Arte e Luoghi | febbraio 2021

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biscozzi | rimbaud

In occasione dei settecento anni dalla morte del Poeta le attività dell’associazione

Di prossima apertura a Lecce in piazzetta Baglivi la sede della Fondazione

Anno XVI - n 2 febbraio 2021 -

La maremma per dante

anno 163 numero 2 febbraio 202 1

procida

Leandro

i Luoghi deL cinema

Uno speciale dedicato all’artista leccese nel quarantesimo anniversario della morte

La bellezza dei luoghi di Ferrara ripercorrendo il set del film Il giardino dei Finzi Contini


primo piano

le novità della casa

IL RAGGIO VERDE EDIZIONI

ilraggioverdesrl.it


EDITORIALE

Procida Capitale della Cultura foto di Mariarosaria Costagliola © Un ringraziamento particolare ai fondatori di Procida - la community che condivide l'isola! pagina FB fondata e curata da Francesco Lubrano e Giuseppe D'Elia

Proprietà editoriale Il Raggio Verde S.r.l. Direttore responsabile Antonietta Fulvio progetto grafico Pierpaolo Gaballo impaginazione effegraphic

Redazione Antonietta Fulvio, Sara Di Caprio, Mario Cazzato, Nico Maggi, Giusy Petracca, Raffaele Polo

Hanno collaborato a questo numero: Lucia Accoto, Dario Bottaro, Giovanni Bruno, Stefano Cambò, Mario Cazzato, Sara Di Caprio, Dario Ferreri, Giusy Gatti Perlangeli, Sara Foti Sciavaliere, Raffaele Polo, Alessandro Romano, Marco Tedesco Redazione: via del Luppolo, 6 - 73100 Lecce e-mail: info@arteeluoghi.it www.arteeluoghi.it

Iscritto al n 905 del Registro della Stampa del Tribunale di Lecce il 29-09-2005. La redazione non risponde del contenuto degli articoli e delle inserzioni e declina ogni responsabilità per le opinioni dei singoli articolisti e per le inserzioni trasmesse da terzi, essendo responsabili essi stessi del contenuto dei propri articoli e inserzioni. Si riserva inoltre di rifiutare insindacabilmente qualsiasi testo, qualsiasi foto e qualsiasi inserzioni. L’invio di qualsiasi tipo di materiale ne implica l’autorizzazione alla pubblicazione. Foto e scritti anche se pubblicati non si restituiscono. La collaborazione sotto qualsiasi forma è gratuita. I dati personali inviateci saranno utilizzati per esclusivo uso archivio e resteranno riservati come previsto dalla Legge 675/96. I diritti di proprietà artistica e letteraria sono riservati. Non è consentita la riproduzione, anche se parziale, di testi, documenti e fotografie senza autorizzazione.

La copertina di questo mese non potevamo non dedicarla alla notizia di Procida capitale italiana della Cultura 2022, così l’isola del Postino e prima ancora di Arturo, nel romanzo di Elsa Morante premio Strega nel 1957 ha stregato i commissari del Mibact e, soprattutto, ha convinto con il suo progetto che già nel motto “La cultura non isola” la dice lunga sulla visione, condivisa, sull’arte, la bellezza, il territorio. Anche se lentamente, le misure di contrasto alla pandemia fanno riaprire le porte ai luoghi istituzionali e alle mostre lasciando intravedere uno spiraglio di ripresa. Certo dipenderà sempre da noi, dal nostro osservare regole e disposizioni, ma cerchiamo di mettercela tutta perché di stare isolati, distanziati, davvero non se ne può più. E se gli scorsi anni vi raccontavamo di iniziative legate alla festa più morosa dell’anno, in questo numero vogliamo richiamare l’attenzione sulla scelta d’amore per la propria terra che ha fatto anni addietro Luigi Biscozzi, prematuramente scomparso, ma che grazie alla donna, che ha condiviso con lui oltre quarant’anni di vita e di amore per l’arte, regalerà a Lecce uno spazio espositivo, nuovo cuore della Fondazione Biscozzi|Rimbaud di imminente inaugurazione. E fu amore per l’arte, indubbiamente nel lontano 1997 quando la “visionaria” associazione Raggio Verde, che metteva a disposizione i suoi spazi per mostre temporanee ad artisti affermati e a giovani talenti in erba, si prese a cuore la vicenda artistica di Ezechiele Leandro, artista primitivo, considerato un naif, che trasformava materiale di risulta in oggetti d’arte. Una sorta di trasposizione poetica di quanto affermava nei versi Fabrizio De Andrè quando cantava nella sua “Via del Campo” che «Dai diamanti non nasce niente/Dal letame nascono i fior» . Fu così che il gruppo di Estetica, fondato dal compianto professore universitario Mario Schiattone, scelse di fare studio e ricerca su Leandro e la sua opera. Il primordiale nucleo di quello che poi negli anni avrebbe dato vita alla casa editrice Il Raggio Verde pubblicò nel 2000 il libro Leandro tre approcci alla sua conoscenza. Tra gli autori - Luca Carbone, Angela Serafino, Ambra Biscuso e Antonio Benegiamo, nipote dell’artista, - c’era anche Maria Rosaria Pati, che non è più con noi, ma a lei alla sua cultura e ironia, dedichiamo questo numero. (an.fu.)

SOMMARIO Luoghi|eventi| itinerari: girovagando |procida la cultura non isola 4 |i Luoghi di sant’agata 26 | Lagonegro capolavori d’arte dalla chiesa al castello 74 | Fede e pandemie 84 arte: collezione biscozzi |rimbaud 18|riapre la Fondazione ragghianti di Lucca con la doppia 102 i luoghi della parola: | all’improvviso una vita 48 | curiosar(t)e: La dark art di chet zar 50 | speciale “Leandro” 58 | don Franco Lupo 96 musica: azzurri gli oceani di Franco simone 44 | giuni russo 68 | Luca bonaffini e il paracadute di taccola 72| interventi letterari|teatro |Luoghi del mistero: antonio malecore 14 |Quando dante salvò primo Levi 38 salento segreto 120

cinema il giardino dei Finzi contini 112 Libri | Luoghi del sapere 98-100 |bambini e musei 70 #ladevotalettrice 98 | #dal salentocafè 100 i luoghi nella rete|interviste| La maremma per dante 46| itinerarte 101 Numero 2- anno XVI - febbraio 2021


procida La cuLtura non isoLa Antonietta Fulvio

Il MiBACT premia la minore isola dell’arcipelago campano: sarà la Capitale italiana della Cultura 2022

Storie l’uomo e il territorio

La cultura non isola. Più di uno slogan. Il cuore di un progetto che rappresenta una sfida e un punto di ripartenza. Per tutti. Così Procida nel 2022 sarà incoronata capitale italiana della Cultura. Una comunità piccola dal cuore grande decisa a costruire un laboratorio di felicità sociale, con programmi culturali educativi e inclusivi. Questo il fulcro di un progetto che ha in sé la

forza e la bellezza delle onde del mare. «Il mare unisce i paesi che separa» scriveva il poeta Alexander Pope e forse non è un caso che proprio chi paradossalmente è “isolato” ha scelto di dimostrare che “la cultura non isola” ma può essere territorio di dialogo e di confronto reale tra i naviganti reali e virtuali, grazie anche al sapiente utilizzo dei social che hanno mostrato

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Procida Capitale della Cultura foto di Mariarosaria Costagliola © Credits Pagina FB Procida - la community che condivide l'isola!

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Storie l’uomo e il territorio

proprio in questo tempo di pandemia il potere aggregante e di azzeramento delle distanze fisiche a cui il virus ancora ci costringe. E allora in attesa di conoscere e di partecipare all’intenso calendario di eventi del 2022, proviamo a raccontavi Procida andando a rileggere un libro che ha legato l’isola alla sua fortuna letteraria. «Su per le colline verso la campagna, la mia isola ha straducce solitarie chiuse fra i muri antichi, oltre i quali si stendono frutteti e vigneti che sembrano giardini imperiali. Ha varie spiagge dalla sabbia chiara e delicata, e altre rive più piccole, coperte di ciottoli e conchiglie, e nascoste tra le grandi scogliere.» Quasi fossero delicati colpi di pennello, così descrive Procida la scrittrice Elsa Morante (premio Strega 1957) nel famoso romanzo “L’isola di Arturo” che fu scritto proprio qui tra i profumi del giardino di limoni dell’allora Albergo Eldorado oggi i “Giardini di Elsa”, sede del parco letterario, dedicato alla scrittrice romana, purtroppo non visitabile perché proprietà privata mentre conta ventitré edizioni il progetto Procida Isola di Arturo – Elsa Morante che vede l’assegnazione di due premi letterari uno dedicato alla

scrittrice l’altro alle narrazioni sul fascino misterioso e atavico del mare. Ed è la più piccola delle isole flegree, incastonate come gemme nel golfo di Napoli, ma Procida è natura, bellezza, mito, storia, letteratura (qui fu ambientato anche un altro romanzo “Graziella” di Alphonse Lamartine. Ed è musica e canto, quello che va dritto all’anima che aveva la voce di Concetta Barra e oggi ha quella di suo figlio Peppe Barra. E cinema. Set di numerosi film di successo, poeticamente Procida è l’isola de “Il Postino”, l’ultimo film di Massimo Troisi ispirato al romanzo “Il postino di Neruda”, dello scrittore cileno Antonio Skármeta diretto da Michael Radford (1994). Qui potrete imbattervi nell’osteria di Beatrice che conquistò il cuore del postino Mario Ruoppolo e magari in sella ad una bicicletta provare a ripercorrere itinerari che portano alle case colorate della Corricella o salire su verso la collina di Terra Murata, raggiungere il borgo antico. Ed è antica la storia di Procida, legata a coloni Micenei come sembrano testimoniare gli ultimi ritrovamenti archeologici, e da sempre qui la natura vulcanica e rigogliosa, le varietà botaniche e faunistiche della

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Nato a San Giorgio a Cremano, il 19 febbraio 1953. avrebbe dovuto sottoporsi ad un trapianto di cuore ma Massimo Troisi scelse di finire “Il Postino” e morì a distanza di dodici ore dal termine delle riprese stroncato da un infarto il 4 giugno 1994. Ricorda Gerardo Ferrara, sua controfigura nel film: «L’ultimo ciak lo battemmo il pomeriggio del 3 giugno a Procida. Mentre andava via, lanciò a tutti noi un saluto strano: ‘Vi amo tutti, non dimenticatevi di me’.». E non ti dimenticheremo mai. Buon compleanno Massimo sei sempre nei nostri cuori e grazie per il tuo capolavoro!

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riserva naturale dell’isolotto di Vivara, dal caratteristico aspetto a mezzaluna, che il “ponte dell’acquedotto” collega alla vicina Procida suggeriscono un turismo lento e sostenibile supportato dall’autenticità della sua gente che accoglie e ammalia per la sua semplicità, per il rapporto autentico che li lega al mare. Non è forse un caso che il primo codice marittimo della storia fu scritto dal procidano Michele De Jorio e che qui, nel settecento, si costruivano bastimenti e brigantini che salpavano verso l’oceano. Ribelle come il mare in tempesta Procida respirò l’aria della rivoluzione partenopea e con il ritorno dei Borbone, dodici Procidani, tra i più influenti e in vista dell'isola, vennero impiccati nella stessa piazza dove era stato issato l'albero della libertà. La storia di Procida è tutta da riscoprire come la bellezza di questo magico fazzoletto di terra di appena quattro chilometri quadrati che racchiude il segreto della felicità. Qui perfino l’aria salmastra di umido che penetra nel naso e nelle ossa nei giorni di burrasca può diventare il più nostalgico dei ricordi. Perché non vorresti mai andar via da un posto che ti sembra catapultare in un’altra dimensione, quasi sospesa, sicuramente non mondana e caotica. Incredibilmente vera. Procida è ancora l’isola dalle nove contrade, le Gracìe: il colorato borgo marinaro de La Corricella che sembra aver rubato i colori dell’arcobaleno, delle strepitose albe e degli infuocati tramonti, Terra murata, la collina che dall’alto

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dei suoi novanta metri dà anche il nome al suo borgo più antico dove si ergono il Castello d’Avalos e l’abbazia di San Michele, Chiaiolella con il suo porto turistico e la sua bellissima spiaggia, Sent'cò con il porto commerciale di Marina Grande, e poi le contrade che prendono il nome da chiese bellissime testimonianza della devozione popolare, del legame profondo con la fede: San Leonardo come la chiesa eretta sulla cappella cinquecentesca, Santissima Annunziata (o Madonna della Libera), e la seicentesca Sant'Antonio. Infine le contrade Sant'Antuono e Sammarezio, la terrazza di Procida, una suggestiva piazzetta dominata dal santuario di Santa Maria delle Grazie. Dal 18 gennaio, data della proclamazione, Procida è balzata al primo posto di una lista che vedeva altrettante meravigliose realtà del Belpaese: Ancona, Bari, Cerveteri (Roma), L’Aquila, Pieve di Soligo /treviso), Taranto e la Grecìa Salentina, Trapani, Verbania, Volterra (Pisa). Nella diretta in streaming sul canale Youtube del MiBACT il ministro Franceschini ha così motivato la scelta: «Il progetto culturale presenta elementi di attratti-

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vità e qualità di livello eccellente. Il contesto di sostegni locali e regionali pubblici e privati è ben strutturato, la dimensione patrimoniale e paesaggistica del luogo è straordinaria, la dimensione laboratoriale, che comprende aspetti sociali e di diffusione tecnologica è dedicata alle isole tirreniche, ma è rilevante per tutte le realtà delle piccole isole mediterranee. Il progetto potrebbe determinare, grazie alla combinazione di questi fattori, un'autentica discontinuità nel territorio e rappresentare un modello per i processi sostenibili di sviluppo a base culturale delle realtà isolane e costiere del paese. Il progetto è inoltre capace di trasmettere un messaggio poetico, una visione della cultura, che dalla piccola realtà dell'isola si estende come un augurio per tutti noi, al paese, nei mesi che ci attendono. La capitale italiana della cultura 2022 è Procida.» E già si stanno attivando sinergie e misure per attuare 44 progetti culturali che si tradurranno in 330 giorni di programmazione con la partecipazione di 240 artisti, 40 opere originali e 8 spazi rigenerati. E al centro Procida, la comunità che si estende oltre l’isola. La cultura non isola, lo slogan scelto dall’efficace comunicazione come estrema sintesi del dossier presentato per la candidatura è più di un motto pubblicitario. è un progetto culturale e messaggio di speranza per ripartire tutti dopo la pandemia. Una pandemia terribile che a distanza di un anno ci costringe all’isolamento, alla distanza mentre la cultura è vicinanza e condivisione. Ecco quale sarà la sfida nel 2022 che si presta ad affrontare Procida neo eletta capitale italiana della cultura. E non solo. Procida, nonostante il suo essere “isola” sarà un punto di collegamento che proprio attraverso il mare che lambisce le sue coste unirà territori e persone. Sarà come ritrovarsi dopo tanto tempo.

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Presepe di Antonio Malecore, Casarano (Lecce), Chiesa di Maria SS Annunziata

antonio maLecore e L’arte deLLa cartapesta Raffaele Polo

I LUOghI DEL MISTERO

Esattamente otto anni dopo la scomparsa del fratello Ugo, ci ha lasciati il maestro Antonio Malecore, formatosi nella bottega dello zio Giuseppe che aveva avviato l’attività nel 1898

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i sono tanti modi per essere 'salentini'. Indipendentemente da quello che si produce o che si sente per la propria terra, ecco che restano alcuni attimi, qualche traccia che, a volte, può essere indelebile e passare indenne attraverso il tempo e la memoria di tante, tantissime persone. E il bello è che queste persone giudicano e si meravigliano;

ma non conoscono l'autore di ciò che li sta facendo profondere in apprezzamenti positivi. É così, sempre più spesso, nella nostra Terra modesta e povera... dove non solo la cucina è povera ma anche l'arte è povera, perchè noi, in sostanza, siamo sempre stati 'poveri' nei confronti di chi, al contrario, ha sempre avuto e gestito tutto. Poveri, ma ricchi, ricchissi-

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mi d'ingegno e di capacità. E così le nostre cose più belle sono 'povere': tra tutte, la cartapesta... Inventata e prodotta proprio per supplire ai costi sempre più proibitivi di chi doveva arredare una chiesa oppure un 'luogo santo' come poteva essere anche il semplice 'cassettone' della stanza da letto. Ed è lì che il genio 'povero' dei nostri salentini d'un tempo, si immortalava. E creava le splendide composizioni religiose, le Madonne, i santi, i Bambini... Ogni pezzo in cartapesta, ma tutto ricco di quella ispirazione artistica e interiore che ne faceva originali unici e irriproducibili.

Antonio Malecore era l'ultimo rappresentante di quei 'Malecore' leccesi che erano la cartapesta più ricercata e famosa: attraverso varie generazioni di cartapestai, erano riusciti a nobilitare definitivamente questa forma d'arte, rendendo il proprio marchio il non plus ultra della produzione salentina. In sostanza, tra i tanti capaci e bravi cartapestai del nostro mondo artistico-artigianale, Malecore aveva scelto uno stile personale, fatto di sfumature e panneggi, un modo tutto 'leccese' di raffinata semplicità, dove il 'barocco' viene in subordine rispetto a quella trascendenza cristiana che ha finito per

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Ditta Malecore Giuseppe sec. XX, Statua di Sant'Antonio da Padova, marchio (sulla base a sinistra) FABBRICA STATUE/ DI CARTAPESTA/ GIUSEPPE MALECORE/ LECCE (ITALIA)Inventario dei beni storici e artistici della diocesi di Vallo Della Lucania (fonte: https://www.beweb.chiesacattolica.it/),

divenire il simbolo, la garanzia dei prodotti della bottega Malecore. Adesso che, sfiorato il secolo di vita, anche Antonio se n'è andato, ci accorgiamo di quale sia stata l'importanza della presenza di questi meravigliosi artigiani, nel percorso culturale della nostra città. Cartapesta se ne fa ancora, certo. E con valenti artisti che si cimentano con le antiche, commuoventi tecniche fatte con elementi poveri (ci risiamo...) ma di imperituro fascino.

E, più che in altre produzioni, nei manufatti della bottega Malecore si connotano e restano quei segni armonici che ne hanno fatto dei veri Maestri di questa Arte. Adesso... Adesso Antonio ha raggiunto suo fratello, i suoi predecessori. E ci piace immaginare che siano tutti Là, in alto. A produrre le inimitabili Madonne, i commuoventi Bambini, i più bei Presepi della nostra Terra...

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Sant'Antonio da Padova, , iscrizione (targa sulla base) BOTTEGA ARTIGIANA DI ANTONIO MALECORE / GIA' DITTA G. MALECORE FONDATA NEL 1898, Inventario dei beni storici e artistici della diocesi di Nardo' - Gallipoli, fonte: https://www.beweb.chiesacattolica.it/

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coLLezione biscozzi rimbaud L’amore per L’arte Antonietta Fulvio

Di prossima apertura a Lecce la sede della Fondazione Biscozzi|Rimbaud voluta da Luigi Biscozzi e realizzata da Dominique Rimbaud con oltre duecento opere di Artisti del Novecento

Storie l’uomo e il territorio

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i possono essere tante declinazioni dell’amore e, prossimamente, a Lecce sarà inaugurato un nuovo spazio espositivo che in sé coniuga l’amore per l’arte e quello per la propria terra. Stiamo parlando della Fondazione Biscozzi | Rimbaud che a Lecce abiterà le sale dello storico palazzo restaurato al numero 4 in piazzetta Baglivi. Qui, grazie ad un restauro attento dello studio Arrigoni Architetti. sono stati recuperati e riscritti gli ambienti che riprenderanno vita unendo la storia del luogo con quello della Collezione Biscozzi Rimbaud. Qui si potranno ammirare le opere di grandi nomi italiani e internazionali dell’arte del Novecento: Filippo de Pisis, Arturo Martini, Enrico Prampolini, Josef Albers, Alberto Magnelli, Luigi Veronesi, con particolare riferimento agli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta: Fausto Melotti, Alberto Burri, Piero Dorazio, Renato Birolli, Tancredi Parmeggiani, Emilio Scanavino, Pietro Consagra, Kengiro Azuma, Dadamaino, Agostino Bonalumi, Angelo Savelli, Mario Schifano e molti altri. E per chi si starà chiedendo come mai la

scelta di Lecce per la sede della Collezione la risposta sta nelle parole dello stesso Luigi Biscozzi che aveva scritto: «Ho un debito di riconoscenza nei confronti della mia città di Lecce: mi ha dato la sua bellezza e una base scolastica che mi ha consentito di proseguire gli studi a Milano». Purtroppo Biscozzi è scomparso nel settembre del 2018, ma sua moglie Dominique ha dato seguito alla realizzazione del sogno di Luigi, tra i nomi più autorevoli nel settore della consulenza fiscale e tributaria in Italia, nato a Salice Salentino nel 1934. Un sogno iniziato nel 1969, quando pian piano Luigi Biscozzi inizia a collezionare opere d’arte. L’anno seguente a Parigi incontra chi diventerà sua moglie e condividerà per oltre quarant’anni la sua stessa passione: Dominique Rimbaud. è un periodo di grande fermento artistico, l’immaginazione al potere era stato lo slogan del ‘68 e a Milano in quegli anni il bar Jamaica è un punto d’incontro per giornalisti, scrittori, critici d’arte e soprattutto artisti destinati a scrivere la storia artistica del Novecento: dai fotografi Mulas, a Dondero, Alfa Castaldi,

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Ingresso Fondazione Biscozzi Rimbaud

ma anche Lucio Fontana, Piero Manzoni, Ettore Sordini, Angelo Verga, Dadamaino. Con la moglie Dominique Luigi Biscozzi viaggia per Biennali e mostre internazionali, interessandosi al dibattito, anche politico, tra realismo, figurazione, informale, astrazione e

collezionando nel tempo oltre duecento opere d’arte. «materiali e oggetti di valenza contraria hanno trovato la loro ragione di coesistere in modo da ottenere, dal loro semplice accostamento, il massimo di tensione del significato, nel puro e semplice gioco dialetti-

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Collezione Biscozzi Rimbaud - Burri, Signori, Savelli, Chighine

co» con queste parole il critico Marco Tagliafierro descrive il corpus della Collezione Biscozzi | Rimbaud nel suo testo per il catalogo generale, preparato in occasione dell’apertura della sede prevista non appena le

misure antiCovid consentiranno l’apertura dei luoghi d’arte (al momento mentre la rivista va online la Puglia resta in fascia arancione, ndr). «La città di Lecce potrà così arricchirsi di un

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Collezione Biscozzi Rimbaud , Palazzo interno con albero

nuovo luogo d’arte e cultura, a beneficio della collettività. Il restauro dell’immobile è stato molto rispettoso nei confronti del contesto architettonico, ispirato a criteri di funzionalità ed eleganza, con le sale dell’esposizione permanente, la biblioteca di storia dell’arte, il laboratorio didattico e uno spazio per mostre temporanee.» è il commento di Dominique Rimbaud, presidente della Fondazione, la cui direzione tecnico-scientifica e la curatela della stessa sono state affidate allo storico dell’arte Paolo Bolpagni che ha chiarito gli intenti della Fondazione che annualmente organizzerà una mostra temporanea sull’arte del XX e XXI secolo e in questa prospettiva sono già stati presi contatti con varie istituzioni e con collezionisti, anche nell’ottica di scambi e rapporti con altri enti

Luigi Biscozzi e Dominique Rimbaud

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Collezione Biscozzi Rimbaud - Bonalumi, Dadamaino, Dadamaino, Morellet

nazionali ed europei. «Il percorso della collezione permanente prevede per l’apertura un itinerario cronologico e per tipologie stilisticoformali di circa settanta opere: dalle origini del contemporaneo alla sezione sull’informale in Italia e in Europa, per passare poi al filone astratto-geometrico e cinetico-programmato, alla pittura analitica e, infine, alle ricer-

che che oltrepassano gli statuti tradizionali del quadro e della scultura». Per quanto concerne la sede situata nella piazza su cui si affaccia la settecentesca chiesa di Santa Maria della Provvidenza, meglio nota come chiesa delle Alcantarine non si trattava di un palazzo nobiliare ma spiega lo stesso direttore Bolpagni - probabil-

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Collezione Biscozzi Rimbaud - Bonalumi, Dadamaino, Dadamaino, Morellet

Collezione Biscozzi Rimbaud Mussio, Sava

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Storie l’uomo e il territorio

Fondazione Biscozzi Rimbaud - Mostra Savelli

mente in origine l’immobile faceva parte del convento delle suore Alcantarine, poi demolito. In seguito, pare che vi abbia abitato il celebre anatomista e scienziato dalmata Giorgio Baglivi (1668-1707), che si trasferì a Lecce nel 1683 e al quale è dedicata la piazza in cui ora si trovano gli spazi museali della Fondazione Biscozzi | Rimbaud. Disposto su due piani, con un cortile interno, l’edificio presenta sale a volta di differenti dimensioni e locali più piccoli. E mentre nelle dodici sale del piano nobile sono dedicate alla Collezione permanente, al piano terra sono state disposte le funzioni di supporto all’attività propriamente museografica; il foyer di ingresso, due sale studio, la stanza per le attività laboratoriali ed il gioco, e tre sale che saranno dedicate agli allestimenti temporanei, con l’affaccio sulla corte interna, e che in occasione dell’apertura ospiteranno fino al 7 novembre 2021 la mostra di Angelo Savelli.

«Nel suo complesso, l’intero restauro è stato estremamente rispettoso nei confronti del contesto architettonico, anche nell’utilizzo dei materiali e nel mantenimento dei volumi esistenti, irregolari e spesso asimmetrici come tipico in questo genere di edifici del centro storico di Lecce. I dettagli decorativi originali superstiti sono stati mantenuti e valorizzati.» Il luogo, nel solco dello spirito filantropico perseguito dalla stessa Fondazione, è pensato come un “centro delle arti”, dedicato all’esplorazione e alla condivisione collettiva delle possibilità che nascono dal dialogo tra discipline diverse: arti visive, architettura, video, cinema, ma anche musica, letteratura e teatro. In occasione dell’apertura uscirà, in triplice versione italiana, francese e inglese, il catalogo generale della collezione, a cura di Roberto Lacarbonara, pubblicato da Silvana Editoriale.

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Collezione Biscozzi Rimbaud - Matino, Schifano, Zorio, Verdirame, Esposito

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Cattedrale di S.Agata_Catania, reportage fotografico di Sara Foti Sciavaliere

i Luoghi di sant’agata a catania Sara Foti Sciavaliere

Un itinerario di storia e fede dedicato alla Santuzza del capoluogo etneo

Storie l’uomo e il territorio

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l 3 febbraio prendono il via le festività agatine, una pittoresca manifestazione di fede e folclore popolare, di credenze e rievocazione storica, che culmina il 5 febbraio, il giorno dell’ultimo martirio di Sant’Agata che a Catania, la sua città, subì nell’anno 251 d.C. Erano i tempi delle persecuzioni dell’imperatore Decio contro i cristiani e Agata erano una giovane nobile e cristiana che aveva attirato l’interesse di Quinziano, il proconsole romano della

Sicilia, il quale amministrava la giustizia dell’Urbe da Catania, che a quel tempo era la città di riferimento per l’intera provincia romana sicula. Quinziano tentò più volte di avere la bella Agata, ma lei, seppure poco più che adolescente era già una fervente cristiana, tanto che dal vescovo locale aveva ricevuto il permesso di indossare il velo rosso delle vergini votate a Cristo, il cosiddetto flammeum, proprio per il colore rosso di una fiamma. Si racconta

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Storie l’uomo e il territorio

Da sx: Lapide casa natale di S.Agata-via Biscari;lapide e finestrella antico carcere- Santaurio S.Agata al Carcere; , reportage fotografico di Sara Foti Sciavaliere

che il proconsole fosse uomo rude e superbo e incassò male il “due di picche” della ragazza, tanto che in risposta mandò le sue guardia ad arrestarla nella casa di Galermo – una località poco a nord-ovest di Catania –, dove la vergine e la sua famiglia si erano trasferiti dalla dimora cittadina. Di quest’ultimo luogo non rimane che una marmorea lapide commemorativa, posta sul prospetto meridionale dell’ex convento di San Placido – in via Museo Biscari –, per segnalare il presunto luogo della casa natale della Santuzza: nei locali sotterranei del convento è stata rinvenuta una stanza databile probabilmente al III sec. d.C. Ma proseguiamo il nostro percorso nel cuore del capoluogo etneo e immaginiamo quei luoghi di oggi che si sovrappongono a quelli di ieri, di

un lontano passato del qual però è possibile ancora coglierne frammenti. Riprendiamo dunque la storia della bella Agata, muovendoci sui suoi passi. Una volta arrestata, la vergine fu condotta nella casa della matrona romana nota – non a caso – con il nome di Afrodisia, dove la ragazza fu rimproverata emessa in guardia sui pericoli che l’aspettavano se si fosse ostinata a professore l’illegale credo cristiano anziché adorare gli dèi romani e avesse perseverato nel suo rifiuto al proconsole. Per un intero mese – era il gennaio 251 d.C. –, la matrona e le sue nove figlie – secondo la tradizione, tutte dissolute quanto la madre – tentarono ripetutamente di convincere Agata a rinunciare ai voti e ad abbandonarsi ai piaceri della vita; lei però fu irremovibile

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Da Sx: fornace del martirio-in S.Agata alla Fornace; fornace del martirio-in S.Agata alla Fornace; Cameredda, Cattedrale S.Agata; Reliquia, Mammella,S.Agata, Museo Basilica di Galatina, reportage fotografico di Sara Foti Sciavaliere

nella fermezza della sua fede e Quinziano, spazientito, ordinò che fosse condotta al proprio cospetto con l’accusa di rifiutare di antichi dèi, quindi scortata dalle guardie nel palazzo del proconsole e rinchiusa nel buio carcere civico. Il palazzo era un enorme complesso di edifici collocato sul margine nord-orientale della collina di Monte Vergine e si affacciava sul sottostante anfiteatro cittadino, quello stesso di cui oggi se ne possono ammirare i resti nello scavo di Piazza Stesicoro, mentre sul fondo scena si erge in altura una chiesa, quella di San Biagio in Sant’Agata alla Fornace, più su, alle sue spalle, percorrendo un tratto di via Cappuccini c’è il Santuario di Sant’Agata al Carcere. Sono questi i luoghi più strettamente connessi alla testimonianza di fede della vergine e al suo martirio. Il suo processo durò tre giorni ed ebbe inizio con la richiesta di rinnegare la sua fede in Cristo, ma all’ennesimo rifiuto della ragazza il

proconsole diede l’ordine di sottoporla a supplizi sempre più terribili finché non avesse abbandonato il suo credo e riconosciuto e adorato gli dèi e l’imperatore. I carnefici dapprima la schiaffeggiarono con crescente violenza mentre la intimavano a rinnegare Cristo, ma sembrava irremovibile e Quinziano ordinò che venisse legata a un eculeus – un cavalletto di legno – per essere frustata, stirata dai polsi e dalle caviglie, e infine lacerata nelle carni con uncini di ferro. Neanche il terribile dolore fece cavillare la fede di Agata , scatenando l’ira del proconsole che la fece sottoporre alla tortura dello strappo delle mammelle con lame e tenaglie roventi. Alla nuova richiesta di abiurare, secondo la tradizione, la giovane malgrado il patimento ebbe la forza di rispondere a Quinziano: «Empio, crudele e disumano tiranno, non ti vergogni di strappare ad una donna le sorgenti della vita da cui prendesti alimenti dal petto di tua madre?». Fiaccata nel corpo ma non nello

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ta da S.Pietro” intende ricordare l’evento prodigioso. Scene del supplizio dell’asportazione delle mammelle invece sono proposte in alcune tele visibili in diverse chiese di Catania, ad esempio nella Chiese benedettine di San Nicolò l’Arena, con l’opera del XVIII secolo di Mariano Rossi, e il dipinto settecentesco di un autore ignoto nella Chiesa di San Benedetto. Intanto Quinziano rimane impressionato dalla repentina ripresa della ragazza e sentenzia per lei la definitiva condanna a morte mediante il supplizio dei carboni ardenti. I carnefici allora, non potendo eseguire la condanna nel palazzo pretorio – poiché per motivi di sicurezza, era vietato bruciare i condannati all’interno delle mura urbiche – predisposero una fornace fra il palazzo e il vicino anfiteatro, a quei tempi in area extraurbana e oggi dove si trova appunto la Chiesa di Sant’Agata alla Fornace, all’interno della quale è ancora oggi visibile, appunto, una

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spirito, Agata fu quindi ricondotta nei sotterranei del palazzo e fu rinchiusa nella sua piccola cella, con il categorico divieto di lasciarle ricevere cure per le orribili ferite che le squarciavano il petto sanguinante. Quella notte tuttavia le ferite furono guarite e la tradizione religiosa riferisce che all’indomani i seni erano cresciuti miracolosamente per opera di San Pietro che le aveva fatto visita. Tale episodio è ricordato da una lapide e un bassorilievo che troviamo nella parete esterna del bastione cinquecentesco in cui è inserita la Chiesa di S.Agata al Carcere; sulla parete in questione si vede una piccola apertura con una griglia, che corrisponde ai locali in cui esistono i ruderi del carcere romano che vide la Santuzza prigioniera, e sotto la finestrella è posta una lapide con parte del dialogo fra Agata e San Pietro nella notte dopo il martirio dello strappo della mammelle, ma anche una tela settecentesca nella Chiesa di S.Agata la Vetere, “S.Agata visita-


Da sx: Fonte Lanaria; Martirio di S.Agata-Chiesa San Benedetto, reportage fotografico di Sara Foti Sciavaliere

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fornace, che la tradizione vuole proprio quella del martirio della santa. Predisposto il luogo dell’ultimo supplizio – come racconta anche la tela del 1938 del pittore acese Salvatore Barone, all’interno della stessa chiesa – la vergine fu fatta rotolare più volte sulle braci, alle quali erano stati aggiunti cocci aguzzi di ceramica resi roventi dal carbone incandescente. In quel momento però un violento terremoto, storicamente attestato, sconvolse la città e provocò gravi danni al palazzo di Quinziano; la condanna fu così sospesa e lei ricondotta in fretta in cella, ma i cittadini ormai stanchi di tanta brutalità nei confronti della ragazza e impressionati dall’accaduto, presero d’assalto il palazzo del proconsole per liberare Agata. Poterono solo consolarla negli ultimi attimi di vita, perché quel 5 febbraio del 251 d.C., la martire morì nel carcere del palazzo pretorio in seguito agli atroci tormenti. Il corpo di Agata fu portato via dagli

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insorti e preparato per la tumulazione, ma le frettolose circostanze non avevano permesso di procurare un adeguato sarcofago, così ne fu utilizzato uno già esistente in marmo bianco, di derivazione pagana, e per renderlo appropriato alla sepoltura cristiana furono scalpellate alcune delle originarie immagini e lasciate inalterate solo quelle ritenute compatibili alla fede della martire, ossia due grifoni, che nella simbologia cristiana vengono letti come la forza e la fede incrollabile da lei dimostrati. Il sarcofago – oggi usato come altare maggiore nella Chiesa di S.Agata la Vetere, l’antica cattedrale di Catania – con le spoglie fu posti nella Chiesa di San Gaetano alle Grotte, in origine una grotta vulcanica dalla quale viene ricavata poi una cisterna ipogea di epoca romana e in seguito riadattata all’uso di sepolcreto paleocristiano. Le spoglie furono molto venerate, sia dai catanesi sia dai cristiani che si recavano in città, soprattutto dal IV sec.d.C. con l’affermarsi del Cri-


cassa lignea-reliquiario-Chiesa S.Agata la Vetere, reportage fotografico di Sara Foti Sciavaliere

stianesimo quale religione ufficiale. Fin quando, nel gennaio 1040, le spoglie furono portate via dal generale bizantino Giorgio Maniace, in Sicilia per conto di Bisanzio nel tentativo di riconquista dell’isola: l’ufficiale abbandonata l’impresa militare, portò con sé le reliquie della patrona di Catania, che verranno trasferite nella Basilica di Santa Sofia, dove vi rimangono per ottantasei anni, finché Sant’Agata appare in sogno al crociato Gisliberto pregandolo di essere riportata nella sua città natale. Il cavaliere cristiano, aiutato nell’impresa dall’amico Goselmo (entrambi sepolti in una cappella della Cattedrale catanese, come testimonia una piccola lapide lì posta), riesce a trafugare le reliquie a riportarle a Catania il 17 agosto del 1126 dopo un avventuroso viaggio in mare. Una piccola curiosità nel nostro itinerario è la Fonte Lanaria, una fontana – seconda per antichità a Catania,

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dopo quella comunemente detta dei “Sette Cannola” – addossata alle cinquecentesche mura della città, nell’attuale via Dusmet, che prende il nome dal duca spagnolo Franc e s c o Lanaro, che qui nel 1621 fece costruire il monumento a ricordo della realizzazione della litoranea proprio quell’anno e – per quel che ci riguarda – a ricordo del punto dove, si dice, furono imbarcate le reliquie della Santa v e r s o Costantinopoli. E a proposito di quel viaggio, facciamo una digressione e scopriamo altri luoghi legati

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Cappella S.Agata-Catedrale_ reportage fotografico di Sara Foti Sciavaliere


Da sx: Martirio S.Agata-Chiesa San Nicolo; Martirio dei carboni-S.Agaa alla Fornace; Martirio S.Agata -cattedrale Gallipoli, foto di Sara Foti Sciavaliere

zio verso casa, con tappa, tra le altre a Taranto, che giustificherebbe la deviazione nella rotta di navigazione. Tale reliquia dall’estate del 1126 fu deposta nella basilica eretta nel borgo marinaro di Gallipoli in onore della santa, ma nel 1389 il principe Raimondello Orsini Del Balzo la fece trasferire a Galatina, dove scrivevo sopra è ancora oggi conservata. Nella Cattedrale di S.Agata a Gallipoli troviamo anche la statua della martire in carparo sulla facciata o ancora le tele del napoletano Nicola Malinconico con un ciclo di pitture sulla storia della santa catanese che si affiancano al “Martirio di S. Agata” del dipinto del gallipolino Giovanni Andrea Coppola sull’altare dedicato alla Santa.

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alla Santuzza, lontana sia dalla patria che dalla città che l’aveva “ospitata” per quasi un secolo, fermandoci invece in quella terra dell’Occidente meridionale che guardava ad Oriente, la Terra d’Otranto,il Salento. Cosa a che vedere con la patrona di Catania? è presto detto: una delle mammelle della martire è conservata nel Museo della Basilica di Santa Caterina d’Alessandria a Galatina (Lecce), tra le reliquie del tesoretto orsiniano, custodita in un prezioso reliquiario accanto al dito di Santa Caterina. Ma come è arrivata qui e perché? In realtà, la reliquia della vergine martirizzata era approdata sulla spiaggia del Seno della Purità a Gallipoli, pare nel corso di quel travagliato viaggio in mare, da Bisan-

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Dopo questa digressione, ritorniamo a Catania dove intanto le spoglie della martire erano rientrate. Da tradizione si racconta che la cassa lignea per il trasporto delle reliquie potrebbe essere quella oggi visibile nella Chiesa di Sant’Agata la Vetere, sotto un busto reliquiario dell’800 in materiale povero, copia del più prezioso – in argento sbalzato e cesellato con decori oro, gemme e smalti – custodito nella cappella della patrona in Cattedrale e visibile solo nei giorni della festività. Dal loro arrivo nel capoluogo etneo, le sacre reliquie sono conservate nel luogo più sicura della Cattedrale, la cosiddetta Cameredda, un piccolo vano ricavato nelle possenti mura che formano le absidi normanne, a cui si

accede unicamente dalla cappella a lei intitolata. Nella cassa reliquiaria, o scrigno, di epoca medievale, sono contenuti le gambe, i piedi, le braccia, le mani, una mammella e il velo della Santuzza. è il velo rosso della martire al centro del primo miracolo, a circa un anno dalla sua morte, quando una spaventosa eruzione dell’Etna minacciò Catania: si narra che in quell’occasione, per fronteggiare il terribile evento, i catanesi presero il velo rosso della Santa, che ricopriva il suo sarcofago, e lo portarono in processione fino al fronte lavico, e lì, fra lo stupore generale, il prodigio, poiché la lava si arrestò. Proprio in seguito a quel miracolo, Agata sarà proclamata santa ed eletta patrona della città.

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Quando dante saLvò primo Levi Giusy Gatti Perlangeli

Il 2021 è l’anno di Dante sono trascorsi 700 anni dalla sua morte ma i versi della Divina sfidano il tempo e la memoria

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iamo entrati nell’anno di Dante. Sono passati sette secoli dalla sua morte (Ravenna, 14 settembre 1321) e ancora ci incanta. Ci incanta e ci salva: i suoi versi, “mandati a mente” quando maestri e professori avevano il coraggio di assegnare interi canti a memoria, ci sono rimasti dentro come un DNA profondo che sfida il tempo e la memoria. Punto di riferimento imprescindibile, i versi della Commedia sono lì, sponda sicura alla quale aggrapparsi nell’ora più buia. Primo Levi ce lo racconta da par suo, con quella prosa asciutta e mai fredda, lucida testimonianza dell’inferno del lager.

c’è ove specchiarsi, ma il nostro aspetto ci sta dinanzi, riflesso in cento visi lividi, in cento pupazzi miserabili e sordidi”.

Per Levi, come per Dante, “significar per verba non si porìa”. La lingua si rivela orfana delle parole adatte a esprimere l’abdicazione all’umanità: “Allora per la prima volta ci siamo accorti che la nostra lingua manca di parole per esprimere questa offesa, la demolizione di un uomo. In un attimo, con intuizione quasi profetica, la realtà ci si è rivelata: siamo arrivati al fondo. Più giù di cosi non si può andare: condizione umana più misera non c’è, e non è pensabile”. Entrambi non trovano le parole. Tra le baracche e il refettorio, l’infermeria e i Ma è proprio in questo “non dire” l’eloquente forni si impazzisce, si smarrisce la ragione potenza del loro messaggio. ancor prima della vita. Questo è l’ultimo stadio. Dopo aver perso tutto, si finisce per per- Nella “perpetua Babele” di Auschwitz, “in cui dere se stessi: “quando abbiamo finito, cia- tutti urlano ordini e minacce in lingue mai udiscuno è rimasto nel suo angolo, e non abbia- te e guai a chi non afferra al volo”, in cui si mo osato levare gli occhi l’uno sull’altro. Non aggira “un tramestio di personaggi senza

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Dante Alighieri, ritratto di Botticelli

nome né volto annegati in un continuo assordante rumore di fondo (…) la parola umana non affiorava”. “Nulla è più nostro: ci hanno tolto gli abiti, le scarpe, anche i capelli; se parleremo non ci ascolteranno, e se ci ascoltassero non capirebbero. Ci toglieranno anche il nome: e se vorremo conservarlo, dovremo trovare la forza di farlo, di fare sì che dietro al nome, qualcosa ancora di noi, di noi quali eravamo, rimanga”.

u m a n o , aggrappato al di qua del baratro della barbarie.

Ed è qui, che la poesia di Dante, pur studiata malvolentieri a scuola, viene invocata al soccorso. Lo stesso Levi ebbe a confessare: “Preferivo la chimica. Mi annoiavano le lezioni di teoria poetica, la struttura del romanzo e roba del genere. Ma quando fu il momento e dovetti scrivere “Se questo è un uomo”, e allora avevo davvero un bisogno patologico di La parola: è di scriverlo, trovai questo che ha dentro di me bisogno il una sorta di deportato Levi, “programma”. m a t r i c o l a E si trattava di 174517. quella stessa Tra le urla, le letteratura che menzogne, la avevo studiato mistificazione più o meno con della realtà e riluttanza, di l’attribuzione quel Dante che arbitraria delle ero stato colpe, ha biso- costretto a leggno della paro- gere alla scuola la per restare superiore.”

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Dante però non si offende: sa bene che se non s’incontra il prof. innamorato dei suoi versi, la Commedia non passa. Non ce l’ha con Levi e quindi arriva: Dante scende di nuovo agli inferi per salvare un giovane chimico torinese. Tutta l’opera è disseminata di citazioni, riferimenti, simmetrie, parallelismi, ma anche asimmetrie e ribaltamenti: Dante è lì, la Commedia è lì e porta umanità laddove questa è morta. Ma c’è un capitolo in “Se questo è un uomo” che ricostruisce come, nella mente del deportato Levi, il Sommo Poeta irrompa come la tromba del Giudizio Universale e se ne impossessi, sia pur tra blackout, sprazzi di versi e lacune mnemoniche. è il momento in cui Levi si pente di non aver studiato abbastanza, di non aver colto l’occasione unica che la scuola offre ad ogni studente, di imparare ciò che (nella gran parte dei casi) mai più studierà nella vita, ma che poi resta per sempre. In quel momento Levi ha bisogno di Dante, vuole tornare indietro…a quando i problemi stavano tutti nel manuale di letteratura e in un quaderno dalla copertina nera. Nel capitolo XI intitolato “Il canto di Ulisse” narra la sto-

ria dell’amicizia con Jean, detto Pikolo, il più giovane del Kommando Chimico. Una mattina i due erano di corvée per il trasporto del rancio, una marmitta di cinquanta chili retta da due stanghe di legno che doveva essere ritirata a un chilometro di distanza: un duro lavoro che, tuttavia “comportava una gradevole marcia di andata senza carico”. Pikolo aveva “scelto accortamente la via in modo che avremmo fatto un lungo giro, camminando almeno un’ora, senza destare sospetti”. Il ragazzo, che essendo di origini alsaziane, parla perfettamente francese o tedesco (“è indifferente, può pensare in entrambe le lingue”) esprime un desiderio: “è stato in Liguria un mese, gli piace l’Italia, vorrebbe imparare l’italiano. Io sarei contento di insegnargli l’italiano: non possiamo farlo? Possiamo. Anche subito (…), l’importante è di non perdere tempo, di non sprecare quest’ora”. Apparentemente bizzarra la scelta di Levi: iniziare dal canto XXVI dell’Inferno, il canto di Ulisse. “... Il canto di Ulisse. Chissà come e perché mi è venuto in mente: ma non abbiamo tempo di scegliere, quest’ora già non è più un’ora. Se Jean è intelligente capirà. Capirà: oggi mi sento da tanto” L’operazione non è semplice, ma per Levi rappresenta un’esperienza antica e nuo-

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va a un tempo. “... Chi è Dante. Che cosa è la Commedia. Quale sensazione curiosa di novità si prova, se si cerca di spiegare in breve che cosa è la Divina Commedia. Come è distribuito l’Inferno, cosa è il contrappasso. Virgilio è la Ragione, Beatrice è la Teologia. Jean è attentissimo, ed io comincio, lento e accurato: Lo maggior corno della fiamma antica Cominciò a crollarsi mormorando, Pur come quella cui vento affatica. Indi, la cima in qua e in là menando Come fosse la lingua che parlasse Mise fuori la voce, e disse: Quando... Qui mi fermo e cerco di tradurre. Disastroso: povero Dante e povero francese! Tuttavia l’esperienza pare prometta bene: Jean ammira la bizzarra similitudine della lingua, e mi suggerisce il termine appropriato per rendere «antica»”. Blackout della memoria. Levi non si ricorda. “E dopo «Quando»? Il nulla. Un buco nella memoria «Prima che sì Enea la nominasse». Altro buco. Viene a galla qualche frammento non utilizzabile: «... la piéta del vecchio padre, né ’l debito amore Che doveva Penelope far lieta...» sarà poi esatto?”


Primo Levi (Torino, 31 luglio 1919 – Torino, 11 aprile 1987)

A questo punto, una luce, un’epifania! “... Ma misi me per l’alto mare aperto. Di questo sì, di questo sono sicuro, sono in grado di spiegare a Pikolo, di distinguere perché «misi me» non è «je me mis», è molto più forte e più audace, è un vincolo infranto, è scagliare se stessi al di là di una barriera, noi conosciamo bene questo impulso. L’alto mare aperto: Pikolo ha viaggiato per mare e sa cosa vuol dire, è quando l’orizzonte si chiude su se stesso, libero diritto e semplice, e non c’è ormai che odore di mare: dolci cose ferocemente lontane”. Sente il mare Levi, gli occupa la mente, passa per gli occhi e gli inonda l’anima. Il suo profumo, le tracce della salsedine “dolci cose ferocemente lontane”. «Mare aperto». «Mare aperto». So che rima con «diserto»: «... quella compagna picciola, dalla qual non fui diserto», ma non rammento più se viene prima o dopo. E anche il viaggio, il temerario viaggio al di là delle Colonne d’Ercole, che tristezza, sono costretto a raccontarlo in prosa: un sacrilegio”. è una questione antica come la scuola: parafrasare, dice Levi, è sacrilegio! La poesia è comunicazione empatica, immediata, è flusso di coscienze, intuizione, analogia. Farne la “versione in prosa” è una contraddizione, giustificata (neanche troppo) da un mero fine didattico. “Non ho salvato che un verso, ma vale la pena di fermarcisi: ... Acciò che l’uom più oltre non si metta. «Si metta»: dovevo venire in Lager per accorgermi che è la stessa espressione di prima, «e misi me». Ma non ne faccio parte a Jean, non sono sicuro che sia una osservazione importante. Quante altre cose ci sarebbero da dire, e il sole è già alto, mezzogiorno è vicino. Ho fretta, una fretta furibonda”. Il tempo scorre lento nel campo, ma Primo e Jean non ne hanno più: l’ora di lezione sta passando troppo in fretta. “Ecco, attento Pikolo, apri gli orecchi e la mente, ho bisogno che tu capisca: Considerate la vostra semenza: Fatti non foste a viver come bruti Ma per seguir virtute e canoscenza. Come se anch’io lo sentissi per la prima volta: come uno squillo di tromba, come la voce di Dio. Per un momento, ho dimenticato chi sono e dove sono”.

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Lo stupore per la perfezione di questi versi (fusione altissima tra contenuto e forma), porta Levi al di là della sua stessa condizione di reietto, al di là del filo spinato, delle urla incomprensibili. Al rumore di fondo viene contrapposta la musicalità dei versi: prova inconfutabile dell’essere ancora tenacemente umani. Umani, nonostante tutto. Umano è il valore di quest’amicizia: Pikolo probabilmente ha capito ben poco, ma chiede a Primo di ripetere, perché “sa” che quei versi gli fanno bene. “Pikolo mi prega di ripetere. Come è buono Pikolo, si è accorto che mi sta facendo del bene. O forse è qualcosa di più: forse, nonostante la traduzione scialba e il commento pedestre e frettoloso, ha ricevuto il messaggio, ha sentito che lo riguarda, che riguarda tutti gli uomini in travaglio, e noi in specie; e che riguarda noi due, che osiamo ragionare di queste cose con le stanghe della zuppa sulle spalle. Li miei compagni fec’io sì acuti... ... e mi sforzo, ma invano, di spiegare quante cose vuol dire questo «acuti». Qui ancora una lacuna, questa volta irreparabile. «...Lo lume era di sotto della luna» o qualcosa di simile; ma prima?... Nessuna idea, «keine Ahnung» come si dice qui. Che Pikolo mi scusi, ho dimenticato almeno quattro terzine”. è buono Pikolo: “si è accorto” che per il suo amico italiano recuperare quei versi è vitale: “– Ça ne fait rien, vas-y tout de même. ... Quando mi apparve una montagna, bruna Per la distanza, e parvemi alta tanto Che mai veduta non ne avevo alcuna. Sì, sì, «alta tanto», non «molto alta», proposizione consecutiva. E le montagne, quando si vedono di lontano... le montagne... oh Pikolo, Pikolo, di’ qualcosa, parla, non lasciarmi pensare alle mie montagne, che comparivano nel bruno della sera quando tornavo in treno da Milano a Torino!” Ecco, dopo il mare, nel ricordo di Primo Levi

si stagliano alte le “sue montagne”, quelle di cui conosceva ogni sinuosa forma in cui la roccia si inerpica e diventa tutt’uno col “bruno della sera. Struggimento infinito. “Basta, bisogna proseguire, queste sono cose che si pensano ma non si dicono. Pikolo attende e mi guarda. Darei la zuppa di oggi per saper saldare «non ne avevo alcuna» col finale. Mi sforzo di ricostruire per mezzo delle rime, chiudo gli occhi, mi mordo le dita: ma non serve, il resto è silenzio. Mi danzano per il capo altri versi: «... la terra lagrimosa diede vento...» no, è un’altra cosa. è tardi, è tardi, siamo arrivati alla cucina, bisogna concludere: Tre volte il fe’ girar con tutte l’acque, Alla quarta levar la poppa in suso E la prora ire in giù, come altrui piacque... Trattengo Pikolo, è assolutamente necessario e urgente che ascolti, che comprenda questo «come altrui piacque», prima che sia troppo tardi, domani lui o io possiamo essere morti, o non vederci mai più, devo dirgli, spiegargli del Medioevo, del così umano e necessario e pure inaspettato anacronismo, e altro ancora, qualcosa di gigantesco che io stesso ho visto ora soltanto, nell’intuizione di un attimo, forse il perché del nostro destino, del nostro essere oggi qui…”. Pikolo e Primo sono lì «come altrui piacque»: è difficile capire, quale “volontà” abbia permesso la creazione di questo inferno. “Siamo oramai nella fila per la zuppa, in mezzo alla folla sordida e sbrindellata dei porta-zuppa degli altri Kommandos. I nuovi giunti ci si accalcano alle spalle. – Kraut und Rüben? – Kraut und Rüben –. Si annunzia ufficialmente che oggi la zuppa è di cavoli e rape:

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La barca di Dante di Eugène Delacroix, 1822

– Choux et navets. – Kaposzta és répak. Infin che ‘l mar fu sopra noi rinchiuso”. Come Ulisse con Dante, Levi ci ha rivelato come, di fronte alla paura più grande che l’uomo possa provare (la paura dell’annullamento di sé e della morte), si scopra l’essenza più profonda della propria umanità. Lo dico da docente di lettere: ogni lezione di italiano è una vertigine. Parte da uno spunto, ma poi si eleva, fino ad attingere significati che trascendono la disciplina scolastica e non terminano col suono della campanella,

ma germogliano, aprendo la strada ad una ricerca di senso continua. Attraverso il Canto di Ulisse, Levi recupera, sia pure per un’ora, quell’umanità e quella dignità sistematicamente negate nel campo di sterminio, e, nello stesso tempo testimonia che il recupero della memoria è condizione essenziale della conoscenza. Senza memoria non sappiamo niente. Senza memoria non siamo niente.

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azzurri gLi oceani di Franco simone

Il nuovo album in uscita il 5 febbraio sigla la collaborazione con il maestro Andrea Morricone. Il videoclip, girato nel Salento, tra Otranto e Lecce omaggio del cantautore alla sua terra d’origine

“Azzurri gli oceani” del cantautore salentino Franco Simone al primo ascolto fa venire voglia di ballare. Di uscire fuori, incontro al mare, il magico Adriatico che bagna Otranto e perdersi tra le strade del Salento, tra i vicoli di Lecce, dove è stato girato il videoclip con l'attenta regia di Daniele Fusco. Sono note che si intrecciano al respiro della libertà, che sanno di sale, di desideri sognati, appagati e di amore. In primis per la musica per Franco Simone, protagonista della canzone italiana, molto noto e acclamato in America Latina, che torna con un raffinato lavoro discografico anticipato dal singolo prodotto da Skizzo Edizioni Musicali su Etichetta Clodio Music. “Azzurri gli oceani” è pubblicato in lingua italiana, spagnola e francese, proprio a sottolineare la forza espansiva del dialogo fra le arti che Franco Simone porta ovunque con classe e determinazione da tempo.

La canzone sigla un'inedita e straordinaria collaborazione fra lo stesso cantautore e il maestro Andrea Morricone, figlio del mitico Ennio, ma lui stesso già consegnato all'albo d'oro della musica mondiale, per aver firmato, tra l'altro, il celeberrimo tema d'amore del film premio Oscar "Nuovo Cinema Paradiso". La collaborazione con Andrea Morricone ha preso il via circa un anno fa. I due artisti hanno lavorato a distanza, senza che ciò abbia potuto fermare la comunicazione tra di loro. “Considero la musica sudamericana dichiara il maestro Morricone - una parte importante nello scenario della musica mondiale e ho scritto questo brano in questo stile. Finalizzare tale lavoro con Franco è stato naturale, data la sua popolarità in Sud America e non solo. In definitiva, "Azzurri gli oceani" si presenta come un brano senza tempo in cui convivono rit-

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Il cantautore salentino Franco Simone, in baso con il maestro Andrea Morricone

mo, empatia, modernità, gusto del classico. La splendida vocalità di Franco si unisce alle sue bellissime liriche che interpretano con avvincente creatività il senso delle mie note." Si tratta dell'ennesimo evidente segno dell'incredibile percorso artistico del cantautore che da quasi cinquant'anni vive per l'arte. Ha venduto dischi, a decine di milioni nel mondo, ha collezionato riconoscimenti internazionali fra i più prestigiosi (dischi d'oro e di platino, due gondole d'oro a Venezia, due Telegatti, un Leone d'oro alla carriera a Venezia, un premio per la Cultura etnicamusicale a Bruxelles, un premio per il miglior album dell'anno ad Atene, il premio come miglior paroliere italiano dell'anno, un Globo d'oro della Stampa Estera per la migliore

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canzone da film, una laurea ad honorem in "Tecnica della Comunicazione"), ma Franco Simone resta comunque, quell'artigiano della musica, che è riuscito a toccare il cuore di tanto pubblico, in tutto il mondo: il poeta con la chitarra. La collaborazione col maestro Morricone, voluta fortemente da entrambi con entusiasmo, apre un nuovo capitolo che riserva altre sorprese. Nell'album in uscita il 5 febbraio 2021 c'è un secondo brano firmato Morricone/Simone e già si parla di altre future collaborazioni. Le tre versioni usciranno in contemporanea, curate direttamente dallo stesso Franco Simone che, come è solito fare, scrive e traduce i suoi testi nelle varie lingue. L'arrangiamento, brillante e maestoso, è del maestro Alex Zuccaro.


La maremma per dante, suLLe tracce deL sommo poeta

Un ricco programma di eventi per celebrare i 700 anni dalla morte del Sommo Poeta

I luoghi nella parola

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i intitola “La Maremma per Dante, Cultura per la vita 1321 – 2021 il progetto messo a punto da trenta istituzioni pubbliche e private, attive a Grosseto nel settore della cultura e dell'associazionismo, che si sono costituite in Comitato Celebrativo in occasione dei Settecentenario della morte del Sommo Poeta. Un ricco programma di eventi, conferenze, concerti, letture pubbliche, performance, mostre, percorsi guidati, attività ricreative e sportive da realizzare tra febbraio e novembre 2021 nella Maremma, naturalmente. «In età medievale, - spiega Renata Adriana Bruschi coordinatrice de La Maremma per Dante - diversi borghi della Maremma, eredi della tradizione etrusca e poi romana, attraversano un periodo assai vivace la cui storia oggi è poco ricordata. Da questa zona parte verso Parigi Andrea da Grosseto, enigmatico studioso che nel 1268 completa la traduzione in volgare dei trattati morali di Albertano da Brescia. Non è semplice stabilire se Dante abbia trascorso qualche periodo della sua vita in Maremma, pur quando il poeta ne descrive alcuni aspetti in modo convincente, tanto da sembrare il risultato di un'osservazione diretta. Il primo riferimento compare ad inizio del Canto XIII dell'Inferno, quando la selva dei suicidi viene descritta come un luogo incolto

simile al litorale che si sviluppa da Cecina a Tarquinia. Ad un ambiente naturale modellato sul paesaggio maremmano Dante allude nuovamente in Inferno XXV e XXIX. Nei canti del Purgatorio si leggono altri riferimenti a personaggi dell'epoca dantesca: gli Aldobrandeschi, la commovente Pia, forse da identificare con Pia Malavolti, signora di Prata, ed inoltre sono citati i borghi di Talamone, Santa Fiora, Castel di Pietra, Castell'Azzara, Sovana e Campagnatico.» E questi luoghi suggestivi, tutti da riscoprire della Maremma toscana, faranno da scenografia naturale alle tante conferenze tematiche, letture e concerti che si terranno tra maggio e settembre 2021. E in occasione del Dantedì, il prossimo 25 marzo, la Società Corale Giacomo Puccini di Grosseto, diretta dal Maestro Walter Marzilli terrà un concerto e a fine novembre 2021, durante la Festa della Toscana, eseguirà le opere segnalate o premiate partecipanti al Concorso “PuccinInsieme al Sommo Poeta”. «Il Concorso internazionale, - spiega la stessa Renata Bruschi - infatti, è destinato a compositori di musica corale, sollecita il loro talento creativo e li invita a misurarsi con la bellezza dei versi danteschi. Le basi sono disponibili sul sito https://coralepuccini.org/, e la scadenza è fissata all’11 aprile 2021 mentre la

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mole di testimonianze sarà riunita, catalogata e presentata al pubblico il 14 ottobre 2021 nella mostra “Dante Alighieri e la Maremma nella Commedia”: documenti, appunti, riflessioni scritte, pubblicazioni, immagini, filmati, elaborati di studenti, oggetti di natura eterogenea e quanto in generale è stato prodotto da coloro che si sono variamente interessati a Dante Alighieri. «Sono spesso documenti autografi e manoscritti, in altri casi lavori unici, opere d'arte, materiali preparatori, selezionati e raccolti appositamente per questa occasione.» E tutte le iniziative, si potranno seguire anche attraverso i tanti canali social dedicati, dal canale youtube, alle pagine fb, twitter e instagram. https://twitter.com/LMpD21 https://twitter.com/Lm4Dante https://www.instagram.com/lamaremmaperdante/ https://www.facebook.com/groups/LMpD21/ https://www.facebook.com/LaMaremmaperDante https://www.youtube.com/Lamaremmaperdante2021

I luoghi nella rete

proclamazione dei vincitori avverrà entro il 31.05.2021. La giuria di caratura internazionale sarà composta dai Maestri Walter Marzilli, Mario Lanaro e Lorenzo Donati (Italia), Ivan Florjanc (Slovenia) e Antonio Maria Russo (Argentina).» E sono tanti gli artisti che hanno dato l’adesione a “La Maremma per Dante”: il Maestro Giuliano Adorno, direttore artistico dell'Orbetello Piano Festival; Francesca Ventura, direttrice artistica di Sovana in Arte; i pianisti Jacopo Mai e Davide de Luca che stanno preparando una serata dedicata a Franz Lizst e alla sua passione per la Commedia dantesca; il gruppo jazz di Michelangelo Scandroglio, che proporrà la prima assoluta di “Durante” nel giardino dell'Archeologia di Grosseto. Ma non solo musica. Come la stessa coordinatrice ha illustrato la Commedia è stato oggetto di studio e di interpretazioni nel corso del Novecento da parte di docenti, studiosi e artisti del territorio maremmano. L'ampia

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I LUOghI DELLA PAROLA

aLL’improvviso una vita Giovanni Bruno

Le riflessioni dello psicologo psicoterapeuta Sempre di più la Scienza guarda con grande attenzione al nucleo centrale dell’essere umano racchiuso nello scrigno dell’età evolutiva. Questa porta in sé un seme, più semi, che germinando evolveranno verso una configurazione che non sarà mai conclusa ma sempre in continuo divenire, mai compiuta e definitiva. Si chiama epigenesi infatti tutta l’organizzazione somatica e comportamentale dell’individuo, una costruzione progressiva che ha in sé due variabili fondamentali: il programma genetico e le influenze ambientali. In questo gioco di rimaneggiamenti la dotazione congenita e le condotte messe in atto sono spesso interdipendenti, dove l’innato e l’acquisito sono difficilmente separabili. Può accadere che le piste si ingarbuglino, ma le tracce

evolutive sane con repentini ribaltamenti prevalgono e lo sviluppo procede nella norma. Siamo dunque alle radici della vita e sicuramente le conoscenze del bambino in sviluppo hanno fatto progressi straordinari e tuttavia i punti interrogativi sono ancora tanti, le incertezze si ritrovano a ogni snodo e le teorie spesso si sovrappongono. Forse più semplicemente nella nostra indagine dobbiamo avere un metodo e il metodo è senz’altro quello evolutivo. Individuiamo così nella crescita delle costanti che sono sia biologiche e sia culturali. L’uomo è il meno attrezzato degli esseri viventi per stare sulla Terra, venuto al mondo infatti ha bisogno di cura, accudimento, sorveglianza, strategie comunicative, perché il suo sviluppo affettivo e cognitivo

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prenda un sano abbrivio. I processi evolutivi sia biologici che psicologici si devono armonizzare grazie alle energie di cui il bambino dispone, con una crescente possibilità di autonomia e di modalità nuove di comprensione, di partecipazione affettiva e di socializzazione. Nel primo anno di vita il bambino è dominato dagli istinti, che si potrebbero definire anche propensioni naturali o abilità innate. Ma accanto all’istinto il neonato sente forte il principio del piacere e il principio di realtà. Il primo si configura come la costante ricerca di riduzione delle tensioni psichiche (ricerca del sonno o di evacuazione ), mentre il secondo considera le limitazioni e le proibizioni che sono connaturate a una vita sempre più sociale. C’è inoltre una terza variabile che diventa sempre più presente ed è la tendenza all’agire, il passaggio all’azione è lo snodo

cruciale per l’apprendimento e una maturazione cognitiva adeguata. Un aspetto relazionale di estrema importanza in questa fase è l’inclusione del bambino nel funzionamento psichico della madre o di chi se ne prende cura. Abbiamo già accennato al fatto che il potenziale innato del bambino non può rivelarsi senza la cura materna e gli studi in questo senso sono innumerevoli. Valga per tutti l’intuizione di Winnicott che parla di preoccupazione materna primaria alludendo alla capacità della madre di mettersi al posto del suo bambino e di rispondere ai suoi bisogni. Per converso sarà il bambino in questa fase a non avvertire alcuna minaccia destruente al suo esistere. Ancora una volta la parola chiave che tiene insieme le varie forme di energia vitale è sicuramente “interrelazione”. “L’altro è forma di nutrimento , l’uomo senza l’uomo muore”. Si tratta dunque di meccanismi molto economici, funzionali a gettare un ponte con l’altro, permettendoci così di essere sociali, ponendoci in una sorta di intercorporeità. Il bambino è dunque un “vasto universo comunicativo “dai confini sempre aperti in grado di evolvere e di sviluppare un proprio sé. Abbiamo voluto sondare, in modo parziale , il primo germoglio di vita, indicando le prime linee evolutive e l’instaurarsi di una nuova esistenza che avrà una sua performabilità, un suo divenire. Ma tuttavia le tesi e gli studi sempre più approfonditi non riescono a sondare il mistero e al tempo stesso la meraviglia di una nuova vita. La prodigiosa realtà che ci viene incontro con futuro che è solo suo, biologicamente suo. Così il premio Nobel Wislawa Szymborska in una sua poesia: ...Ha appena distinto il sonno dalla veglia ha appena intuito di essere sé ...ha la testa piena di libertà e onniscienza ... Un vero uomo.


La dark art e i demoni di chet zar Dario Ferreri

Un viaggio tra i luoghi e nonluoghi fisici ed emozionali dell'arte contemporanea

«Non ho particolari talenti,

" "Non abbiate paura del buio" Chet Zar

sono soltanto appassionatamente curioso»

CURIOSAR(T)E

Albert Einstein

C

on il termine "Dark Art" si intende quel filone artistico che, dal punto di vista iconografico, rappresenta scene e/o personaggi che, secondo la comune sensibilità, sono macabri, angoscianti, orribili, violenti, occulti, misteriosi o repellenti. I colori scuri predominano su tutti gli altri, sono spesso enfatizzati i dettagli ed i simboli della morte e talvolta sono presenti elementi surrealisti. Sono opere però che fanno fermare e

riflettere su se stessi, sono lavori che invitano a tentare di comprendere meglio la natura umana con i suoi impulsi e paure primordiali. Spesso i lavori ascriìvibili alla Dark Art rappresentano messaggi di critica o denuncia sociale o personale e provocano polemiche e controversie da parte di spettatori che non conoscono o non afferrano il messaggio originale dell'opera d'arte. Addentrandoci nell'oscuro macrocosmo di

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Chet Zar, Andy Dick portarit

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CURIOSAR(T)E

Chet Zar, Pipe dream,

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Chet Zar, Scorpio

riferimento della Dark Art, si evince come questa sia strettamente legata alla contemporaneità, nel senso che rappresenta sovente scene ed emozioni che quotidianamente viviamo. Nel corso della storia, numerosi famosi artisti hanno reso manifesto il lato oscuro e terrifi-

cante delle loro esperienze, lasciandoci opere che, non a torto, li possono far considerare antesignani della Dark Art: pensiamo ad esempio a Hans Memling, Hieronymus Bosch , Pieter Bruegel il Vecchio, Francis Bacon, Caravaggio, Salvator Rosa, Henry Fuseli, Francisco Goya, Théodore Géricault,

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Chet Zar, Holey smoke

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Bouguereau, Salvador Dalí, Zdzisław Beksiński e H. R. Giger solo per citarne alcuni tra quelli più rappresentativi. A livello internazionale, negli ultimi anni, si è assistito ad un notevole incremento degli appassionati di questo filone artistico, grazie anche alla diffusione dei tattoo che spesso introiettano e disseminano personaggi, simboli e riferimenti figurativi ascrivibili alla Dark Art. Sono infatti sorte gallerie d'arte specializzate, collettive tematiche di artisti, podcast, blog ed ampi spazi Social dedicati che attraggono quotidianamente migliaia di appassionati. Questa premessa è prodromica alla presentazione di un artista dark americano dei nostri giorni molto conosciuto: Chet Zar. Nato il 12 novembre 1967, nella città portuale di San Pedro in California, Chet Zar inizia sin da bambino a sviluppare "un fascino naturale per tutte le cose strane che hanno favorito in lui un profondo legame con i film horror e le immagini dark"; ha trascorso tutta la sua infanzia a scolpire, disegnare e dipingere grazie anche al mentoring del patrigno James Zar, artista fantasy americano. L'interesse combinato per i film horror e l'arte è culminato in una carriera come artista, designer e scultore di effetti speciali per l'industria cinematografica. Già sin dal liceo, Chet Zar ha iniziato il suo lavoro nell'industria degli effetti di trucco, ottenendo un lavoro a tempo pieno un anno dopo il diploma, lavoro che lo ha portato, in breve tempo, nell'industria cinematografica, dove ha con successo progettato e creato creature ed effetti speciali per film come "The Ring", "Hellboy I & II", "The Grinch", "Me, Myself & Irene", " Darkman ", "Planet of the Apes" ed i video musicali, acclamati dalla critica, per la metal band dei Tool.

All'inizio del 2000 (su suggerimento dell'autore di horror Clive Barker), considerando ormai scarsa di stimoli la carriera negli special effect del settore cinematografico, decide contemporaneamente di tornare a cimentarsi con le belle arti, in particolare con la pittura ad olio e di seguire la sua passione per la produzione di opere originali. Quando, all'inizio degli anni 2000, l'artista ha iniziato a vendere i suoi quadri, non c'era un grande mercato, ma, nel giro di pochi anni, di pari passo con la crescente popolarità che i tatuaggi hanno raggiunto, è esplosa anche la passione per la Dark Art e lui ha visto proporzionalmente crescere e consolidare il suo successo come artista, che, dal 2009, è divenuto suo lavoro a tempo pieno. Il risultato è stato un rinnovato senso escatologico, una libertà artistica e una chiarezza di visione che è evidente nei suoi dipinti oscuramente surreali (e, spesso, oscuramente umoristici). Le sue influenze artistiche, solo per citarne alcune, includono Beksinski, H.R. Giger, Frank Frazetta, M.C. Escher, Bosch, John Singer Sargent e Norman Rockwell. Chet Zar è peraltro un pittore autodidatta, che ha costruito le sue skills artistiche spesso grazie a tutorial e materiale gratuito disponibili su Internet. Le sue opere sono generalmente ritratti ad olio. L'artista in recenti interviste ha affermato di aver da sempre amato lo strano, lo spaventoso, il bizzarro e di averlo nel sangue e considera le sue opere come estensioni del suo universo interno, descrivendo le figure della sua arte come molto brutte e stravaganti in apparenza, ma sempre innocenti. Per Chet Zar oscuro non significa necessariamente malvagio, questo è da sempre un grande malinteso: il buio può significare molte cose e il male è solo una piccola parte di esso;

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CURIOSAR(T)E

Chet Zar, Ego death

l'oscurità è il mistero, sono i luoghi nascosti della psiche, il nostro subconscio, ed è proprio lì che, per l'artista, si trovano tutte le cose più "succulente". La Dark Art è un "genere" attraverso il quale le persone possono esplorare le proprie paure, ansie, esperienze di solitudine, ecc. Gli empatici dipinti ad olio dei demoni e mostri di Chet Zar invitano gli spettatori a connettersi con i loro "lati d'ombra". Spesso ambientati su aridi sfondi, i suoi ritratti spaziano dall'intimo al triste, dal sofferto al divertente, al contemplativo ed al semplicemente misterioso: ciò che hanno in comune è la capacità di trasmettere emozioni attraverso l'improbabile veicolo di figure ed atmosfere cupe e mostruose. Elementi di pregio delle sue opere sono anche le cornici personalizzate che l'artista realizza, anch'esse un inno alla Dark Art, con tripudi di teschi, ossa, simboli dell'occulto e mostri, degno accessorio dell'opera d'arte che incorniciano e valorizzano. Nel 2012 dalla Beinart Publishing è stato pubblicato "Black Magick: The Art of Chet Zar" un libro retrospettivo dell'eclettica carriera dell'artista; pubblicazione che contine anche contributi del regista Guillermo del Toro, del famoso tatuatore Paul Booth e dell'ex redattore della rivista Rue Morgue Jovanka Vuckovic e che include più di 150 imma-

gini dei suoi dipinti, sculture e sketch. Nel 2015 il documentario intitolato " I Like to Paint Monsters " (Mi piace dipingere mostri) diretto da Mike Correll, ha raccontato la vita e la carriera di Chet Zar. Lo stesso documentario si è poi sviluppato in una discussione più ampia sulla Dark Art che ha portato Zar e Correll a creare la Dark Art Society, una cooperativa di artisti dark che mette insieme le proprie risorse per aumentare la consapevolezza complessiva sulla Dark Art nella cultura contemporanea, anche grazie a dei podcast (i podcast sono uno dei fenomeni mediatici del momento: si tratta di programmi audio, solitamente di natura seriale e ad episodi, che si scaricano da internet sul cellulare grazie a specifiche piattaforme dedicate) che, ad oggi, sono intorno ai 200 sul sito della Società (https://www.darkartsociety.com/). Vedrà presto la luce un'altra pubblicazione "Dy5topia: A Field Guide to the Dark Universe of Chet Zar ", una summa sui personaggi dei dipinti dell'artista e sui loro mondi. Tale libro è prodromico, nelle intenzioni dell'artista, ad un fumetto e ad un film dark sul tema. Chet Zar espone regolarmente in varie gallerie di diversi continenti (Copro, La Luz de Jesus, Last Rites, Beinart, ecc); è anche curatore di mostre dedi-

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cate alla Dark Art, in particolare presso la Copro Gallery, il che gli ha permesso di mettere in luce altri artisti i cui lavori considera degni di nota; hanno scritto di lui numerose riviste tra cui Arrestedmotion, HiFructose, Juxtapoz, ecc. è un artista molto seguito sui Social Media, su Instagram ha oltre 120.000 foll o w e r (https://www.inst agram.com/chetzar/) e su Facebook quasi 3 0 . 0 0 0 (https://www.fac ebook.com/Chet ZarArtist/) . Mentre alcuni possono pensare all'arte oscura come a un'arte che rappresenta l'orrore o la violenza o che è fortemente influenzata dai tropi dell'occultismo in stile hollywoodiano frain-

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teso, per Chet Zar si tratta di un genere più ampio con un significato molto più universale: la chiusa, pertanto, della narrazione di questo mese, è una frase dello stesso Chet Zar che ritengo calzante: «Penso che la Dark Art sia un modo sicuro per affrontare il nostro lato oscuro e fare pace con esso, o, almeno, per capirlo.»


Leandro , la casa Museo, particolare facciata esterna della Casa Museo a San Cesario (Lecce), una sua opera (foto d’archivio)

indietro neL tempo L’incontro con L’amico Leandro Raffaele Polo

Visioni e creazioni con materiali di risulta: Il Santuario della pazienza e la casa Museo a San Cesario dell’artista Ezechiele Leandro 10 aprile 1905 | 17 febbraio 1981

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bbiamo sempre considerato Ezechiele un amico. Sin da quando lo incontravamo, con la sua vecchia bicicletta, sulla strada per san Cesario. Noi eravamo poco più che ragazzini, stavamo lì, in quei campi, in quelle distese di erba incolta, per giocare a pallone, per sfrenarci in quelle lunghissime 'disfide' che erano il fulcro, il perno della nostra giornata altrimenti priva di grandi, ambiziose imprese... Passava lentamente, carico di sacchi sempre ricolmi di chissà cosa, a stenti si accorgeva di noi, il volto scavato e intento a profonde meditazioni. Qualcuno lo apostrofava con grida e gesti da lontano, c'era chi affermava di conoscerlo, a San Cesario dicevano tutti che era matto, forse era vero, meglio lasciar stare, allora. Dopo qualche tempo, abbiamo sentito parlare di lui, abbiamo letto qualcosa sul suo strano modo di fare arte con materiale 'di risulta',

una sera siamo passati davanti a casa sua. 'Ma facciamo presto' ha detto chi ci accompagnava 'Questo posto mi fa un po' paura, qui abita Ezechiele Leandro'. E allora abbiamo collegato l'immagine dell'anziano con i capelli bianchi sulla bicicletta e i sacchi pieni di avanzi di ogni tipo, abbiamo capito che dovevamo saperne di più. Ed è successo dopo un poco, ad un'asta. A Lecce, fino agli anni Settanta, era frequente che le gallerie d'arte ospitassero un'asta di dipinti. Ricordo che c'era 'La Barcaccia', era proprio di fronte alla Villa, le aste erano molto interessanti perché il banditore ti spiegava chi era l'artista e come fosse il suo modo di dipingere. Anche al 'President' si facevano le aste e pure in un locale in via Trinchese... In uno di questi posti, abbiamo visto un paio di quadretti di modeste dimensioni. Erano dei diavoletti, degli esseri fantastici ma incutevano terrore e ribrezzo, anche i colori, le sfuma-

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Alcune immagini d’archivio di Ezechiele Leandro nel Santuario della pazienza, a lato la sua bicicletta (foto d’archivio)

ture di grigio e marrone avevano qualcosa di sinistro. 'Questi sono due Leandro autentici' ci disse il banditore. E sottolineò qualla parola 'autentici' come a significare che fossero un'eccezione. Che, insomma, vi fossero in giro molte imitazioni. 'Ve li do, tutti e due a duecentocinquantamila lire' aggiunse, quasi in un sussurro. E ci parve una cifra molto, molto cospicua, anche perché tutte le litografie, ovvero i pezzi meno pregiati, partivano da venti, venticinquemila lire... E così, entrammo anche noi nel mondo dell'amico Ezechiele. Ezechiele Leandro da San Cesario, avete sentito mai parlare del Santuario della Pazienza? No, bè non sapete cosa vi perdete, è proprio affianco alla casa dove abitava, è uno spazio vasto, dove si succedono infinite installazioni, statue, monoliti, assemblaggi, presepi, voi camminate come in un labi-

rinto, ogni tanto un particolare attira la vostra attenzione, vi chiedete quale sia il significato di quelle orribili creazioni tutte grigie, il colore del cemento, ma vi sono frammenti di vetro, di ferri arruginiti, di stoviglie, insomma è il cosiddetto 'materiale di risulta' che noi, semplici cittadini non molto acculturati, chiamiamo 'immondizie' e cerchiamo una discarica per liberarcene. Il Santuario (Ezechiele lo ha voluto chiamare così, per lui era un luogo di preghiera e meditazione) non sappiamo se ci sia ancora, se le intemperie abbiano, alla fine, vinto la battaglia col tempo e l'incuria oppure se sia ancora fruibile....

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Alcuni numeri del giornale Raggio Verde (foto d’archivio)

(Quasi) cinQue Lustri Fa La “riscoperta” di Leandro

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icordiamo, a questo punto, l'interesse suscitato dalle ricerche che l'Associazione Culturale 'Raggio Verde' ha effettuato proprio per far emergere e catalogare l'enorme massa di documentazione che Leandro aveva lasciato, in disordine e senza un apparente filo logico. Guidati da una vera a propria 'pasionaria', ovvero Ambra Biscuso, un gruppo di intellettuali si è dato da fare per parecchio tempo (sino

all'inizio del nuovo Millennio) riuscendo a far emergere e ordinare solo una parte del materiale e pubblicando un interessante libro che diventò il primo di una lunga serie di studi sull'ormai famoso Ezechiele Leandro. Si commemorò anche il ventennale dalla morte e, adesso, a febbraio, saranno Quaranta gli anni che ci separano dalla dipartita del nostro. Una ghiotta occasione che la cultura ufficia-

le e la critica più titolata non si è lasciata sfuggire per ampliare ulteriormente la conoscenza del materiale e del mondo artistico del nostro Ezechiele. 'Nostro' perché lo vediamo ancora, sulla vecchia bicicletta, sulla via per san Cesario, con lo sguardo abbacinato, perso dietro a chissà quali pensieri... Lo ricordiamo con affetto, come se fosse ancora lì, a trasportare ferri vecchi e materiale disparato, utile, indispensabile per l'ampliamento del suo Santuario personale, destinato forse a scomparire, preda del

tempo, delle intemperie e della incuria di chi averebbe dovuto conservarlo... E dai fornitissimi archivi della Associazione 'Le Ali di Pandora', che ha ereditato un po' tutta la storia del 'Raggio Verde', nel frattempo divenuta una prestigiosa casa editrice, ecco apparire il numero speciale del periodico Il Raggio Verde, dedicato proprio a lui, a Ezechiele Leandro. Riportiamo il pezzo dove si fa la storia delle prime ricerche sull'artista di San Cesario. E l'intervista molto particolare a lui dedicata.

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ezechieLe Leandro L’intervista impossibiLe Raffaele Polo

Dal 4 al 18 aprile 1998 la mostra di disegni inediti di Leandro e sul numero del periodico Il Raggio Verde embrione di quello che sarebbe diventato il progetto editoriale nato nel 2004 usciva l’intervista che riportiamo

non-collaborazione che, però, a qualcosa ha approdato. Per recuperare, in un certo senso, questo ostacolo, Ezechiele parlava e si lasciava andare più del solito. Ed ecco, allora, l'intervista fantastica ad Ezechiele uesta intervista è fantastica, immaginaria. Per un semplice motivo: per- Leandro, come non l'ho fatta ma come mi chè Ezechiele Leandro un'intervista sarebbe piaciuto farla. ufficiale non ha mai voluto rilasciarmela. Ho parlato con lui alcune volte, questo si. E la Domanda: Maestro Leandro, come prima volta volarono scintille fra me e lui. potremmo definire la sua arte? Ma un'intervista no, niente da fare. Almeno Risposta: Prima te tuttu, maestru nù me l'ha con me, Ezechiele è stato sempre molto dire. Al mio paese i maestri sono quelli che chiaro e preciso: ho il massimo disprezzo lavorano duro e fanno le banche, le sedie, per i giornalisti e la cultura 'ufficiale', mi dice- oppure battono il ferro, e allora io poso va usando termini molto pesanti e certa- essere maestro così, ma no come dici mente irripetibili. E, perciò, niente da fare. signuria che vuoi fare intendere che sono Soprattutto, odiava la stampa televisiva , un grande pittore, un grande scultore che che cerca sempre di 'farti fare figure te c....', tutti hanno l'invidia di quello che faccio io, e diceva. In effetti, come dargli torto? Ecco allora o dicono che non bale oppure esageperchè con lui c'è stato questo rapporto di rano e sia ca ieu sù lu Patreternu...

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Alcuni numeri del giornale Il Raggio Verde (foto d’archivio)

poi distoglie lo sguardo. Comincia a pulirsi Domanda: I suoi disegni, i suoi dipinti, le un'unghia, sposta la sedia, poi dice: 'Bè, amu sue sculture, però, sono certamente spicciatu?') arte... Risposta: Arte, arte dici? Ma lo sai cosa è l'arte, tu lo sai veramente o puru te l'annu dit- Domanda: Un'ultima cosa. Qual'è il mestu, l'ha 'ntisa e allora parli dell'arte che sia saggio che vuole lasciare a chi, un giorcosa è, tu non lo sai cosa è l'arte, nessuno lo no, parlerà delle sue opere? sa, se uno si mette e fa gli altari, le facce del Risposta: Non credo che nessuno parlerà Signore e della Madonna, quella è arte, arte delle mie cose. Ma lascio un testamento lunparola strana, arte parola che vuol dire tante go, lunghissimo, lascio tutti i miei scritti, che cose... sono tantissimi. Lì dentro c'è tutto, c'è la Verità. Ma sono sicuro che nessuno riuscirà Domanda: I suoi disegni, maestro, sem- a trovarla. Nessuno, ve lu dicu ieu, nesunu. brano venire dai brutti sogni che facciamo quando non abbiamo la coscienza pulita... Risposta: Ecco, quista è 'na domanda ca me piace. E tie la sai ca la coscienza unu la porta, puru ca è un assassino, la coscienza è l'anima. Adamo pure la teneva, sennò non ci avrebbe detto al Signore che aveva peccato, tutti ce l'abbiamo, e tutti facciamo tanti peccati, abbiamo sbagli e mali che facciamo sempre, sono i diavoletti che ogni momento andiamo seminando nella nostra vita, escono dei diavoli più grandi, terribili, sono l'invidia, la gelosia, il tradimento, quelli sono terribili, nessuno riesce a vincerli, cosa posiamo dare noi se anche Lucifero era invidioso, lui che era il più grande potente degli angeli, che sapeva tutto ed era invidioso, forse è anche invidioso il Signore cosa ne sappiamo noi di queste cose, ognuno ha dentro la sua pena, poi esce e vengono fuori queste figure che ti spaventano. Domanda: Lei è considerato un grande artista naif. Però molti critici affermano che non è vero. Dicono che si tratta di un grande imbroglio, che lei fa l'ingenuo per non pagare le tasse. Cosa ci dice in proposito? (nessuna risposta, Leandro mi guarda fisso e

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iL gruppo “ezechieLe Leandro” cronistoria di un sogno

Nel dicembre 1997 la nascita del gruppo di studio dedicato all’artista all’interno dell’associazione Raggio Verde. Oggi Le Ali di Pandora conserva l’archivio

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uando ancora non era arrivata la movida in quel di via Federico D’Aragona, c’era un’associazione artistico socio culturale chiamata Raggio Verde (1996/2006) con la pretesa di aprire gli spazi e metterli a disposizione dell’arte e degli artisti... Ebbene nel marzo del 1997, a latere delle tante attività, si costituì presso l'associazione il Gruppo di studio e di ricerca su “L'estetica applicata all'arte” con a capo Mario Schiattone, filosofo, membro del Gruppo di ricerca sull'Utopia dell'Università di Lecce; del gruppo facevano parte Emanuela Bucato, Luana Lezzi, Margherita Monaco, Sabrina Pallara, Barbara Tortorella, allora studentesse universitarie, referente per Raggio Verde Ambra Biscuso. Il 21 novembre del 1997 un folto gruppo di soci dell'Associazione, compresi i componenti del Gruppo di Studio e di ricerca, si recò, su invito del nipote Antonio Benegiamo, presso la Casa Museo di Ezechiele Leandro a San Cesario. Entrando nella casa di Ezechiele le reazioni furono disparate: chi si innamorò all'istante della sua immensa opera chi provò un senso di angoscia. Antonio Benegiamo lamentava la mancanza di uno studio approfondito sull'Artista etichettato come naif ma Leandro stesso si definiva "Primitivo". In dicembre si decise di applicare quanto si era appreso nel corso degli incontri del gruppo di Estetica all'arti-

sta Leandro, fu creato così il gruppo di studio e ricerca “Ezechiele Leandro” con a capo Ambra Biscuso. Antonio Benegiamo mise a disposizione la casa Museo e tutto il materiale conservato: opere, scritti e documenti. Si rese necessario introdurre nel gruppo dei professionisti e dopo attenta valutazione la scelta cadde su Luca Carbone, Università di Lecce; Angela Serafino, storica e critica dell'arte; Maria Rosaria Pati, teologa; Pierluigi De Matteis informatico; Mario Schiattone, filosofo; Pantaleo Palumbo, biografo; Antonio Benegiamo, procuratore per conto della madre Ines Leandro e componente del gruppo di ricerca insieme ad Ambra Biscuso. Considerando che poca e frammentaria era la documentazione scritta allora esistente, si partì dall'esame delle pubblicazioni esistenti e grazie all'aiuto della figlia, Ines, si rivelarono anche delle inesattezze. Usare la metodologia scientifica era l'unica scelta possibile, si iniziò così con la sistemazione e catalogazione del materiale cartaceo, una mole impressionante di documenti conservati alla rinfusa in decine di scatole, forse dallo stesso Leandro. La catalogazione del materiale cartaceo e degli scritti di Leandro, la ricerca di documentazione, anche al di fuori della casa museo, impegnò il gruppo per anni ma si

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giunse ad una ricostruzione bio/bibliografica coerente con la realtà e lo studio approfondito dell'intera opera di Ezechiele Leandro. Nell'aprile del 1998, si tenne presso la sede di Raggio Verde la mostra “Disegni” con inediti che vedevano la luce per la prima volta. Il 6 giugno del 1998 si concluse la prima fase, raccolta del materiale esistente, e si procedette nello studio e nella ricerca, organizzando seminari sull'Artista dove man mano venivano esposti i risultati raggiunti. Il Giornale dell'Associazione “Il Raggio Verde” nel corso degli anni pubblicò anticipazioni sullo studio e la ricerca che andava svolgendosi. Nell'autunno del 2000 viene pubblicato il libro “L’Opera di Leandro, tre approcci alla sua conoscenza” a cura di Angela Serafino, Luca Carbone, Maria Rosaria Pati, Antonio Benegiamo, Ambra Biscuso, che raccoglie solo una parte dello studio svolto sull'opera, sugli scritti, sulla religiosità di Leandro. «Oggi una pagina fb, - spiega Ambra Biscuso - nata per dovere di cronaca e amore per

la memoria storica, raccoglie solo dei richiami del materiale prodotto dal gruppo di studio e di ricerca “Leandro” e brevi cenni su la metodologia usata nell'affrontare un artista poliedrico come è stato Leandro, il nostro intento è stato di sdoganarlo da artista Naif. Abbiamo scritto la sua storia personale e artistica con serietà e attentamente documentata.» Online anche un video sulla visione dell’arte direttamente dalle parole di un testo autografo di Leandro cui dà voce la stessa Ambra Biscuso, realizzato dalla casa editrice Il Raggio Verde, la rivista Arte e Luoghi e Le Ali di Pandora. Il gruppo di studio e di ricerca “Ezechiele Leandro” costituitosi nel dicembre del 1997 si sciolse il 26 marzo del 2001. Il materiale prodotto dal gruppo si può consultare presso l'associazione “Le Ali di Pandora”. Qui, tra l’altro, l'archivio di Ezechiele Leandro, di proprietà del nipote Antonio Benegiamo, è custodito e consultabile presso la sede a Lecce, in Via San Massimiliano Kolbe. Si riceve per appuntamento. ambrabiscuso@hotmail.com - 339.5607242

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Giuni Russo, fonte https://www.facebook.com/GiuniRusso.Official

giuni russo, L’aLiena iL suono di napoLi Antonietta Fulvio

Dal 15 gennaio il nuovo album con quattro inediti e sei nuove versioni prodotto da Maria Antonietta Sisini e pubblicato dalla A Warner Music 112.732. Sono le visualizzazioni che dall’anteprima dell’ 8 gennaio si contano ad oggi sul canale Giuni Russo Official Channel. Il brano, Song of Naples (O sentiero d''o mare)", 2° posto Itunes e 1° posto classifica Mei, è una rara perla musicale contenuta nell’album ““Aliena (Giuni dopo Giuni)” insieme ad altri tre inediti: il sensuale ed ipnotico brano d'apertura "Gli uomini di Hammamet", "La forma dell'amore" e "Pekino", un brano in cui Giuni si cimenta nel canto unico dell'antica "Opera di Pechino" (patrimonio Unesco) con impressionanti improvvisazioni vocali. Pubblicato dalla A Warner Music il disco (che contiene anche sei nuove versioni dei brani più significativi) è prodotto da Maria Antonietta Sisini, coautrice, produttrice e con l’associazione GiuniRussoArte custode della memoria e del patrimonio artistico e culturale della cantautrice palermitana, che troppo presto ci ha lasciati. “Aliena (Giuni dopo Giuni)” è il terzo vinile più venduto d'Italia in classifica Fimi e testimonia ancora una volta la potenza espressiva della voce di Giuni, cantautrice controcorrente, e vi invitiamo ad ascoltare la sua ultima intervista “le sue parole” sul canale ufficiale Youtube dove Giuni si racconta, parla del suo percorso musicale, le sue scelte, l’analisi sulla discografia, l’incontro con Franco Battiato, un brevissimo accenno alla sua svolta religiosa,

il desiderio di continuare a cantare e voler fare tante cose bruscamente interrotto il 14 settembre 2004. E mentre si discute del protocollo che vedrà la settantunesima edizione di Sanremo senza pubblico in ottemperanza alle misure di contrasto alla pandemia, il pensiero va alle partecipazioni di Giuni, al successo straripante di brani come Un’estate al mare, Alghero, Mediterranea... Dalla vittoria al Festival di Castrocaro nel 1967 all’ultima interpretazione nel 2003 proprio al Festival di Sanremo - a distanza di trentacinque anni con il brano “Morirò d’amore”. Una lunga carriera e un unico fil rouge l’amore per la musica, quella con la M maiuscola. Ascoltare il brano Song of Naples così struggente, in dialetto napoletano, riporta inevitabilmente a quel meraviglioso progetto “Napoli che canta” che vide Giuni Russo incastonare, come gemme preziose, brani del repertorio classico napoletano sulle immagini dell'omonimo film muto girato nel 1926 da Roberto Leone Roberti, padre del regista Sergio Leone. Tra i classici inclusi nella suite musicale, comparve l'inedita “A cchiù bella, una poesia di Totò musicata dalla stessa Giuni con Maria Antonietta Sisini. L’evento live si tenne il 18 ottobre 2003 al Teatro Zancanaro di Sacile dove per volere dell’amministrazione comunale dal 27 maggio 2012 c’è la Gal-

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leria Giuni Russo così come il Comune di Alghero, dal 2014, ha denominato la piazza sul colle del Balaguer “Mirador Giuni Russo”. Sono questi tra i tanti omaggi dedicati a Giuni a testimonianza di quanto importante e significativa sia stata la sua musica, la sua arte, la sua “voce sovrumana”. Divina. E ritorniamo al brano “O sentiero d’o mare”, al legame speciale quello di Giuni per la musica partenopea, e ritorna in mente anche la sua ultima esibizione televisiva nella trasmissione “Napoli prima e dopo”, sempre nel 2003, quando interpretò una meravigliosa “Marechiaro”. Un mare bellissimo come quello della natia terra siciliana che appare nel video realizzato per Song of Naples l’ultima composizione di Giuni, scritta nella primave-

ra del 2004, una dolce dedica a Pietro, il padre pescatore, una promessa “io nun parto” e chi non ha almeno una volta nella vita pensato di avere proprio tutto in quell’abbraccio con il padre che è anche quello con la propria terra? Un susseguirsi di note ed emozioni, un canto che tocca il cuore nel profondo come Giuni sapeva fare. Intensa con la sua straordinaria voce da brividi, capace di modulare passando da note jazz a quelle pop, dal blues alla lirica capace di cantare con assoluta mestria in italiano, siciliano, napoletano, inglese, francese, giapponese, spagnolo, arabo, farsi, greco e latino. Una voce capace di raggiungere estensioni rare e di rara bellezza che ci manca. Tantissimo.

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La copertina del volume edito da il mondo di Suk

bambini e musei cittadini a regoLa d’arte Sara Di Caprio

Il libro dell’artista Luigi Filadoro un modello didattico che si basa sulla forza espressiva dei più piccoli all’ombra del Vesuvio

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urante questa pandemia tra le molte categorie colpite figurano i bambini depredati di una vita sociale normale e dell’ambito educativo. Il tessuto economico e sociale è purtroppo stato indebolito e scosso dalla crisi e dal punto di vista artistico un’altra categoria duramente colpita, assieme al circuito delle mostre, è stato l’ambito museale. Il museo è da sempre un raccoglitore d’arte e non una semplice aula sterile in cui guardare e basta. A maggior ragione e soprattutto in tempo di crisi il museo è un laboratorio in cui si insegna a riconoscere il pensiero visivo storico e antropologico di una comunità, tra passato e innovazione e a farne tesoro. è con questo pensiero che in libreria e in formato ebook nasce il volume: Bambini e musei. Cittadini a regola d’arte

dell’artista Luigi Filadoro, esperto in processi formativi applicati ai beni culturali e presidente dell’associazione culturale étant donnés. L’associazione nata nel 2004 si pone come obiettivo la promozione e la conoscenza dell’arte contemporanea con progetti e percorsi formativi rivolti alle scuole del primo e secondo ciclo. Il volume, quindi, racchiude un modello didattico basato sulla forza espressiva dei bambini che senza pregiudizi e guidati dall’immaginazione interagiscono nella loro città, all’ombra del Vesuvio: Napoli. Nell’intervento d’apertura l’arte e il museo come ulteriorità, dell’artista Filadoro si coglie il senso del duo arte-bambini: “Il progetto Bambini e Musei considera l’ambiente museale un’aula decentrata e osservare ogni volta lo stupore di bam-

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bini e ragazzi tra le sale e davanti alle opere, richiama alla mente lo spettatore estraniato e spiazzato davanti alla porta dell’ étant donnés di Marcel Duchamp allestita in un museo americano. E l’unico rimedio per placare la sensazione di estraniamento è metterli in condizione di trovare lo spioncino da oltrepassare con lo sguardo per vedere la scena che nasconde.”. Il libro fa emergere e racconta le numerose iniziative didattico-laboratoriali elaborate negli anni e anche il metodo perseguito e suddiviso in varie fasi, esplicate ad esempio nell’intervento della dirigente scolastica Chiara Lucia Schiavo: “Da una prima fase teorica e documentale, partendo da visite dei musei, si passa allo stimolo nei bambini dell’elaborazione ed espansione attraverso un’esperienza costruttiva che porta a far prendere forma ad un prodotto che è frutto di intenzionalità. […]si dà la giusta importanza alla voce dei bambini, protagonisti di un’esperienza che travalica le mura della scuola, i confini del quartiere, fa uscire dall’anonimato sociale tipico del vissuto quotidiano di molti alunni, per giungere al pubblico adulto di tutte le età, proveniente da mondi diversi.”. I bambini passano quindi dalla teoria alla pratica,

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ripercorrendo alcune tappe della storia dell’arte: dagli scavi archeologici di Ercolano, alla Certosa di San Martino, allo spettacolare Castel Sant’Elmo, osservando e facendo propria la “fila indiana” del dipinto la Parabola dei ciechi di Pieter Brugel il vecchio senza tralasciare l’arte contemporanea come ad esempio quella di Beuys. Tra i vari interventi nel libro si possono trovare, oltre a quelli già citati, le testimonianze di Francesca Marone, Marco Dallari, Luigi Caramiello, Annamaria Palmieri, Lucia Fortini, Anna Maria Romano, Gennaro D’Anto’, Viola De Vivo, Alessandra De Luca, Laura Valente, Donatella Gallone, Gianlivio Fasciano, Loredana Troise, Stefania Montesano, Raffaella Monia Calia, Rosa Seccia, Adriana Compagnone, Maria Filippone, Rosa Pannone, Mariarosaria Stanziano. I nuovi cittadini del futuro costruiscono in questo modo il proprio sapere e soprattutto il proprio essere, in tempo in cui si parla tanto di cittadinanza e costituzione il progetto sembra cucito apposta per crescere una generazione in grado di saper fare e di saper essere, perché attraverso il rispetto, allargando i propri confini e lo sguardo grazie all’arte, si diventa veri costruttori.


Luca Bonaffini, foto di Joe Oppisano

Luca bonaFFini e iL paracadute di taccoLa

On line dal 26 gennaio il nuovo album del cantautore mantovano trent'anni dopo lo storico tour con Pierangelo Bertoli di “Spunta la luna dal monte” .

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opo aver esplorato concept spericolati e non sempre immediati, come lui stesso riconosce, arriva “Il paracadute di Taccola” il nuovo album di musica pop d'autore per Luca Bonaffini. Sono trascorsi trent'anni dopo il grande successo del tour “Spunta la luna dal monte”(che trionfò a Sanremo nel 1991), quando nella veste di cantante e chitarrista affiancò il suo mentore Pierangelo Bertoli sostituendo la voce di Andrea Parodi dei Tazenda. L’album edito da Long Digital Playing, distribuito da Believe Digital e arrangiato da Roberto Padovan, è la sedicesima opera solista del cantautore mantovano che,

per l'occasione, si è avvalso della collaborazione artistica di Davide Vevey (chitarre acustiche ed elettriche), Francesca De Mori (vocalist e arrangiamenti corali) e del mantovano Stefano Morselli (sax e fisarmonica). Registrato tra Torino e Milano, sotto l'attenta regia dello stesso Padovan (anche co-autore di alcuni brani), il progetto discografico contiene quattordici canzoni che volteggiando tra mondi sonori dall'Irlanda a New Orleans passando per i chansonnier francesi e il pop italiano - ci fa ricadere nel Novecento dei visionari e dei sognatori. I testi, articolati come sempre, lasciano spazio alla voce del cantautore che ritrova i suoi armoni-

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ci, la voglia di cantare e quella che Bonaffini in più occasioni ha definito Il diritto alla ricerca della bellezza. “Questa nuova avventura è iniziata nel 2015, in modo casuale, riscoprendo negli archivi della mia libreria canzoni incomplete e ballate cominciate rimaste inconcluse, risalenti addirittura al gennaio 1985" – racconta Luca. “Era dal tempo in cui scrivevo con Bertoli, di Chiama piano (1990) e della tournée “Spunta la luna 1991” che mi rese visibile al grande pubblico, che non mi sentivo così dentro le mie canzoni”. “Considero questo lavoro uno dei più belli che ho mai concretizzato perché contiene un concept implicito e non esplicito. Sono canzoni che affrontano ancora una volta la metafora del volo, come è già successo ne Il cavaliere degli asini volanti, ma con viaggi e storie indipendenti. I personaggi appaiono sconfitti ma in realtà restano dei vincenti, perché hanno saputo resistere e cambiare, accettare le trasformazioni e compiere delle metamorfosi sfidando la morte. Credo debba essere il senso della vita: se si cade, dopo un volo tentato e doveroso, bisogna saper prevedere un buon atterraggio e magari usare un paracadute di fortuna, artigianale ma originario

e originale come quello di Mariano di Jacopo, detto "l’Archimede di Siena" o "Taccola". Taccola, lo ricordiamo, fu un ingegnere senese che, tra le varie invenzioni, tracciò probabilmente il primo schizzo del paracadute che fu poi disegnato da Leonardo Da Vinci, che consiste in un oggetto aerodinamico conico e intuitivo, riproposto anche sulla copertina dell'album affidata a Ryu GraficLab di Mantova e realizzata da Valentina Margonari. La scaletta è lunga e piena di suggestioni. Nella kermesse di personaggi (alcuni reali, altri inventati) sfilano cosmonauti geniali considerati folli, pensatori delusi e stanchi, donne di ieri e amori di oggi, clochard ed eroi rigettati dal mare che come in un film di Walt Disney riscattano la propria morte a cavallo di un delfino, e tante altre storie. “C’è anche un mio personale omaggio al cinema del ‘900, quello che colorò il bianco e nero e trasformò il nostro modo di ricordare le cose” conclude Bonaffini. L’album, scaricabile dalle maggiori piattaforme digitali in 240 Stati del Mondo da martedì 26 gennaio, sarà pubblicato anche su supporto fisico (CD) tra febbraio e marzo. Compositore di musiche e autore di testi per canzoni interpretate anche da Patrizia Bulgari, Flavio Oreglio, Sergio Sgrilli, Fabio Concato, Nek, Claudio Lolli Luca Bonsggini ha scritto anche testi teatrali insieme a Dario Gay ed Enrico Ruggeri. Ha vinto il Premio Rino Gaetano (1988) Targa critica giornalistica e il Premio Quipo (1999) al Meeting delle Etichette Indipendenti di Faenza (miglior progetto multimediale); ha partecipato al Festival del Teatro Canzone - Premio Giorgio Gaber (2005) e due volte al Premio Tenco (edizioni 2008 e 2012). Nel 2013 ha debuttato come scrittore con il libro La notte in cui spuntò la luna dal monte (edito da PresentArtSì), ispirato al suo incontro con Pierangelo Bertoli. www.lucabonaffini.town

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SCorcio di Lagonegro, centro storico, foto di Marco Tedesco

Lagonegro. capoLavori d’arte daLLa chiesa aL casteLLo Marco Tedesco *

“ Storie l’uomo e il territorio

La Seicentesca “Madonna col Bambino e le Ss. Caterina d’Alessandria e Lucia della Chiesa di San Nicola al Castello di Lagonegro

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a storia dell’arte del Seicento, è stata caratterizzata da importanti innovazioni nel mondo della pittura italiana meridionale. Si pensi ad esempio all’entrata in scena nella pittura napoletana delle innovazioni apportate dal rivoluzionario Michelangelo Merisi da Caravaggio, la cui pittura venne considerata scandalosa ma allo stesso tempo geniale allo stesso tempo, in quanto in Caravaggio uomini e santi erano la stessa cosa. Queste innovazioni influenzarono notevolmente l’arte e la pittu-

ra per tutto il Seicento lasciandone echi in tutto il meridione d’Italia. In Basilicata, contestualmente, vi si trovavano in quegli anni opere d’arte provenienti dagli ambienti napoletani, in particolar modo quelli legati al Manierismo, tra cui la Madonna col Bambino e le Ss. Caterina e Lucia, conservata a Lagonegro (Potenza), piccola cittadina lucana alle pendici del monte Sirino, nella chiesa di San Nicola al Castello, titolo attribuito a questa chiesa secondo Carlo Pesce dal 1597, stando a quanto riportato dagli

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le Latente, il patrimonio artistico dell’antica diocesi di Policastro”, Concetta Restaino propone di identificare questo maestro nella figura di Giulio dell’Oca, pittore attivo a Napoli dal 1578 al 1644. Molte sue opere tra cui la serie di Angeli con le litanie mariane, eseguiti per il soffitto della chiesa dell’Annunziata a Napoli insieme ad altri artisti tra cui Giovan Vincenzo da Forlì e la decorazione a fresco della tribuna dello Spirito Santo eseguita nella capitale partenopea insieme a Giovanni Bernardino Azzolino, sono andate perdute ma le poche ancora esistenti, tra cui la Madonna apparente tra i Ss. Francesco ed Antonio della chiesa napoletana di Santa Maria Apparente, ci consentono di capire la pittura e il linguaggio artistico di Giulio dell’Oca, ancora legato agli schemi della pittura manierista. Tutto

Storie l’uomo e il territorio

atti di visita di mons. Spinelli. Questa Madonna col Bambino e le Ss. Caterina d’Alessandria e Lucia venne attribuita da Anna Grelle a Giovanni Bernardino Azzolino, detto il siciliano in quanto originario di Cefalù, città in cui nacque nel 1572 ma attivo a Napoli, città in cui morì nel 1645 nella quale Azzolino operò a partire dal 1589 e dove ancora oggi sono conservate molte sue opere. Nuccia Barbone Pugliese, sottrasse in seguito nel 1983 tale opera al catalogo dell’Azzolino, scorgendovi influssi santafediani in rapporto derivati dalla Madonna col Bambino in gloria e i Ss. Benedetto, Pietro, Paolo e Agnese, eseguita da Fabrizio Santafede nel XVI/XVII sec., conservata nella chiesa di Santa Chiara a Trani. Nella presentazione di questa tela, all’interno del catalogo della mostra “Visibi-

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questo, in rapporto ai documenti tutt’ora presenti legati alla figura di Giulio dell’Oca, in quale ottenne nel 1593 la carica di Console dell’Arte dei pittori a Napoli, presentano qualche difficoltà nell’attribuirgli in maniera definitiva la paternità del dipinto lagonegrese qui preso in esame. Non vi è dubbio che il Maestro in questione si rifà alla corrente manierista e questo aspetto è confermato anche da mons. Raffaele Raele nel suo testo “La città di Lagonegro nella sua vita religiosa”, pubblicato come opera postuma nel 1944, il quale la vide nella sua collocazione originaria e la definì come un’opera “di buon manierista di scuola napoletana”. Tale collocazione originaria era la cappella di Santa Lucia, del cui altare decorato con uno stemma, il dipinto doveva costituire la cona. Ora, se ancora vi è qualche difficoltà sull’attribuzione a Giulio dell’Oca della paternità del dipinto lagonegrese qui preso in esame, non vi è alcun dubbio su chi possa essere il committente di tale opera e la sua datazione. Il Raele infatti, ci parla di un tale medico di nome Arcangelo Grandonio, il quale fece realizzare questo dipinto a spese del dottore in utroque Tommaso Grandonio. In un cartiglio in basso a destra del dipinto sono infatti è a tal riguardo riportata la seguente iscrizione “1614 MEDICUS ARCANGELUS GRAII HOC OPUS FACIENDUM CVRAVIT ERE V. I. D. TOMASII GRANDONIO” Il dipinto attribuito a Giulio dell’Oca da Concetta Restaino e a Giovanni Bernardino Azzolino da Anna Grelle nel 1981 qui preso in esame, mostra una impostazione classica della composizione che qui si sviluppa su due registri. Nel registro superiore abbiamo una raffigurazione tipica dell’iconografia della Madonna col Bambino, cosi come essa ci viene presentata a partire dal XVI secolo in poi, in cui la Madonna non siede più su un trono ma è posta al di sopra di una nuvola nell’atto di reggere tra le mani un irrequieto

Bambino Gesù il quale da al dipinto una impronta dinamica tipica della pittura barocca attraverso il suo gesto benedicente. Questa gestualità del Bambino Gesù la si ritrova in maniera leggermente più composta anche in un altro dipinto attribuito a Giovanni Bernardino Azzolino raffigurante un San Cristoforo col Bambino, conosciuto attraverso una copia conservata nella pinacoteca Coppola di Gallipoli, in provincia di Lecce. Tale aspetto potrebbe aver indotto la Grelle nel 1981 a proporre l’attribuizione di questo dipinto a Giovanni Bernardino Azzolino, il quale con Fabrizio Santafede era molto amico. Nel registro inferiore, le Sante martiri Caterina d’Alessandra e Lucia hanno il loro sguardo rivolto verso la Vergine e il Bambino e sono riconoscibili attraverso la palma, simbolo del martirio ed alcuni loro attributi simbolici: la ruota dentata per Santa Caterina, al cui supplizio la Santa venne condannata dall’imperatore Massenzio (per alcuni invece trattasi dell’imperatore Massimino Daia, successore di Diocleziano) per aver rifiutato di sacrificare agli dei e il piatto con i due occhi per Santa Lucia. Alle spalle delle due Sante martiri, si intravede una veduta di paesaggio di campagna in cui sta avvenendo qualcosa: due figure in abiti da lavoro rappresentate in scala ridotta rispetto alle due Sante martiri e alla Vergine sembra stiano attendendo, come ogni giorno della loro vita, al duro lavoro nei campi, Questo aspetto ci riporta indietro nel tempo ad un grande nome della pittura italiana del ‘Quattrocento, ossia il veneto Giovanni Bellini, il quale nella sua Trasfigurazione di Cristo del museo di Capodimonte di Napoli datata al 1478-1479, ci presenta un contadino che si accinge a terminare la sua giornata di lavoro nei campi, per poi far ritorno alla sua povera abitazione. L’aspetto del paesaggio, presente nel dipinto lagonegrese qui preso in esame, fa da

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Madonna col bambino e Ss Caterina d'alessandria e Lucia (foto di Marco Tedesco)

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Giovanni Bernardino Azzolino (copia da), San Cristoforo col Bambino, XVII sec., Gallipoli, pinacoteca Coppola (foto di Alessandro Romano, www.salentoacolory.it

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Giovanni Bellini, Trasfigurazione di Cristo, 1478-1479, Napoli, museo di Capodimonte (

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punto di collegamento tra la Madonna col Bambino e le Ss. Caterina d’Alessandria e Lucia e la Madonna Apparente tra i Ss. Francesco ed Antonio, eseguita da Giulio dell’Oca nel 1611 per la chiesa di Santa Maria Apparente a Napoli. Nella Madonna col Bambino e le Ss. Caterina e Lucia della chiesa di San Nicola a Lagonegro la luce che entra in scena dalla sinistra dell’osservatore evidenzia i colori sgargianti degli abiti dei personaggi, provocando un contrasto con l’atmosfera cupa che domina gran parte del dipinto. L’intera composizione del dipinto lagonegrese qui preso in esame, riprende lo schema compositivo della divisione in due registri del dipinto Madonna col Bambino in gloria con San Benedetto, San Pietro, San Paolo e Sant’Agnese conservato nella chiesa di Santa Chiara a Trani, attribuito al napoletano Fabrizio Santafede il quale a sua volta ricalca uno schema compositivo già sperimentato da Raffaello Sanzio nella sua Madonna di Foligno della pinacoteca vaticana. Proprio dal citato

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dipinto di Raffaello, infatti, deriva la composizione a schema piramidale, il cui vertice è rappresentato dalla figura della Vergine sia nel caso della Madonna col Bambino e le Ss. Caterina d’Alessandria e Lucia attribuito a Giulio dell’Oca da Concetta Restaino e a Giovanni Bernardino Azzolino da Anna Grelle e sia nel caso della citata Madonna col Bambino in gloria con San Benedetto, San Pietro, San Paolo e Sant’Agnese attribuita al Santafede. Questa Madonna col Bambino e le Ss. Caterina d’Alessandria e Lucia della chiesa lagonegrese di San Nicola al Castello, si presenta dunque come un sunto dei più importanti momenti che la storia dell’arte italiana abbia attraversato a partire dal XVI sec e permette alla storiografia artistica lucana di manifestare ancora una volta mistero e fascino, fornendoci ancora una volta uno spaccato di storiografia artistica sconosciuto e allo stesso tempo affascinante.


Storie l’uomo e il territorio

Giulio Dell’Oca, Madonna in gloria tra San Francesco d'Assisi e Sant'Antonio da Padova (Santa Maria Apparente), , secolo XVII (1650 - 1699) (fonte:https://www.beweb.chiesacattolica.it/

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Madonna di Foligno - Raffaello Sanzio da Urbino, Musei Vaticani

Dott. Marco Tedesco, storico dell’arte RAM Rinascita Artistica del Mezzogiorno

Questo lavoro è stato svolto grazie alla collaborazione di Milena Falabella, presidente dell’associazione culturale “A Castagna r’a Critica” di Lagonegro, alla quale va il più sentito ringraziamento. Questo lavoro è dedicato a tutti gli amici lagonegresi. Il presente lavoro si inserisce nell’ambito del progetto #contagioartecultura del CNPC Coordinamento Nazionale Patrimonio Culturale.

BIBLIOGRAFIA CONSULTATA: Carlo Pesce, La storia della Città di Lagonegro, Napoli, Reale Stabilimento Tipografico Pansini, 1913; Raffaele Raele, La città di Lagonegro nella sua vita religiosa, opera postuma, Buenos Aires, 1944; Anna Grelle, Sabino Iusco, Arte in Basilicata, Roma, De Luca, 1981, ed. cons. De Luca 2001; AA. VV., Visibile Latente, il patrimonio artistico dell’antica diocesi di Policastro, a cura di Francesco Abbate, Roma, Donzelli Editore, 2004; Nuccia Barbone Pugliese, Contributo alla pittura napoletana del Seicento in Basilicata, in Napoli Nobilissima, 22, III-IV, 1983; Pierluigi Leone de Castris, La pittura del Cinquecento nell’Italia Meridionale, in La Pittura in Italia, il Cinquecento, Milano, 1988; Pierluigi Leone de Castris, Pittura del Cinquecento a Napoli 15731606, l’ultima maniera, Napoli, Electa, 1996.

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Giovanni del Biondo, Trittico di S. Sebastiano, 1370-1375, Firenze, Museo dell'Opera del Duomo, foto Dario Bottaro

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Fede e pandemie Dario Bottaro

Sebastiano, il santo che difende dalla peste: il culto e la devozione nella Sicilia sud orientale

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gni terra ha il suo santo e ogni santo ha il suo specifico patrocinio, vale a dire che viene invocato per determinati problemi o in eventi particolari, quali possono essere ad esempio il pericolo del fuoco o quello dei terremoti. A ciascun santo è deputata una speciale protezione e queste tradizioni che la Chiesa riconosce come devozioni popolari, non sono altro che frutto della storia stessa dei santi, che si riferiscono ad alcuni determinati eventi narrati nelle loro vite o caratterizzanti il loro martirio. Sant’Anna è riconosciuta la patrona delle partorienti, poiché portò

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Storie. L’uomo e il territorio

in grembo la Vergine Maria, sant’Agata è la protettrice dal male ai seni, per il taglio delle mammelle che subì durante le sue torture, santa Lucia protegge la vista non solo per il riferimento alla luce che è già nel nome, ma soprattutto perché la tradizione/leggenda, narra che uno dei suoi supplizi fu lo strappo degli occhi. Ogni figura sacra assume quindi una valenza particolare nella devozione del popolo che in modo filiale e affettuoso la invoca e ciò non poteva mancare per uno dei santi più venerati e conosciuti nel mondo cattolico, il gio-


Storie. L’uomo e il territorio

Antico Simulacro di San Sebastiano giunto a Melilli il 1 maggio 1414 e lì venerato nella Basilica del Santo, foto di Dario Bottaro

vane Sebastiano, martire a Roma nel III secolo, che fu soldato romano impegnato al fianco dell’imperatore. Non ci sono notizie storiche accertate sulle origini del santo, alcune fonti collocano i natali a Narbonne in Francia, altre a Milano, ma concordano tutte nell’attribuirgli il ruolo di militare nell’esercito di Diocleziano e nel doppio martirio ricevuto. La figura di San Sebastiano è una delle più affascinanti che la storia ci ha consegnato, proprio perché in lui convergono valori e ideali umani che ad un certo punto si pongono al servizio della volontà divina. La sua forza e la sua audacia si riscontrano nelle sue Passio, una delle quali attribuita a sant’Ambrogio vescovo di Milano. Per capire l’importanza del culto di San Sebastiano che con il passare del tempo si è sviluppato in tutta Italia, è necessario fare riferimento al suo primo martirio, quello delle frecce. Secondo la Passio, infatti, Sebastiano dopo

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La processione di San Sebastiano a Siracusa, foto di Dario Bottaro

essersi autodenunciato all’imperatore come cristiano e avendolo messo a conoscenza del suo operato fra i bisognosi e specialmente fra i carcerati, viene immediatamente condannato a morte per mano degli arcieri. Nudo viene legato ad un albero nel Campo Marzio e fatto bersaglio dei suoi stessi sottoposti che con numerose frecce, ne trafiggono il corpo quasi fino alla morte. Ma Sebastiano in realtà non è ancora spirato e la matrona Irene, preso il corpo, se ne prende cura fino a quando il santo non torna in forze

e nuovamente si presenterà al cospetto dell’imperatore intimandogli di convertirsi e di mettere fine alla persecuzione contro i Cristiani. L’aspetto più importante che la storia ha messo in risalto nella figura di San Sebastiano è proprio il primo martirio, quello delle frecce, che se da una parte ha sottolineato da subito le virtù eroiche del santo, dall’altro ha alimentato a diffonderne la devozione e a ampliarne il culto. Il suo attributo iconografico per eccellenza, sono infatti le frecce, e di esempi nella storia dell’arte ce ne sono tantissimi. I più grandi artisti,

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come gli ignoti aiutanti di bottega, con la loro espressione artistica hanno immortalato questo momento, raffigurando il giovane soldato di Cristo legato ad un albero o a una colonna e trafitto da numerose frecce. Pensiamo ad esempio alla raffigurazione che ne fece Andrea Mantegna nel 1459, o al San Sebastiano di Antonello da Messina di un ventennio più tardo. Le frecce simbolicamente, già nel mondo antico, come narra Omero nel primo canto dell’Iliade, compaiono come elemento di morte e di flagello e ancora nella Sacra Scrittura sono i


Olivio Sozzi, Gloria di San Sebastiano, 1759, Melilli (SR), Basilica di San Sebastiano, foto di Dario Bottaro

dardi e le frecce del Salmo 7, 13-14 con cui Dio è pronto a punire il popolo che lo ha offeso. Le frecce sono dunque non solo il simbolo della morte, ma anche metafora di un flagello che causa la scomparsa di molti, assumono il significato della peste. E in tempi di peste San Sebastiano è stato spesso invocato, proprio in virtù e merito di quel martirio. Il motivo può essere riscontrato nelle ferite da esse causate, simili ai bubboni della peste che si aprivano nei corpi degli appestati. San Sebastiano è diventato, dunque, il santo che protegge dall’insidioso e invisibile male, che contagia senza fare differenza alcuna di età, sesso o ceto sociale. Lo ricorda molto bene la storia, quando il male invisibile ha devastato l’Italia a più riprese e molte comunità in queste circostanze si sono rivolte a San Sebastiano, ottenendo la liberazione dal contagio. A ricordarci questo importante nesso fra il Santo e la peste, che gli valse anche l’appellativo di Depulsor pestis, è Chiara Frugoni nel suo recente libro Paure medievali. Epidemie, prodigi, fine del tempo, che dedica un

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intero capitolo al Santo Bimartire, mettendone in risalto il culto, proprio a partire da alcune epidemie come quella dell’anno 680, trascritta nell’Historia Longobardorum e di cui parlano Iacopo da Varazze e Paolo Diacono. è infatti a partire da questa pestilenza che il culto di San Sebastiano conosce un primo importante sviluppo dovuto ad un evento che la tradizione ci ha consegnato come una rivelazione privata ad un uomo nella città di Pavia. In quel tempo le due città più martoriate dal morbo letale erano Pavia e Roma e l’ignaro protagonista di questa storia riferì al vescovo e alle principali cariche cittadine che l’epidemia avrebbe avuto fine solo nel momento in cui il popolo, avesse eretto un altare a San Sebastiano. La costruzione del nuovo altare fu realizzata nella chiesa di San Pietro in vincoli, che porta lo stesso titolo di quella romana e fatto

ciò, il contagio diminuì fino a scomparire del tutto. Da quel momento continuò a celebrarsi in forma solenne il giorno di San Sebastiano, il 20 gennaio e secondo quello che è stato tramandato da Paolo Diacono, nel 1330 era usanza presso questa chiesa nella città di Pavia, di solennizzare il Santo distribuendo anche al popolo il pane in forma di uccellini. Ancora un’altra occasione vide San Sebastiano come protagonista delle preghiere rivolte al cielo per scongiurare la peste, questa volta nella città di Firenze. Negli anni Settanta del XV secolo, la città attraversava un periodo buio dovuto alla pestilenza e per accordarsi il beneplacito del Santo fu esposto sull’altare centrale del Duomo un’opera su tavola raffigurante il Supplizio di San Sebastiano, opera di Giovanni del Biondo del 1475, oggi custodita nel Museo dell’Opera del Duomo.

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Asta del pane di San Sebastiano a Siracusa, foto di Dario Bottaro


Andrea Mantegna, San Sebastiano, 1456-57, Vienna, Kunsthistorisches Museum

Sono davvero tanti i momenti storici in cui intere comunità hanno cercato l’aiuto di San Sebastiano, specialmente in occasioni di pestilenza e tanti quei luoghi che ancora ne ricordano il potente patrocinio e lo venerano in modo particolare. Nel sud Italia, sembra essere la Sicilia ad avere il primato del culto a San Sebastiano, testimoniato da chiese, cappelle, edicole votive e una quantità di opere d’arte che è difficile quantificare. Dagli affreschi alle pitture su tela per i grandi altari nelle chiese, ai soffitti dipinti con la gloria in cielo del Santo Soldato, senza considerare la grande produzione di statuaria artistica che ha consegnato a noi contemporanei, veri e propri capolavori di scultura. Il Santo Bimartire è raffigurato quasi sempre trafitto da frecce, con un cor-

po atletico, in riferimento al suo essere innanzitutto un soldato. E se generalmente la Sicilia tutta lo festeggia, è soprattutto nella zona centro orientale che si concentrano la gran parte delle feste a lui dedicate. Feste che scandiscono l’anno e gli appuntamenti di un’intera comunità, con tempi che rimandano alle tradizioni e i mestieri antichi, seguendo spesso il ciclo della natura e del lavoro dell’uomo e spostando le feste più importanti dalla data del 20 gennaio ai mesi estivi, in primis per celebrare la fine del raccolto e, in tempi più recenti, per dare modo agli emigrati di tornare in patria e vivere la festa del Patrono o del Protettore, insieme ai propri cari. Nella provincia di Siracusa il culto di San Sebastiano è molto antico e sembrerebbe risalire al primo venten-

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nio del XV secolo, quando giunse sulle coste a nord di Siracusa, una cassa contenente una statua del Santo. Narra la leggenda che la cassa era inamovibile dalle persone del luogo e che anche dai paesi vicini furono fatti alcuni tentativi per rimuovere il prezioso carico, ma solo i cittadini dell’attuale Melilli, riuscirono nell’impresa. Così caricata la cassa su un carro trainato dai buoi ripresero la via del ritorno e si fermarono, senza volersi più muovere, davanti ad una grotta dove era dipinta l’immagine del Santo. In quel punto venne edificata una chiesa che successivamente fu ampliata e ricostruita in stile Tardobarocco dopo il terremoto del 1693, oggi santuario e meta di moltissimi pellegrini che nella notte fra il 3 e il 4 maggio percorro-

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no molti chilometri a piedi per rendere omaggio a San Sebastiano. Nel territorio aretuseo Melilli è certamente il luogo simbolo del culto al Santo, ma in quasi tutte le città della provincia e anche nel capoluogo, viene celebrato con solennità. Compatrono di Siracusa e anticamente antagonista della Concittadina Santa Lucia, San Sebastiano riceve da sempre gli omaggi speciali da parte di una determinata categoria, quella dei lavoratori del porto, portuali o vastasi – termine siciliano che ha origine dal greco che a lui si sono sempre affidati nella vita quotidiana, tanto da considerarlo uno di loro e da avere una trattenuta in busta paga con la voce “San Sebastiano”. Ebbene sì, se la città è stata sempre protetta e custodita dalla Vergine e

Storie. L’uomo e il territorio

Antonello da Messina, San Sebastiano, 1479, Dresda, Staatliche Gemaldegalerie


Storie. L’uomo e il territorio

Da sx: Simulacro di San Sebastiano, XVIII secolo, Siracusa, Chiesa S. Lucia alla Badia, Cappella di San Sebastiano presso la Porta Marina di Siracusa, XX secolo, foto di Dario Bottaro

Martire Lucia, il porto e le sue acque sono state di pertinenza di San Sebastiano, e forse proprio in virtù di quelle ferite scaturite dalle frecce, quel simbolo di collera divina che in antichità indicava flagello e morte. Quale miglior santo allora se non il prode Soldato Sebastiano, per allontanare il male invisibile della peste che spesso in Sicilia arrivava per mare? A ricordare questo importante legame tra la città e San Sebastiano ci sono anche due luoghi, estremamente vicini l’uno all’altro, ma che raccontano due storie completamente diverse. Il primo è una piccola chiesa intitolata alla Madonna dei Miracoli, sorta nel 1501 per volere del Vescovo Dalmazio, in ringraziamento alla Vergine che liberò la città dalla pestilenza. Sul cinquecentesco portale d’ingresso dove campeggia al entro l’immagine della Madonna col Bambino, sono presenti ai lati anche San Sebastiano e San Rocco, entrambi invocati contro le pestilenze. Il secondo luogo,

appena varcata l’antica Porta Marina, è una cappelletta dedicata a San Sebastiano che custodisce una copia in piccolo del Simulacro che esce in processione, in occasione della festa. Questa cappella in stile neoclassico con colonnine scanalate, capitelli corinzi e timpano, fu voluta nel 1912 dalla Fratellanza di S. Sebastiano fra i lavoratori del porto. è il luogo simbolo di questa unione fra questa categoria e il Santo, un luogo della fede, della devozione e della memoria che ricorda a tutti la secolare devozione a lui rivolta. Infine c’è un evento storico ben preciso che incoraggiò la città di Siracusa a venerare San Sebastiano e ad eleggerlo Compatrono, come ricorda lo storico locale Serafino Privitera nella sua Storia di Siracusa. “In quel tempo la peste cagionava nel popolo grande mortalità e infierì nei mesi di aprile e maggio del seguente anno 1449. Sicché i cittadini di Siracusa in tanto desolamento, come è religioso istinto, ricorsero all’interces-

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Festa di San Sebastiano a Ferla (SR), 20 luglio, foto Antonio Spagnolo,

sione dei Santi, da parte sua il vescovo Santafede assai operò assieme al Senato a soccorrere i poveri e gli ammalati. E fu in questa occasione che dal municipio venne eretta e dedicata la chiesa dirimpetto la Cattedrale al culto del martire Sebastiano, di cui pure una statuetta d’argento fece lavorare a sue spese lo stesso vescovo”. La ricorrenza di San Sebastiano a Siracusa è antica ed è una delle feste che si svolgono esclusivamente in Ortigia, il centro storico della città. Nel passato il Santo veniva portato fuori nella mattina per essere condotto in processione per la maggior parte delle strade di Ortigia con grande partecipazione di popolo e solo in serata faceva ritorno nella sua chiesa, quella di S. Lucia alla Badia dove agli inizi del Novecento fu trasportato dall’antica originaria chiesa, ormai decadente e

distrutta per ampliare il Palazzo di Città. Con il passare del tempo e il conseguente spopolamento del centro storico, questa festa ha risentito della modernità dei tempi e ha perso alcune delle tradizioni tipiche, come la sosta dei portatori durante la processione, nella caratteristica piazza della Graziella, uno dei quartieri popolari dell’isolotto di Ortigia. Nonostante l’incalzare dei tempi, e la necessità di spostare la processione alla domenica successiva al 20 gennaio, poiché feriale, negli ultimi anni, grazie al lavoro del Comitato Festeggiamenti di San Sebastiano, la festa sta riacquistando la sua importanza e sono molti i devoti di altre comunità che si recano in pellegrinaggio a Siracusa per omaggiare il Santo. Un tempo San Sebastiano lungo il tragitto processionale era scortato dai caratteristici cilii, grossi ceri in legno

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tutto particolare per la forma del pane, raffigurante pesce che i devoti offrono al Santo lungo il percorso della processione. La simbologia del pane è un chiaro riferimento cristologico, oltre che al ciclo della vita e al lavoro dell’uomo ed anche la forma rimanda al culto cristiano e agli eventi evangelici che hanno come protagonista Gesù e i suoi miracoli, come nel caso della moltiplicazione dei pani e dei pesci. Questo pane offerto durante la processione, viene successivamente venduto all’asta prima del rientro del Santo in chiesa. Molti altri paesi nella provincia di Siracusa, celebrano San Sebastiano con grandi festeggiamenti, anche in primavera e in estate, come ad esempio Avola, Buscemi, Canicattini Bagni, Cassaro, Ferla, Palazzolo Acreide. Queste feste oltre ad essere testimonianza di una fede antica, sono manifestazione di una devozione e una cultura popolare, ancora molto legata alle proprie radici e che in questi contesti riafferma la propria identità.

Storie. L’uomo e il territorio

artisticamente intagliati –otto in tutto – che venivano addobbati con fiori e sfilavano accanto al fercolo processionale. La festa è caratterizzata da diversi momenti di preghiera, primo fra tutti l’apertura della nicchia che custodisce il bel Simulacro ligneo del Santo, espressione di ignoto artista che ha saputo sublimare nella bellezza, il momento del supplizio delle frecce. C’è poi l’avvicendarsi delle diverse comunità parrocchiali di Ortigia e l’emozionante partecipazione del corpo di Polizia Municipale, di cui San Sebastiano è il Patrono. La mattina del 20 gennaio in Piazza Duomo, si svolge la parata di cui sono protagonisti i Vigili Urbani che al termine si spostano nella chiesa della Badia per la loro messa di San Sebastiano, al termine della quale si svolgono l’atto di affidamento e la consegna delle medaglie al merito ai funzionari che si sono distinti per il loro servizio alla città. Ma la festa di San Sebastiano a Siracusa è anche espressione di un’antica tradizione che ancora oggi si tramanda, l’offerta del pane. Usanza diffusa in molti comuni della Sicilia in occasione delle feste religiose, a Siracusa assume una valenza del


Don Franco LUpo (fonte: Portalecce.it)

don Franco Lupo, Lecce iL diaLetto e La poesia Raffaele Polo

Un uomo di Chiesa e un cultore della tradizione un poeta delle cose semplici di quelle che arrivano dritte al cuore...

E

ro ad una sagra, una di quelle kermesse estive che attiravano tanti visitatori, da noi. E si sprecavano i commenti, in tutte le cadenze, in tutti i dialetti, per le nostre (semplici) specialità da fast-food. Una simpatica signora mi ha sorriso e mi ha chiesto: 'Scusi, né. Ma cossa son le pettole?' Preso alla sprovvista, ho detto: 'Palline di pasta fritta'. Ma mi sono vergognato subito per la mia superficialità. E ho pensato a Lui, a don Franco Lupo, che ha accompagnato tutta la nostra esistenza di 'leccesi' col profumo della sua poesia e delle sue 'pittule'. Per noi, don Franco Lupo era già da tempo nel Paradiso. In quel luogo meraviglioso dove sono tutti i leccesi di ogni tempo che hanno dedicato la loro vita oltre che agli affanni di ogni giorno, a nobilitare ed onorare il dialetto della nostra terra, l'unica, vera bandiera che possiamo esibire, senza timore

che ce la strappi nessuno. Il dialetto e la poesia, connubio imprescindibile di attaccamento alle proprie origini, rafforzato ancor più da quel senso di 'cristianità' che, scevro da orpelli e gerarchie, riesce a farci colloquiare semplicemente con il Bambino, sino ad offrirgli una 'pittulicchia', un vero e proprio colpo di genio poetico che don Franco ci ha lasciato, assieme al suo vagabondare sulla carrozzella per la vecchia Lecce oppure le visite alle 'putee', magari accompagnati da 'perieddi' e 'bizzoche'. Perché il mondo di don Franco era un mondo cangiante che, di fatto, non esiste più. Ma che si può evocare e rivivere con un semplice endecasillabo, con un verso che ha tutta la perfetta musicalità del dialetto leccese, un verso semplice come può essere il grido del venditore di noccioline che, a gran voce, così ci invita: 'Cazzatile, pruati le nucedde'.

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E la sua figura, minuscola e sempre compresa nella tonaca classica di un prete di antico stampo, riesce a consolarci, con paterna bontà, dei mali del mondo. Senza disperazione, si badi bene. Con un pizzico di nostalgia ma con la certezza, tutta cristiana, che la Provvidenza saprà aiutarci a raggiungere quella dimensione che ci farà partecipi di quella 'gente bona' che, nella semplicità e nella fiducia nel Creatore, ha raggiunto la salvezza e quel sentimento che viene dalla consapevolezza di essere 'figli prediletti dal Signore'. Ecco, don Franco, con la sua poesia lineare, efficace e profumata della fragranza delle vecchie cose, ha fatto il miracolo. Ci ha dato la forza per tirare avanti, per sorridere, un po' come facevano i nonni quando ci consolavano e ci mettevano la mano sul capo, Ecco perchè abbiamo pensato, da sempre, che il posto giusto per don Franco fosse quel

Paradiso che la sua figura evocava. Ora, ne siamo certi, Lui è là, ad offrire, con un sorriso, una 'pittulicchia' all'amato Bambinello. Le pittule ce suntu me sai dire? Nu picca te farina a mienzu l'uegghiu, ma lu Natale nu se po sentire se mancanu le pittule: lu megghiu! Le pittule la sira te Natale le frisce mama, iou me le regettu su belle caute e nu me fannu male puru se quarchetuna brucia mpiettu. Le pittule a Natale su de casa pe li signuri e pe li pezzentusi le idi tutte ntaula intra la spasa le mangianu li ecchi e li carusi. La uei na pittulicchia Mamminieddrhu? Auru nu tegnu Suntu Frusculieddrhu

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LUOghI DEL SAPERE

#LadevotaLettrice | Le recensioni di Lucia accoto La strada davanti a me di giancarLo nicoLetti

gIAnCARLO nICOLETTI La strada davanti a me Il mio libro self publishing 2020 ISBn 9788892373655 pp.232 € 12

#recensione #luciaaccoto #recensore #giornalista #libri #ladevotalettrice

Il silenzio assorbe paure. In realtà, immagazzina troppe cose i più delle volte spiacevoli. Si tace per nascondere la verità, per aggiustare i pensieri e accettarli per come sono. Ci si rifugia nel silenzio anche per trovare protezione. Il silenzio è un a zona franca. Nessuna parola può uscire fuori se la riservatezza, la timidezza, l’incapacità di parlare al momento giusto, guastando lo slancio di un eventuale confronto. Certo, il silenzio spesso aiuta ad uscire dall’imbarazzo. Ma non facilita i rapporti con la gente e quelli con i propri innamorati. A volte, ci si infila nelle strette ferite del silenzio quando le cose non vanno bene. Se poi si parla di famiglia con un carico di responsabilità che annulla i sogni e spegne i sorrisi, allora cercare il silenzio per trovare una parte smarrita di se stessi è il comportamento più normale e caldo a cui ci si abbandona. Le situazioni vanno avanti incagliandosi nella quotidiana abitudine e non si può essere impeccabili in ogni circostanza. I sentimenti non si programmano, si agisce di pancia quando macini, anche senza risorse, problemi, contrattempi e decisioni affrettate. I sentimenti puliti, veri, autentici, crescono come la magia di credere nelle cose belle e la famiglia è una di queste. Bisogna solo guardare aventi, dritto. Ognuno trova la propria strada. Ne La strada davanti a me di Giancarlo Nicoletti percorri il trambusto emotivo di un uomo che è messo di fronte alle sue responsabilità di padre. Un cambiamento avvenuto in tempi brevi che lo porta a fare quello che può, sulla base delle sue capacità e dell’inesperienza, per essere un padre presente ed attento. Non è facile, soprattutto quando cala il silenzio tra moglie e marito. Quando si fanno avanti paura, ansia, responsabilità e cambiamenti si usa il tempo in modo diverso cercando di far quadrare i conti, non far mancare nulla alla famiglia. Vorresti dilatare il tempo, metterci dentro tutto quello che non riesci a fare. Eppure, si sottrae sempre qualcosa ad essa per il suo bene. Ed ecco che il protagonista percorre una strada che lo riporta alle risposte ed alle certezze smarrite per delle imprevedibili cadute. Intimo lo stile narrativo, quasi fosse una confessione per ritrovarsi e ritrovare l’amore. La storia scivola su un registro emotivo così fitto che il lettore va avanti pagina dopo pagina con discrezione per non rovinare quello che il protagonista racconta mettendo in luce le sue fragilità.

Per l’invio di libri da recensire scrivere a redazione@arteeluoghi.it

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“ La casa giaLLa “ di marta brioschi sui Legami e i rapporti persi, strappati

MARTA BRIOSChI La casa gialla Independently published 2020 pp.446 €12,58 ISBn 9788830626591

I legami di sangue dicono tante cose anche quando scende il silenzio, quando non ci si guarda più negli occhi per parlarsi o rinfacciarsi qualcosa. I legami si possono perdere, ma non si sciolgono neanche nella memoria più fragile. Sono il richiamo all’esistenza di ognuno, alla genetica dei sentimenti, al rifiuto o all’accettazione di ciò che è sempre esistito nella vita di tutti noi. La ribellione può oscurare alcuni punti di giuntura dei legami di sangue, in fondo ognuno ne sente la mancanza e riempie il vuoto con la rabbia. L’indifferenza, invece, macera l’anima e mette sottosopra l’ordine naturale delle cose. I rapporti di famiglia non sono sempre facili e felici. Sono porcellane tenute a vista, fragili e belle insieme. Alcuni legami si frantumano per incomprensioni, altri per scelte azzardate. A parlare per tutti c’è il tormento interiore individuale che allarga di più le maglie della riconquista. Trovare un varco per riallacciare i rapporti, persi, strappati, per ritrovare qualcuno e ottenere così risposte e verità, è la strada più scomoda e tortuosa da prendere. Ma è quella giusta. L’animo si sentirà in pace, sollevato. Non sarà più soffocato dall’ansia, dai dubbi, dalle notti insonni e da quello che è stato taciuto. Parlare serve sempre. Ognuno poi deciderà se continuare a farlo o mantenere le distanze. Occorre almeno provarci. Nel romanzo La casa gialla di Marta Brioschi segui gli indizi per arrivare ad un legame di sangue spezzato. Una ricerca che un giovane franco-coreano ha iniziato per necessità di sapere che fine avesse fatto sua madre. Un bisogno, il suo, per ricollocarsi nella vita di tutti i giorni senza doversi accontentare del passato chiuso nel taschino della giacca. Ventinove anni di assenza ed un diario per comprendere qualcosa di quel vuoto che il protagonista, un autore di gialli, deve riempire con prove, emozioni, sentimenti, segreti e verità. Dalla Corea, alla Francia, alla Toscana in un giro di orrori, di speranze, di fratellanze ed amori, la ricerca sarà complicata. In fondo in mano il ragazzo ha veramente poco e i ricordi di lei sono la musicalità della sua voce. Splendida la prosa, capace di mantenere sempre alta la suspense. La scrittrice ci consegna un romanzo ricco di colpi di scena, dallo stile posato. è impossibile per il lettore staccarsi dalla storia tracciata da mani sapienti. Finisce così appresso ai personaggi ponendosi di fronte a segreti e scoperte, impaziente di scoprire tutto. Anche il respiro di quell’atmosfera che il romanzo stesso fiata sulle pagine.

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daLsaLentocaFé | Le recensioni di steFano cambò

LUOghI DEL SAPERE

un abbraccio sospeso di Luigina parisi

LUIgInA PARISI Un abrraccio sospeso Musicaos 2019 ISBn 9788894966848 pp.186 € 15

Prima di raccontare il libro, è giusto soffermarsi un attimo sul titolo. Quel titolo che, nella sua armoniosa semplicità, ben si concilia con i tempi che stiamo vivendo. Perché gli abbracci sospesi quasi si ritrovano in quelli spezzati di un bellissimo film di Pedro Almodóvar. Ecco allora che la lettura del nuovo romanzo di Luigina Parisi (edito da Musicaos) diventa uno spunto di riflessione legato alla quotidianità delle piccole cose e dei rapporti sociali, lasciati da parte, se non proprio sospesi, come sottolinea l'autrice. Ci sono due personaggi, Gloria e Luca che, pur conoscendosi per caso, riescono ad instaurare nel tempo un rapporto di forte amicizia, grazie soprattutto ai messaggi e alle e-mail che si scambiano reciprocamente. Il mondo virtuale diventa in qualche modo la loro nuova casa affettiva. Una casa dove rifugiarsi e trovare riparo, specie quando la vita ti scombussola e ti presenta il conto di scelte difficili, se non addirittura dolorose. Colpisce, oltre all'ambientazione che fa la spola tra Milano e il Salento, lo stile narrativo dell'autrice, che punta tutto su una scrittura fluida e scorrevole. Non ci sono inutili virtuosismi e giri di parole… Il taglio della storia e delle vicende è l'essenza stessa del romanzo. Un romanzo che si lascia piacevolmente leggere, ma che allo stesso tempo pone l'accento su una dovuta riflessione sociologica per nulla scontata, figlia dei nostri tempi e di quell'abbraccio sospeso… Che racchiude perfettamente il senso del libro.

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giorgio miLani. La scrittura come enigma Piacenza, VOLUMnIA (Stradone Farnese 33) nuova apertura: 12 gennaio – 28 febbraio 2021 Orari: martedì – sabato, 15.00 – 18.00 e su appuntamento Ingresso libero su appuntamento Informazioni: 335 6456147; info@volumnia.space

La vittoria aLata per iL nuovo capitoLium di brescia Brixia – Parco Archeologico di Brescia Romana bresciamusei.com vittorialatabrescia.it CUP Centro Unico Prenotazioni lunedì - venerdì: 10.00 – 16.00 sabato, domenica e festivi: 10.00 – 18.00 Tel.030.2977833 - 834 Per festeggiare l’evento, ingresso gratuito fino al 26 febbraio

paLadinopiacenza Francesco mochi da montevarchi (1580-1654) e mimmo paLadino (paduLi, bn, 1948). Piacenza, Piazza Cavalli prorogata fino al 28 febbraio 2021

La Fantasia è un posto dove ci piove dentro. daLLe Lezioni americane di caLvino aLLa coLLezione deL ma*ga, a cura di aLessandro castigLioni. MA*gA di gallarate (VA) prorogata fino al 12 marzo 2021 dal martedì al venerdì, dalle ore 11.00 alle ore 16.00 Informazioni: tel. +39 0331 706011; info@museomaga.it; www.museomaga.it marzia migLiora. Lo spettro di maLthus MA*gA di gallarate (VA) prorogata fino al 13 marzo 2021 dal martedì al venerdì, dalle ore 11.00 alle ore 16.00 Prenotazioni al numero tel. 0331.706011 nuovo aLLestimento deLLa saLa arazzi missoni voLuto daLLa Fondazione missoni. MA*gA di gallarate (VA) 11 febbraio 2021 in occasione del centesimo anniversario dalla nascita di Ottavio Missoni (11 febbraio 1921 – 9 maggio 2013) Info e prenotazioni tel. 0331.706011 Ligabue e vitaLoni. dare voce alla natura Parma, Palazzo Tarasconi (strada Farini 37) 17 settembre 2020 – 30 maggio 2021 Orari: lunedì-venerdì, 10.00-19.30 La biglietteria chiude un’ora prima Biglietti: Intero €10,00 Ridotto €8,00 under 26 e over 65, gruppi di almeno 15 persone Ridotto speciale €5,00 per scuole gratuito bambini fino a 6 anni Audioguide €3,00 Visite guidate: gruppo adulti €100,00; gruppo scuole €80,00. Prevendita: TICKETOnE Infotel. 331 2149630; info@fondazionearchivioligabue.it

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“prevenire è meglio che curare”. bernardino ramazzini (16331714). primo medico deL Lavoro Carpi (MO), Musei di Palazzo dei Pio (piazza dei Martiri, 68) 18 settembre 2020 – 31 dicembre 2021 Orari: venerdì, sabato, domenica e festivi, dalle 10.00 alle 13 e dalle 15.00 alle 19.00. Chiuso il lunedì; da martedì a giovedì su prenotazione Ingresso contingentato con prenotazione obbligatoria: https://prenotailmuseo.palazzodeipio.it/prenotailmuseo/ Durante la visita è obbligatorio l’uso della mascherina e il distanziamento di 2 metri (congiunti esclusi) Infotel. 059/649955 – 360 L’avventura deLL’arte nuova | anni 60-80 cioni carpi e gianni meLotti Fondazione Centro Studi sull’Arte Licia e Carlo Ludovico Ragghianti Complesso monumentale di San Micheletto Via San Micheletto 3, Lucca prorogata fino al 19 febbraio 2021 dal lunedì al venerdì dalle ore 10 alle 13 e dalle 15 alle 19. Chiusura il sabato e la domenica. Ingresso: 3 Euro Ingresso gratuito a tutti gli operatori sanitari (medici, infermieri, personale amministrativo e di servizio). Per informazioni: info@fondazioneragghianti.it - tel. 0583 467205 www.fondazioneragghianti.it seLvatica arte e natura in FestivaL Biella Piazzo, Biella Riapertura mostra dal 5 al 26 febbraio 2021 Date e orari potranno subire variazioni sulla base delle eventuali chiusure disposte nell’ambito della classificazione dell’indice di rischio delle regioni stabilito dalle autorità di governo Infotel. +39 015 0991868 info@selvaticafestival.net

ITInER_ARTE...DOVE E QUAnDO...

antonio Ligabue. una vita d’artista Ferrara | Palazzo dei Diamanti 31 ottobre - 5 aprile 2021 Orari 9.30 – 13.00 / 15.00 – 18.00 L'ingresso alla mostra è contingentato, la prenotazione è fortemente consigliata per avere l'accesso in mostra all’orario prenotato, evitare attese e garantire il distanziamento interpersonale. prenotazioni biglietti on line www.palazzodiamanti.it; tel. 0532 244949


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Cioni Carpi , Città distante: Clwyd con stanza rossa, 1987 tecnica mista su tela, 48,5 x 72,5 cm, collezione privata credito fotografico ©AlbertoMessina2020

cioni carpi e gianni meLotti

Dopo le restrinzioni, riapre la Fondazione Ragghianti fino al 19 febbraio la doppia mostra “L’avventura dell’Arte Nuova. Previsto l'ingresso gratuito per tutti gli operatori sanitari

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’avventura dell’arte nuova | anni 60-80 dedicata ai due artisti Cioni Carpi e Gianni Melotti riapre le porte dopo la chiusura obbligata in ottemperanza alle misure per contrastare la pandemia. Il passaggio della regione Toscana alla colorazione gialla fa riaprire e prorogare fino al 19 febbraio la doppia

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esposizione negli spazi della Fondazione Ragghianti di Lucca che ha sede nel Complesso Monumentale di San Micheletto. La prima mostra, curata da Angela Madesani, è dedicata alla figura di Cioni Carpi, nome d’arte di Eugenio Carpi de’ Resmini (Milano, 1923-2011), e alle sue sperimentazioni artistiche. Figlio


8) Cioni Carpi Ulysses as memory Palimpseste partiel, 1972 olio su tela, 80 x 155 cm collezione privata credito fotografico ©AlbertoMessina2020

Cioni Carpi Tavole per “Un gatto qua e là” 1962 tecnica mista su carta, 13 x 17 cm ciascuna

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d’arte, suo padre Aldo Carpi, fu pittore e storico direttore dell’Accademia di Brera, come lo furono i suoi fratelli Fiorenzo noto musicista, e Pinin, scrittore e illustratore per l’infanzia. Dal 1959 al 1980 Carpi realizza numerosi film d’artista, attualmente ospitati da importanti archivi, fra i quali quello del MoMA di New York. Lavora anche molto per il teatro: sua è la prima scenografia costituita da un filmato per L’istruttoria di Peter Weiss al Piccolo di Milano nel 1966. E collabora con alcuni compositori come Paccagnini, Manzoni e Maderna, per i quali, in occasione della messa in scena delle loro opere, realizza filmati e proiezioni. Carpi, unico artista italiano, insieme a Franco Vaccari, a fare parte del gruppo della Narrative Art, ha inoltre uti-

lizzato per la sua ricerca la fotografia, le installazioni, le proiezioni di luce, il video. Nel 1978 e nel 1980 ha partecipato alla Biennale di Venezia in due mostre curate da Vittorio Fagone, con il quale, nel corso degli anni, aveva sviluppato un rapporto di stima e collaborazione. La mostra alla Fondazione Ragghianti presenta il percorso artistico di Carpi dal 1960 circa agli anni Ottanta. Sono esposte circa quaranta opere di grandi dimensioni tra dipinti, installazioni, lavori fotografici, filmati, installazioni, disegni, progetti e libri creati dall’artista in unica copia, ma anche documenti e cataloghi sull’opera di questo intelligente protagonista dell’arte della seconda parte del XX secolo.

Ingresso della mostra Carpi Melotti, Fondazione Ragghianti, Lucca

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Gianni Melotti, Foto Fluida, 1983, stampa cibachrome a contatto su monitor a colori, 50x60 cm ca. serie videografie, 5 cibachrome, esemplari unici, Archivio Gianni Melotti Foto in basso: particolare allestimento mostra di Gianni Melotti, Fondazione Ragghianti, Lucca

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Gianni Melotti Come as you are / Jacket and, 1981 film super8 colore muto, esemplare unico Archivio Gianni Melotti

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Il complesso monumantale di San Micheletto (fonte: https://www.fondazioneragghianti.it/)

La seconda mostra, a cura di Paolo Emilio Antognoli, presenta i risultati di una ricerca storica e archivistica, ancora inedita, riguardante l’opera di Gianni Melotti (Firenze, 1953) nel suo primo decennio di attività, dal 1974 al 1984. Le trenta opere in mostra evidenziano lo sviluppo storico-artistico e i rapporti che Melotti ebbe con alcuni artisti legati da amicizia e collaborazione, quali Lanfranco Baldi, Luciano Bartolini, Giuseppe Chiari, Mario Mariotti e altri artisti come Bill Viola legati alla sua esperienza in art/tapes/22, studio dedito alla produzione di videotapes per artisti di cui Melotti nel 1974 diviene il fotografo. Una consistente collezione di queste fotografie è oggi conservata all’ASAC della Biennale di Venezia. La mostra vuole documentare lo sviluppo del lavoro di Melotti, conosciuto soprattutto come fotografo, la cui attività come artista è rimasta quasi del tutto inedita. A Firenze

negli anni Settanta art/tapes/22 video tape production, Zona non profit art space, la Galleria Schema, la Galleria Area e la Casa Editrice e Libreria Centro Di sono state centrichiave per l’arte contemporanea in Italia, da cui sono transitati grandi nomi dell’avanguardia artistica internazionale come Vito Acconci, Chris Burden, Daniel Buren, Urs Lüthi, Joan Jonas, Joseph Kosuth, Jannis Kounellis, Nam June Paik, Giulio Paolini, Robert Rauschenberg. è attorno a questi spazi che si sviluppa un ambiente incline all’interazione fra le più diverse attività artistiche e culturali: architettura e design radicale, editoria, cinema d’artista, video, musica contemporanea e i nuovi off-media artistici quali il disco, il libro d’artista, il multiplo. E Gianni Melotti ne è stato senz’altro uno dei protagonisti, con un linguaggio concettuale dai risultati originali e trasgressivi.

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Visitare le due mostre sarà anche occasione per ammirare la bellezza architettonica della Fondazione Ragghianti che abita gli spazi del complesso Monumentale di San Micheletto la cui storia inizia nel 720 con la costruzione del nucleo originario della chiesa dedicata appunto a San Michele. Alterne vicissitudini nel corso dei secoli hanno visto nel Medioevo dapprima ricostruire la chiesa nuova dopo un crollo e poi passare grazie ad una donazione alle suore del Terz’ordine fino a diventare nel 1460 il Monastero di San Micheletto consacrato alla regola di Santa Chiara. Il monastero fu attivo fino al 1806 quando con l’espropriazione dei beni ecclesiastici venne rilevato e destinato ad uso di scuderie per la residenza dei principi a Villa Buonvisi. Successivamente nel 1827 ritornarono le monache e furono avviati diversi lavori di restauro. Nel 1896, la giunta comunale chiuse il monastero pur concedendo alle monache di poter usufruire ancora parte

di esso. Nel 1901 il Comune di Lucca lo riconsegnò alle religiose; in seguito, nel timore di nuove oppressioni, la comunità religiosa cedette la proprietà del Monastero all’Opera Pia di Terrasanta. Nel 1945 il Monastero, ormai abitato da un ridotto numero di monache, iniziò con alcuni istituti scolastici una serie di contratti di locazione della maggior parte dei locali compresi nell’ala nord del Complesso. Con l’abbandono del complesso da parte delle monache, nel 1972 San Micheletto diventò proprietà della Cassa di Risparmio di Lucca. Con la donazione proprio aIl’Ente bancario lucchese della biblioteca, della fototeca e dell’archivio dei coniugi Ragghianti si diede seguito al loro progetto di creare un laboratorio permanente di studio e un centro di esperienze culturali per la città di Lucca. Progetto che si è poi concretizzato nel 1981, con la nascita del Centro Studi sull’Arte Licia e Carlo Ludovico Ragghianti.

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Castello Estense di Ferrara, foto di Stefano Cambò

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iL giardino dei Finzi contini così vittorio de sica Lesse bassani Stefano Cambò

Per i luoghi del cinema scopriamo il set di un film Premio Oscar

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cesso che gli farà vincere l’Orso d’oro a Berlino, il David di Donatello, il Bafta fino ad arrivare al Premio Oscar come miglior film straniero nel 1972. Ma andiamo

I luoghi del cinema

Nel 1970 l’acclamato regista Vittorio De Sica porta sugli schermi Il giardino dei Finzi Contini, film che riprende in toto l’omonimo romanzo di Giorgio Bassani. Sarà un suc-


Torrione e fossato del Castello Estense di Ferrara, , foto di Stefano Cambò

con ordine e partiamo dalla trama della storia, che ci porta per mano nel 1938. I Finzi Contini sono una ricca famiglia di Ferrara, conosciuta e rispettata. Sul loro status alto borghese irrompono, però, le leggi razziali, che provocano l’espulsione dei due figli Micòl e Alberto dal circolo del tennis, in quanto di origine ebraica. Per ovviare a questa imposizione i genitori decidono di far frequentare l’esclusivo giardino della loro bellissima dimora agli amici più stretti. Tra questi ci sono Giorgio (che s’innamora perdutamente di Micòl), anch’egli ebreo e figlio di un commerciante che disapprova la scelta e Giampiero Malnate, comunista originario di Milano. Intanto su tutta l’Italia iniziano a soffiare i venti di guerra e per gli ebrei la situazione si fa sempre più critica. C’è chi scappa in Francia come Ernesto, il fratello di Giorgio, che invece resiste stoicamente a Ferrara per continuare gli studi, anche grazie al professor Ermanno che mette a disposizione la biblioteca privata dei Finzi Contini. Qui Giorgio scopre che la sua amata Micòl ha una relazione clandestina con Giampiero Malnate, con il quale trascorrerà l’ultima notte prima che questi parta per il fronte. Gli eventi precipitano inevitabilmente: Alberto, di cui si intuisce l’omosessualità, muore in poco

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tempo per una grave malattia e Giampiero Malnate cade in Russia durante un conflitto a fuoco. Giorgio invece, dopo essersi nascosto strenuamente, viene catturato dai nazifascisti, mentre tutta la parte rimanente della famiglia dei Finzi Contini sarà prelevata da casa dai repubblichini e condotta in una scuola-carcere dove verrà separata definitivamente. Nella stessa aula che aveva frequentato da bambina, Micòl incontra il padre di Giorgio, che la informa della fuga del figlio da Ferrara dopo la cattura. I due si abbracciano e guardano speranzosi dalla finestra mentre le nubi e la nebbia avvolgono il panorama esterno. A differenza del romanzo di Bassani, Vittorio De Sica non utilizza la tecnica dell’io narrante (cosa che fece storcere il naso all’autore il quale, dopo aver lavorato alla sceneggiatura e ai dialoghi, decise di abbandonare il set) e farà coincidere il suo punto di vista con quello di Giorgio, il protagonista del film. Inoltre, il regista preferisce concludere la pellicola con l’episodio della deportazione, al contrario di quanto accade nel libro che invece prosegue e farà raccontare a Giorgio, fuggito all’estero, cosa succederà alla famiglia dei Finzi Contini in seguito. Di sicuro, nonostante le differenze tecniche e narrative tra le due opere, un punto di unione sussiste ed è rappresentato dalla stupenda Ferrara. Infatti, l’ingresso del giardino del film è situato veramente nella città dell’Emilia Romagna e più precisamente in Corso Ercole d’Este, vicino a dove lo aveva immaginato lo stesso Bassani (anche se poi è stata utilizzata, per le scene interne, la Villa Litta Bolognini di Veda-

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I luoghi del cinema

Strada del centro storico (Ferrara), foto di Stefano Cambò


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Cattedrale di San Giorgio, foto di Stefano Cambò

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la locandina del film

I luoghi del cinema

no al Lambro non lontano dal Parco di Monza). Per fortuna, tutti gli esterni sono stati ripresi a Ferrara, facendo conciliare definitivamente i fans del libro con quelli del film. Così conciliare che in molte scene fa la sua sontuosa presenza il bellissimo Castello Estense, simbolo per antonomasia della città rinascimentale, diventata Patrimonio dell’Unesco nel 1995. Questa imponente struttura sorse nel 1385 come fortezza per il controllo politico e militare e per la difesa della stessa famiglia che qui vi regnava. É, senza dubbio, fra tutti i manieri italiani, uno dei meglio conservati, nonostante il terremoto del 2012 ne abbia inferto qualche ferita strutturale. La peculiarità e la suggestione è certamente legata al fossato ricco di acqua e di pesci che ne donano un tocco decisamente romantico nonostante sia da considerarsi una costruzione di stampo strettamente militare.

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Palazzo dei Diamanti, (fonte pagina social)

Dopo il Castello Estense è la volta della Cattedrale di San Giorgio che compare in molte scene del film. Sede dell’Arcidiocesi di Ferrara-Comacchio, riveste un’importanza storica e artistica notevole. Di grande interesse è la facciata di stampo romanico che presenta un insieme armonico di logge, arcate, statue, rosoni e bassorilievi che la caratterizzano del tutto e la rendono unica. Non lontano dalla Cattedrale c’è poi il Palazzo Municipale. Costruito nel 1245, fu la prima dimora degli

Estensi e la sua posizione frontale, rispetto al luogo sacro prima citato, voleva dimostrare l’importanza del potere politico oltre a quello religioso. Spostandoci dal centro c’è il Palazzo dei Diamanti che compare in molte scene esterne. Questa particolare costruzione, sede permanente della Pinacoteca Nazionale, mostra, sulla facciata, ben 8.500 blocchi di marmo a punta che assomigliano, per forma e dimensione, alla famosa pietra preziosa citata prima. Oltre a dare il nome a tutta la struttura, que-

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I luoghi del cinema

sto insieme armonioso di pezzi rende suggestivo il contorno con uno straordinario gioco di luci e ombre. Dulcis in fundo… Chiudiamo con una strada davvero particolare che potrete trovare solo a Ferrara. Si tratta di Via delle Volte, una piccola arte-

ria del centro storico il cui nome è legato ai numerosi archi e passaggi sospesi che la attraversano. Si consiglia di percorrerla a piedi o in bicicletta (il mezzo più usato in assoluto in città) per assaporare al meglio l’atmosfera rinascimentale che ben si concilia con le costruzio-

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Municipio di Ferrara, foto di Stefano Cambò

ni delle case che vi si affacciano. Perché, la bellezza di Ferrara è dentro la sua arte e la sua storia, racchiusa nelle mura cittadine e nel centro storico, davvero unico e suggestivo. Come unica e suggestiva è stata la trasposizione cinematografica de Il Giardino dei Fin-

zi Contini di Giorgio Bassani, grazie soprattutto alla sapiente regia di Vittorio De Sica, che è riuscito a far rivivere su pellicola i giovani personaggi, rendendo immortale questo grande classico della letteratura italiana.

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Palazzo Cardamonei, foto di Mario Cazzato

Lecce nascosta paLazzo cardamone, giÀ maetirano e primaancora paLadini Mario Cazzato

Passeggiando nel cuore antico tra vicoli e pagine di storia

Salento Segreto

F

u teatro, nel maggio 1734, quando ci furono i disordini per il passaggio del Regno dagli austriaci agli spagnoli, di un orribile fatto di sangue. Qui abitava il napoletano Francesco Cardamone regio percettore e tesoriere e perciò malvisto dai più. In quei giorni turbolenti al suono della campana del Sedile il popolo dalla piazza si portò in casa del Cardamone che nel frattempo si era rifugiato nella vicina chiesa dei gesuiti. Con atto sacrilego fu da qui prelevato a forza, portato

in piazza e barbaramente ucciso. Come se non bastasse il suo palazzo fu devastato e bruciato l'archivio delle tasse. Agli inizi del Novecento una parte del grande palazzo apparteneva ai Calilli che vi avevano creato una importante collezione d'arte, in parte passata ai Fumarola. Riprendendo il discorso su Francesco Cardamone ricordiamo che aveva anche una residenza rurale che portava il suo nome nei pressi dell'attuale Villa Convento.Qui nel 1872 il Bot-

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Palazzo Cardamonei, foto di Mario Cazzato

del periodo preistorico.Qui riconobbe i resti dell'elefante villoso e del rinoceronte.

Salento Segreto

ti scoprì una grotta naturale che costituiva uno dei più importanti depositi di animali

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