in questo percorso: la rarità. La sua è divenuta quasi un’urgenza di identificare maestri avanti con gli anni, spesso senza eredi, e in qualche modo renderli immortali attraverso il calco delle loro mani, un oggetto dietro al quale si nasconde poi una storia da narrare: cento mani, cento storie. «Succede sempre quando i maestri immergono le mani nello stampo, quando la materia le abbraccia per fissarle: iniziano a chiacchierare e vengono fuori pezzi di vita incredibili. Come quelli delle tante madri, ormai diventate nonne o addirittura bisnonne, che decenni fa impararono un mestiere per portare a casa i soldi per far studiare i loro figli. Il mio sogno, che ho già cominciato a seminare, è che da queste mani, da questi racconti, possa nascere un giorno un museo dedicato al saper fare. Un museo in movimento dove si possa lavorare e tramandare, per fare sì che certe abilità, certe competenze, non vadano perdute».

Qui Patrizia torna indietro di 33 anni, quando giovane di belle speranze, fresca di diploma all’Istituto d’arte di Gubbio, decide di aprire una bottega assieme al fidanzato Vittorio –destinato a diventare poi suo marito – bottega che tuttora si chiama Gypsea, si trova davanti alla Fontana dei Matti e continua ad attrarre turisti ed esperti di tutto il mondo, punto di riferimento per gli stucchi d’arte, dai pannelli alle lampade, dalle cornici alla collezione Grand Tour di gemme e cammei. «Ero specializzata in restauro del legno, ma grazie a dei fondi della Comunità Europea potei partecipare a un corso di formazione in restauro dello stucco. Rimasi folgorata, una volta terminati gli studi feci il busto a Vittorio e da lì decisi di non tornare più indietro. Mi dovetti però scontrare con qualcosa di inatteso: sebbene l’Umbria fosse terra d’elezione per l’arte dello stucco, non vi erano più maestri viventi pronti a trasmettermi i trucchi del mestiere. Insomma, mi sono dovuta arrangiare

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per imparare e riportare in vita una tradizione largamente perduta. È per questa ragione che ho aderito con entusiasmo al progetto di Fondazione Cologni Una Scuola, un Lavoro: io e il mio gruppo di sorellanza, amiche e compagne che mi aiutano nel lavoro di tutti i giorni, siamo pronte a trasmettere a una giovane il nostro mestiere.»

Oltre a svelare e spiegare i tanti segreti dello stucco e del gesso, Patrizia condividerà anche una lezione di vita appresa in oltre trent’anni di carriera: «Bisogna saper gestire l’imprevisto, ricordandosi sempre che a tutto c’è una soluzione e che spesso, spessissimo, dalle situazioni inattese, complesse, nascono le intuizioni migliori. Faccio un esempio: anni fa, per ampliare la mia offerta natalizia, mi misi in testa di dipingere su delle palle di vetro soffiato delle vedute della mia città, qualcosa di artistico ma che esulava completamente dal mio

mestiere. Dopo ore di lavoro, ne ruppi due consecutivamente. Accantonato lo sconforto, presi il tutto come un segnale che dovevo tornare a fare il mio lavoro e così provai a unire al vetro il gesso. Quelle palle con le sagome dei palazzi di Gubbio e di altre città sono oggi i miei oggetti più venduti.»

Credere di più nel proprio istinto, dare spazio al proprio sesto senso, è lo stesso consiglio che la Patrizia di oggi darebbe alla Patrizia del 1991. «Per molto tempo mi sono sentita quella inadeguata, quella che doveva sempre dimostrare qualcosa. Poi ho capito che era solo una questione di pazienza, che il riconoscimento sarebbe arrivato assieme alla conoscenza. Quello che è davvero importante è restare onesti con se stessi, non tradire i propri valori e la propria creatività. Continuare a sognare sentendosi un po’ invincibili, come è giusto che sia quando si hanno vent’anni.» •

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PAGINA ACCANTO: La Sfera Intorno a Gubbio è un vero e proprio abbraccio architettonico, che riproduce fedelmente i luoghi più amati della città. Foto di Federico Minelli QUI: Nel suo laboratorio, Patrizia Ramacci ha ridato vita all'antica arte dello stucco, interpretandola con tecniche contemporanee Foto di Chris Ryan.

Fotografie

Dagli agrumeti al mare, tutti i colori della Sicilia

Una storia di “sicilianità”, di grande passione e di talento naturale. Sin da bambino, Salvo Sapienza dipinge i colori della sua terra. Dalla pittura sui carretti delle feste popolari, fino alle collaborazioni con note case di moda, l’entusiasmo di un creativo in continuo movimento.

Salvo Sapienza nella sua casa-bottega piena di colori e manufatti artistici: il maestro decoratore catanese è noto per le sue Cinquecento e Vespe dipinte con i disegni del carretto siciliano. Sullo sfondo, moto Ape 601 Piaggio Calessino

Visionari si nasce. Quella scintilla, quella curiosità, quel “genio” creativo sono doti innate. Così come il talento, che l’esercizio affina e porta ai vertici, sotto la guida di un maestro e grazie all’esperienza e all’attenzione per il mondo circostante. La scintilla anche il maestro Salvo Sapienza l’ha affinata nel tempo, sin da bambino, quando guardava curioso e ammirato il padre e il nonno preparare i magnifici carretti colorati, trainati dagli amatissimi cavalli bianchi, durante i matrimoni, le sagre, le molte feste popolari della sua fantastica isola. Il fanciullo era ammaliato dai colori vividi, dalle scene dipinte, dai pennacchi, dai suoni e dai rumori, da tutto quello che quel mezzo di trasporto antichissimo e ricco di storia trasmetteva. E soprattutto era rapito dalle storie meravigliose, raccontate a forti tinte nei magici carretti.

«A dieci anni ero già ammaliato, curiosavo nei magazzini di famiglia, mi perdevo a bocca aperta tra ruote, assi, manici… Una delle prime volte mi sono impadronito di una ruota e l’ho pitturata tutta di rosso! Fiero e felice sono andato a imparare

dai maestri di Aci Sant’Antonio, un piccolo paese in provincia di Catania, Domenico di Mauro e Antonio Zappalà, (due tra i più grandi maestri siciliani di pittura su carretto, n.d.r.) e da lì ho cominciato ad andare tutti i giorni in bottega per vederli lavorare, con il consenso e l’incoraggiamento di mio padre e di mia madre. Tornando a casa dipingevo sempre: una passione travolgente. E a ogni festa guardavo i carretti e ne ammiravo i dipinti. Erano le scene dell’opera dei Pupi, l’Orlando Furioso, le vite dei Santi, le battaglie di Napoleone, i Vespri Siciliani, o i gesti della tradizione e le atmosfere della vita quotidiana, i colori e i soggetti, soprattutto la frutta.»

Dalla frutta Salvo era particolarmente colpito perché il nonno aveva proprio un negozio di frutta e verdura, in centro a Catania, sotto casa. «A 22 anni mio nonno mi ha venduto l’attività, dove lavoravo da quando ne avevo 15, ma questo non mi ha mai distolto dalla mia passione: tutto il tempo libero lo impiegavo a dipingere, in bottega dai maestri o da solo.»

E non sono solo carretti, ma Ape Car, vespe Piaggio, Fiat 500,

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biciclette, caschi da moto e tutto quello che poteva risplendere dei colori vividi della sua Sicilia: l’arancio degli agrumeti, il rosso della lava vulcanica, l’azzurro del mare e del cielo, il giallo dei limoni, il verde dei giardini rigogliosi… Un’esplosione di allegria e di vivacità che presto non passerà inosservata. «Nel 2014 un amico di mio padre, che lavorava per Dolce & Gabbana, mi dice che i due stilisti cercano una Vespa decorata e mi convince a “farla” per loro. La vedono, piace e mi contattano.» Più volte in realtà perché il maestro non risponde ai numeri sconosciuti…. «Mi ha dovuto ricontattare l’amico di mio padre e poi finalmente ho sentito Domenico Dolce. Da lì è partita la nostra fantastica collaborazione. Con loro ho sfidato anche la paura e ho preso il mio primo aereo dopo i 40 anni! Non avevo mai lasciato in aereo la Sicilia. Ho girato tutta l’Italia, sono venuto a Milano, ho dipinto i grandi e piccoli elettrodomestici Smeg, ho decorato in diretta alle loro feste, ho realizzato gli sfondi per le loro sfilate. Insomma, un sodalizio importante, dove la sicilianità è un forte collante.»

QUI: Fiat 126 Moretti edizione limitata, anch’essa con l’iconico decoro che contraddistingue l’arte di Salvo Sapienza

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PAGINA ACCANTO: Vespa 50 Special decorata a tema carretto siciliano

Certo anche il vissuto comune è una forza: condividono storie di persone partite dalla Sicilia che “si sono fatte da sole”, con tanta tenacia e determinazione, talento e passione, spesso senza l’appoggio della famiglia.

Anche il maestro Sapienza ha realizzato il suo sogno: qualche anno fa ha venduto il negozio di frutta e verdura, dedicandosi solo e interamente alla sua passione. Dipinge e dipinge, e quando ha tempo libero accompagna i turisti con i suoi carretti, lasciandoli affascinati dal mezzo di trasporto unico. Così si può vederlo in giro per Taormina o per il centro storico di Catania, magari durante la Festa di Sant’Agata, patrona della città, la terza festa religiosa al mondo che prevede più di una settimana di eventi, e le sfilate delle Candelore, pesantissimi ceri dorati intagliati e dipinti a mano, portati a spalla dai devoti, che rappresentano le categorie dei commercianti. «Ovviamente ho completamente restaurato quella dei

fruttivendoli,» sottolinea orgoglioso Sapienza. «Fare della mia passione il mio lavoro è stato il più grande regalo della vita. Continuerò a dipingere perché è quello che mi rende felice, e spero che almeno uno dei miei due figli segua il mio esempio.»

Quello che ogni grande maestro artigiano sogna e si augura.

Nel frattempo il maestro ha creato un suo piccolo museo privato dove ha raccolto tutte le sue opere più belle e fantasiose: un piccolo regno di genialità, creatività e colore, all’insegna di una fantasia senza confini. Chissà che un giorno non lo apra al pubblico: sarebbe una gioia per gli occhi e per l’anima dei visitatori e una vera chicca per la città di Catania, che potrebbe mostrare con orgoglio la bellezza unica e irripetibile di quest’arte antica, così intimamente legata all’anima della Sicilia, che Salvo Sapienza ha portato ai più alti livelli di eccellenza e maestria.

Grazie a quella scintilla... •

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La collaborazione Smeg e Dolce & Gabbana ha presentato nel 2016 Frigoriferi d’Arte: le immagini dipinte su ciascun esemplare di frigorifero portano la firma di Salvatore Sapienza (a lato, con il pennello all’opera).

Limoni, trinacrie, la ruota del carretto, cavalieri medievali, scene di battaglie, tutti elementi caratteristici della poetica del teatro dei Pupi e del carretto siciliano.

Foto courtesy Dolce & Gabbana.

QUI: Grande statua di San Donato Vescovo e Martire. Alta oltre due metri, questa scultura in pietra leccese è stata realizzata nel 2024, nel laboratorio dei fratelli Magarito di Montesano Salentino (Lecce).

PAGINA ACCANTO: Prigioniero del sistema, opera in pietra leccese “nera”, particolare (in primo piano). Accanto, Utopia di libertà, in pietra biancone di Carovigno. Entrambe le sculture sono del 2020.

Patrimonio DI PIETRA

di Ugo La Pietra Fotografie di Simone Lucatelli

Estratta dal cuore del Salento, la pietra leccese è unica in Italia e rara nel mondo. Il Maestro Antonio Margarito ne sublima la malleabilità creando sculture, elementi decorativi e di arredo da giardino ispirati al Barocco tipico di questi luoghi. Un’arte antica che si rinnova.

Tutti ormai conoscono il valore della pietra leccese ma non tutti sanno che, ancora negli anni Ottanta, questo materiale che si cava nel territorio salentino veniva considerato solo un tufo di scarso valore, “buono” solo per le coperture delle case. Poi ci furono tanti bravi operatori (artisti, designer, animatori culturali) che iniziarono a far conoscere, soprattutto agli architetti, il valore di questa pietra che ha caratterizzato tutto il barocco leccese, e quindi da sempre è stata sotto gli occhi di tutti. Si trattava solo di riscoprire la sua qualità e la sua disponibilità alla lavorazione tridimensionale più sofisticata. Lo hanno sempre saputo bene alcune piccole e medie aziende del territorio, che si sono nel tempo formate guardando ai modelli autorevoli delle chiese e dei palazzi che hanno caratterizzato tutte le città del Salento, soprattutto tra il Cinquecento e il Seicento. Aziende che avevano facilità di approvvigionamento della materia prima grazie anche alle tante

cave a cielo aperto (soprattutto nel territorio intorno a Cursi), dove l’artista artigiano selezionava il “blocco” più adatto alla realizzazione dell’opera, scegliendo tra le varietà di pietra disponibili: quella molto chiara, color oro, più duttile e adatta per le decorazioni e i piccoli particolari raffinati, o la pietra grigia, molto più dura, destinata a lavorazioni più semplici e di struttura.

Il Salento, negli ultimi decenni, ha avuto una crescita esponenziale di turismo, al punto da venire definito “l’Ibiza italiana”. Questo fenomeno di massa ha fatto scoprire al grande pubblico non solo il territorio e le bellezze locali (le spiagge, la cucina, l’architettura, il paesaggio…) ma anche il grande patrimonio legato alla pietra: dai Dolmen ai Menhir, alla tomba delle Cento pietre, all’architettura barocca, fino alle architetture rurali sparse sul territorio. Questa rinnovata attenzione verso la pietra leccese è sfociata quindi in una

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passione per un materiale, che è stato sempre più utilizzato non solo per le grandi imprese edilizie sparse in tutto il mondo (e che ormai accedono sempre di più alle tante cave salentine), ma anche per realizzare oggetti e complementi di artigianato artistico locale.

Ed è proprio nel comune di Montesano Salentino che da molti anni l’azienda “Arte Scultura in Pietra Leccese” di Antonio Margarito lavora, e sta sempre di più impegnandosi per soddisfare le richieste di numerose committenze. È noto da tempo che molti turisti, dopo qualche visita in Salento in occasione della stagione balneare, iniziano a nutrire una vera passione verso i valori del territorio, soprattutto quelli legati a una certa architettura “spontanea”: dai trulli alle pagliare, fino alle grandi masserie. Le hanno comprate, sistemate e hanno cercato di completarle con opere di artigianato artistico: caminetti, consolle, fontane, arredi da esterno…

PAGINA ACCANTO: La bottega dei fratelli Margarito, con le tipiche volte a stella. Qui, seguendo una tradizione di famiglia, plasmano la materia Antonio (a sinistra) e Marcello

QUI: Altare maggiore nella Chiesa Madre di Miggiano (Lecce), particolare. La grande opera è stata realizzata nel 2014 assieme all’arredo completo del presbiterio

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QUI: Bellezza perduta, realizzata in pietra leccese “nera” nel 2022, particolare. La produzione Margarito annovera anche elementi decorativi e arredi da giardino: un rimando alla terra d’origine, il Salento, e al suo stile barocco (a lato).

PAGINA ACCANTO: Tradito, scultura realizzata in pietra leccese bianca nel 2021. L'abilità artigianale legata alla lavorazione della pietra leccese è stata tramandata da generazioni nella famiglia Margarito.

Una tipologia di oggetti che il laboratorio di Antonio Margarito, che gestisce con i propri fratelli più giovani Marcello e Pierpaolo, ha affrontato da tempo con la capacità e la passione verso quella che loro chiamano “arte scultorea”.

Sì, perché i fratelli Margarito si definiscono scultori: lavorano con gli strumenti essenziali di chi sa che la pietra leccese, per essere lavorata “a mano” ha bisogno di attrezzi simili a quelli del falegname.

Ma ciò che caratterizza l’azienda non è solo la passione, e non è solo la capacità di lavorare la pietra, ma è anche e soprattutto, da parte dei tre fratelli, la volontà di intervenire creativamente. Di fatto l’azienda può essere definita come azienda artistica che non solo porta con sé tutti i valori della cultura del fare, ma anche quelli del progetto. Naturalmente il progetto (per un’azienda che non realizza opere disegnate da architetti o

designer) nasce da un continuo confronto con la tradizione e con la storia che ha fatto conoscere nei secoli gli scultori/ scalpellini che hanno collaborato alle fabbriche di chiese e palazzi storici.

Una frequentazione con la storia da cui questi maestri traggono continuo alimento per la loro creatività, anche perché, proprio per la loro abilità, vengono spesso richieste le loro prestazioni artistiche nella lavorazione e nel restauro di palazzi storici.

Un’azienda, quella dei fratelli Margarito, ormai rara, che continua ad avere una sua logica produttiva proprio e grazie alla crescita del valore storico ambientale del Salento, aprendo così il loro lavoro non solo all’interno del territorio ma anche, grazie a un turismo stagionale che ha fatto conoscere la grande tradizione artistico artigianale salentina, in altri territori nazionali e internazionali. •

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Collana in argento con i “bottoni” caratteristici dei costumi della tradizione abruzzese e catena con cristalli. Il collier, con i bottoni dalle trame sottili, rappresenta un lavoro di reinterpretazione: il maestro orafo Eugenio Di Rienzo segue il canone dell’innovazione applicandolo alle forme tipiche dei bottoni (a destra, tra le mani, un ciondolo). Un lavoro di scomposizione formale legato a una ricerca molto curata.

Eugenio Di Rienzo MEMORIA E INNOVAZIONE

di Nurye Donatoni

Fotografie Archivio Premiato

Laboratorio Orafo Eugenio Di Rienzo

A Scanno, in Abruzzo, il tempo si è fermato nella storica bottega d’oreficeria della famiglia Di Rienzo. Un tuffo nel passato con Eugenio, erede di una lunga dinastia di Maestri, alla scoperta del significato autentico di un gioiello in filigrana che non conosce mode.

La ricerca sul campo è andare nei luoghi, conoscere le persone. Occuparsi di artigianato raro e in sparizione presuppone essere curiosi e immergersi nel cuore dei comuni più remoti, alla ricerca di coloro che narrano di memoria e vivono nell’oggi. Sono maestri artigiani che da generazioni perpetuano un saper fare. I loro sublimi manufatti irradiano i valori, l’estetica e l’identità di una comunità. Spesso li diffondono dai confini dei loro territori fino a terre lontane, dove gli stranieri comprendono la bellezza della loro produzione.

L’Abruzzo è una regione meravigliosa. Colline, mare e montagna. Montagna aspra, montagna del centro Italia, non sono le Alpi. Dalle vette, quasi lunari, si vede il mare. Emozione sconcertante.

Il mio obiettivo è il comune di Scanno, in provincia de L’Aquila, con la sua tradizionale gioielleria.

Alla guida da ore, mi inerpico nella Valle del Sagittario, circondata da un anfiteatro montuoso: Monte Genzana, Monte Argatone, La Terratta e il Monte Godi, una parte dei Monti Marsicani. Siamo nel Parco Nazionale d’Abruzzo, tra il Lazio e il Molise. La strada è stretta e tagliata nei monti, la vegetazione è folta e molto eterogenea con boschi misti. Vedo roverelle, noccioli, lecci, faggi, aceri montani, abeti rossi e pini neri. Una grande varietà di fiori colorati e rigogliose felci. La Valle si apre e a forma di cuore mi appare l’azzurro lago di Scanno. Eccomi arrivata in questo borgo meraviglioso, dove il tempo pare essersi fermato.

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PAGINA ACCANTO: Bulino e raschietto, strumenti di lavoro per incidere sull’argento. Il bulino è sagomato in base alle mani dell’artigiano. L’incisione sul raschietto è stata fatta da un antenato di Eugenio Di Rienzo circa duecento anni fa.

QUI: Eugenio Di Rienzo, quattordicesima generazione di orafi, mentre prepara un bozzetto del ciondolo con i bottoni abruzzesi (in apertura). Secondo la tradizione i bottoni prendevano il nome della donna per la quale venivano disegnati.

ACCANTO: L’operazione di fusione dell’argento, che avviene a 1.000 °C circa.

L’arte orafa a Scanno è profondamente radicata, pare risalga al Seicento ed era legata al costume storico. I gioielli scandivano la vita delle donne, venivano regalati per il corteggiamento, il fidanzamento, il matrimonio. Erano donati alla giovane futura sposa dal fidanzato o dalla madre di lui. Si trattava di pegni carichi di promesse, devozione, attesa e consacrazione. Venivano indossati non soltanto nei momenti importanti, ma nella vita di tutti i giorni. Il gioiello aveva un valore oltre che ornamentale anche apotropaico. Altamente scaramantici, gli scannesi scongiuravano il “condrammalucchie” per evitare malattie, malocchi e influssi maligni.

Incontro Eugenio Di Rienzo, un uomo energico e solare. Un maestro orafo con un gran sorriso e il desiderio di condividere

la passione di famiglia. Un uomo che ama la bellezza. La famiglia Di Rienzo è una famiglia storica di orafi locali, che produce gioielli sin dal 1850. Armando di Rienzo abbelliva le vesti delle donne del luogo, producendo gioielli tradizionali. Nel 1926 inventò, trasformando un fermaglio passa-filo, un nuovo ciondolo-spilla che donò alla sua sposa. Era l’Amorino, il gioiello simbolo della moderna tradizione orafa scannese, talmente famoso che vinse un premio a New York. Eugenio segue la strada del nonno, anche lui è un appassionato sperimentatore e creatore. Ha studiato all’Istituto d’arte sezione oreficeria a Sulmona, ha rubato con gli occhi al nonno e al papà. Fin dalla più tenera età, 5 anni, è stato in bottega. Guardava con entusiasmo i sapienti gesti del nonno, giocava e

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QUI: Eugenio Di Rienzo si dedica alla costruzione, e alla successiva incisione, dei bottoni per i suoi gioielli. PAGINA

si cimentava. Eugenio sapeva che sarebbe diventato un orafo. Vive nella sua bottega, adora creare i suoi gioielli e quando le sue esperte mani danno forma alla creatività perde la cognizione del tempo. Per non essere travolto dalla sua stessa passione prende la moto e viaggia. Amici e famiglia gli ricordano che il lavoro non può assorbire interamente la vita. Nella sua bottega, appena fuori dal centro storico di Scanno, vi sono attrezzature tradizionali ereditate dalla famiglia che convivono con macchinari moderni ad alta tecnologia.

La produzione di Eugenio Di Rienzo è molto varia. Si diverte a riprodurre modelli che suo padre aveva inventato negli anni Venti, come fibbie maschili, orecchini, bracciali e specchietti liberty. Unisce la produzione dei gioielli

tradizionali, fatti in filigrana d’argento e d’oro (Bottoniera, Presentosa, Circeje, Sciaquajje e Chiacchiere), un tipo di gioielleria che non conosce mode e che ha continue richieste, alla sperimentazione di nuove realizzazioni come filigrane sottilissime, interpretazioni moderne della tradizione. Gioielli molto belli capaci di adornare le donne di oggi. Poi ritorna nella profonda tradizione, restaurando preziosi oggetti liturgici, tesori d’Abruzzo, come la meravigliosa Croce di Nicola da Guardiagrele datata 1422.

Di Rienzo ha un distributore, di Pescara, che propone le sue creazioni firmate sia nelle regioni limitrofe sia a Roma. Ha un e-commerce e vende il suo brand su piattaforme importanti. Memoria e innovazione dunque, tra montagna e mare. •

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NELLA TRADIZIONE LOCALE SI TROVANO:

Bottoniera:  dodici bottoni in argento, posti sul corpetto del costume tradizionale “comodino” di Scanno;

Presentosa: forse il più famoso, nominato anche da d’Annunzio ne “Il Trionfo della morte”. Si tratta di una grande stella di filigrana con uno o due cuori centrali, un tempo donata dallo sposo alla futura sposa come pegno d’amore;

Cicerchiata: tipico anello nuziale con decorazione granulare, che richiama i grani della leguminosa “cicerchia”;

Circeje: grandi orecchini in lamina traforata a forma di navicella con pendenti di perle. Il lavoro traforato assumeva il viso di una Circe, che doveva incantare il maschio, sopra un piccolo gallo lo attirava con il suo richiamo;

Sciaquajje: orecchini a navicella semilunata in oro arricchiti con pendenti oscillanti, così chiamati perché mentre la donna sciacquava i panni facevano un suono caratteristico;

Chiacchiere: lunga collana a spighette d’oro cave e decorate a pressione, da rigirare intorno al collo;

Amorino: un complesso ciondolo a spilla da regalare alla sposa, raffigurante un angioletto che scocca un dardo. È l’unico gioiello-simbolo ad avere un’origine sicura: fu creato dall’orafo scannese Armando Di Rienzo negli anni Venti, donandolo in matrimonio alla sua sposa.

Al banco di lavoro, il maestro orafo crea prodigi con la filigrana: il suo laboratorio è artefice di sapienti gioielli sia in argento sia in oro. Si riconoscono i componenti di “Amorino”, iconica spillaciondolo tradizionale sul tema dell’amore (in basso a sinistra).

di Stefania Montani

Tesoro di Romagna STAMPERIA PASCUCCI

Terra generosa di tradizioni e di mestieri, nel cuore della Romagna la bottega artigiana di una famiglia talentuosa conserva gelosamente un raro savoir-faire. La Stamperia Pascucci di Gambettola rappresenta felicemente il grande sodalizio tra arte e artigianato.

Tecnica della stampa a mano. Lo stampo, bagnato nel colore, dopo essere stato posizionato sulla tela, viene appoggiato sul tessuto e battuto con un mazzuolo.

Un gesto caratteristico della stampa a mano che nella bottega della Famiglia Pascucci si perpetua dal 1826. Foto di Orlando Poni

Gambettola è una piccola cittadina della Romagna che si sviluppa intorno al castello Malatestiano, a poca distanza da Rimini. Federico Fellini vi trascorreva le sue vacanze estive nella casa di campagna dei nonni e in questi luoghi del cuore trasse ispirazione per alcuni tra i suoi film onirici più famosi. Oggi, a cento anni dalla nascita del grande regista, molte cose sono cambiate ma alcune tradizioni sono rimaste ben salde a testimoniare il profondo legame dei suoi abitanti con la cultura del territorio.

Uno degli esempi più straordinari è la Stamperia Pascucci, una bottega artigiana che dal 1826 produce pregiatissime tele stampate a mano, rifacendosi a tradizioni antiche.

Racconta Riccardo Pascucci, che rappresenta la settima generazione di questi maestri artigiani: «La nostra famiglia è originaria delle Marche ma nell’Ottocento si trasferì a Gambettola per la ricchezza di canapa presente sul territorio. Il nostro tris-trisavolo aprì la stamperia dove siamo tuttora e che conserva i segni del nostro passato.» Ne è testimone il grande mangano ottocentesco che troneggia in laboratorio e

che veniva utilizzato per stirare sia i tessuti realizzati a telaio che quelli stampati. «Nel nostro mestiere,» continua Riccardo, «le materie prime sono essenziali: non solo la canapa, il lino, il cotone, ma anche gli stampi e i colori. Tutti gli stampi che utilizziamo sono intagliati da noi a mano, uno per uno, su legno di pero. Devono essere resistenti ai colpi del mazzuolo e una volta ricoperti di colore fanno da matrice per la stampa.» Una volta stampati, i tessuti vengono stesi ad asciugare su canne di fiume per una notte intera.Terminata l’asciugatura gli artigiani procedono allo sviluppo e al fissaggio della stampa.

«L’intaglio del legno, secondo le necessarie caratteristiche che la stampa richiede, è parte del patrimonio che la nostra famiglia si tramanda, insieme alla conoscenza del materiale e alla passione: è un’arte nell’arte,» confida Pascucci.

L’archivio degli stampi è il loro vero tesoro: ne possiedono più di 6000, tutti provenienti dalla loro tradizione. A questi hanno affiancato un numero più o meno uguale con altri soggetti nuovi, alcuni creati insieme agli artisti che spesso richiedono alla stamperia di realizzare le loro opere su tela. Dalla tradizione

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PAGINA ACCANTO:

Francesco Ballestrazzi

all’innovazione, ma sempre nel rispetto dei metodi dettati dalla loro storia.

mostra live alcune fasi di lavorazione durante l’evento “Homo Faber” (Venezia, aprile 2022)

nella sala “Next of Europe”, curata da Jean Blanchaert e Stefano Boeri. Foto: Ginevra Formentini per Michelangelo Foundation.

«Fin dall’Ottocento abbiamo utilizzato i colori derivati dalla ruggine del ferro a cui abbiamo affiancato dei colori naturali e altri chimici. Poi dal 2010 abbiamo sviluppato una nuova tecnica che prevede di fissare i colori ad acqua con la cottura a forno, con risultati di maggiore solidità e brillantezza. Oggi utilizziamo tutti questi procedimenti, scegliendoli di volta in volta a seconda degli effetti che desideriamo ottenere.»

PAGINA ACCANTO:

Francesco Ballestrazzi

Uno dei segreti della stamperia è sicuramente quello della miscela preparata con aceto, colla e farina che fa parte del loro patrimonio. Ma le dosi e il procedimento sono un segreto di famiglia. Inutile chiedere spiegazioni.

mostra live alcune fasi di lavorazione durante l’evento “Homo Faber” (Venezia, aprile 2022)

nella sala “Next of Europe”, curata da Jean Blanchaert e

PAGINA ACCANTO: Lo stampo in legno di pero, dopo essere stato battuto sul tessuto, viene sollevato, lasciando il disegno impresso sul prodotto da realizzare.

QUI: Decorazione con pittura. Dagli inizi del 2000, grazie all’incontro con tanti artisti, oltre alla stampa a mano, è stata aggiunta la fase pittorica su tessuto. Entrambe le foto di Valer Casalin

«I disegni tipici della nostra manifattura sono l’uva, il galletto, le foglie, la frutta,» continua il maestro artigiano. «Erano quelli utilizzati in passato in tutta la zona per realizzare le coperte per i buoi e per il letto. Motivi ornamentali antichissimi, come testimonia l’affresco del Quattrocento nella Cattedrale di Cesena dove si può ammirare Cristo con la veste stampata a ruggine.»

Stefano Boeri. Foto: Ginevra Formentini per Michelangelo Foundation.

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In stamperia, insieme a Riccardo, lavora suo fratello Giuseppe: «La nostra famiglia ha sempre proseguito nell’attività creata dai nostri antenati: oggi ad affiancarci ci sono mio figlio Matteo e la figlia di mio fratello, Veronica, che rappresentano la nuova generazione. Nel nostro laboratorio ci sono anche una decina di esperti artigiani che collaborano con noi. Spesso abbiamo dei giovani che vengono qui per fare degli stage, mandati dalle scuole: a volte dei veri talenti.»

La produzione della Stamperia Pascucci prevede tovaglie, tende, anche tende da spiaggia, e poi coperte e centri tavola. «Realizziamo spesso tovaglie e biancheria per la casa su ordinazione, con disegni in esclusiva per alcuni negozi.»

Negli anni il laboratorio ha realizzato anche delle tele d’arte ideate insieme a diversi artisti, tra i quali Dario Fo, Tonino Guerra, Gianfranco Zavalloni, Roberto Papetti, Anna Maria Nanni, Tinin Mantegazza... Si tratta di disegni innovativi con una parte pittorica in aggiunta alla stampa, realizzati cioè con tecnica mista.Piccole innovazioni che hanno accorciato ancora di più la distanza che separa questo raro mestiere artigianale dall’arte. •

QUI: Scattata nel 2022, questa immagine ritrae lo staff

Pascucci 1826 al completo, all’interno del laboratorio, accanto ai banchi di lavoro. Foto di Valer Casalin

PAGINA ACCANTO: Lavaggio del cliché dopo la stampa. Il motivo è stato realizzato nel 2023 in collaborazione con l’azienda che commercializza la “Pink Lady®”, gustosa mela coltivata anche in Romagna. Foto di Silvia Pozzati

PAGINA SUCCESSIVA: Nella bottega di Gambettola (FC) antichi gesti creano meraviglie: il tessuto, dopo la stampa a mano e la pittura aggiuntiva, viene posto sulle canne e appeso in alto ad asciugare. Foto di Valer Casalin

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Dipingere con il legno

Una lavorazione a intarsio totalmente manuale è completata dall’impiego di selezionate essenze lignee naturali e naturali tinte, magistralmente utilizzate nelle loro texture, tonalità e sfumature chiaroscurali. Foto di Daniele Peruzzi

Ereditare un mestiere raro come quello dell’intarsio rappresenta una responsabilità, oltre che un privilegio. Ad Anagni, antica città papale, sede di raffinate botteghe di alta ebanisteria, da oltre mezzo secolo le Tarsie Turri rivestono un ruolo d’eccellenza nel contesto delle arti applicate.

Esplorare il territorio italiano, percorrendolo in lunghezza seguendo le coste o la dorsale dell’Appennino, o attraversandolo da est a ovest per riunire idealmente i due mari, l’Adriatico e il Tirreno, significa imbattersi, chilometro dopo chilometro, in città e paesi che ci sorprendono per la loro unicità: particolari architettonici e urbanistici, tradizioni culturali, artigianali e gastronomiche, riti e credenze rendono ogni territorio diverso dal precedente e quindi fucina di esperienze e nuove scoperte.

Poco a sud di Roma, nella cittadina di Anagni (conosciuta come “la città dei Papi”) riscopriamo una bottega-studio che mantiene viva, grazie alla passione e alla professionalità di Rita Turri, la tradizione della tarsia lignea, una preziosa lavorazione di alta ebanisteria che crea partiture di colore e materia, grazie a piccole tessere di pregiate essenze lignee intagliate e giustapposte con precisione millimetrica.

Nata in questa cittadina nel 1963, Rita fin da giovanissima segue le orme del padre Carlo affiancandolo in laboratorio

e raccogliendo la sua eredità, con la consapevolezza di avere un ruolo di conservazione della memoria di un mestiere d’arte altamente raffinato, che richiede grande maestria e che rappresenta un’eccellenza del saper fare nel panorama italiano delle arti applicate.

Rita Turri ci racconta la sua storia di artista artigiana, che è anche quella della sua famiglia e che si intreccia con la storia della cittadina di Agnani dove, fino agli anni cinquanta del secolo scorso, erano attive molte botteghe di alta ebanisteria che rispondevano alle commesse delle casate nobiliari di Roma e di Napoli, oltre che del Vaticano, a cui Anagni è sempre stata legata essendo stata residenza papale e essendo ora sede vescovile.

La qualità delle botteghe di ebanisteria era alimentata da giovani artigiani specializzati che si formavano al locale Istituto d’Arte (ora Liceo Artistico) dividendosi tra studio e lavoro “a bottega”, come il padre di Rita, che dopo l’apprendistato si è specializzato nell’esecuzione di tarsie, portando all’estremo limite le possibilità prospettiche e cromatiche di quest’arte, realizzando opere di altissimo valore per le quali è stato insignito delle onorificenze di Cavaliere e Commendatore della Repubblica per meriti artistici.

La tecnica della tarsia “a coltello” è quella che Rita ha ereditato

QUI: Coppia di vasi Leaves, 2022. Il decoro è stato eseguito con la tecnica della tarsia lignea, utilizzando piallacci di acero, bolivar e zebrano.

Foto di Daniele Peruzzi

PAGINA ACCANTO: Vassoio Leaves, 2022. Anche qui il decoro è stato eseguito con la medesima tecnica della tarsia lignea, con piallacci di betulla, bolivar, eucaliptus frisé e tangakina. Al confine tra arte e artigianato, Rita Turri coniuga manualità e progettualità in una sintesi creativa che ha per fine l’eccellenza. Foto di Alessandro Boni

da suo padre e che tutt’ora pratica nel suo laboratorio affiancata dal figlio Federico, che rappresenta quindi la terza generazione di questa tradizione artistica.

Rita è un’eccezionale interprete della tarsia pittorica: la riproduzione dei modelli iconografici tratti dalle opere dei più grandi artisti di tutti i tempi è una delle applicazioni che meglio esprime la maestria del suo “saper fare”; in questo attento e meticoloso processo di restituzione ad intarsio, la cura dei dettagli, la ricerca delle essenze lignee più adatte, contribuiscono a conferire un valore specifico all’opera in tarsia, definendola come opera d’arte autonoma che racchiude in sé profonda conoscenza della storia e dell’arte.

L’opera a cui sta lavorando nel momento della nostra conversazione è la riproduzione di un Caravaggio del 1600, e frequenti sono anche le richieste di quadri pittorici che Rita Turri realizza su suo disegno e progetto: un collezionista russo le ha recentemente commissionato otto nature morte che Rita ha disegnato, progettato e realizzato, con l’unico vincolo da parte del committente di includere il frutto di melagrana in ognuna delle opere.

Le essenze naturali dei piallacci che Rita usa per le sue tarsie pittoriche sono circa 80, da legni provenienti da ogni parte

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del mondo e, oltre ai legni naturali, utilizza anche una varietà di 500 piallacci di legno naturale tinto in diversi colori, texture e tonalità, che consentono estrema libertà espressiva, sia per decori classici che contemporanei, come ad esempio quelli progettati per tarsie applicate sull’oggettistica (cornici, vassoi, scatole, gioielli…), produzioni di cui la bottega segue ogni singola fase, dal progetto del disegno e del decoro alla realizzazione dell’oggetto e della tarsia, fino alle fasi finali di incollaggio, finitura e lucidatura.

Oltre alle produzioni di oggettistica, la bottega è da sempre impegnata in collaborazioni con designer e ebanisti, professionisti dell’arredamento di lusso e dello yacht design, con committenze che provengono da tutto il mondo (in particolare da Paesi Arabi, Stati Uniti, Russia…) con precise richieste di eccellenza artigianale e produttiva, per opere uniche, personalizzate e di alto livello estetico. In questo tipo di realizzazioni il laboratorio di Tarsie Turri non dimentica la

lezione di Giuseppe Maggiolini, maestro per eccellenza del tardo Settecento con i suoi mobili intarsiati, ricercando però espressioni più libere e contemporanee, attualizzando la tarsia a nuovi scenari estetici, nel bisogno di un continuo rinnovamento di quest’arte che, sebbene radicata nella tradizione, può ancora essere espressione di unicità e innovazione.

È in questa direzione che Rita e suo figlio si stanno impegnando, cercando di far conoscere il proprio lavoro anche attraverso vari canali di comunicazione: «certo non è facile, bisognerebbe dedicare più tempo alla comunicazione e alla promozione, noi artigiani dobbiamo fare tutto.»

Da queste parole si evince come, per sostenere attività rare e di una qualità così alta come il lavoro di Tarsie Turri, occorrerebbe un sistema più strutturato che possa accompagnare gli artigiani in tutti quegli aspetti necessari all’attività per rimanere viva, come la comunicazione e il marketing, lasciando loro il tempo di dedicarsi allo sviluppo del progetto e dell’opera. •

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PAGINA ACCANTO: Quadro intarsiato Terra, 2019. L’art-piece, con la tecnica esecutiva della tarsia lignea, è stato eseguito con i piallacci di acero, bolivar e zebrano. Foto di Daniele Peruzzi incise e sostituite con altre essenze di tonalità e venature adatte al progetto di decorazione. Foto di Daniele Peruzzi QUI: Intarsio in lavorazione. Dopo aver riprodotto su un sottile foglio di legno un decoro composto da definite linee di contorno, con un apposito utensile (“trincetto”) singole parti vengono
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è

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piallacci di bolivar, ebano macassar, haapa, ippocastano, limone e palissandro. Foto Courtesy Archivio Tarsie Turri. Quadro intarsiato Natura morta Eucaliptus, 2020. Eseguito con la tecnica della tarsia lignea, il manufatto stato decorato con selezionati Raffinato damasco in seta rossa su antico disegno “Roma”: l’elegante lavorazione in rilievo, nei laboratori della Tessitura De Martini, ne esalta finezza, lucentezza e morbidezza rendonolo simile al velluto.

Un mestiere DA GRANDI

La curiosità è “femmina” e ha saputo trasformare una bambina laboriosa in un’abile imprenditrice. A Lorsica, nella storica casa-bottega di famiglia, tra telai meccanici e tecniche antiche, Stefania De Martini realizza damaschi e tessuti pregiati inimitabili.

di Anna Carmen Lo Calzo Fotografie di Dario Garofalo per Italia su Misura (Gruppo Editoriale)

«Ho iniziato a giocare con la tessitura quando ero bambina. Assistevo alla magia delle matasse che si trasformavano in stoffe pregiate, coltivavo il desiderio di misurarmi in un mestiere “da grandi”. La tessitura è un’attività impossibile per una bimba, ma sono cresciuta in mezzo alle sete, agli shantung, ai rasi, ai voile, ai macramè, in un religioso silenzio alternato a piccole mansioni che, in modo naturale, mi hanno condotta al mestiere, alla scoperta dell’essenza delle mie radici. Non ho mai desiderato fare altro nella mia vita.»

Le parole di Stefania De Martini, ultima discendente di una famiglia di tessitori che si tramandano l’attività da più di cinque secoli, non lasciano spazio ad alcuna interpretazione. La sua maestria è nata dall’attrazione fatale nei confronti della storica attività di famiglia che, dal lontano 1500, si dedica alla produzione di stoffe pregiate. Damaschi, lampassi, broccati, tessuti per macramè, cachemire, sono da sempre il fiore all’occhiello della produzione di altissima qualità della Tessitura De Martini.

La storia ha inizio nel XVI secolo a Lorsica, un paesino di poche anime, arroccato nell’entroterra ligure, in provincia di Genova. Ai tempi delle Repubbliche Marinare, grazie agli intensi scambi commerciali con l’Oriente, Genova divenne grande esportatrice di tessuti pregiati in tutto il mondo. Le famiglie di Lorsica si specializzarono nella produzione del damasco, tessuto di grande pregio per luminosità, perfezione dei disegni, solidità e compattezza, dovuta a un elevato numero di fili di ordito. A quel tempo quasi ogni famiglia possedeva un telaio, spesso dedicandosi anche alla coltivazione di bachi da seta.

La famiglia De Martini, grazie alla capacità di interpretare in modo straordinario il gusto e le esigenze delle grandi casate nobiliari, del clero, delle corti europee, si guadagnò presto il primato di produttore di stoffe pregiate per arredi e corredi, abiti clericali, ornamenti, paramenti, tappezzerie di ineguagliabile manifattura. I discendenti della famiglia hanno continuato a tramandarsi l’abilità e oggi la Manifattura “Figli di De Martini Giuseppe” rimane l’unica realtà produttrice di tessuti pregiati

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QUI: Telaio del lampasso risalente al 1912: su questo telaio si può operare con la possibilità di inserimenti e fino a quattro trame di colore diverso. PAGINA ACCANTO: Delicato intervento di rammendatura di un filo danneggiatosi accidentalmente durante la lavorazione. Qui, Stefania De Martini lavora allo storico telaio meccanico del damasco realizzato da suo padre negli anni Cinquanta del Novecento.

nella regione e una delle più importanti in Italia. Con i suoi antichi telai a navetta e oltre 300 disegni esclusivi come il disegno della palma, della rosa, del prezzemolo, l’ape napoleonica, il rigato stile Luigi XVI, i nodi d’amore, la Tessitura realizza stoffe che i telai industriali non riescono a imitare. Il laboratorio è un luogo all’insegna della manualità, non c’è nulla di digitale. Osservare il processo della preparazione dei filati e della tessitura, oltre a essere ipnotizzante, mette quasi in soggezione per la minuziosità di ogni gesto. Il ritmo sonoro, scandito dal battere del pettine, dal tintinnio dei licci, dal passaggio della spola, genera l’impressione di una forza misteriosa che muove tutto in un’armonia alchemica tra i fili e il tessitore.

Il tessuto compare alla fine come un miracolo, il damasco in seta si “avvera” e evoca scene di vita di palazzi rinascimentali, chiese, case aristocratiche, luoghi nei quali si sono consumati gli eventi salienti della nostra storia.

Il racconto di Stefania diventa poetico quando narra di papà Nicola che, insieme al fratello, negli anni Cinquanta, costruì

un telaio meccanico progettato completamente da lui. «Il telaio costruito da mio padre fu la svolta della nostra vita. Alla fine del conflitto mondiale, dopo un crollo della produzione, spinto dalla voglia di recuperare, dall’esigenza di velocizzare il lavoro e di renderlo meno faticoso, papà Nicola realizzò un telaio a navetta unico al mondo. Il telaio venne brevettato in Germania, assemblato a Riva Trigoso, ed è ancora oggi in grado di riprodurre stoffe identiche a quelle realizzate a mano nei secoli passati. La manutenzione la facciamo noi, in laboratorio. Da noi è tutto meccanico, abbiamo solo un telaio elettronico che usiamo per velocizzare la produzione del cachemire commissionato dalle aziende di moda.»

Stefania, che oggi conduce l’attività avvalendosi del prezioso aiuto del marito Alessandro e della figlia Rebecca, ha saputo creare un nucleo operoso capace di proteggere un mestiere raro proiettandolo nel futuro. Tutto è affidato alla sapiente regia e alla gestualità dei tre membri della famiglia, completamente interscambiabili tra loro in ogni mansione.

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«Mio marito Alessandro ha iniziato occupandosi di un progetto sul cachemire ed è diventato un eccellente tessitore. Mia figlia Rebecca, alla fine degli studi superiori, si è proposta spontaneamente, dopo aver seguito lo stesso mio percorso di bambina curiosa. Abbiamo bisogno di lei anche per la parte promozionale e per la comunicazione digitale. A tal proposito, quello che mi manca oggi è il cliente in presenza. Riceviamo richieste via mail, cosa che penalizza un passaggio importante come il lato umano, la scelta condivisa di un filato, di una nuance, di un disegno. Una foto a distanza non rappresenta mai il surrogato efficace di un incontro.»

Stefania De Martini visita musei e palazzi, osserva, ricerca, ricrea stoffe e disegni antichi, ne realizza di nuovi. Lavora con clienti privati, enti pubblici, mondo ecclesiastico, palazzi storici. «Sono fiera di essere stata scelta per restauri prestigiosi come quello dei rivestimenti di Palazzo Madama a Torino, che ho realizzato da sola, e quello di Palazzo Doria Pamphili a Roma. È stato altrettanto gratificante riprodurre il damasco originale

del XVII secolo nella Chiesa di Lorsica. Il nostro lavoro ci porta sempre a contatto con il mondo esterno, anche grazie al nostro Museo del damasco, nato per testimoniare i secoli della nostra attività di tessitori e il valore delle nostre maestranze.»

Stefania ha un progetto per questo 2024: allestire il laboratorio per offrire ai visitatori l’opportunità di un’esperienza in Tessitura. L’abilità, la manualità, gli strumenti di lavoro, la storia di una famiglia a testimonianza di un pezzo di storia dell’umanità.

Siamo di fronte a un esempio d’eccellenza che dimostra come il filo conduttore della storia umana possa intrecciarsi con quello della vita di una famiglia che da secoli si dedica a una attività ancestrale di origini antichissime, considerando il mestiere della tessitura un racconto, una metafora.

I fili che si trasformano in stoffe, il magico e sofisticato intreccio tra trama e ordito, la perfezione dei dettagli, custodiscono messaggi primordiali. La tessitura come attestato di ingegno, creatività, operosità racchiude in sé doti umane delle quali essere gelosamente orgogliosi.

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QUI: Lampasso in raso di seta su disegno “Pallavicini” sul cilindro in legno (“subbio”), che avvolge il tessuto man mano che viene realizzato. Raggiunti i 35 metri, il tessuto viene tagliato. PAGINA ACCANTO: Lo storico scaffale di famiglia risalente ai primi del Novecento, utilizzato ancora oggi dai De Martini come mobile di esposizione e vendita dei damaschi.

La sala esposizione, della Premiata Fabbrica di Mattonelle A. Tessieri & C. è stata pensata come una moderna "Wunderkammer": raccoglie circa 400 diverse mattonelle che mostrano il saper fare dell'azienda. Foto di Diego Laurino

Uno storico saper fare di prestigio

La famiglia Tessieri realizza a Lucca mattonelle con decori ispirati all’Art Nouveau che si tramandano da generazioni. Materiali finemente miscelati con abilità da mani minuziose, disegni e cromie originali danno vita a pavimenti esclusivi destinati a dimore importanti.

QUI: Il decoro n. 135, edizione del 1914. È il prezioso pavimento negli uffici della Fabbrica toscana. Foto di Stefano Domenici

PAGINA ACCANTO: In senso orario, gli attrezzi per realizzare le miscele di cemento colorato per creare una mattonella; uno dei 300 antichi divisionali per le mattonelle decorate; dall’Album Pavimenti Tessieri decoro n. 149 ed. 1914; il momento dell'estrazione del divisionale dalla “corona”: il movimento deve essere gentile e deciso nello stesso tempo onde evitare sbavature di colore nella mattonella; studio di accostamenti di colori in un pavimento; i granulati di differenti colori che, sapientemente mescolati con acqua, andranno a definire una mattonella in graniglia. Tutte foto di Stefano Domenici.

Lucca, la “città dall’arborato cerchio” di dannunziana memoria, appena fuori dalle mura rinascimentali e dalle passeggiate alberate, a pochi metri da Porta Santa Maria offre l’imperdibile opportunità di scoprire un’azienda storica di pavimenti, da annoverare tra quei rari esempi di produzione ancora tutta manuale. È la Premiata Fabbrica di mattonelle A. Tessieri & C. Lucca dal 1902, come si legge nell’insegna che già dal nome, dai caratteri aggraziati e in stile primo novecentesco rivela la grande storia e tutta l’identità di questa particolare lavorazione. L’edificio di Borgo Giannotti è quello verde antico che rivela l’azienda comunemente conosciuta come un riferimento nella lavorazione delle mattonelle in graniglia e pasta di cemento, nata nel 1902 per volontà di Alfredo Tessieri, e nel tempo apprezzata ben oltre le mura di Lucca e la Toscana, nello storico quartiere di “Pelleria”, nella stretta via delle Conce e dal 1919 trasferitasi nel quartiere di Borgo Giannotti.

Tra i dieci figli di Alfredo, Adriano e Mario prenderanno poi le redini della Fabbrica, e dagli anni Sessanta seguirà il

nipote Francesco, che per oltre 50 anni si è dedicato con grande passione e competenza a questa attività per poi lasciare l’azienda al cugino Pier Giorgio, che ha raccolto il testimone di questo gioiello familiare dove tutto parla di qualità e attenzione al cliente, coniugando stile tradizionale e sviluppo contemporaneo. Le mattonelle Tessieri sono prodotte ancora oggi con la vecchia tecnica del “doppio strato”, si ispirano nel disegno e nelle colorazioni all’Art Nouveau, e sono realizzate utilizzando i circa 300 divisionali originali del secolo scorso. Le mattonelle sono eseguite in graniglia comunemente detta “marmette”, un impasto che nasce alla fine dell’Ottocento e offre un prodotto semplice, di facile applicazione, composto da uno strato superficiale “nobile” monocolore o decorato, di granuli di marmo e altri materiali lapidei di differenti colori e grandezze, legati tra loro da un impasto di cemento colorato dalla forma quadrata (20x20/25x25 cm) o rettangolare (20x10 cm), e da un secondo strato composto da cemento e sabbia. La mattonella in pasta di cemento anche detta “cementina” è

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composta da un primo strato di polvere di marmo e cemento colorato e da un secondo strato di cemento e sabbia lavata di cava. Nasce anch’essa alla fine dell’Ottocento e offre le stesse prestazioni della mattonella in graniglia ma se ne differenzia per la mancanza nell’impasto degli inerti. L’impasto fluido consente di realizzare decori più complessi e minuti e la sua forma può essere quadrata, rettangolare, esagonale e ottagonale. Entrambe le tipologie, marmette e cementine, sono da trattarsi con prodotti naturali e detergenti neutri, dopo la loro posa in opera. Ogni mattonella ha uno spessore nominale di 2 cm o poco più. Magnifici pavimenti abbelliscono gli storici bagni Margherita di Viareggio, edifici e lussuosi hotel della Versilia negli ampi saloni e nelle camere e suites; ma anche ville private, palazzi e attività commerciali. Il segreto del prestigio della Fabbrica A. Tessieri & C. risiede senz’altro nel saper mescolare correttamente cemento, polvere di marmo, pigmenti colorati e acqua, unici ingredienti lavorati da mani sapienti e storici macchinari. La Fabbrica Tessieri è stata più volte premiata fin

dai suoi primi anni di vita: già nel 1908 riceve la medaglia d’oro per “l’ottima fabbricazione di mattonelle in cemento a colori” all’Esposizione del Lavoro e dell’Industria di Roma. Da allora produce pavimenti di grande effetto realizzati con materiali che li rendono resistenti al tempo anche se esposti all’aperto, all’usura e al calpestio. I colori, le cui formulazioni sono state tramandate fino a oggi dalle generazioni precedenti, sono nati per accordare la gamma cromatica al gusto architettonico e ai desideri del committente. Nel 2018 insieme a Pier Giorgio Tessieri gli amici Manuel Vellutini, Marco Pierallini e Alessandro Mennucci entrano in società, e più recentemente fa il suo ingresso Jacopo Bracchi, che guida il gruppo Magazzini Bracchi, leader nella costruzione e progettazione dell’interior design. L’intento è quello di rilanciare ancor più il brand lucchese per arredare dimore esclusive internazionali, dove poter mettere in valore tutta l’artigianalità di questo prodotto e di uno storico saper fare tanto raro e apprezzato. •

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Da sinistra, più di 300 divisionali sono custoditi in un'ala della fabbrica, una sorta di museo del decoro novecentesco; il decoro n. 147 ed. 1914 dell'Album Pavimenti Tessieri, particolare con disegno in graniglia scelto per un negozio italiano a Taipei (Taiwan). Foto di Diego Laurino

QUI: Prezioso pavimento con inserti in madreperla in un ufficio di rappresentanza della Fabbrica Tessieri a Lucca. Foto di Diego Laurino

Sensibile al tema della sostenibilità e del recupero, nel corso degli anni Annangela Lovallo ha acquistato molte stoffe antiche, come nel caso di questo centro tavola. Il rosone è realizzato con pizzo a chiacchierino impreziosito da un ricamo di perline e filati laminati. Foto di Maria Teresa Quinto

Quando il talento sposa il territorio… per sempre

Annangela Lovallo racconta le suggestioni di tutta una vita dedicata all’arte del ricamo in un piccolo centro della Basilicata, culla di un saper fare d’eccellenza. Una scelta controcorrente rispetto ai tempi, ma guidata da una sentita passione, dal rispetto per le tradizioni e da un sogno che si realizza.

Annangela Lovallo è l’ultima ricamatrice di professione di Avigliano, suggestivo centro della Basilicata dominato dal maestoso Castello di Lagopesole, eretto da Federico II di Svevia. Oltre ad aver dato i natali a giuristi di fama nazionale come Emanuele Gianturco, Nicola Coviello e Tommaso Claps, Avigliano è stata per secoli un centro di eccellenza dell’artigianato, dove operavano numerosi e abilissimi ebanisti, artefici del ferro battuto, ricamatrici e tessitrici, e che attirava clienti da tutta la regione.

«Quel mondo è finito negli anni Sessanta e Settanta,» ricorda la maestra. «Il lavoro artigianale è pesante e senza tutele, e quasi tutti hanno preferito lavorare nell’amministrazione pubblica, che elargiva impieghi fissi garantendo una stabilità economica.» Una scelta che Annangela non ha mai condiviso. «Per me il ricamo non è un lavoro, ma una ragione di vita. Ho imparato tutto da mia madre Melina, che a 101 anni ancora ricama e continua a essere il mio braccio destro, nonché la

mia più fervida sostenitrice, anche se all’inizio non voleva che facessi un mestiere che per lei era stata una necessità, non una scelta. Quando morì mio nonno, infatti, mia nonna si ritrovò sola con cinque figli piccoli che non poteva mantenere, perché all’epoca la povertà era tanta. Mia madre, che era al secondo anno delle elementari, fu mandata in un collegio di suore a Mugnano di Napoli. Partì con una valigia di legno e per sette anni non fece mai ritorno a casa. Ha imparato a ricamare in collegio, tra tante sofferenze, e poi in un laboratorio che lavorava per le famiglie nobili di Napoli.» Tornata in famiglia allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, continua a lavorare e ad affinare le sue conoscenze, fino a diventare la più grande ricamatrice di Avigliano, producendo corredi per tutto il territorio.

«Io sono sempre stata attratta dal ricamo, ma mia madre diceva che dovevo studiare, per non essere costretta a vivere una vita di rinunce. Per farla contenta mi sono diplomata in ragioneria, ma

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alla fine l’ho spuntata, e con tanta fatica sono riuscita ad aprire la mia piccola bottega, che ho chiamato Il filo di Arianna, in un locale proprio sotto casa.»

In questo luogo, situato di fronte alla Basilica pontificia di Santa Maria del Carmine, Annangela Lovallo si dedica da più di 40 anni alla sua passione. «I punti e le tecniche sono rimasti invariati nei secoli, così come gli strumenti: ago, filo, ditale e telaio, anche se io non lo adopero, perché ricamo direttamente sulle dita. I decori invece cambiano a seconda delle tradizioni legate a ogni territorio. Ma quello che fa la differenza è la perfezione esecutiva e la fantasia della ricamatrice. Per me, tutto quello che vedevo era uno stimolo, e ancora adesso ho sempre nuovi progetti da realizzare.»

Alla costante ricerca della perfezione e di modi sempre più originali per esprimere la sua creatività, Annangela Lovallo è diventata provetta nella pittura ad ago, realizzando ricami che sembrano dipinti. «Ho anche creato dei medaglioni con delle

PAGINA ACCANTO: La specialità che contraddistingue Annangela Lovallo è la pittura ad ago: una tecnica che le permette di realizzare dei ricami che sembrano dipinti, come queste miniature che misurano tra i due e i tre centimetri l’una. Foto di Michele Luongo

QUI: Nel corso dei decenni, Annangela Lovallo ha continuato a realizzare il classico costume aviglianese, caratterizzato dalla “tuaglia”, il copricapo ricamato sul quale veniva appuntata una spilla donata alla donna dal futuro sposo. Come la spilla in corallo in questa foto, donata alla nonna materna, e ora esposta insieme ad altri tesori di famiglia nel Museo del costume. Foto dell'Archivio Leonardo Lovallo

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miniature ricamate in due centimetri di tessuto. Ho venduto i primi esemplari, ma ho tenuto i successivi, che ora sono esposti nel mio Museo.»

Sì, perché negli anni è riuscita a realizzare un altro sogno: creare un Museo del costume tipico aviglianese, caratterizzato da un copricapo in tessuto – detto “tuaglia” – montato su una bacchetta orizzontale. Il ricamo ricopriva un ruolo centrale nel costume popolare, in quanto rappresentativo della creatività delle donne che, di generazione in generazione, trasmettevano e facevano evolvere il linguaggio figurativo legato a queste terre. Annoverato nelle guide tra i luoghi da vedere in città, questo piccolo scrigno di antiche tradizioni è stato creato senza alcun contributo né sostegno pubblico, ma solo grazie al lavoro delle mani di Annangela e della madre Melina, alla generosità delle loro compaesane, che hanno fatto dono di vecchi cimeli, e soprattutto grazie ai risparmi di una vita del fratello, con i quali ha potuto comprare i locali adiacenti alla bottega.

«Nessuno indossa più questi costumi, salvo qualche gruppo folcloristico nelle feste tradizionali. Nessuno li fa più, e io stessa ne confeziono ancora solo per il mio museo. Sono costumi molto difficili e lunghi da realizzare, che andrebbero in vendita a un prezzo che oggigiorno sarebbe proibitivo.»

Si sa che la vitalità del patrimonio culturale immateriale della nostra bella Italia viene assicurata dalla tenacia di quanti affrontano quotidianamente una strada lastricata di sacrificio e abnegazione, in un contesto non adeguatamente tutelato, normato e valorizzato. Ma l’ultima ricamatrice di Avigliano ci tiene a sottolineare un altro aspetto, non meno importante: «Io sono rimasta qui, nel mio paese. Mi hanno sempre detto che ero troppo brava, che per emergere me ne sarei dovuta andare lontano. Ma io ho scelto di restare. È in questo contesto, fatto di luoghi, profumi e sapori, che nasce tutto. Se vai via, ti snaturi. La tradizione deve rimanere dove si è originata e sono gli altri, da fuori, che devono venirla a scoprire, non il contrario.» •

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PAGINA ACCANTO: Dettaglio di un ricamo a opera della maestra artigiana Annangela Lovallo. Foto di Michele Luongo

QUI, IN ALTO: Per realizzare questo paesaggio lucano destinato a una copertina da carrozzina, la maestra ha usato colori pastello e tecnica mista tra cui il punto piatto, il punto Rodi e il punto nodini. Foto dell'Archivio Leonardo Lovallo.

QUI, IN BASSO: Annangela Lovallo con sua madre Melina, ultracentenaria, suo braccio destro. Foto di Annalisa Locasso/Eugenio Manghi

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Strumento indispensabile per una ricamatrice, insieme ad ago, filo, ditale e puntaspilli personale, le forbici d’epoca in questa pagina appartengono alla famiglia di Annangela Lovallo da molte generazioni. Foto di Maria Teresa Quinto

COPPIE d’ingegno

Per il Salone del Mobile 2024, il progetto Doppia Firma rinnova il dialogo fertile tra il design europeo e la tradizione dell’alto artigianato

milanese: quindici coppie d’eccezione, formate per l’occasione e chiamate a realizzare altrettante opere espressione di artigianalità e progettualità d’autore.

di Alberto Cavalli

Fotografie di Laila Pozzo per Doppia Firma 2024

Cristina Celestino (Italia), con la Maestra d’Arte e Mestiere Anna Gagliardi di Serapian (Milano). Doppia Firma si avvale del sostegno di Serapian, Maison di pelletteria di lusso, simbolo di raffinata artigianalità.

(Milano); Marcel Wanders (Olanda) con Ernesto Carati dell’atelier Ambrogio Carati (Milano).

Nel suo testo per la mostra “Mirabilia”, organizzata dalla Fondazione Cologni presso Triennale Milano e dedicata all’artigianato artistico milanese, la storica dell’arte Susanna Zanuso così descrive il clima di febbrile attività che animava le botteghe dei maestri d’arte ambrosiani: «Dalle botteghe di cristallai, armaioli, tornitori, ricamatori, fonditori, ageminatori, intagliatori di cammei e di medaglie, uscivano oggetti eseguiti con rara perfezione che dovevano il loro successo al fatto di essere unici e sorprendenti: la scoperta di nuove tecniche di lavorazione, i cosiddetti “secreti” gelosamente custoditi dalle botteghe milanesi di cui ci parlano le fonti, aveva permesso a questi artigiani-inventori di creare manufatti mai visti prima, principale oggetto del desiderio di tutte le corti europee.» Questi segreti di bottega, rari e preziosi come gli oggetti che venivano creati, non sono scomparsi: la vocazione industriale, finanziaria, culturale di Milano non ha cancellato il suo ricco sostrato di alta artigianalità.

E la forza del design, di cui Milano è capitale internazionale, viene ora chiamata a valorizzare il ruolo dell’artigianato: sempre più autori, designer e architetti sentono oggi che il dialogo con l’alta manifattura, consapevole e competente, permette loro di esprimersi al meglio e di firmare i nuovi classici della bellezza contemporanea.

Nell’“impero delle cose”, così come è stato definito il Rinascimento italiano, Milano (continua Susanna Zanuso) «era riuscita a porsi al centro d’Europa nella produzione di oggetti preziosi e esclusivi grazie alla pratica integrata di lavoro artistico e ricerca tecnica, dove il processo creativo nasceva e si nutriva di nuovi materiali e di nuove lavorazioni: un indiscusso primato internazionale che affondava le sue radici nel profondo legame, mai veramente interrotto durante tutto il Cinquecento, che la città aveva mantenuto con la stagione dello sperimentalismo leonardesco.»

Oggi, questo sperimentalismo viene ricercato in ambiti

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QUI: Da sinistra, Nada Debs (Libano) con Piermaurizio Pasini di Artèpura (Milano); Marco Campardo (Regno Unito) con Andreas Boccone di Fonderia Battaglia (Milano). PAGINA ACCANTO: Dall’alto, Chris Fusaro (Canada) con Hanne Larsen di Argenteria Miracoli
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diversi: quello del design, appunto. Quello dell’eccellenza contemporanea che si nutre di scienza, arte, desiderio della meraviglia. Quello di una Milano che ha la capacità di saper trasformare i sogni in progetti.

Al fine di mettere in evidenza questi talenti artigianali rari, i cui opifici ancora impreziosiscono le strade e i quartieri di Milano, la Fondazione Cologni (insieme a Living Corriere della Sera, e con il patrocinio di Michelangelo Foundation) ha voluto dedicare la nuova edizione di “Doppia Firma. Dialoghi tra pensiero progettuale e alto artigianato” proprio al connubio tra manifattura urbana ambrosiana e design internazionale.

In occasione del Fuori Salone, quindici coppie sono state chiamate a cimentarsi nella sfidante avventura di rievocare il fasto delle botteghe rinascimentali, delle corti sforzesche, delle energie leonardesche. Con mano leggera e con sorridente ironia, i quindici designer provenienti da tutto il mondo si sono lasciati condurre nei territori dell’antico ducato

visconteo, per collaborare con artigiani che – dal vetro all’argento, dal metallo alla ceramica, dal legno alla pelle –rappresentano oggi la rara avis di un mondo silenzioso, eppure magnetico: quello degli artigiani urbani, depositari di segreti che mutano senza mai perdere la loro aura.

Come quella che Serapian sa infondere alla pelle lavorata a mosaico, secondo una tecnica esclusiva della maison meneghina che richiede non solo perizia, ma anche gusto e sensibilità: qualità e caratteristiche che pochissimi artigiani possiedono, e che Cristina Celestino (chiamata a collaborare con Serapian) ha sublimato in una seduta che ha la preziosità di una borsa, ma anche la solida affidabilità di un imbottito. Pelle preziosa e intarsiata anche per la libanese Nada Debs, che crea con Artèpura un pannello innovativo che si trasforma in panchina.

Il purismo onirico del giapponese Oki Sato di Nendo si è misurato in un gioco di intelligenza con il ceramista Tonino Negri, per creare una scacchiera suggestiva e senza tempo.

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Jean-Servais Somian e Ahmad Angawi si confrontano con i legni levigati come seta di Giordano Viganò e dei Fratelli Boffi. La lavorazione dei metalli, fiore all’occhiello della Milano rinascimentale, ha un ruolo di rilievo: la fiammeggiante visionarietà di Studio Job e di Chris Fusaro fanno fiorire e decollare l’argento di opifici storici come Ganci e Miracoli, Marcel Wanders illumina gli ottoni di Ambrogio Carati, Natalia Criado medita sulle tensioni metalliche della Fucina di Efesto, Marco Campardo si specchia nelle patine raffinate della Fonderia Battaglia. Le trasparenze dei vetri e lo splendore dei cromatismi vengono interpretati dai francesi Materra-Matang (con Soffieria Villa) e da Agostino Iacurci (con Rosetta Gava, specialista di vetrate policrome). Il raffinato equilibrismo di Elliott Barnes incontra la solida maestria di Pietro Virzi, tappezziere della moda; e la moda è protagonista anche nei ricami dell’Atelier Pino Grasso, applicati in maniera inedita a una lampada in ceramica di Elisa Uberti. Ceramica anche per Anita Cerrato,

PAGINA ACCANTO: Da sinistra, Elisa Uberti (Francia) con Raffaella Grasso di Pino Grasso Ricami (Milano); Agostino lacurci (Italia), con Rosetta Gava di Studio Pizzol (Missaglia).

QUI: Da sinistra, Natalia Criado, Colombia, con il Maestro d’Arte e Mestiere Alessandro Rametta de La Fucina di Efesto (Milano); MaterraMatang (Francia), con Stefano Villa di Soffieria Villa (Trezzo sull’Adda).

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PAGINA ACCANTO: Dall’alto, Elliot Barnes (Francia), con il Maestro d’Arte e Mestiere Pietro Virzi di Vimas Arredo (Milano); Oki Sato di Nendo (Giappone), con il Maestro d’Arte e Mestiere Tonino Negri di Terracrea (Lodi).

QUI: Da sinistra, Ahmad Angawi (Arabia Saudita), con Alberto Boffi di Fratelli Boffi (Lentate sul Seveso); Palomba-Serafini (Milano), con la Maestra d’Arte e Mestiere Anita Cerrato (Milano).

PAGINA SEGUENTE: Dall’alto, Jean-Servais Somian (Costa d’Avorio), con il Maestro d’Arte e Mestiere Giordano Viganò (Novedrate); Job Smeets di Studio Job (Belgio), con Giorgio Morandino di Ganci Argenterie (Milano).

ma fratturata e risanata grazie alla lacca urushi e alla tecnica del Kintsugi, per assecondare il progetto di Palomba-Serafini. Con questa edizione di Doppia Firma, la Fondazione Cologni ha voluto sottolineare come la preziosa eredità dei maestri artigiani, benché ormai rara, sia sempre rimasta presente sottotraccia nel tessuto produttivo milanese: e se oggi la metropoli lombarda è la capitale riconosciuta del design e della moda, è anche perché nel DNA della città scorre questa vocazione all’eccellenza artigianale che ha sempre saputo mettersi in dialogo con lo spirito dei tempi. Quindici pezzi contemporanei che rappresentano i “segreti del mestiere” di altrettanti atelier e manifatture, prodotti in pezzi unici o in piccola serie, dal profondo significato artistico e culturale. Opere speciali e significative, veri e propri “beni” per i quali il valore del fatto a mano evoca la centralità del talento artigiano e il dialogo con la creatività progettuale per cui Milano è giustamente celebre. •

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Handcrafted in Italy serapian.com
MOSAICO Collection

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La poetica della rarità

Il mestiere dell’artigiano è più che manualità e ingegno: è suggestione, sogno, capacità di interpretazione.

I Maestri parlano la lingua poetica della bellezza, sentono la necessità di creare, trasmettere il senso dell’arte e della creatività.

L’artigianato è un processo sociale e politico, nonché un’esperienza individuale, ma che tocca un’intera comunità; è un’affermazione di identità che non è mai neutrale. E fare l’artigiano è un mestiere che richiede un’estrema versatilità: perché colori e emozioni, materiali e ricordi, calcoli numerici e sogni vanno di pari passo. E come tutti i processi, anche l’artigianato d’arte richiede che tutti gli attori coinvolti parlino una lingua che permetta loro di comprendersi, di sentirsi “cittadini” di un luogo che qualcuno possa chiamare “casa”.

Intorno a questi sogni lavorano con mano esperta e mente creativa i grandi artigiani presentati in questo numero, che rappresentano un punto di riferimento essenziale per tutti coloro che amano l’Italia non solo per le sue bellezze, ma anche per la straordinaria rarità delle sue attività artigianali. Una rarità che, a mio avviso, è riscontrabile soprattutto in una caratteristica davvero speciale degli artigiani italiani: la loro capacità di interpretare i progetti in maniera straordinaria. Così io definisco i veri maestri: interpreti.

Non esecutori. Non semplici lavoratori.

Ma perspicaci lettori delle idee, e abili trasformatori della visione creativa in un prodotto che senza la loro intermediazione non avrebbe mai visto la luce. Terrazzieri, stuccatori, ebanisti, vetrai, tessitori, tintori: protagonisti di indimenticabili capolavori italiani, questi artigiani sono oggi difficili da trovare. Eppure, sono proprio loro a rendere speciale e personale ogni progetto, con la loro passione per il dettaglio sorprendente e perfetto.

L’estetica italiana è legata a questo dettaglio prezioso, all’arte che si svela per gradi, a un’architettura civile che sia sempre a misura d’uomo. La storia dell’Italia, i suoi capolavori, persino le sue rovine evocano una dimensione in cui l’essere umano è al centro di ogni riflessione, pur invitandoci ad alzare lo sguardo verso un significato ulteriore di ogni segno, mai prosaico, sempre poetico. Un vero artigiano prevede un po’ di poesia, tra i suoi materiali d’elezione. E poche attività umane come l’artigianato sanno parlare la lingua poetica del bello: ogni gesto compiuto dai grandi artigiani presentati in questo numero della rivista è come la parola di un verso – rarefatta, precisa, insostituibile, necessaria.

Questa edizione della nostra rivista offre dunque uno sguardo prezioso su questi rari artefici dell’eccellenza: non per creare un elenco, ma per risvegliare in tutti noi quell’antico desiderio di fare in modo che i nostri ambienti parlino di noi, siano a nostra misura, siano ricchi di riferimenti che rimandano alla mano dell’uomo. Senza anguste nostalgie di un passato ormai irripetibile, ma al contrario evocando quegli scenari della vastità contemporanea che – proprio come gli orizzonti di un domani nuovo, e migliore – possano aiutarci a credere, e a sapere, che solo la consapevolezza umana (e il talento) consentono la creazione, la protezione, la trasmissione del bello. Una lettura stimolante porta a idee originali: come le storie che qui sono state distillate, e che rivelano – nel piccolo mondo di un atelier – lo spazio immenso del mestiere, dell’arte, della creatività che si pone in dialogo con l’evoluzione dell’abitare. Ovvero: con la vita stessa. •

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