Architettiverona 128

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CONSIGLIO DELL’ORDINE • Presidente Matteo Faustini • VicePresidenti Paola Bonuzzi Cesare Benedetti • Segretario Chiara Tenca • Tesoriere Leonardo Modenese • Consiglieri Andrea Alban, Michele De Mori, Andrea Galliazzo, Federica Guerra, Roberta Organo, Fabio Pasqualini, Francesca Piantavigna, Paola Tosi, Enrico Savoia, Alberto Vignolo

Rivista trimestrale di architettura e cultura del progetto fondata nel 1959 Terza edizione • anno XXX n. 1 • Gennaio/Marzo 2022 rivista.architettiverona.it

https://architettiverona.it/rivista/

DIRETTORE RESPONSABILE Amedeo Margotto

DIRETTORE Alberto Vignolo

EDITORE Ordine degli Architetti Pianificatori Paesaggisti e Conservatori della provincia di Verona Via Santa Teresa 2 — 37135 Verona T. 045 8034959 — F. 045 592319 architetti@verona.archiworld.it

REDAZIONE Federica Guerra, Angela Lion, Luisella Zeri, Damiano Capuzzo, Filippo Romano, Leopoldo Tinazzi, Laura Bonadiman, Giorgia Negri, Marzia Guastella, Nicolò Olivieri, Davide Graniti, Giulia Biondani, Federico Morati, Ilaria Sartori rivista@architettiverona.it

DISTRIBUZIONE La rivista è distribuita gratuitamente agli iscritti all’Ordine degli Architetti Pianificatori Paesaggisti e Conservatori della Provincia di Verona e a quanti ne facciano richiesta all’indirizzo https://architettiverona.it/distribuzione/

ART DIRECTION, DESIGN & ILLUSTRATION Happycentro www.happycentro.it

CONCESSIONARIA ESCLUSIVA PER LA PUBBLICITÀ Cierre Grafica Paolo Pavan: T. 348 530 2853 info@promoprintverona.it

CONTRIBUTI A QUESTO NUMERO Luciano Cenna, Manuel Magnaguagno, Andrea Masciantonio

STAMPA Cierre Grafica www.cierrenet.it

L’etichetta FSC ® garantisce che il materiale utilizzato per questa pubblicazione proviene da fonti gestite in maniera responsabile e da altre fonti controllate.

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CONTRIBUTI FOTOGRAFICI Lorenzo Linthout, Marco Toté SI RINGRAZIANO Antonella Arzone, Margherita Bolla, Alessandro Bonfanti, Alba Di Lieto, Rossella Pasqua di Bisceglie, Vincenzo Pavan, Paolo Perantoni, Federica Provoli, Lino Rama, Teresa Pederzoli

Gli articoli e le note firmate esprimono l’opinione degli autori, e non impegnano l’editore e la redazione del periodico. La rivista è aperta a quanti, architetti e non, intendano offrire la loro collaborazione. La riproduzione di testi e immagini è consentita citando la fonte.

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PROGETTO

PROGETTO

Tessere spazi domestici di Angela Lion

Equilibrio instabile di Damiano Capuzzo

EDITORIALE

Superbuoni di Alberto Vignolo

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PROGETTO

Abitare nel concreto di Leopoldo Tinazzi

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STORIA & PROGETTO

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PROGETTO

Nuovo realismo di Nicolò Olivieri

Una casa sul Garda di Andrea Masciantonio

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PROGETTO

Nell’ordinario quotidiano di Filippo Romano

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Una fonte digitale meravigliosa di Federica Guerra

Ci mette il becco LC La figura del committente di Luciano Cenna

ODEON

INTERIORS

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La forma del bere di Ilaria Sartori

Nel segno di Licisco di Alberto Vignolo

ODEON

ODEON

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STUDIOVISIT OFF

Qui Rotterdam città d’acqua e d’architettura di Manuel Magnaguagno

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ODEON

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INTERIORS

Mattone Dry di Federico Morati

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ODEON

Lapilli nel museo di Alberto Vignolo

Sottoterra: rifiuti e forme di vita di Giulia Biondani

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Notti magiche e archeologiche di Alberto Vignolo

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Osti e architetti nati di Marzia Guastella

Il mestiere più antico (o quasi) di Federica Guerra

INTERIORS

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QUASI ARCHITETTI

Prendersi cura del Castello di Laura Bonadiman

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PORTFOLIO

Edilizia privata (di ogni dignità)

ODEON

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Superbuoni

Architetti alle prese con il ciclone dei bonus edilizi e alla ricerca di un ruolo attivo nel contesto professionale e sociale

Testo: Alberto Vignolo

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Non è un virus, e negli ultimi tempi già questa è una buona notizia: eppure sembra che una circolazione pandemica abbia contagiato gli architetti e i professionisti del settore in genere, che in altissime percentuali risultano essere positivi al contagio del cosiddetto Superbonus. Bene, anzi benissimo: si lavora alacremente negli studi dove, assieme a un buon 90% e oltre di follia burocratica quotidiana, si può anche cogliere l’occasione, tramite il progetto e lavorando sugli involucri, di ripensare l’aspetto esteriore degli edifici: ovvero, in buona sostanza, di fare gli architetti (caspita!). Eppure la logica dei bonus – letteralmente sconti, abbuoni, riduzioni – rischia di svilire ancora una volta la dignità professionale della categoria, sull’onda di scadenze capestro, disposti legislativi retroattivi, sudditanza a contractor, banche, avvocati e commercialisti; aggiungiamoci il counseling condominiale e il quadretto poco idilliaco è completo. Non sarebbe ora, una buona volta, di pensare a un ruolo per gli architetti capace di ridare alla professione il riconoscimento e l’identità sociale che sono nella maggior parte dei casi sbiaditi? Certo, la riconquista di un ruolo attivo non può arrivare

dall’alto o da altro, ma deve di contro scaturire da un moto d’orgoglio, che sia pure una rivendicazione corporativa – non è una parolaccia – capace di valorizzare il patrimonio intellettuale che deriva da una formazione d’eccellenza attraverso cinque anni di studi, e da una tradizione radicata alla quale continuamente attingiamo, tra antico e moderno. Basta dunque con gli sconti, in tutti i sensi: dobbiamo piuttosto diventare superbuoni, e forse anche

supereroi, per riuscire a vincere le forze del male che ci attanagliano: la mancanza di coesione e, per così dire, di un’identità di genere architettonico – un esame di coscienza da parte dell’Ordine di cui siamo emanazione andrebbe fatto – , la concorrenza al ribasso, il mai risolto conflitto quasi edipico con l’altro “sesso” progettuale, quello degli ingegneri, l’atavica faida coi cuginastri geometri dalle competenze senza arte ne parte. Per non parlare del trasversale

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01-02. Sul disegno architettonico: assonometria esplosa di un centro servizi con aule e piante di tipologie abitative (Stefano Loda, Proposta di social housing: riqualificazione del complesso ex Alutekna a Porto Marghera, relatore Esther Giani, correlatori Emilio Meroi, Irene Peron, 2017).

conflitto pubblico-privato, che vede rappresentanti della categoria sugli opposti schieramenti che, invece di comprendere le ragioni reciproche, sembrano armarsi di ulteriori e inutili orgogli di piccole caste. Una delle ragioni strutturali che ancora mina la forza identitaria degli architetti è anche la dimensione media degli studi, e di conseguenza la loro forza gestionale e contrattuale. Siamo cresciuti tutti nel mito di figure singolari assurte a modello di un progettista-artigiano onnisciente e sostanzialmente autosufficiente. La realtà organizzativa del lavoro contemporaneo, in una società complessa sempre più rapida e interconnessa, ha cambiato da tempo le carte in tavola; le società di ingegneria vanno nel senso di un salto di scala delle compagini progettuali e verso una maggiore integrazione tra figure e ruoli complementari, ma il legislatore “distratto” le ha nominalmente ascritte in toto a sorella nostra ingegneria, come se questa potesse papparsi in un sol boccone non solo le scienze ma anche le arti del costruire. E sarebbe del resto facile prendere esempio dall’omonimo settore scientifico (ingegneria civilearchitettura) per mettere assieme

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capra e cavoli e non scontentare nessuno: ma anche questa omissione terminologica altro non è che un segno di una più generale crisi epistemologica della figura dell’architetto. Queste riflessioni, che esulano totalmente da un ambito locale, possono però essere viste anche sotto la lente deformante del nostro piccolo osservatorio territoriale. Che peso hanno gli architetti nel dibattito pubblico veronese? E nella pubblica amministrazione? Anche in questo caso, una rivendicazione di parte risulta sterile e fine a se stessa se non serve a riflettere sulle ragioni di una condizione di fatto. Come tutti, saremo sicuramente tirati in ballo o strattonati per l’elegante manica della giacchetta in occasione della oramai prossima tornata elettorale amministrativa cittadina. Smettiamola di stare “zitti e buoni” e rivendichiamo il nostro buonismo al superlativo. C’è un disperato bisogno di architettura, e di conseguenza di

architetti progettisti (i funzionari non mancano) anche a Verona. A una progettualità in termini di scelte e di indirizzi ne deve seguire una molto più concreta e fatta di elaborati tecnici, che vadano dai masterplan agli esecutivi, capaci di dare forma alla trasformazione architettonica e urbana. Se un tempo si lamentava la mancanza di risorse economiche, in questa congiuntura di improvvisa apertura della cornucopia europea l’assenza di una progettazione di livello adeguato rischia di far perdere occasioni irripetibili. Non si può che osservare un cronico sovraccarico – non è un atto d’accusa ma una semplice constatazione – delle strutture operative comunali, che hanno un loro indiscutibile ruolo ma che non possono esaurire intra moenia la mole di lavoro necessaria alla modernizzazione di una città ancora sdraiata sul facile ossequio del passato e delle sue bellezze, che rischia di diventare però assuefazione all’immobilismo. Le vecchie zie

(imitate da nuove megere) dicevano che si stava meglio una volta, e che si è sempre fatto così: una visione che rappresenta il contrario della progettualità, e che è dunque anarchitettonica. Troppe volte si sono visti lavori pubblici con soluzioni di basso profilo, probabilmente per una mancato investimento – intellettuale e finanziario – in una progettualità adeguata. Per fare un piccolissimo esempio: il banale marciapiede realizzato di recente, e disegnato con un semplice offset dalle mura di via Pallone, in un area strategica per l’accesso al centro dal terminal dei bus turistici, è di una povertà disarmante e rappresenta quindi un’occasione perduta per ripensare tutto quel percorso. Esaurita la sbornia dei cappotti, gli architetti che non ne saranno stati fagocitati rappresentano una risorsa preziosa di cui tenere conto: senza sconti, al di là del bonus e del malus.

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Foto di Marco Totè Cfr. pp. 62-73 02



PROGETTO

Nuovo realismo

Una schiera residenziale costruita in un contesto periferico tra i condizionamenti del mercato immobiliare, la prassi costruttiva e l’eccezione di una casa disegnata su misura per il committente-costruttore

Progetto: arch. Daniele Dalla Valle Testo: Nicolò Olivieri

Castel d’Azzano

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Prendiamo un lotto rimasto casualmente inedificato all’interno di un tessuto compatto a densità medio-bassa, fatto di casette anonime e banali, all’interno di un contesto periferico che potrebbe essere in qualunque borgo o città. Ci troviamo in realtà da un punto di vista amministrativo in quel di Castel d’Azzano, ma la cosa sembra essere del tutto irrilevante: di fatto, è solo un frammento abitato di una Verona a scala un po’ più larga, dove anche i comuni confinanti, per piccoli che siano – neanche dodicimila abitanti nel nostro caso – sono parte delle medesime dinamiche insediative. I tessuti residenziali proliferano dove i valori fondiari sono più abbordabili, tanto il lavoro in città è a due passi: per non parlare delle occasioni offerte dalle grandi aziende che proprio a Castel d’Azzano hanno i loro stabilimenti (su tutte, Bauli e Index). Questo il contesto socio-economico e territoriale con il quale il progetto di un piccolo insediamento residenziale costruito ex novo si è dovuto confrontare, non certo un luogo ricco di caratteri storici o insediativi. Inutile cercare di appigliarsi a quel castello in una riserva di caccia a pochi chilometri

01. Particolare del prospetto principale. 02. Inquadramento dell’area di intervento nel contesto urbano. 03. Il fronte cieco in corrispondenza della rampa di accesso alle auorimesse interrate (foto di Lorenzo Linthout). 04. Lo sviluppo dell’edificio sul fronte della via interna della lottizzazione.

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« A rompere il cliché interviene la variazione di ritmo dovuta alla maggiore ampiezza dell’abitazione di testa per la quale il progetto si fa sartoriale » da Verona che ha lasciato tracce solo nel toponimo, o all’antico lago di Vacaldo formato dalle risorgive presenti nell’area, sopravvissuto fino alla Prima Guerra Mondiale e poi prosciugato, con i canali d’acqua, i viali coperti di salici marini e di pioppi cipressini ricordati dalle cronache. Nulla di tutto ciò: la condizione di partenza per il progetto non poteva essere più banale, un’area lungo una strada di lottizzazione a fondo cieco e senza null’altro a cui appigliarsi. In più, si tratta di un progetto pienamente rappresentativo di una prassi comune, quella di uno sviluppo immobiliare destinato al mercato, con tutti i condizionamenti che derivano da tale presupposto e dagli stereotipi ad

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PROGETTO

Nuovo realismo

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05. Sezioni trasversali sulle schiere e sull’abitazione di testa. 06. Piante piano terreno e primo. 07. Il fronte posteriore con i piccoli giardini di pertinenza (foto di Lorenzo Linthout). 08. L’affaccio dell’abitazione di testa sul giardino privato con la piscina. (foto di Lorenzo Linthout). 09. Particolare di uno dei balconi sul fronte posteriore (foto di Lorenzo Linthout).

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esso legati, spesso difficili da scalfire. Il realtà, il caso in questione è ibrido, perché il committente, un impresario che ha costruito e messo in vendita tre delle quattro unità immobiliari del complesso, ha riservato per se l’ultima, destinataria di maggiori spazi e anche del disegno degli interni da parte del medesimo progettista del complesso, l’architetto Daniele Dalla Valle. La conformazione dell’area e la destinazione per la vendita delle case ha determinato lo sviluppo di una tipologia a schiera, un piccolo condominio orizzontale con quattro unità abitative disposte su due piani fuori terra, con interrato per i box di prammatica. Sempre per restare nello standard, si tratta di duplex con zona giorno a piano terra e zona notte al piano superiore. La scalatura in pianta delle singole unità entro il perimetro di scorrimento dei cinque metri dal confine è da manuale. A rompere il cliché interviene la variazione di ritmo dovuta alla maggiore ampiezza dell’abitazione di testa, per la quale il progetto si fa sartoriale grazie al dialogo tra il futuro abitante – lo stesso impresario – e l’architetto. Il ritmo complessivo può

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COMMITTENTE Six Costruzioni srl PROGETTO ARCHITETTONICO arch. Daniele Dalla Valle geom. Massimo Fusini (permesso di costruire, progetto esecutivo) COLLABORATORI arch. Alice Corsi STRUTTURE ing. Carlo Peruzzi DIREZIONE LAVORI ing. Federico Piazzi IMPRESA ESECUTRICE Six Costruzioni DATI DIMENSIONALI area lotto: 960 mq volume edificato: 1.800 mci CRONOLOGIA Progetto e realizzazione: 2019-2021

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PROGETTO 10-11. La scala a rampa unica in una veduta dal pianto terra e lo sbarco al piano primo (foto di Lorenzo Linthout).

Nuovo realismo 12-13. Campo e controcampo sulla zona giorno con le aree living e pranzo (foto di Lorenzo Linthout).

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così essere letto in termini metrici come B-B-B-A, entro un disegno unitario che vuole piuttosto evitare una lettura per parti verticali, enfatizzando di contro l’orizzontalità dell’edifico. Va in questo senso sia la copertura – ebbene sì, a Castel d’Azzano è arrivato il tetto piano! – sia il marcapiano che segna, cromaticamente e in parte matericamente, lo stacco tra i due livelli. Sulle superfici a intonaco – basamento color cappuccino e piano primo color panna – risalta il grigio della cornice di gronda e del marcapiano, che sul fronte principale sporge a formare balconi e pensiline di copertura degli ingressi. Inizialmente previsto in getto di calcestruzzo a vista – ipotesi che non è rientrata nell’economia del progetto – questo grigio è un altro figlio di un realismo capace di fare i conti con i condizionamenti dei mezzi di produzione. Grigio anche per i metalli, quelli dei parapetti dei balconi e delle lamiere microforate della cinta, elemento che per la sua pulizia formale fa spiccare fin dalla strada l’edifico nell’immediato intorno. Unico elemento velatamente contestuale è una me-

moria del muro di cinta in sassi della corte di Villa Soldo detta “La Caporala”, che si può scorgere lungo la strada proveniente da Verona; questo elemento agisce per il progettista come “preesistenza ambientale” suggerendo l’idea del rivestimento in pietra a spacco per i setti divisori tra le unità abitative, sia sul fronte strada che sul retro, tra i balconi e le logge aperte sui giardini privati. La pietra è estesa a tutto il piano terra sulla casa di testa, eloquente espressione della sua alterità: qui il volume si fa più stereometrico, perdendo l’aggetto della gronda. Le imbotti delle finestre del primo piano raggiungono il filo superiore della copertura, diventando sottili tagli ritmati, mentre al piano terra si aprono generosamente in funzione del giardino, caratterizzato da una narcisistica piscina a sfioro. Anche i generosi spazi interni di questa casa godono delle attenzioni progettuali di Daniele Dalla Valle. Elemento caratterizzante è la scala lineare staccata dalla parete, come un grande mobile ligneo che separa la zona living dal corridoio posto sull’infilata dell’ingresso; il rapporto con l’esterno organizza la distribuzione delle aree cucina, pran-

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DANIELE DALLA VALLE Laureato in architettura allo IUAV di Venezia nel 2000, collabora con vari studi in Europa e in America, con i quali si occupa di progettazione sia in ambito pubblico che privato, e nel 2010 fonda il proprio studio. Ha svolto attività didattica allo IUAV di Venezia e negli ultimi anni ha tenuto corsi di progettazione di interni e di design presso l’Istituto Design Palladio a Verona. Tra i lavori recenti dello studio, gli interni del Ristorante 12 Apostoli a Verona (cfr. «AV» 118, pp. 46-51), e il progetto di rigenerazione urbana Adige Docks per la riconversione degli ex magazzini ferroviari a Verona est («AV» 123, pp. 22-29). www.danieledallavalle.it 13

14. Il nuovo edificio si pone in un evidente rapporto di alterità rispetto al contesto (foto di Lorenzo Linthout).

zo e conversazione, poste in sequenza con le vetrate aperte sul giardino. Uno studiolo immediatamente a ridosso dell’ingresso e affacciato verso la strada, teoricamente disimpegnabile dal resto dell’abitazione, è già l’espressione di un’attenzione post-pandemica all’home office, che sicuramente caratterizzerà nel bene e nel male le abitazioni del futuro. Grazie alla determinazione e all’esperienza del suo progettista, questo edificio riesce a portare elementi di qualità architettonica nella prassi di un intervento immobiliare comune, assieme all’auspicio di riuscire a dare identità a un contesto urbano che oggi fa fatica ad avere.

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PROGETTO

Nuovo realismo

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15. Particolare del fronte principale. 16. I setti rivestiti in pietra a spacco segnano lo scarto tra le singole unità immobiliari. 17. Particolare della rampa di accesso all’interrato.

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PROGETTO

Tessere spazi domestici Un’abitazione unifamiliare costruita ai margini del centro storico rilegge la trama urbana dei broli all’interno della quale si sviluppano spazi contemporanei per forma e prestazioni energetiche

Progetto: Ecospazi - arch. Federica Scappini Testo: Angela Lion

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Villafranca di Verona

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01. L’ingresso all’abitazione con il muro in cemento armato. 02. Ortofoto del tessuto edilizio con individuazione della struttura degli antichi broli. 03. Planimetria generale al livello delle coperture. 04. La sequenza dei volumi in una veduta dall’ingresso.

Una casa unifamiliare è il tipico tema progettuale che si può prestare alle interpretazioni più singolari, di fronte al quale il progettista deve saper comprendere ed elaborare non solo le legittime aspirazioni del committente, ma anche le suggestioni e i condizionamenti dati dal luogo, gli standard prestazionali richiesti e le tecniche a disposizione nel momento in cui la casa viene costruita. Nel caso che presentiamo, la combinazione di questi aspetti si dispone secondo un allineamento particolare, dal momento che la progettista Federica Scappini ha disegnato la casa per se e la propria famiglia, e che ha riversato in quest’opera le esperienze pluriennali condotte assieme ai colleghi del team Ecospazi, un network di professionisti che operano nel settore dell’efficienza energetica e della qualità costruttiva.

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« La sequenza ripetuta dei broli è ancora ben percepibile nella morfologia urbana di Villafranca » Ma è soprattutto il luogo ad assumere un valore rilevante nel dare forma al progetto. Ci troviamo infatti a Villafranca di Verona, lungo una delle arterie parallele che danno forma al suo tessuto urbano. L’area su cui sorge l’edificio è posta tra i margini del centro storico e le aree di più recente edificazione; qui sorgeva un fabbricato degli anni Cinquanta di nessun pregio architettonico e di qualità costruttiva scadente, analogo a molti degli edifici presenti nel contesto. Ma tra le pieghe di questo tessuto emergono ancora alcune tracce degli antichi broli,

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PROGETTO 05. Sezioni longitudinali. 06. Pianta piano terreno e al livello del volume del soggiorno e delle coperture. 07. Veduta dall’alto dell’orditura volumetrica della copertura.

Tessere spazi domestici 08. L’ingresso all’abitazione con l’infilata attraverso il corridoio fino al brologiardino. 09. Il soggiorno a doppia altezza e l’affaccio sul giardino.

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aree verdi private dalla caratteristica forma allungata, un tempo adibiti a orti e frutteti, che si sviluppavano sul retro delle abitazioni fronteggianti la via pubblica e che erano delimitati sui tre lati non edificati da muri in sasso. La sequenza ripetuta dei broli è ancora ben percepibile nella morfologia urbana di Villafranca, anche se nel corso del tempo è stata fortemente compromessa dall’edificazione postbellica, quando i “vuoti” semi rurali sono stati progressivamente frazionati e saturati da nuove costruzioni. Il progetto della nuova abitazione prende avvio da questa lettura morfologica, recuperando l’antico impianto con l’obiettivo di ridare forma, in termini contemporanei, a quel microcosmo all’interno del quale si svolgeva la vita della famiglia. L’edificio si sviluppa a un solo piano fuori terra, anche se la volumetria più elevata

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del soggiorno sul fronte del brolo e il vano più basso dell’autorimessa verso la strada danno luogo a una composizione articolata. Un muro massiccio in calcestruzzo a vista, con dei varchi funzionali agli usi quotidiani, segna il passaggio dallo spazio pubblico della strada a quello domestico dell’abitazione. Sul versante opposto, il muro si sdoppia in due setti che incorniciano il fronte sul brolo, dialogando sia in termini di massa che di texture con i muri in sasso che lo delimitano. L’organizzazione in pianta dell’edificio è dettata dalle linee parallele alla geometria allungata dell’area; fa eccezione la svasatura del corridoio-percorso di attraversamento della casa, che fin dall’ingresso apre la vista verso la zona giorno e, attraverso una grande vetrata, sul verde interno. Orti e frutteti occupano tutta l’area non edificata, attuando un processo di ri-

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COMMITTENTE Privato PROGETTO Ecospazi arch. Federica Scappini (progetto architettonico) arch. Carlo Di Pillo (progetto energetico e impianti tecnologici) arch. Francesca Adami (progetto esecutivo) STRUTTURE ing. Nicola Cappelletti IMPRESE E FORNITORI Percam Costruzioni (opere edili), Donisi, VZ impianti elettrici (impianti), Wolf Fenster, Gasperotti, Tecno.Bi.Tre, Arredil CRONOLOGIA Progetto: 2017 Realizzazione: 2018-2019

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PROGETTO

Tessere spazi domestici

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10-11. Dettagli di pavimentazioni al suolo e sul “brolo pensile”. 12. L’affaccio sul giardino caratterizzato dalla grande vetrata del soggiorno e della zona cucina. 13. Particolare del porticato con uno scorcio del muro in sasso di recinzione dell’antico brolo. 14. Il fronte urbano su via Prina. 15. Il fronte laterale filtrato dalle abitazioni adiacenti.

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naturalizzazione: oltre al livello del suolo, vengono infatti traslati simbolicamente in copertura con la formazione di una sorta di “brolo pensile”. Guardando l’edificio nel contesto, si comprende la valenza di questa scelta, che rapportata al tessuto urbano nel suo insieme diviene un ulteriore elemento a favore della ricostituzione dell’antico brolo. In coerenza con l’attività professionale particolarmente attenta ai temi energetici, i progettisti hanno lavorato con attenzione sull’involucro edilizio, realizzando un edificio massivo con tecnologie semplici (cemento armato e mattoni pesanti) isolato da componenti ad alte prestazioni, riducendo al minimo il peso dell’impiantistica. In una zona caratterizzata da inverni abbastanza freddi e umidi ed estati calde e sempre più spesso afose, la gestione degli input energetici

passivi ha comportato la schermatura delle finestre tramite raffstore (sistemi di protezione solare a lamelle) o forti sporgenze, mediando il miglior orientamento possibile con i condizionamenti dati dalla conformazione dell’area e dagli edifici limitrofi. Il verde pensile contribuisce inoltre alla mitigazione degli eccessi climatici stagionali. Su queste basi l’edificio ha ottenuto la certificazione Passive House, indice di quella sostenibilità ambientale tanto ricercata che è frutto di un lavoro progettuale attento e continuo, ma che non deve comunque prescindere da una ricerca formale attenta al luogo, come questo esempio dimostra.

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ECOSPAZI Ecospazi è un network di professionisti composto da Federica Scappini, architetto laureatasi nel 2001 allo IUAV, esperta Casa Clima Junior e CQ; Carlo Di Pillo, architetto, laureatosi nello stesso anno sempre a Venezia, che affianca all’attività progettuale quella didattica per l’Agenzia CasaClima, nei corsi CQ di Verona e Varese e presso ITS Red Academy di Verona e Milano; Francesca Adami, architetto laureata nel 2016 allo IUAV, svolge ricerche sui piccoli spazi abitativi attraverso il progetto P.A.N.G.E.A. e l’associazione Living Tiny Italia di cui è socia. www.ecospazi.it

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PROGETTO

Abitare nel concreto

Un intervento di sostituzione edilizia all’interno di un tessuto residenziale denso e fortemente caratterizzato è l’occasione progettuale per una sintesi organica tra disegno architettonico e abilità costruttiva

Progetto: Studio Concreto Testo: Leopoldo Tinazzi

Foto: Michele Mascalzoni

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Verona

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L’edifico residenziale ultimato nel 2019 da Studio Concreto sorge su un lotto trapezoidale all’incrocio tra via San Leonardo e via Giovanni Vincenti. L’area, caratterizzata da un’orografia in forte salita, si trova appena sopra la parte iniziale di via Mameli che è ancora identificata per la storica presenza della Verona-Caprino, la linea tranviaria che fino al 1959 dalla città raggiungeva le pendici del Monte Baldo. Il contesto è caratterizzato da un abitato denso ed eterogeneo sviluppatosi a partire dai primi del Novecento, con una serie di palazzine liberty ed edifici contemporanei. Questa prima propaggine di collina ha sempre rappresentato un sito molto appetibile, in quanto il rapido salire della quota di campagna permette una vista panoramica sui tetti della città, e la vicinanza con il contesto naturalistico delle Torricelle re-

gala la sensazione di staccarsi dalla frenesia del tessuto urbano. La forte appetibilità dell’area ha fatto sì che si sviluppasse un denso reticolo di edifici, che non hanno però mantenuto un’omogeneità complessiva, ma hanno espresso via via le differenti ragioni di chi costruiva. Se infatti si trovano eleganti esempi di ville urbane in stile neoromanico o palazzi signorili di gusto ottocentesco, si trovano anche condomini risalenti al secondo dopoguerra, in aperta dissonanza rispetto ai precedenti. La qualità di questi esempi, nonostante la legittima rispondenza a esigenze e modalità costruttive coeve, non sempre ha saputo mantenere il livello dell’intorno, modificandone il carattere urbano ed architettonico. All’interno di questo contesto, il progetto ha cercato fin dalle prime fasi di trovare un ruolo di mediazione, ac-

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01. La posizione d’angolo del lotto si riflette nella morfologia del volume costruito. 02. La sagoma dell’edificio evidenziata in rosso nella planimetria dell’intorno urbano. 03. Il fronte nord dell’edificio visto dalla salita San Leonardo. 04. Schizzo di studio. 03

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PROGETTO

Abitare nel concreto

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compagnando sia le istanze derivanti dal contesto sia la propria inevitabile vocazione di punto di riferimento visivo dell’isolato, trovandosi in una posizione d’angolo. Una prima versione del progetto vedeva fortemente accentuato il ruolo di perno della costruzione, ponendo una emergenza volumetrica circolare all’angolo del lotto. Questa prima proposta ha però dovuto fare i conti

« La corrispondenza tra scatola edilizia e macchina abitativa dona unità percettiva al progetto, funzionante in ogni sua parte »

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con le istanze della Soprintendenza, che ha ritenuto la proposta dell’avancorpo circolare come un elemento di rottura anziché di sintesi nella ricerca di un collegamento con il quartiere. La risposta è stata quindi quella di impostare la massa volumetrica dell’edifico come una sovrapposizione

di paramenti murari che seguissero i piani, tra loro non ortogonali, delle direttrici date dai confini del lotto e dagli edifici confinanti. Questo sistema di facciate disassate funziona come uno schermo, che accoglie al suo interno un corpo solido arretrato e collegato ai prospetti da ampie logge che mediano il rapporto con gli interni abitativi, dislocati sui quattro piani fuori terra che ne determinano lo sviluppo verticale. Il sistema interno-esterno emerge quindi in continuazione, donando al volume un senso di leggerezza e frammentarietà, che lo porta lontano dall’imporsi come elemento monolitico e assertivo, sebbene al contempo i suoi profili angolati e taglienti ne ribadiscano l’importanza all’interno del tessuto edilizio. Passando dalla dimensione urbana a quella abitativa, questa configurazione dona agli appartamenti ampi affacci verso l’esterno, attraverso elementi di apertura costituiti quasi esclusivamente da porte-finestre o da infissi a tutta altezza, mantenendo al contempo un senso di privacy dato

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COMMITTENTE Studio Esa PROGETTO ARCHITETTONICO Studio Concreto arch. Carlo Alberto Cegan COLLABORATORI arch. Paola Zanotto CONSULENTI ing. Meneghelli (direzione lavori) CRONOLOGIA Realizzazione: 2019

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05. Piante dei piano terra, primo e secondo. 06. Sezione trasversale. 07. Veduta da via San Leonardo con i muri in pietra del sentiero che conduce a Forte Santa Sofia. 08. Il taglio vetrato in corrispondenza del corpo scale sul fronte ad est.

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Abitare nel concreto

PROGETTO 09. La sovrapposizione dei paramenti murari segue le direttrici non ortogonali derivanti dai confini del lotto e dagli edifici confinanti. 10. Da monte, il profilo della copertura del nuovo edificio in rapporto al contesto.

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dagli ampi aggetti dei solai. Il disegno dell’impianto si basa su un perno centrale distributivo, che da via San Laonardo (lato est) porta a raggiungere le singole unità, sulle quali la configurazione esterna si riflette nelle ampie zone giorno, contraddistinte dai perimetri a risega che danno sulle terrazze. Questa soluzione mantiene una continuità tra esterno e interno, oltre a movimentare con allineamenti asimmetrici gli spazi interni dei soggiorni. In questo senso la corrispondenza tra scatola edilizia e macchina abitativa dona unità per-

cettiva al progetto, che quindi non risulta scisso tra esigenze espressive e praticità distributiva, ma al contrario risulta un meccanismo funzionante in ogni sua parte. Dal punto di vista costruttivo l’edificio risponde ai più aggiornati criteri dell’edilizia sostenibile, con scelta di pacchetti murari ad alte prestazioni, in cui i rivestimenti nascondono strati isolanti e soluzioni impiantistiche ad alta efficienza. Oltre a queste scelte, che influiscono sulle performance dell’organismo in maniera diretta, ci sono alcuni espedienti progettuali

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STUDIO CONCRETO

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insiti nel disegno complessivo, come appunto gli ampi aggetti delle logge, che mediano l’impatto degli agenti atmosferici con l’interno, mitigando la necessità di ricorrere a fonti interne di riscaldamento e raffrescamento. Il rapporto con l’esterno torna a determinare le scelte progettuali anche nella composizione dei prospetti e dei materiali di rivestimento. L’alternarsi delle finiture riflette l’esigenza di accordare l’edificio con il contesto, frammentando i paramenti murari e riducendone la scala d’impatto. Lo stratagemma adottato è quello di sovraimporre alle parti intonacate in tinta chiara una pelle esteriore di rivestimento in pietra color ocra, che fascia tre dei quattro lati dell’edificio, i prospetti principali e più visibili. Questo layer riveste solamente i piani centrali, ridimensionando l’imponenza dell’edificio. Il disegno irre-

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golare delle lastre di pietra dona ulteriore leggerezza alle facciate, creando una texture morbida e dal forte senso materico. Ulteriore accorgimento è nella soluzione dei parapetti dei balconi, composti da una serie di listelli in ferro regolari, montati su uno scalino appositamente ricavato fine di ridurre lo spessore della soletta in facciata. Il progetto di Studio Concreto rappresenta un elegante inserimento urbano in un contesto complesso, in cui i molteplici temi progettuali sono stati risolti all’interno di una sintesi organica tra disegno architettonico e abilità costruttiva.

11-12. L’ingresso al piano terra in una veduta dall’interno e particolare del corpo scale.

Studio Concreto è uno studio di architettura e design incentrato sugli spazi per l’abitare contemporaneo, a partire dalla lettura del contesto e dall’interpretazione dell’oggetto edilizio come elemento di riattivazione di pezzi di città. Lo studio è composto da un team di progettazione multiautoriale comprendente professioniste/i dell’architettura, dell’ingegneria, dello digitalizzazione (BIM), degli impianti e della comunicazione, che consente di seguire l’intero processo dalla progettazione architettonica alla costruzione dell’organismo edilizio. Un precedente progetto residenziale dello studio è pubblicato in «AV» 117, pp. 42-47. www.studioconcreto.it

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PROGETTO

Nell’ordinario quotidiano

Un frammento ancora inedificato nel denso e vitale contesto tra Borgo Milano e il quartiere Stadio è completato da un volume residenziale prismatico caratterizzato morfologicamente dal sistema delle terrazze

Progetto: arch. Fabio Faoro, arch. Roberto Maffezzoli Testo: Filippo Romano

Foto: Lorenzo Linthout

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01. Particolare dell’attacco a terra con il muro di cinta dall’andamento variabile. 02. Il fronte dell’edifico su via Vitruvio comprendente l’ingresso principale. 03. Identificazione dell’area del nuovo ediicio nel contesto urbano compreso fra Borgo Milano e il quartiere Stadio.

L’area compresa fra Borgo Milano e il limitrofo quartiere Stadio è stata negli ultimi anni oggetto di diversi interventi edilizi, che dimostrano un rinnovato interesse anche a Verona per la residenza urbana collettiva. Queste condizioni di sviluppo hanno creato nuove opportunità anche per l’architettura, dando il via a processi di ricerca che indagano nuove espressioni tipologiche e formali. Il progetto della residenza è tornato dunque a rivestire un ruolo centrale nel settore dell’edilizia, forte della crescente richiesta di alloggi che negli ultimi anni ha rianimato il mercato delle zone semi-periferiche, dove significative commesse e opportunità di sperimentazione hanno prodotto, in alcuni casi, esiti molto interessanti. Fra questi interventi emerge la recente realizzazione firmata dagli architetti Roberto Maffezzoli e Fabio Faoro, che nel 2020 ricevono l’incarico per la proposta di un edificio di nuova costruzione. L’intervento sorge all’interno di un’area che si

« Un progetto ben integrato che, grazie a un approccio pragmatico, è capace di costruire un dialogo con l’intorno tipico della periferia » 02

estende fra canale Camuzzoni e lo stadio cittadino, all’interno del quale sono presenti blocchi edilizi ad alta densità abitativa costruiti fra gli anni Sessanta e Settanta. Il nuovo edificio si insedia in uno spazio urbano residuale all’angolo fra via Vitruvio e via Negrelli, in precedenza occupato da una stazione di carburanti poi smantellata e sostituita da un deposito per la logistica. Sebbene il lotto si sviluppasse su una superficie limitata, uno dei primi obiettivi dei progettisti era di ottenere il massimo rendimento dalla potenziale possibilità edificatoria, dettata di fatto dalle distanze da confini e fabbricati. L’ipotesi prevedeva dunque uno sviluppo verticale che potesse essere coerente con la morfologia dell’impianto urbano, oltre che rispondere alla fattibilità economica richiesta in termini immobiliari. Da queste premesse nasce la soluzione di un volume

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prismatico che, già da una prima lettura, mostra le scelte tipologiche di un’architettura civile convincente ed efficace. Il tema centrale è sicuramente quello di confrontarsi, ancora una volta, con l’eredità di un contesto ‘condominiale’ non particolarmente memorabile, dove inserire un edificio discreto e contemporaneo. A caratterizzare il progetto è sicuramente il sistema di terrazze che si sviluppa lungo tre fronti dell’edificio e accompagna le vedute delle unità residenziali, fungendo da filtro fra le abitazioni e l’ambiente esterno. Questo semplice espediente architettonico è importante per una duplice funzione. La prima è legata alla qualità e allo spazio dell’abitare: se da una parte, infatti, la normativa vincola il perimetro a cinque metri dai confini, questa strategia consente di ricavare uno spazio accessorio in grado di esten-

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PROGETTO

Nell’ordinario quotidiano

04. Sezione trasversale. 05. Pianta piano terra e piano tipo. 06. Veduta di scorcio su via Negrelli con il fronte cieco verso l’interno dell’area. 07. La veduta all’angolo tra le vie Vitruvio e Negrelli mette in evidenza lo sviluppo perimetrale dei balconi con gli schermi metallici alternati. 08. Il panorama urbano visto dall’alto di uno dei balconi che avvolgono ciascun alloggio.

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dere i limiti degli alloggi e di valorizzarne la qualità spaziale. Un’operazione di aggetto apparentemente semplice, che richiede tuttavia la costruzione di sofisticati giunti in grado di non interrompere l’efficacia e la continuità dell’isolamento termico. Il secondo aspetto riguarda la costruzione dell’oggetto architettonico: le facciate, definite dalla profondità dei sottili solai in calcestruzzo delle terrazze, diventano plastiche e conferiscono all’intervento un abito architettonico autentico, dove forma e struttura coincidono. I caratteri estetici sono definiti alternando alla matericità delle superfici intonacate, dalle tonalità grigie, leggere schermature solari che ne integrano il disegno ed eludono ulteriori stratagemmi ornamentali. Posto in posizione baricentrica rispetto al sedime, l’edificio risulta quasi del tutto muto negli affacci verso le vicine costruzioni e predilige ampie aperture orientate a nord-ovest, dove le montagne offrono una vista aperta verso il paesaggio. L’accesso avviene tramite due ingressi indipendenti, quello principale su via Vitruvio e l’altro su via Tiziano dove, oltre a un passaggio in funzione

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COMMITTENTE Vitruvio srl PROGETTO ARCHITETTONICO arch. Roberto Maffezzoli, arch. Fabio Faoro arch. jr. Giuseppe Botturi DIREZIONE LAVORI arch. Fabio Faoro arch. jr. Giuseppe Botturi CONSULENTI ing. Artan Gryka (strutture); arch. Nicola Bertini (sicurezza) IMPRESE E FORNITORI 3G Costruzioni (opere edili); Marogna (impianti termoidraulici); Z.G. (impianti elettrici); 4M Serramenti e design (serramenti); Artigiana Bertasi (opere in ferro); Nuova Lattoneria di Gaspari Giuseppe (lattonerie); Marastoni Tende (pergola piano sesto) CRONOLOGIA Progetto: 2019 Realizzazione: 2020-2021

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PROGETTO 09-10. Due vedute dell’atrio d’ingresso al piano terra. 11. Lo spazio per le biciclette all’esterno dell’atrio al piano terreno. 12. Particolare del fronte cieco posteriore con i balconi di servizio.

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Nell’ordinario quotidiano 13. L’ampia terrazza in copertura quale estensione degli spazi dell’alloggio posto all’ultimo livello.

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dell’ampio spazio per le biciclette, una rampa conduce al piano interrato in cui sono ubicati i vani tecnici e l’autorimessa. La differenza di quota fra le due strade, di circa 50 centimetri, viene risolta con un elegante disegno dei confini, definiti da un cordolo in calcestruzzo la cui altezza varia trovando i suoi vertici negli spigoli del recinto. Il pianterreno è pensato come un piano pilotis attorno al quale si articola uno spazio verde semplice, che delimita i confini del lotto. Al centro, lo spazio coperto conduce ad un volume che accoglie l’atrio di ingresso, dotato di ampi serramenti in vetro che favoriscono la permeabilità fra interno ed esterno. Gli spazi collettivi all’interno dell’edificio, l’atrio e il corpo scale, sono caratterizzati da ruvide trame murarie intonacate e dalla pietra naturale delle pavimentazioni, oltre che da raffinati dettagli come

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ROBERTO MAFFEZZOLI FABIO FAORO Roberto Maffezzoli, laureato a Venezia nel 1995, inizia l’attività come progettista e dal 1998 si dedica congiuntamente all’attività immobiliare realizzando vari interventi prevalentemente in ambito residenziale, sia con nuove costruzioni che ristrutturazioni. Fabio Faoro, laureato a Venezia nel 1997, dal 2013 guida lo studio viabrenneroarchitettura, occupandosi di progettazione negli ambiti residenziale, industriale, terziario e retail. Un suo progetto per la riforma del padiglione di ingresso di un camping sul Garda è stato presentato sul numero 124 di «AV», pp. 56-61.

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PROGETTO

Nell’ordinario quotidiano

14. Particolare del ritmo compositivo delle schermature in lamiera forata sui fronti. 15. Veduta d’insieme da via Negrelli.

quello del corrimano ricavato all’interno delle murature gettate in opera. Ai piani superiori sono presenti diversi tagli di alloggi per un totale di sette unità abitative. Nonostante lo schema planimetrico sia improntato sulla tradizionale gerarchia fra zona giorno e zona notte, quello che più affascina è sicuramente lo schema tipologico: tutti gli ambienti, infatti, si affacciano verso l’ampio terrazzo, che diventa quindi elemento di connessione fra gli spazi interni. Questa soluzione, oltre a permettere una certa flessibilità nella composizione delle facciate, ha consentito ai progettisti di prevedere ampie aperture, in grado di dare respiro agli ambienti interni e di valorizzarne la qualità attraverso la luce naturale. Gli ultimi due livelli sono destinati a una attico che gode di una grande terrazza privata posta nella copertura piana dell’edificio, dove la vista supera l’immediato intorno urbano e si rivolge alle Prealpi gardesane. Il risultato è di un volume compatto, dove il rapporto di pieni e vuoti evidenzia il rigoroso disegno, in cui gli aggetti scandiscono il ritmo delle facciate. Un progetto ben integrato che, grazie a un approccio pragmatico, è capace di costruire un dialogo con l’intorno tipico della periferia. L’ordinarietà del quotidiano diventa occasione di riflessione per dispositivi urbani silenziosi, che al contempo rappresentano la prova di un’autentica architettura.

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PROGETTO

Equilibrio instabile

Una interpretazione del radicale rinnovamento del tessuto urbano residenziale attraverso l’inserimento di un nuovo volume tra i vincoli dell’area e la ricerca di un dialogo con il contesto

Progetto: Studio SCR

Testo: Damiano Capuzzo Foto: Giovanni Peretti

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01. Veduta ravvicinata che enfatizza il contrasto tra la rigidezza dell’attacco a terra e la leggerezza dei livelli superiori. 02. Scorcio su via Ederle: il gioco dei volumi risolve la tematica normativa delle distanze slanciando l’edificio verso l’alto. 03. Dettaglio dell’ingresso su via Ederle. 04. L’area di intervento a ovest di Piazza Vittorio Veneto.

Nei contesti urbani che attingono alla tradizione della città europea, la strada costituisce il luogo rispetto al quale si fronteggiano gli edifici, il limite tra lo spazio collettivo e la vita privata. Le fronti dei singoli edifici rappresentano perciò una sorta di limite, che diviene da un lato involucro dello spazio pubblico e dall’altro immagine esterna di una condizione privata che, mostrandosi su strada, rivela il gusto ma anche l’appartenenza sociale di chi vi abita. Ecco perché la facciata rappresenta in termini teorici la parte più complessa di un’architettura urbana, racchiudendo in sé la duplice vocazione di esterno ed interno, di privato e collettivo. Ed è in questa condizione di collettività che l’edificio urbano rappresenta il frammento di un puzzle che, in quanto tale, dovrebbe trascendere la risoluzione della

« Attraverso ampi scorci vetrati e terrazze abitabili traspare la componente attiva dell’abitare nella sua declinazione contemporanea » mera occasione puntuale, ricercando quel giusto concatenamento capace di rivelare, sequenza per sequenza, porzioni di un più generale equilibrio (di progetto) urbano. Nel contesto di un quartiere storicamente consolidato come quello di Borgo Trento, a ridosso di Piazza Vittorio Veneto, è prassi fare i conti con dimensioni ristrette e vincoli al disegno dell’involucro; nel caso dell’intervento descritto e in un’ottica di trasformazione, l’idea era di trarre il meglio da un’area di modeste dimensioni, conferendo un carattere pecu-

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liare al nuovo edificio in maniera tale da inserirlo nell’ambiente senza porsi come mera riedizione del passato. Per lo Studio Casali Roveda, incaricato della progettazione, si trattava di confrontarsi con un tema non nuovo, quello della residenza collettiva (cfr. «AV» 90, pp. 24-27), attraverso però un percorso amministrativo divenuto comune in anni recenti, ovvero la realizzazione ex novo a seguito della demolizione dell’immobile precedente. Nello specifico, attraverso l’applicazione della Legge Regionale 14/2009 (Piano Casa) con il beneficio di un

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Equilibrio instabile

PROGETTO

05. I livelli superiori giustapposti appaiono sospesi in fragile equilibrio. 06. Piante piani terreno, secondo, quinto, sesto, terrazza. 07. Pannelli oscuranti mobili modificano lo scenario della facciata. 08. Dalle scale comuni si apre a ogni piano una una vista sempre più aperta sull’intorno.

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ampliamento volumetrico pari al 70% del volume originario, grazie all’adozione di tecniche costruttive volte a enfatizzare il carattere di efficienza energetica dell’involucro e degli impianti, nel rispetto del noto programma strategico mirato al rinnovamento del patrimonio edilizio esistente. L’area di progetto è definita da una superficie di circa 400 metri quadrati, prospiciente via Carlo Ederle, sulla quale insisteva un’abitazione realizzata nei primi anni Sessanta e che ancora conservava, perlomeno esternamente, le caratteristiche tipologiche e materiche delle costruzioni dell’epoca, nonostante alcuni rimaneggiamenti più recenti per la suddivisione interna in più unità indipendenti. La soluzione proposta da SCR si muove dunque con consapevolezza, tra gli stretti spazi concessi dalla geometria del lotto e il rispetto delle condizioni normative imposte, con l’intento di ritagliare a misura un nuovo volume in grado di rispondere alle logiche dell’abitare contemporaneo, lanciando innanzi un seme di trasformazione per la città, senza allonta-

narsi troppo da una quasi necessaria armonia d’insieme. Il risultato è un volume saldamente ancorato al terreno, dimensione nella quale recupera per intero la sagoma del precedente edificio, e che si articola ai piani superiori dapprima proponendo un leggero aggetto, che sospende la porzione superiore regalando tensione allo scorcio dalla strada, e contraendosi quindi vistosamente nella metà superiore, quella in sopraelevazione rispetto alla sagome dell’edificio preesistente, alleggerendosi nella ricerca di una luce che con sempre maggiore energia colora le porzioni più alte, dissimulandone i contorni al crescere delle altezze. Elemento distintivo è il rincorrersi di linee orizzontali che, nel definire la scansione di gruppi di livelli giustapposti, segnano i perimetri del volume su un lato, pronti a negarli su quello opposto dove, liberi da qualsiasi elemento di supporto visibile e complici dell’arretramento delle facciate vetrate, mettono in risalto una ritmica di ombre riportate, tra le quali gli stessi rimangono sospesi in una apparente-

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COMMITTENTE Verona Liberty srl PROGETTO ARCHITETTONICO Studio SCR: arch. Massimo Casali, arch. Riccardo Roveda; coll: arch. Anna Roveda, arch. Andrea Lobbia, int. designer Damiano Sala PROGETTO E D.L. STRUTTURE ing. Roby Scardoni DIREZIONE LAVORI arch. Riccardo Roveda, geom. Davide Maraja (resp. di cantiere) CONSULENTI Studio Tecnico Soffiati (progetto impianti), ing. Manuel Tessari (sicurezza), Bussinello Reale Mutua (partner assicurativo) IMPRESE E FORNITORI Impresa Edile Lonardi (opere edili), Marogna (impianti meccanici), Braga Elettroimpianti (impianti elettrici), Wolf Fenster (serramenti), Ecobuild (finiture facciate), Forme di luce (illuminazione) CRONOLOGIA Progetto: 2019-2020 Realizzazione: 2021-2022

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mente instabile leggerezza. È in questi spazi che a ogni piano l’ambiente interno si dilata verso porzioni esterne concepite come alcove, con dimensioni e vocazioni diverse a seconda della profondità e delle stesse funzioni interne, a volte più chiuse e private, nei prospetti interni, altre grandi e condivise, sull’affaccio principale; sono ampi spazi di terrazza, nei quali l’edificio stabilisce una reinterpretata continuità con il disegno di molte delle residenze multipiano realizzate nel quartiere nei primi anni Sessanta, nelle quali la costante pre-

senza di terrazzi vivibili e di vetrate ampie restituiva una qualità dell’abitare sempre meno riscontrabile nelle costruzioni di epoca successiva. La necessità di controllo della privacy, soprattutto verso il fronte strada, e la volontà di minimizzare l’irraggiamento sulla facciata vengono declinate nella scelta apparentemente decorativa di un sistema di brise-soleil mobili in alluminio verniciato, posti sul filo esterno delle terrazze, che introducono un ritmo al prospetto regalando dinamicità all’intero edificio, in accordo con i momenti della gior-

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STUDIO SCR Nato da una fortunata collaborazione iniziata nel 2006 tra Massimo Casali e Riccardo Roveda, lo Studio SCR propone progetti nei campi del design, degli interni e dell’architettura. Negli anni sono stati inoltre approfonditi aspetti legati al restauro architettonico e monumentale e alla riqualificazione dell’edificato storico. Da sempre condividono la medesima passione nel confrontarsi sui processi di trasformazione e valorizzazione, promuovendo il loro personale concetto di “contemporaneo”. Tra i loro lavori, «AV» ha presentato nel numero 125 (pp. 38-45) un nuovo edificio direzionale a Roveré Veronese.

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nata e con l’utilizzo delle singole unità abitative. All’interno, la scansione orizzontale dei listelli che compongono i brise-soleil crea particolari motivi sui muri bianchi e sui pavimenti. Internamente l’edificio accoglie cinque alloggi, tutti contraddistinti da un generose pertinenze esterne esclusive che, oltre ad accrescerne l’appeal commerciale, rispondono puntualmente a una sempre più diffusa consapevolezza della qualità abitativa derivante dagli ambienti di relax e socializzazione, soprattutto in ambito urbano. Per gli appartamenti posti agli ultimi piani è stata adottata una suggestiva tipologia duplex, quale migliore soluzione per rispondere alle modeste dimensioni di pianta, rendendo così altamente esclusivi, anche per metratura e per la separazione degli ambienti domestici, quelle unità che già beneficiano di un grande valo-

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www.studiocasaliroveda.it 13

re aggiunto dato da condizioni di luce naturale sempre abbondanti e da scenografiche viste sul contesto urbano. Insignito della certificazione di classe energetica A3, l’edificio è dotato di un tetto fotovoltaico, in parte dedicato a terrazza di pertinenza esclusiva dell’attico, di impianti meccanici e idraulici ad alta efficienza con recuperatori di calore e stratigrafie che inglobano materiali coibenti naturali, ed integra la presenza dei citati brisesoleil di facciata, quali elementi che concorrono alla creazione una bufferzone in grado di minimizzare l’accumulo di irraggiamento solare sulle facciate nel periodo estivo.

“E18” restituisce con linearità l’esemplificazione di un processo di riappropriazione di piccoli tasselli del tessuto cittadino ormai spenti, nei quali l’inserimento di nuova linfa concorre a innescare la rigenerazione urbana e favorisce la riattivazione della strada quale elemento di connettività sociale a più ampio spettro. Un edificio che torna ad aprirsi alla relazione con l’esterno attraverso ampi scorci vetrati e terrazze abitabili, dalle quali traspare la componente attiva dell’abitare nella sua declinazione contemporanea, ritmata da una nuova forma di ambivalente dialogo tra interno ed esterno.

09. Sezione tipo. 10-11. Le terrazze si rincorrono lungo il perimetro esterno dell’edificio come un prolungamento degli spazi delle abitazioni. 12. La scala si chiude con un pianerottolo a ponte che guida lo sguardo verso l’esterno. 13. Il massivo piedistallo dell’edificio su cui si libera la più articolata porzione superiore.

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UNA CASA SUL GARDA

L’indagine sul lavoro di Angelo Mangiarotti giunge alla eccezionale casa realizzata a Bardolino per il committente di tutti i suoi lavori veronesi Testo: Andrea Masciantonio

Bardolino

Foto: Marco Toté

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“Quand tu voudras un beau drame, avise une maison bien bourgeoise, à la façade aussi honorable que possible… Entre là-dedans... C’est en vain que tu essayeras de trouver mieux que la réalité!”. Le parole di Simenon, che abbiamo voluto ci accompagnasse scherzosamente in questa indagine-passeggiata tra due luoghi mangiarottiani del lago di Garda1, pur funzionali a tutt’altro contesto narrativo ci invitano qui a indagare i misteri (la vita ) che spesso si celano dietro borghesissime facciate, aprendo per quel che ci riguarda e mutatis mutandis ad alcune riflessioni, non sempre accolte o addirittura divisive, sul rapporto tra architettura illustre (quella dei grandi maestri) e autorappresentazione borghese (dell’autore o del committente?). Abbiamo appena abbandonato il complesso residenziale di Murlongo, dove una precisa idea del rapporto tra spazio privato e spazio condiviso fonda alcuni tratti salienti dell’aggregato edilizio e del suo milieu sociale; lasciamo ora al lettore, invece, la percezione o meno per la casa Pederzoli – uno dei capolavori tra le architettura gardesane – della relazione tra tali istanze di autoriconoscimento socioculturale e architettura d’autore2 che, seppur taciute, certamente innervano anche questo episodio. Noi ci limitiamo semplicemente a continuare la nostra promenade.

01. Veduta del fronte a ovest con lo sbalzo del volume a doppia altezza del soggiorno. 02. Il fabbricato rurale al posto del quale è stata realizzata casa Pederzoli. 03. La casa nel contesto territoriale all’epoca della sua realizzazione in un fotopiano del 1972.

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In località Colombara, nella frazione Cisano di Bardolino, esisteva fino alla primavera dell’anno 1969 un umile fabbricato rurale, composto da un manufatto in pietra (roccolo), un fienile e una concimaia. Il piccolo aggregato si trovava in un sito di grande valore paesaggistico: immerso in una campagna ancora quasi incontaminata, da un lato permetteva allo sguardo di scendere lungo un pendio addolcito dalla mole scura di cipressi, fino al più lontano orizzonte del lago di Garda; dall’altro, oltre il limite di una strada bianca vicinale, di espandersi in una vasta apertura di campi coltivati, fino alla quinta di monti schierati a nord est. Il luogo, già consegnato

alla vocazione di silenziosa osservazione della natura e dei suoi riti dalla presenza della piccola voliera esiliata tra i cipressi, colpì l’immaginazione del dott. Giancarlo Pederzoli, che cercava in quel momento un sito in cui erigere la propria casa. E così, abbandonando un altro lotto giudicato troppo sottostrada che già aveva visitato a Bardolino e su cui, da lì a poco, Carlo Scarpa sarebbe stato chiamato a disegnare la casa Ottolenghi3, Pederzoli acquistò il terreno di circa 8.000 metri quadri con il vecchio roccolo. Il prosieguo della nostra passeggiata attraverso il paesaggio gardesano che accoglie le opere di Angelo Mangiarotti non poteva esimersi da questa premessa sulla tensione poetica dei luoghi, elemento fondante l’intervento dell’architetto e del suo committente. L’amenità del sito, la sua configurazione orografica, la plastica stiliforme dei cipressi, la sua esposizione solare sono tutti elementi che condizionano fin dall’inizio le riflessioni compositive dell’architetto e le prime domenicali frequentazioni da parte del committente e della sua famiglia4. Non è un caso, infatti che la casa che Mangiarotti disegna per Pederzoli – la maison bien bourgeoise, come l’abbiamo definita alla fine dell’articolo su Murlongo – venga insediata proprio sul sedime del vecchio manufatto, quasi a perpetuare il felice equilibrio tra

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STORIA & PROGETTO

04. I bianchi volumi della casa emergono da lontano tra i cipressi oltre il muro di cinta (foto A. Masciantonio). 05. Un sintetico schizzo di studio di Angelo Mangiarotti (Archivio Fondazione Angelo Mangiarotti).

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la superficie “naturale” e quella precipua superficie “violata”, costruita ma già in colloquio silenzioso e pacifico con l’intorno. Il posizionamento del nuovo edificio all’interno del lotto, infatti, privilegia la minimizzazione, per quanto possibile, di modifiche nell’utilizzo del suolo, e consente un facile approccio al fronte sud-est della casa dalla strada vicinale, attraverso un disegno fluido dei percorsi a commento della schema rigorosamente cartesiano dell’edificio. Il medesimo doppio registro giocato su un colloquio duale tra modularità d’impianto e naturalità del contesto è anche qui, come a Murlongo, lo spunto su cui si genera la composizione di Mangiarotti. Il primo contatto tra Giancarlo Pederzoli e l’architetto milanese è già stato più volte descritto proprio in alcuni articoli pubblicati su ArchitettiVerona5. Qualche notizia aggiuntiva si può invece fornire sulla cronologia del progetto: l’elaborazione definitiva dei disegni si conclude ad agosto del 1968; la licenza edilizia viene rilasciata il 31/08/1968 e l’autorizzazione della Soprintendenza, a firma di Piero Gazzola, è datata 13/12/1968. I lavori iniziano presumibilmente nel mese di marzo-aprile del 1969, e si concludono due anni dopo con il rilascio del certificato di abitabilità (27/08/1971)6. Infine, per quanto attiene la corrispondenza dell’edificio ai disegni di progetto, possiamo affermare che casa Pederzoli si trova in buono stato di conservazione: a meno di una irrilevante quanto discreta modifica avvenuta sulla parte inferiore del prospetto ovest, l’edificio conserva tutti i suoi originali serramenti esterni e interni, nonché la distribuzione planimetrica, gran parte degli arredi fissi e delle superfici di finitura interne, grazie anche alla cura profusa dagli attuali proprietari, i signori Koffler. Uno schizzo di Angelo Mangiarotti assegnabile (con riserva) a tale progetto rappresenta quasi da subito, con la chiarezza e la potenza iconica della prospettiva, un edificio assai simile a quello realizzato. Costruire su un lotto in forte pendenza sembra suggerire all’architetto lo

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sviluppo di un oggetto architettonico che, da un lato, accoglie il visitatore al piano di campagna in un volume quasi stirato lungo l’asse nordsud, ma che improvvisamente si slancia, quasi decolla, in un volume aereo che si proietta a sbalzo verso il pendio, lungo l’asse est-ovest. Su un basamento in muratura in parte controterra si eleva la grande “voliera” del soggiorno a doppia altezza in acciaio e vetro e, quasi obbedendo alla medesima forza centrifuga, la zona delle camere da letto e la zona ingresso-cucina-pranzo si attestano rispettivamente ai lati, disallineate. Il bozzetto, realizzato a pennarello nero su carta, non presenta alcuna incertezza riguardo alla organizzazione dei volumi, delle coperture piane e delle ampie terrazze e l’inquadratura prospettica dal sotto in su non fa che sottolineare il senso di scatto sospeso del volume costruito, sul vuoto, nell’aria. Ancora non definita parrebbe la posizione del grande camino, la cui vistosa uscita in copertura venne poi realizzato dalla parte opposta rispetto all’asse est-ovest. È presumibile che tale schizzo rappresenti uno stato intermedio della composizione,

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06. A. Mangiarotti, Prospettiva esterna per casa Pederzoli, pennarello, matita e pastelli colorati su carta (Archivio Fondazione Angelo Mangiarotti). 07. Lo sbalzo del volume del soggiorno in rapporto alle “ali” con gli ampi terrazzi.

« Il grande soggiorno che aggetta verso il parco è però da questo sollevato e non v’è possibilità di approccio se non visuale » 07

che partì dall’ipotesi di un edificio a un solo livello per approdare poi ai due livelli oltre al piano seminterrato7. Se osserviamo la pianta del piano terra, potremmo parlare proprio di un’apertura alare dell’impianto e, se non fosse davvero fuori luogo sotto il profilo della ricostruzione culturale e filologica del progetto, si potrebbe ravvisare nello sviluppo dell’area più rappresentativa – il soggiorno a doppia altezza con loggia in affaccio – una ingannevole allusione geometrica alle sale a T già riproposti

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in molti edifici del Cinquecento; con l’unica (piccola?) differenza che questa non è una villa nel senso puro del termine, e che la percezione dello spazio è qui rigorosamente articolato in tre momenti distinti per altezza (singola o doppia) e perimetrazione (serramento e parapetto). Merita tuttavia una certa attenzione l’apparente vuoto delle due diverse terrazze terminali, che svolgono una vera e propria funzione di filtro tra esterno e interno della casa agli

estremi nord e sud. Mangiarotti sembra qui esporci chiaramente come si articola e si colora il rapporto della casa col suo contesto: il grande soggiorno che aggetta verso il parco è però da questo sollevato, e non v’è possibilità di approccio se non visuale. Le due terrazze, che consentono l’uscita al piano di campagna, sono anch‘esse uno spazio protetto (copertura) di osservazione della natura; la casa è quindi concepita essenzialmente come un rigoroso belvedere sul lato sud-est che

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STORIA & PROGETTO

08. A. Mangiarotti, Prospettiva esterna: studio per unità abitative, pennarello nero e pastelli colorati su carta. Il disegno, probabilmente riferito alle case di Murlongo, mostra evidenti affinità con la casa di Bardolino (Archivio Fondazione Angelo Mangiarotti). 09. Veduta da nord: sulla sinistra la zona notte, sulla destra l’estensione all’aperto del soggiorno. 08

segna, al tempo stesso, l’alterità dell’artefatto rispetto al naturale e il silenzioso ossequio dell’architettura di fronte al contesto. L’organizzazione planimetrica del piano terra accosta al registro più rappresentativo di una composizione fluida tra ingresso, atrio, soggiorno e pranzo, un utilizzo molto attento della superficie per la zona notte, più compatta, organizzata attraverso arredi modulari e invasi calibrati allo stretto necessario; ne risulta un congegno perfetto nel disegno, nella funzione e nell’impianto strutturale, sul quale è necessaria qualche osservazione. L’esperienza e la ricerca di Angelo Mangiarotti sulla dimensione tettonica e compositiva della struttura emerge quasi con caratteristiche paradigmatiche negli edifici industriali, tra i quali possiamo anche annoverare i due esempi veronesi di Domegliara (sistema FM, 1968, demolito) e Bussolengo (sistema Facep, 1976)8. L’individuazione e il controllo di veri e propri flussi di forze verticali, da condurre a terra attraverso un sistema chiaro, leggibile e scomponibile sembra 09

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informare gran parte della ricerca compositiva dell’architetto. Ne risultano edifici industriali e invasi la cui rigorosa modularità seriale, unita a un senso di mentale monumentalità, non lascia alcuno spazio alla retorica del non necessario, così come del prezioso9. Nel cantiere domestico di Bardolino, Mangiarotti concepisce invece un sistema che potremmo definire doppio, e solo apparentemente lontano dai costrutti prefabbricati largamente noti. Su una struttura a muri e setti in cls emergente dal terreno, sui quali vengono posati solai tradizionali in laterocemento, si accosta per la parte di maggior impatto visivo e funzionale ( il soggiorno) un sistema a telaio in acciaio; ne risulta un oggetto (più che una semplice struttura) che si adatta perfettamente agli obiettivi formali e compositivi dell’architetto, che modella piani e tamponamenti opachi che si slanciano nello spazio circostante a commento di una “gabbia” trasparente sospesa sul vuoto. L’uso del cls e dell’acciaio sta all’edificio come i medesimi stanno ad alcuni oggetti disegnati dallo stesso Mangiarotti: il materiale informa la struttura ed è funzionale al suo risultato formale: non è altro, rispetto all’architettura, ma è anzi materia dell’architetto. Lo stesso ing. Alberto Vintani, che a lungo collaborò con Mangiarotti, sottolinea il grande senso costruttivo e tettonico del maestro milanese, i cui schemi strutturali di massima trovavano sempre motivata e giustificata ragion d’essere in fase di sviluppo esecutivo senza alcuna sostanziale rettifica o modifica. A proposito di casa Pederzoli, Vintani si limita a precisare che “…le travi perimetrali di copertura e del piano di calpestio del volume vetrato a doppia altezza sono state dimensionate a sbalzo di circa 5 metri (valore max) per portare ciascuna indipendentemente il carico proveniente dalla soletta realizzata con un solaio lateriziocementizio ad armatura incrociata a piastra, sia al piano di copertura che al piano di calpestio. I profili perimetrali con foggia a C sono alti 450 mm e sono realizzati con piatti composti per saldatura; hanno un peso di circa 160

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10. Veduta da sul con l’ampia terrazza coperta in corrispondenza della cucina. 11. Planimetria generale (Comune di Bardolino, Archivio Edilizia Privata) 12. Un altro scorcio del volume vetrato proteso verso il lago in lontananza. 11

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STORIA & PROGETTO Kg/ml. Il solaio ha una altezza di 37 cm (5+28+4) ed è del tipo Stimip B della RDB o equivalente della CILA”10. Alla domanda se, memore delle esperienze del balloon frame cosi attentamente osservato da Mangiarotti durante il suo soggiorno negli Stati Uniti, si potesse ipotizzare che la maglia dei grandi serramenti fungesse da rete di irrigidimento scatolare tra i due solai a sbalzo (copertura e calpestio), l’ing. Vintani aggiunge: “I profili verticali perimetrali che confinano la “veranda” sicuramente trasferiscono i carichi dei solai di copertura e di calpestio reciprocamente, ma il dimensionamento delle travi perimetrali allora “conservativo” (i programmi di stress analisi allora erano agli albori) non ha previsto alcuna forma di trasferimento reciproco dei carichi. I profili dei montanti però furono dimensionati cautelativamente per trasferire carichi dell’ordine delle 20/30 t ciascuno, tenendo conto della significativa snellezza del profilo, stante la contenuta dimensione e la significativa lunghezza (o altezza).”11

13. Piante piano terreno e primo (Comune di Bardolino, Archivio Edilizia Privata). 14. Sezione sull’asse del volume a sbalzo (Comune di Bardolino, Archivio Edilizia Privata). 15. L’accesso alla zona notte: al volume circolare corrispone il vano doccia del bagno proncipale. 13

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16. L’arioso spazio del soggiorno con i tre fronti vetrati e protesi in direzione del lago. 17. Il soggiorno visto dalla sala-studio al piano primo. 18. Particolare della pavimentazione in seminato alla veneziana tra l’ingresso, la scala al piano primo e il passaggio alla zona notte.

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19. Il soggiorno in uno scatto di Giorgio Casali pubblicato in «Domus» 511, giugno 1972. 20. Renata Bonfanti, bozzetto per il tappeto modello Dublino (Archivio Renata Bonfanti, Mussolente). 21. Piccolo florilegio mangiarottiano a casa Pederzoli: l’orologio da tavolo Secticon (1956) e la lampada Lesbo (1967).

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Il cantiere di casa Pederzoli sembra in ultima analisi confermare, con mezzi differenti, la ricerca dell’architetto sui valori stereometrici dell’architettura, attestandosi qui su un registro domestico, calibrato su un delicato equilibrio tra pieni e vuoti in relazione con la natura circostante e con le finiture interne. Il senso di equilibrio percepito da Pier Carlo Santini difronte alla “[…] mirabile alternanza delle textures, sia di pavimenti di seminato fine che rimandano alla generalità di esempi veneti storici; sia dei soffitti di colore bianco caldo, morbidi, vibranti, luminosi; sia delle strutture metalliche cui gli irrigidimenti modulari conferiscono ritmo e misura”12 è ancor oggi un’esperienza possibile. Angelo Mangiarotti fu un artista nel più rigoroso senso del termine: profuse una instancabile attenzione formale e materiale in tutti gli oggetti della sua lunga produzione con un senso, quasi un rigore ideologico, di coerenza intellettuale che lo accompagnò fin dalla gioventù13. Quando il fotografo Casali realizza per «Domus» le immagini degli esterni e degli interni di casa Pederzoli, Angelo Mangiarotti ha già compiuto parte della sua importantissima attività di designer: particolare interesse meritano pertanto gli arredi disegnati per la casa di Bardolino. Si tratta fondamentalmente della cucina, della sala da pranzo e delle grandi sedute fisse che organizzano lo spazio del soggiorno e della loggia studio posta al primo piano. Realizzate dalla falegnameria di Piero Frigerio di Cantù, essi costituiscono lo sviluppo coerente dell’idea domestica sottesa a tutto l’edificio. Nel soggiorno, nel quale lo spazio si dilata quasi a diventare una bolla di vetro attraversata dalla copertura delle “ali”, Mangiarotti bandisce ogni arredo a sviluppo verticale che possa contaminare la nuda monumentalità dell’invaso, e distribuisce sul pavimento in seminato rosso una serie di imbottiti in pelle che si attestano a una essenziale dorsale a L. Questa individua, quasi come il tracciamento di pareti in fase di cantiere, due spazi: la zona di contemplazione del parco attraverso il grande schermo vetrato

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alto 5.60 metri, e uno spazio più sociale, di conversazione, prospiciente a sud. L’accento su queste due aree è dato da due bellissimi tappeti, disegnati e prodotti in numero limitato da Renata Bonfanti e scelti personalmente dall’architetto per casa Pederzoli14. Questo particolare testimonia del grado di qualità altissima richiesta da Mangiarotti fin nelle opere tessili che, in questo caso, connotano fortemente lo spazio creando dei veri e propri fuochi di gravitazione15. La stessa modularità planimetrica, ma con un diverso rivestimento, è assegnata alla zona posta di fronte al camino, opportunamente ribassata dalla presenza del solaio della loggia. Le tende bianche scorrevoli su binario ricreano delle pannellature scanalate trasparenti che commentano con configurazioni sempre mutevoli la geometria regolare dei serramenti: ne emerge, attraverso la qualità della luce, delle superfici e della logica architettonica dell’allestimento, una valorizzazione raffinatissima e discreta del concetto di spazio,

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22-23. Due vedute interne del soggiorno con la disposizione bifronte dei divani e l’affaccio del piano superiore sulla doppia altezza. 24. Da sinistra, la scala al piano primo, infilata sul soggiorno e un’area studio.

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Si fa riferimento al precedente articolo di chi scrive, Ritorno a Murlongo, in «AV» 127, pp. 66-77. 2 La posizione di Mangiarotti al proposito sembra partire da presupposti assai diversi (cfr. Ritorno a Murlongo, cit., nota 10); nonostante la sua professata non necessità teorica del paradigma solo autoriale, quasi per contrappasso alle sue architetture viene assegnato lo status di exempla illustri. 3 Vedi a tal proposito A. Masciantonio, Due case sul Garda: architettura e luogo, in ArchitetturaBardolino. La costruzione di una nuova identità per il territorio gardesano, a cura di A. Vignolo, Verona, Cierre 2019. 4 La figlia di Giancarlo Pederzoli, Teresa, ricorda le gite compiute al roccolo prima della sua demolizione. 5 L’architettura vista dalla parte del committente: il caso Pederzoli, in «AV» 83, pp. 107-109. 6 Si ringrazia l’attuale proprietà per aver reso possibile l’accesso agli atti del progetto conservati presso gli archivi dell’Ufficio Tecnico di Bardolino e la tempestiva disponibilità del suo dirigente Paolo Pierantoni. 7 I disegni di Angelo Mangiarotti conservati presso l’archivio dell’omonima Fondazione non sono stati ancora oggetto di riordino, schedatura e catalogazione. Non è possibile pertanto affermare con certezza l’appartenenza di un disegno con difformità rispetto al costruito a un preciso ambito di committenza, senza avere prima un quadro completo della documentazione disponibile. Le 1

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“imprecisioni” che assegniamo alla natura intermedia del documento potrebbero pertanto rivelarsi erronee, tenuto conto della precisione disegnativa e rappresentativa del maestro milanese. In ogni caso, il disegno contiene, se non il dettaglio, certo la medesima riflessione progettuale sviluppata e realizzata per l’edificio di Bardolino e come tale merita un’attenta lettura. 8 Cfr. Due sistemi costruttivi per due concessionarie, in «AV» 80, pp. 54-61, e Un monumento industriale, «AV» 122, pp. 66-73. 9 Come ha osservato attentamente la prof.ssa Tullia Iori nel corso di una Giornata di Studi su Angelo Mangiarotti (Triennale di Milano, 22 ottobre 2021), lo studio di alcuni sistemi costruttivi del maestro milanese è in grado di mettere in luce come tali strutture, che appaiono quasi come un montaggio a secco di elementi in equilibrio rispetto alla gravità, necessitassero di getti supplementari in opera e della posa di perni di collegamento tra le parti. 10 Da uno scambio epistolare seguito all’incontro presso lo studio BCV di Milano il 30 ottobre 2021. 11 Ibid. 12 Pier Carlo Santini, Sulla sponda veneta del Garda, in «Domus» 511, giugno 1972, pp. 23-30. 13 Negli anni del fascismo Mangiarotti decise di abbandonare l’Italia e riparare in Svizzera. 14 Si tratta del modello Dublino prodotto in soli 35 esemplari e con cromatismi differenti. 15 La collaborazione con Mangiarotti di artigiani e designers meriterebbe studi di approfondimento.

inteso come invaso riempito solo di luce, colori, viste che discendono esclusivamente dal rapporto vicendevole di oggetti tra loro e con l’esterno. Si tratta, in ultima analisi di una chiara professione della dimensione psicologia (se non addirittura psichica) della composizione dell’architettura, colta nel suo originario obiettivo di creare un medium tra noi e la natura, di stabilire una “tregua” intima, rassicurante tra l’essere umano e i suoi antagonisti esterni; non si tratta di un allestimento puramente formale e di buon gusto ma di una precisa costituzione di una condizione necessaria e sufficiente alla serenità, all’integrità. Altri oggetti, tuttavia, appaiono in questo spazio fisso. Mangiarotti sembra qui ripensare ad alcuni manufatti della sua illustre produzione di design come a elementi per qualificare un ambiente che con questi condivide il medesimo nitore, la medesima correttezza espressiva. A conclusione della nostra passeggiata, ci piace condividere una semplice riflessione, molto leggera e un po’ sussurrata, a proposito dei bagni di casa Pederzoli. Nella pur oscura carriera di progettista di chi scrive, non so per quale ragione (o forse voglio ignorarla) il bagno è sempre stato l’argomento più sensibile da affrontare coi committenti; anzi, sembra quasi che l’architetto sia stato chiamato per far solo quello, bene, bello e senza badare a spese. Il bagno in stile clinica di sanità mentale e corporale svizzera, con tutte le meravigliose novità del momento, come riscatto... di un retaggio contadino? I bagni disegnati da Mangiarotti sono invece spazi semplicissimi, razionali, senza nessuna pretesa rappresentativa (e infatti non rappresentati): puro spazio funzionale. Retaggio borghese? Sprezzatura milanese? Senso di matematica misura (la serenità di cui sopra)? Grandi sono le lezioni che possono venire dalla grande architettura, ognuno raccoglie quello che può: questa lezione dei bagni me la terrò a mente. Cari colleghi, liberiamoci almeno dalla schiavitù dell’architetto da toilettes.

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25. La relazione tra il soggiorno e il giardino sottostante è unicamente visiva, non essendoci alcun passaggio diretto.

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La forma del bere

Una scenografia di oggetti di arredo, finiture e textures di superfici definisce l’allestimento di uno spazio commerciale destinato alla ritualità conviviale del bere Progetto: Brandless Studio Testo: Ilaria Sartori

Foto: Emanuel Guarniero

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Nascosto nella zona residenziale di Cerea, tra la biblioteca comunale e la stazione ferroviaria, un singolare allestimento di interni richiama la nostra attenzione. The Shape Cocktail Bar, questo il nome dell’esercizio commerciale, si trova al piano terreno di un ordinario stabile anni Ottanta, con uno spazio esterno semplice che affaccia su un’area defilata rispetto all’arteria principale della cittadina; da un prima veduta esterna non si colgono elementi caratterizzanti, ed è bene specificare questo aspetto per comprendere lo stupore, di certo consueto tra i nuovi clienti, varcando la soglia di ingresso. Entrando, infatti, lo sguardo viene catturato da una scenografia magnetica realizzata da un fondale composto da un ampio tendaggio in velluto, che avvolge tutti gli elementi della scena e dal quale è difficile sottrarsi. I progettisti di Brandless, studio con sede operativa a Legnago e composto da Emanuel Guarniero e Sara Fantin, hanno saputo realizzare un ambiente vibrante e articolato, rappresentazione coerente del servizio bar offerto dal committente, molto curato e contraddistinto da cocktail in calici e coppe altrettanto scenografiche. Gli elementi che hanno ispirato l’allestimento di questo spazio sono diversi, ma il comune denominatore risiede in una logica di opposti o di contra-

sti, così che gli elementi si bilancino, e risaltino, l’uno con l’altro. Il locale è un ambiente unico, ma gli oggetti di arredo, le finiture e le textures delle superfici vanno a comporre diverse ambientazioni di una medesima scenografia. Opposto all’ingresso, come il centro di un mirino, il fondale in velluto color verde bosco delinea le prime note della composizione. Il tendaggio si dispone lungo un binario semicircolare mettendo in risalto le

« Un coraggioso gioco di opposti tra pieni e vuoti, forme geometriche e curve, materiali pesanti e leggeri, colori caldi e freddi » pieghe del tessuto e la pesantezza del materiale che, come una vera quinta, rimane pieno e immobile nascondendo ciò che si cela alle sue spalle; uno strumento dalla duplice funzione, sia per disegnare lo spazio che per mascherare i locali di servizio e la cucina. Il tendaggio fa da retroscena a una gabbia metallica sospesa e forata dove, al contrario, è possibile dondolarsi con leggerezza. La prospettiva diviene ancora più profonda con l’utilizzo geometrico del medesimo colore, scuro e intenso, come finitura del soffitto.

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Il prospetto alla destra dell’entrata è studiato in maniera diametralmente opposta. Una vetrata trasparente permette una visuale, sebbene ridotta, verso l’esterno, attraverso una libreria terra-cielo composta da una struttura metallica in ottone spazzolato, geometrica e regolare. La scrupolosa modularità, tuttavia, è interrotta da archi a tutto sesto e arricchita da elementi naturali, richiamando l’ambientazione di una serra o di una vecchie struttura industriale. Nello spazio del service si manifesta invece l’utilizzo divergente di alcuni oggetti rispetto alla loro funzione originaria, che i progettisti hanno saputo rivisitare con semplici gesti. Elementi autobloccanti in cemento, tradizionalmente usati a terra come supporti carrabili, divengono il rivestimento del fronte del banco, mentre una rete elettrosaldata laccata di

nero riveste le pareti retrostanti disegnando una moderna boiserie. Questi componenti edilizi sono risaltati da uno sfondo, a parete e a soffitto, tinteggiato di una tonalità gialla densa e decisa. Una nuova scena, quindi, dove protagonisti sono elementi tipicamente costruttivi che abbandonano la mera funzionalità per assumere una propria identità anche decorativa. La definizione dei vari ambiti spaziali è sottolineata da un attento utilizzo dell’illuminazione artificiale. Modernissimi faretti neri su binario permettono di controllare la luce in maniera quasi teatrale; a questi si affiancano alcune lampade a sospensione di design sul banco del bar, dai toni bianco e oro, e le insegne luminose con il nome del locale in diversi punti. Una misteriosa relazione tra interno e

01. Dettaglio del bancone realizzato con elementi autobloccanti in cemento. 02. Planimetria di progetto. 03. Veduta generale dall’ingresso. 04. L’area del service è messa in risalto da diverse fonti di luce artificiale.

COMMITTENTE The Shape cocktail bar PROGETTO ARCHITETTONICO Brandless Studio Emanuel Guarniero, Sara Fantin IMPRESE E FORNITORI Impresa Lena Giuseppe, Martinelli pavimenti, Studio Luce Comet, Elettroimpianti Passarin, Savoiani Luigi (lavorazione artistica ferro) CRONOLOGIA Progetto e realizzazione: maggio 2019-agosto 2019

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La forma del bere

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05. Sedute da giardino in plastica filiforme. 06. Nel fondale, il contrasto tra la pesantezza del tendaggio in velluto e la leggerezza della gabbia metallica. 07. Schizzo di progetto. 08. Faretto orientabile a soffitto.

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esterno diviene l’ultimo tono di complementarità tra mondi opposti. In maniera ordinata, all’interno del locale troviamo tavolini e sedute tipici dell’outdoor e del design anni Novanta, coloratissimi e in plastica filiforme. Tra gli elementi di arredo emerge con naturale spontaneità un’abbondante presenza di piante da interno, a suggerire l’idea che il mondo esterno sia diligentemente penetrato portando a una soluzione di continuità: un’ambientazione decisamente inaspettata, considerando il contesto residenziale descritto inizialmente. Un coraggioso gioco di opposti, in cui si manifesta l’intero progetto di interni per Shape Cocktail Bar: tra pieni e vuoti, forme geometriche e curve, materiali pesanti e leggeri, colori caldi e freddi. Il risultato è un microcosmo misterioso che di citazione formale ha solo il nome, shape.

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Mattone Dry

Spazi definiti da volumi in mattoni grigi e un’attenta progettazione di arredi e finiture per un cocktail bar ricavato in un contesto post industriale Progetto: Tinazzi Romano Pecol Testo: Federico Morati

Il contesto urbano in cui si inserisce il cocktail bar Foolery, l’area zai di San Martino Buon Albergo, è il tipico esempio di un’area industriale sviluppatasi principalmente alla fine del secolo scorso, incastrata tra la linea ferroviaria Milano-Venezia, il raccordo autostradale di Verona Est e la stessa autostrada a4. Eppure, ragionando sulle conseguenze che l’urbanizzazione selvaggia di quel momento storico ha comportato in tutto il territorio padano, è impossibile ignorare come questi luoghi rappresentino uno dei simboli di una vitalità economicosociale che è stata eccezionale. Il recupero e la rivitalizzazione dei tessuti produttivi decaduti è un tema aperto, che lascia spazio a molteplici punti di vista e pone molti interrogativi. Semplificando, cosa fare di questi luoghi? Per come sono strutturati, possono ancora essere funzionali al tessuto socio-economico di oggi e di domani? Dalle ceneri della vitalità del passato possono nascere le iniziative di oggi? È proprio guardando il contesto da questo punto di vista che la storia di questo progetto offre maggiori spunti di riflessione. Foolery nasce da un gruppo di amici che, grazie al lavoro, alla determinazione e all’aiuto reciproco, riescono a creare qualcosa di funzionale e concreto per loro stessi e per il territorio nel quale si inseriscono.

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L’idea di dare vita al cocktail bar, infatti, è figlia di un’iniziativa precedente, quando il nostro “gruppo di amici” decise coraggiosamente di rilevare un ampio locale per inseguire il sogno di organizzare eventi con musica dal vivo. Per l’apertura di The Factory, essi si approcciarono all’attività come molti giovani sono portati a fare, ovvero con tantissima volontà e poche risorse. In quell’occasione sono stati necessari pochi interventi mira-

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01. Lo spazio di ingresso con il bancone in primo piano. 02. Particolare del bancone e della parete attrezzata retrostante. 03. Assonometria con evidenziati i volumi in mattone e la parete attrezzata retro banco. 04. In cantiere: le asole nei laterizi consentono la posa delle nervature metalliche verticali. 02

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Mattone Dry

05. Planimetria di progetto. 06-07. Campo e controcampo sulla sala con i tavoli e la pedana in mattoni che connette il bancone e il disimpegno dei servizi.

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ti, esaltati da un semplice ed efficace studio del colore curato dagli stessi progettisti di Foolery – Leopoldo Tinazzi, Filippo Romano e Giulia Pecol – a creare l’ambiente ideale per mettere in scena l’idea iniziale. Un’idea che non solo è sopravvissuta alla stagione della pandemia, ma che addirittura è stata in grado di dare alla luce una nuova iniziativa commerciale durante il 2021, il cocktail bar Foolery. La ricetta che si era dimostrata vincente durante la prima esperienza è stata riproposta con risultati ancora più incisivi: tante idee, tanta voglia di fare, energia e capacità di realizzare gli interventi in autonomia, tutto orchestrato da un’attenta progettazione e direzione lavori. Il bar ha trovato posto nello stesso fabbricato del club musicale, con cui mantiene un rapporto simbiotico anche se con identità distinte; si tratta

di un ampio e anonimo edificio dalla copertura a shed, con gli accessi posti fianco a fianco lungo Viale del Lavoro. Appena entrati, ci accorgiamo di essere in uno spazio che, pur mantenendo uno “stile industriale” nelle finiture e nei materiali, colpisce per la semplicità delle forme e l’eleganza dei dettagli che lo rendono capace di mostrarsi tanto curato quanto informale, adattabile e dinamico. I due vani che compongono il locale risultano essere ben distinti anche se accomunati dal medesimo linguaggio architettonico. Infatti, le pareti rivestite in cartongesso e tinteggiate di una tinta color panna, l’arredo realizzato con pannelli in legno multistrato, tubolari metallici e rete elettrosaldata, così come il pavimento in microcemento e l’infografica accattivante conferiscono al locale un substrato comune.

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L’elemento caratterizzante, però, è senza dubbio costituito dai volumi – quasi delle micro architetture – e dalle sfumature di colore dei mattoni di un inconsueto colore grigio, elementi di produzione danese che hanno impegnato i progettisti in una lunga ricerca, per mezzo dei quali prendono forma il banco bar, una pedana rialzata nella sala adiacente e una bussola di accesso ai servizi igenici. La posa dei mattoni ha seguito uno schema a giunti allineati e privi di malta; il sostegno tra gli elementi è garantito quindi da una barra in acciaio che attraversa verticalmente le file di mattoni. Lo sviluppo di questi elementi, sempre misurati sulla modularità del mattone, riesce al contempo a unire e a differenziare gli spazi. Infatti, mentre in prossimità dell’ingresso il volume del banco bar assume un gran-

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de impatto visivo e spaziale, esaltato anche dal soffitto lasciato al grezzo, mano a mano che ci spostiamo nella sala adiacente la materialità del mattone si fa più discreta, lasciando spazio agli altri elementi di arredo, fino a trovare un bilanciamento nel volume verticale dell’antibagno. Infine, il soffitto alto e interamente tinteggiato di colore scuro marca definitivamente lo stacco tra i due ambienti. Completano l’allestimento i corpi illuminanti e, soprattutto, la parete attrezzata alle spalle del bancone, composta da un telaio in tubolari metallici e rete elettrosaldata, che funge da filtro con la cucina retrostante senza impedirne completamente la vista. Una soluzione che crea profondità, giocando con una sorta di doppio fondo dove lo sguardo può correre oltre, scorgendo il “dietro le quinte” e le attività che lo animano.

COMMITTENTE Foolery PROGETTO ARCHITETTONICO E DIREZIONE LAVORI Tinazzi Romano Pecol arch. Leopoldo Tinazzi, arch. Filippo Romano, arch. Giulia Pecol PROGETTO GRAFICO Crispylab.design FORNITORI Randers Tegl (mattoni)

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CRONOLOGIA Progetto e realizzazione: 2020-2021

08. La struttura metallica del retro banco è un diaframma attrezzato che lascia una vista aperta sulla cucina retrostante. 09-10. Particolari degli elementi di arredo e di finitura degli spazi del bar.

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Osti e architetti nati

Un ristorante e una sala degustazione vini sono il territorio d’azione di un progetto di interni in cui l’elemento materico assume un ruolo di rilievo nel definire funzioni e ambienti Progetto: ABC architetti

Testo: Marzia Guastella Foto: Marco Favalli

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01. La sala degustazione vini. 02. Veduta dell’area Lounge Bar&Cocktails. 03. Particolare della parete all’interno dei servizi igienici.

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Da qualche tempo, in corso Porta Nuova a Verona si può cogliere la nuova identità di un ristorante che, rispetto all’ambiente piuttosto standardizzato della precedente gestione, suggerisce un’esperienza culinaria e sensoriale a partire dall’architettura degli interni. Il progetto per il ristorante Ostinati, realizzato dallo studio Abc degli architetti Nicola Braggio e Damiano Capuzzo, rivela così uno spazio armonioso e riservato, in cui l’elemento materico assume un ruolo di rilievo nel definire funzioni e ambienti che si sviluppano attraverso una successione di piccole sale. Il bancone bar in lamiera cruda risolve ad esempio lo spazio d’ingresso; la superficie opaca cambia a ogni riflesso di luce per effetto della finitura discontinua, incrementando il dinamismo dell’elemento superiore che, senza

dubbio, colpisce già dall’esterno. Si tratta di lamine pendenti con finitura in ottone brunito satinato, le stesse che si ritrovano in specifici punti per scandire il disegno indefinito degli spazi e aumentare la sensazione di intimità, suggerendo una relazione sempre più connessa al cibo. Sul fondo del locale, in continuità con le grandi vetrine sulla via laterale, si raggiunge la cucina, con una fascia a vista posizionata all’altezza dei commensali che, seduti di fronte, osservano l’impiattamento di ogni pietanza in attesa di iniziare il proprio viaggio nei sapori. Corpi illuminanti diretti sui tavoli accentuano la sensazione di privacy e il rapporto di dualità con il cibo. Le finiture grigie dell’intonaco rendono neutre le pareti, che sembrano annullarsi nella parte superiore e nei soffitti dipinti di nero al fine di celare gli impianti. Entro questa tavolozza così austera, alcuni dipinti contemporanei rappresentano il tocco più informale assieme alla spontaneità delle piante e a piccoli elementi puntiformi che fungono da appendiabiti. Ogni arredo è stato pensato e disegnato per soddisfare le necessità legate alla ristorazione incorporando, ove possibile, spazi di service; è il caso di alcuni sistemi a mensole e delle sedute in velluto poggiate sui monoblocchi di lamiera cruda leggermente flottanti.

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Accanto all’area bar d’ingresso si trova inoltre una sala degustazione vini, realizzata in ampliamento agli spazi esistenti, il cui varco di accesso è caratterizzato da una targa a pavimento che divide in modo netto i materiali, bambù levigato in opera da un lato e grès grigio dall’altro. Sulle pareti della sala, l’ampia selezione di vini è ordinata con particolari ganci di sospensione. Il rapporto con l’esterno viene qui accentuato dalla grande vetrata che, nella stagione estiva, consente di predisporre un bancone per servire i clienti seduti all’aperto; una soluzione analoga interessa l’area Lounge Bar & Cocktails, strutturalmente separata dal ristorante, che si distingue per la declinazione più fresca suggerita dalla variazione di colore nel velluto delle sedute e nelle lamine pendenti. Il progetto di Ostinati sorprende soprattutto per i dettagli che lo rendono singolare ed equilibrato nel complesso; perfino i servizi igienici con il loro linguaggio semplice nascondono delle peculiarità parecchio inusuali e decisamente simpatiche, ma sull’oggettività di questo pensiero lasciamo ai lettori “l’ardua sentenza”.

04. Veduta della sala ristorante. 05. Dettaglio dell’area bar d’ingresso con il bancone in lamiera cruda e le lamine pendenti 06. Planimetria generale di progetto.

COMMITTENTE Ostinati srl PROGETTO ARCHITETTONICO Abc architetti arch. Nicola Braggio, arch. Damiano Capuzzo COLLABORATORI arch. Chiara Lanzani, arch. Filippo Andreoli IMPRESE E FORNITORI Bonfante (interior contractor), Forme di Luce (illuminazione) CRONOLOGIA Progetto e realizzazione: 2020

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Il tracciato della via Postumia in una elaborazione grafica dal progetto espositivo per il trentennale della scoperta della necropoli romana di Porta Palio (cfr. pp. 96-98).

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Nel segno di Licisco

Il mestiere più antico (o quasi)

Sottoterra: rifiuti e forme di vita

Tre serate di dialoghi tra architetti attorno alle questioni che emergono dalla pratica professionale contemporanea

Una lettura incrociata di due recenti volumi propone un punto di vista singolare su tre casi studio individuati tra gli ecosistemi locali

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Il palinsesto di iniziative in occasione del centenario della nascita dello storico direttore dei musei civici e il suo ruolo di promotore dell’architettura a Verona

Una fonte digitale meravigliosa Finalmente online il progetto Arcover che ha reso disponibili per la consultazione migliaia di documenti sul costruito nel territorio veronese

Notti magiche e archeologiche Una mostra nel trentennale dei lavori realizzati in occasione dei mondiali di calcio di Italia 90 mostra finalmente al pubblico parte dei ritrovamenti archeologici emersi in quell’occasione

88. Lapilli nel museo Il ritorno dell’artista Giorgio Vigna a Castelvecchio con i suoi “sassi” immaginari disseminati nella Galleria delle Sculture in continuità con l’installazione permanente nella fontana

99. Ci mette il becco LC La figura del committente Sulla qualità della progettazione e dell’importanza di un committente, intelligente o assente che sia

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Nel segno di Licisco Il palinsesto di iniziative in occasione del centenario della nascita dello storico direttore dei musei civici e il suo ruolo di promotore dell’architettura a Verona

Testo: Alberto Vignolo

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nome così singolare e quasi bizzarro, tanto da essere persino scambiato per uno pseudonimo1, non lo si dimentica facilmente. Non certo da parte di chi ha a cuore il Museo di Castelvecchio, e per questo sa che fu il suo direttore Licisco Magagnato a chiamare Carlo Scarpa a Verona, e che tanto al museologo quanto al museografo si deve l’eccezionalità del restauro e dell’allestimento inaugurato il 20 dicembre 1964 che ne ha fatto “uno dei musei più belli e influenti del mondo”2. Per tutti gli altri, il ricordo di Magagnato si è rinnovato in occasione del centenario della sua nascita (Vicenza 1921-Venezia 1987), grazie a una ricca serie di iniziative promosse dai Musei Civici di Verona, da lui diretti dal 1955 fino al 1986. Arrivato in riva all’Adige, praticamente da subito avviò il rinnovo di Castelvecchio, l’opera alla quale il suo nome è indissolubilmente legato; per sottolineare il felice connubio tra la committenza pubblica e illuminata di un direttore di museo con un maestro dell’architettura, lo scorso 17 dicembre il giardino del Museo è stato intitolato a Licisco Magagnato e a Carlo Scarpa, perpetuando così l’abbinamento dei loro nomi a suggello di una delle opere più felici della stagione museografica italiana del secondo dopoguerra. Un ulteriore omaggio toponomastico si inaugurerà a breve, con il nuovo lungadige Magagnato affacciato di là dall’Adige su Castelvecchio: Google Maps porterà così in giro per il mondo la 04 memoria dell’intellettuale e studioso, al quale si devono anche – per restare nell’abito del sistema museale veronese – l’apertura tra il 1970 e il 1973 del Museo degli Affreschi intitolato a G.B. Cavalcaselle e della Casa di Giulietta, nel 1982 il riallestimento del Museo Lapidario Maffeiano su progetto di Arrigo Rudi, e l’avvio del restauro dell’isolato e del Palazzo Emilei Forti. Assieme ad altre iniziative espositive in occasione del centenario3, una giornata di studi al Palazzo della Gran Guardia ha riunito studiosi, allievi e testimoni che hanno approfondito diversi

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01. Ritratto di un giovane Licisco Magagnato in occasione della mostra sulla scultura popolare a Castelvecchio nel 1957 (Archivio Fotografico del Museo di Castelvecchio). 02. Fronte esterno del palazzetto Fontana, stato attuale. 03-04. Vedute interne dell’appartamento di funzione del direttore dei musei civici ricavato al palazzetto Fontana (Archivio Fotografico del Museo di Castelvecchio). 05. Palazzetto Fontana, rilievo piani terreno e primo, stato di fatto pre restauro (2012).

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aspetti della figura e del ruolo di Magagnato, i caratteri delle costruzioni in lastre di pietra di ripercorrendo il suo profondo impegno nella Prun. In questi edifici semplici e modesti, “con politica culturale del nostro paese. I molti ricordi rigore stereometrico l’architetto ha incastrato personali hanno trovato un luogo d’elezione piani e travature, ha ritagliato finestre nei punti nell’appartamento di funzione del direttore dei di sutura, calata sopra le lastre di copertura. La musei, ricavato a metà degli anni Sessanta grazie costruzione acquista un carattere di leggerezza al restauro e all’arredo del palazzetto Fontana al e di solidità ad un tempo, proprio per l’abile teatro Romano su disegno di Gilda d’Agaro, allieva sfruttamento della rigidità e sottigliezza di questo e collaboratrice di Scarpa4: un interno domestico impareggiabile materiale; come magici castelli di pienamente rappresentativo dello stile dell’epoca. carte da gioco in pietra queste capanne hanno in I contributi al convegno andranno ad arricchire, sé accenti di razionalistica eleganza, e sfuggono una volta pubblicati, alle facili cadenze e al la bibliografia su fascino di dubbia lega di « Fra i suoi scritti Magagnato; mentre tanta pittoresca e casuale ci piace ricordare quelli fra i suoi scritti ci piace architettura rustica”. apparsi sulla quasi neonata ricordare quelli apparsi Non fu un episodio «ArchitettiVerona» sulla quasi neonata isolato: di lì a pochi «ArchitettiVerona» nella anni, nel 1963 lo stesso nella sua stagione sua stagione d’esordio. Magagnato curò a d’esordio » Accanto ad alcune Palazzo Forti la mostra recensioni di esposizioni Architettura nei Monti e a una nota su La traccia e la mano del Sanmicheli Lessini, allestita da un giovanissimo Vincenzo in margine alla mostra di Palazzo Canossa, nel Pavan che avrebbe idealmente raccolto il testimone numero 9 del 1960 compare un organico contributo di questo ambito di interessi e continuato la dedicato alla Architettura dei Lessini. “La strada collaborazione con Magagnato per altre mostre di che da Negrar, nell’alta Valpolicella, per Torbe cui troviamo traccia negli annali dei musei civici e Prun, conduce a Sant’Anna d’Alfaedo, Fosse veronesi5. Ritroviamo infatti un’attenzione costante e Breonio, è costeggiata da una serie di opere da parte dei musei civici anche nei confronti murarie d’inconfondibile originalità...”. Così dell’architettura contemporanea. Nel 1980, accanto l’incipit dell’articolo, nel quale Magagnato sembra alla mitica Palladio e Verona in Gran Guardia, ecco letteralmente accompagnare il lettore a scoprire

GIORNATA DI STUDI PER IL CENTENARIO DELLA NASCITA DI LICISCO MAGAGNATO (1921-2021) Verona, Palazzo della Gran Guardia, 9 dicembre 2021 Coordinamento scientifico: Francesca Rossi, Antonella Arzone, Fausta Piccoli Interventi: Howard Burns, Anna Maria Conforti Calcagni, Maurizio Cossato, Alba Di Lieto, Matteo Fabris, Tiziana Franco, Barbara Guidi, Cristina Lonardi, Sergio Marinelli, Paola Marini, Marta Nezzo, Stefania Portinari, Francesca Rossi, Vincenzo Tiné Promotori: Musei Civici di Bassano, Musei Civici di Verona-Museo di Castelvecchio, Musei Civici di Vicenza, CISACentro internazionale di Studi di Architettura Andrea Palladio, Vicenza

06-07. Due vedute delle sale di Palazzo Forti allestite in occasione della mostra Architettura dei Monti Lessini, 963 (Archivio Pavan). 06

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in Sala Boggian un affondo su un fenomeno del momento – qualcuno se ne ricorderà ancora? –, con Léon Krier. La ricostruzione della città europea, e ancora una rassegna di tesi di laurea, Autogestione fantastica di una città di provincia, con i progetti di molti futuri architetti veronesi6. L’anno seguente sarà la volta di Beyond the International Style. New Chicago Architecture, una rassegna allestita alla Gran Guardia che apriva uno sguardo sui nuovi linguaggi internazionali7; in parallelo, a Castelvecchio si tiene Silvano Zorzi. Ponti e viadotti, a cura dello stesso Magagnato, sull’opera di uno dei maestri dell’ingegneria italiana, che tra l’altro con Libero Cecchini aveva formulato un progetto per ammezzare il volume della sala Boggian. Nel 1982 una piccola mostra sempre a cura di Magagnato (con M. Brusatin e A.Prandi) presenta in presa diretta il Teatro del mondo. Aldo Rossi, memorabile installazione galleggiante di cui ricorre giusto quest’anno il quarantesimo. Ma l’82 è anche l’anno della prima mostra dedicata a Carlo Scarpa a Castelvecchio curata dal direttore e allestita da

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08-09. Beyond the International Style. New Chicago Architecture, 1981: una veduta della mostra e un momento dell’inaugurazione (Archivio Pavan).

Arrigo Rudi, che inaugura attraverso i disegni la rilettura critica sul restauro e allestimento scarpiano all’interno dell’opera stessa, aprendone di fatto il percorso di studio e conservazione. Chiude questa sequenza l’esposizione dedicata a La nuova scuola di Roma 8: una ulteriore conferma del ruolo di Castelvecchio quale centro espositivo e catalizzatore dei fermenti architettonici per Verona. “Il fatto che in un Museo si sia elaborata questa rassegna rientra d’altra parte in un concetto di Museo che dal nome illustre dell’architetto che l’ha rinnovato, alla quotidiana serie di attività che vi si svolgono, aspira ad un contatto vivo con l’attualità oltre che con il passato, aspetti imprescindibili dell’attività culturale”9. Un prezioso lascito, questo, che ha avuto nuove fondamentali tappe anche negli anni seguenti – basti pensare alla tellurica installazione di Eisenman, alle nuove mostre su Scarpa, a quelle su Caccia Dominioni e su Rudi – che ci piace pensare proseguirà anche in futuro, continuando a fare di Castelvecchio un imprescindibile punto di riferimento per l’architettura a Verona. Nel segno di Licisco.

1 Fu Luigi Meneghello, in un incontro pubblico in memoria dell’amico recentemente scomparso, a raccontare l’episodio di un non precisato scrittore che aveva ritenuto poco verosimile la firma di un articolo a nome di Licisco Magagnato. Lo ricorda Ettore Napione in apertura del suo contributo al volume «Ma la conversazione più importante è quella con te». Lettere tra Luigi Meneghello e Licisco Magagnato (1947-1974), a cura di Francesca Caputo e Ettore Napione, Cierre edizioni, 2018. 2 Così lo ha definito Howard Burns nel corso del suo intervento alla giornata di studi in memoria di Magagnato, citata di seguito. 3 L’ampio programma ha previsto anche una sezione dedicata alle mostre e alle acquisizioni di arte arte contemporanea da parte di Magagnato nel rinnovato percorso espositivo della Galleria d’Arte Moderna Achille Forti; una esposizione degli acquerelli donati al Gabinetto Disegni e

Stampe del Museo di Castelvecchio da parte di Francesco Arduini, artista legato a Magagnato; la donazione dell’opera Acquaria di Giorgio Vigna. 4 Ne ha parlato al convegno Matteo Fabris, approfondendo le più recenti vicende relative alla storia del Palazzetto Fontana. 5 La fonte è l’accurato regesto di un secolo di mostre ai Civici Musei d’Arte di Verona, redatto da Lucia Tarantino, pubblicato nel volume Allestire nel museo. Trenta mostre a Castelvecchio, a cura di Alba Di Lieto e Filippo Bricolo, Marsilio 2010. 6 Per Krier la cura era di V. Pavan, mentre la sezione Architettura della rassegna di tesi venne coordinata da S. Zandonella. 7 A cura di M. Casari e V. Pavan. 8 L’esposizione, voluta da Magagnato ma aperta nel 1987 appena dopo il suo pensionamento, era curata da H. Klotz e V. Pavan. 9 Licisco Magagnato, dalla Presentazione del catalogo di Beyond the International Style. New Chicago Architecture.

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Lapilli nel museo

Il ritorno dell’artista Giorgio Vigna a Castelvecchio con i suoi “sassi” immaginari disseminati nella Galleria delle Sculture in continuità con l’installazione permanente nella fontana Testo: Alberto Vignolo

Foto: Michele Alberto Sereni (courtesy Studio la Città)

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on è certo inusuale tornare a rivedere l’amato Castelvecchio: basta a volte un colpo d’occhio dal cortile al ghigno del Cangrande, o meglio ancora un’infilata a perdifiato nella Galleria delle Sculture. Il resto, magari, la prossima volta. Talvolta è un’esposizione a fornire il pretesto di uno sguardo sì parziale, ma forse per questo capace di attribuire un significato fresco e inatteso a tutto ciò che parrebbe sostanzialmente già noto. L’ultima occasione l’hanno fornita i Lapilli disseminati dall’artista Giorgio Vigna tra le pieghe dell’iconico allestimento scarpiano al piano terra del Museo, con l’omonima esposizione presentata dai Musei Civici in collaborazione con la Galleria Studio la Città di Verona (11.12.2021-16.01.2022). Non è una presenza nuova quella di Vigna, veronese di nascita, al Museo di Castelvecchio, che nel 2013 aveva già ospitato una sua personale (Stati Naturali, a cura di Paola Marini). A quell’occasione risale l’installazione site specific Acquaria nella fontana: una serie di sassi in vetro di Murano, ideale reminiscenza delle bolle d’aria emesse dai pesci che un tempo abitavano il piccolo specchio d’acqua. Una presenza divenuta familiare nel contesto del giardino, che ora entra a far parte delle collezioni civiche grazie alla donazione dell’opera nell’ambito del centenario della nascita di Licisco Magagnato. In continuità con quel gesto delicato e sensibile, nella nuova mostra un avvicendarsi di ciottoli di vetro singoli o in piccoli cumuli punteggia la Galleria delle Sculture, lasciando al visitatore l’emozione della scoperta di questi inattesi ospiti che, con i loro cangianti riflessi, si accostano alle familiari presenze delle figure di pietra che abitano

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la galleria nella tanto celebrata disposizione museografica. Non si tratta infatti di una materia inerte: il vetro dei vari ciottoli è abitato da frammenti materici d’altra natura, dalle particelle d’argento dei Sassi posti nel Sacello – un diretto richiamo alle opere di oreficeria lì esposte – ai fili di rame e frammenti metallici rappresi nel magma trasparente di quelli appoggiati sui “liquidi” basamenti scarpiani delle sculture medievali. Ai piedi della Crocifissione del Maestro di Sant’Anastasia, le bolle d’aria racchiuse nelle

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Tre serate di dialoghi tra architetti attorno alle questioni che emergono dalla pratica professionale contemporanea

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Il mestiere più antico (o quasi)

Testo: Federica Guerra

01. Il manifesto della mostra. 02-04. Alcune vedute dei Lapilli allestiti all’interno della Galleria delle Sculture del Museo di Castelvecchio. 03

Acque Astrali sembrano raccogliere le Lacrymae Christi; una diretta relazione con il castello, quasi una memoria di una primigenia esondazione dell’Adige, è infine rappresentata dai cumuli vetrati posti sulla finestra aperta sul giardino e su quella a pavimento nell’ultima sala della Galleria, dove i Sassi si fanno profondamente materici e preziosi, con rame, argento e oro. Nella logica di un’esposizione temporanea, i Lapilli sono destinati a lasciar traccia solo nelle immagini della mostra, oltre che nella memoria di chi l’ha visitata: come se il tocco apparentemente lieve e trasparente del vetro tornasse nelle sue scaturigini magmatiche, pronto a trasmutarsi in nuove forme. Altri autori con altri gesti e letture personali non mancheranno in futuro di farci tornare a Castelvecchio, proponendo nuove interpretazioni sensibili dei suoi spazi, così come ha fatto Giorgio Vigna con il suo omaggio al direttore e all’architetto del museo, facendo dialogare architettura, scultura e il proprio linguaggio contemporaneo sviluppato in oltre trent’anni di ricerca.

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a pandemia, ma anche il lento declino della società occidentale, hanno evidentemente spiazzato più di una categoria sociale che fatica a ritrovare il proprio posto all’interno della collettività. Sarà per questo che gli architetti sentono il bisogno di riaffermare qual è il loro ruolo, quali gli obbiettivi e quale, in definitiva, il senso del loro lavoro, per chiarire soprattutto a sé stessi la propria funzione e per ri-tracciare i confini del proprio mestiere. Di questo si è parlato nell’ultimo scorcio del 2021 in tre incontri promossi dal nostro Ordine, intitolati “Il mestiere dell’architetto” e pensati come aperitivi in cantina, grazie all’ospitalità di alcune aziende vinicole veronesi. Benché aperti alla cittadinanza gli incontri, ognuno dei quali ha avuto in cartellone un professionista veronese e un “nome” invitato a confrontarsi in un dialogo serrato che ha spaziato a ruota libera tra numerose questioni disciplinari, hanno visto soprattutto la partecipazione di numerosi colleghi. Perché, prima di rivolgersi al mondo esterno, è a sé stessi che gli architetti sentono la necessità di chiarire il senso della professione, o meglio – per l’appunto – del loro mestiere. Tanti gli argomenti affrontati nelle tre serate: la sostenibilità nella progettazione pubblica nei diversi contesti, di emergenza e non; la cultura del progetto; il buon senso del costruire; la necessità di una architettura partecipata che sappia ascoltare e inserirsi nella comunità in cui va ad operare; la necessità di dipanare i dubbi facendosi le giuste domande, sul progetto e sull’architettura; il tema dell’evoluzione dei canoni estetici, rispetto al

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01. L’attenzione del pubblico durante i talk. 02. Il manifesto di uno degli incontri del ciclo “Il mestiere dell’architetto”.

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tempo e ai luoghi. Non un filo conduttore, quindi, ma un excursus su alcune delle questioni che caratterizzano il nostro mestiere. Perché questa è, in fondo, la tesi sostenuta da Daniela Cavallo, architetto e docente di Marketing Territoriale all’Università di Verona, che ha pensato e moderato gli incontri: che non si tratti di un lavoro o di una professione, ma propriamente di un mestiere. Vale allora la pena di interrogarsi su cosa significhi questa sottile precisazione terminologica, perché se mestiere è qualsiasi attività manuale imparentata con la pratica, e che dunque odora di artigianalità e di unicità, in senso più ampio può rappresentare anche qualsiasi attività non necessariamente remunerativa legata a un determinato ruolo sociale (il mestiere di scrittore, il mestiere di genitore). O ancora, nel gergo comune, può assumere connotati spregiativi (ridurre l’arte a puro mestiere), o assumere significati più ampi, anche non attinenti le professioni tecniche (il mestiere di avvocato). Se

è evidente che il mestiere debba essere un’attività lavorativa, non può allora che che essere definito attraverso le sue qualità, che tutti bene conosciamo (un lavoro duro, impegnativo, pericoloso), ma anche attraverso le sue relazioni (un lavoro autonomo ma spesso precario o subordinato). Cos’è allora che negli ultimi anni ha sparigliato le carte della società, tanto da non far più riconoscere l’architetto come portatore di qualità uniche, non confrontabili con quelle di altri professionisti? A dispetto del titolo della rassegna, forse proprio aver confuso la missione dell’architetto con quella del suo mestiere: non necessariamente si è architetti, pur svolgendo tale mestiere. Come ha puntualizzato Daniela Cavallo, l’architetto è il gestore della complessità, colui che intravede e indica ciò che altri ancora non vedono, un umanista – non solo un tecnico! - che deve fare i conti con l’etica, con la politica come impegno partecipato dalla collettività, e con l’estetica come cura del bello. A questi temi si sono riferite tutte le considerazioni fatte dagli ospiti degli incontri: Alessio Battistella, socio fondatore dello studio milanese ARCò Architettura & Cooperazione, che ha conversato con Mario Bellavite; Gianluca Peluffo, titolare dello studio internazionale Peluffo&Partners dopo l’esperienza pluriennale dei 5+1AA, a confronto con il nostro Filippo Bricolo; infine Mosè Ricci, professore ordinario di urbanistica presso l’Università di Trento, che ha dialogato con Paolo Richelli. Nelle loro conversazioni, mai la parola mestiere ha assunto l’accezione di una pratica prestazionale, ma sempre di un’occupazione alta, che lambisce i confini di quasi tutte le altre discipline, e che come tale avvicina l’architetto al demiurgo platonico che mette ordine e dà forma alle idee. Questa, allora, è la difficoltà che oggi patiscono gli architetti: quella di riconoscersi e farsi riconoscere come propulsori di una nuova idea di società. Se questa è la tesi e l’impegno che gli architetti devono o vogliono assumersi, forse dobbiamo cominciare a comunicarlo alla luce del sole, nelle sedi opportune e a viso scoperto, più che negli spazi chiaroscurali e ovattati di una cantina. Anche se vinicola.

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Una fonte digitale meravigliosa ODEON

Finalmente online il progetto Arcover che ha reso disponibili per la consultazione migliaia di documenti sul costruito nel territorio veronese Testo: Federica Guerra

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al 2017, a seguito dell’assegnazione di un finanziamento elargito da Fondazione Cariverona, un gruppo di studiosi veronesi raccolti attorno all’associazione Agile, già promotrice di numerose attività culturali, ha iniziato a mettere mano al ricchissimo patrimonio archivistico veronese sparso tra numerosi enti depositari. Una prima parte del lavoro sta andando a costituire arcover – Archivi del Costruito del territorio Veronese in Rete – un sito (www.arcover.it) in cui i vari documenti sono stati scansionati e caricati, per permetterne la libera fruizione. Il 3 dicembre 2021, presso l’Accademia di Agricoltura Scienze e Lettere, è stato presentato il progetto e celebrata la messa in rete del portale. Fin qui si potrebbe parlare di una operazione benemerita e assolutamente necessaria per salvaguardare i patrimoni archivistici dall’incuria del tempo. Ma il progetto Arcover è molto di più, soprattutto per alcune questioni di metodo attinenti la ricerca scientifica. Sei le sezioni del sito: alla voce “Archivi” troviamo gli oltre 15 mila documenti, solo una parte degli 87.063 già scansionati – fotografie, cartografie, mappe, disegni tecnici e progetti – che descrivono il territorio veronese, con particolare attenzione

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al patrimonio del costruito tra Otto e Novecento e provenienti dall’Archivio Generale del Comune, dall’Archivio di Stato e da quello del Consorzio zai. Alla sezione “Cartografie” dodici mappe – dal primo catasto austriaco del 1842 alla Variante al Piano Regolatore del 1975 – consentono di confrontare e

« Questa visione sinottica apre a interessanti ragionamenti sul futuro della città, sui suoi margini e sul loro progetto » 01

01-02. Esempi di pagine di ricerca georeferenziate nel sito www.arcover.it.

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ARCOVER PROGETTO Agile Associazione di promozione sociale GRUPPO DI LAVORO Angelo Bertolazzi, Marco Cofani, Silvia Dandria, Michele De Mori, Leonardo Milazzo, Enrico Mischi, Johnny Nicolis, Nicholas Nicolis, Emilia Quattrina, Davide Rizzi, Nicolò Tedeschi COLLABORAZIONI Archivio di Stato di Verona, Comune di Verona (Archivio Generale, Settore Estimo, Settore Pianificazione Territoriale, Biblioteca Civica), Accademia di Agricoltura Scienze e Lettere di Verona, Consorzio Zai, Immobiliare Magazzini SRL, Università degli Studi di Padova (Dipartimento ICEA), i collezionisti Silvano Morando e Giovanni Squaranti

03. Esempio di raffronto tra cartografie storiche. 04. Alcune delle pubblicazioni disponibili nella sezione “Biblioteca” del sito.

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sovrapporre l’immagine del passato con le mappe attuali. Nella sezione “Biblioteca” sono invece disponibili in formato digitale (pdf ocr) 180 pubblicazioni provenienti dalle biblioteche veronesi, in particolare dall’Accademia di Agricoltura Scienze e Lettere. Vengono poi proposti quattro “Percorsi”: si potrà cioè navigare all’interno del sito seguendo alcuni grandi temi – la zai storica, i catasti storici, i piani regolatori del Comune di Verona, i ponti di Verona negli anni Trenta – intrecciando i diversi materiali archivistici presenti sul sito. Ricca, ancora, la sezione “Mostre” con il materiale delle sette esposizioni realizzate negli ultimi anni dal gruppo di ricerca di Arcover, su temi che vanno dal Lanificio Tiberghien alla costruzione del Lungadige San Giorgio, dalla manifattura Tabacchi ai ponti di Verona (cfr. «AV» 117, pp. 64-67, e 124, pp. 97-98). Sarà possibile, infine, consultare l’anteprima dei Quaderni monografici degli Archivi

Veronesi dedicati ai medesimi temi di approfondimento. Al di là della articolata struttura del sito, la particolarità del progetto sta nell’aver prima indicizzato, catalogato, digitalizzato e poi inserito in una mappatura georeferenziata i diversi documenti: è quindi possibile accedere all’archivio tramite una planimetria del territorio urbano ed extraurbano di immediata leggibilità. Questo metodo rovescia l’approccio al patrimonio archivistico e permette, come ha ben chiarito durante la presentazione Michele De Mori – presidente di Agile e coordinatore del progetto –, di partire dagli “oggetti”, cioè dalla realtà del costruito, per arrivare direttamente alle fonti documentali, costantemente implementabili, conservate anche in diversi fondi. Un cambio di prospettiva che si accompagna ad alcune altre interessanti prerogative del sito. Infatti ai documenti (progetti, planimetrie, ecc.) si accompagnano una serie di altri

materiali scansionati, primi fra tutti le cartografie storiche e gli strumenti urbanistici pregressi, che permettono di identificare l’edificio all’interno dell’evoluzione urbana, oltre che consentire una immediata percezione dell’evolversi della forma della città. Questa visione sinottica apre a interessanti ragionamenti sul futuro della città, sui suoi margini e sul loro progetto, sulla densificazione avvenuta in alcune aree piuttosto che in altre, sulle scelte urbanistiche di indirizzo che hanno caratterizzato alcune parti rispetto ad altre. E ancora, sul sito troviamo 8.637 fotografie storiche riguardanti i grandi progetti di opere pubbliche realizzate a Verona nel Novecento. Anche in questo caso, al di là della suggestione visiva di ripercorrere le fasi della costruzione della città, il cono ottico delle diverse fotografie ha l’importate valenza di testimonianza della condizione oggettiva degli edifici in alcune tappe storiche, permettendo anche un valore “certificativo” dello stato dei luoghi.

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Sottoterra: rifiuti e forme di vita ODEON

Una lettura incrociata di due recenti volumi propone un punto di vista singolare su tre casi studio individuati tra gli ecosistemi locali Testo: Giulia Biondani

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Da ultimo pare interessante la possibilità di una lettura orizzontale dei diversi progetti dal punto di vista degli autori, potendo ricostruire le vicende professionale di alcune figure fondamentali del Novecento veronese, ma anche di scoprire il ruolo di tecnici meno noti che hanno tuttavia avuto un ruolo fondamentale nella costruzione del volto della città. L’obbiettivo complessivo del lavoro sembra quindi la tutela della memoria storica della comunità ma anche il diritto di tutti i cittadini all’accesso all’informazione, favorendo così lo sviluppo della conoscenza del proprio territorio. Non ci resta che aspettare l’aggiornamento futuro del portale, con il caricamento di nuovi documenti.

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ue volumi usciti rispettivamente nel 2020 e nel 2021 affrontano da punti di vista diametralmente opposti ciò che siamo soliti chiamare terra, termine che racchiude significati e valori di carattere generale, e che nel caso dei libri in questione comprendono o sono incentrati su un ambito veronese. Attraverso le pagine de La Terra di Sotto incontriamo infatti, lungo l’asse di un reportage giornalistico e fotografico da Torino a Venezia, casi di inquinamento industriale, discariche e la presenza capillare della criminalità organizzata; in questo quadro emergono alcuni esempi veronesi ben noti alle cronache, ritratti dal fotografo Luca Quagliato con uno sguardo lucido e disincantato. Un approccio di tipo scientifico è invece quello alla base dell’ambiziosa Storia naturale della città di Verona, corposo compendio di contributi specialistici pubblicato tra le Memorie del Museo Civico di Storia Naturale di Verona e curato da Leonardo Latella, Conservatore della sezione Zoologia del Museo stesso. Accanto a temi che risultano più familiari ai lettori architetti, come quelli relativi alla forma urbana o all’idromorfologia del territorio, decisamente più impegnativi e per esperti i saggi dedicati alla flora e alla fauna che

abitano l’area veronese. È dalla lettura incrociata di questi due volumi che trae origine un approfondimento su tre casi studio, individuati tra gli ecosistemi locali veronesi, mettendo in rilievo le criticità e le ripercussioni antropiche nei confronti di ciò che il suolo ospita come “popolazioni autoctone”. TORRETTA, LEGNAGO

In funzione dall’inizio degli anni Ottanta, di notevole estensione, è stata oggetto di diverse attenzioni da parte di associazioni e movimenti ambientalisti, che nonostante le ripetute contestazioni non sono riusciti ad arrestare un progetto per il suo ampliamento. Quest’ultimo, che è stato approvato, consentirà di contro una serie di azioni volte alla messa in sicurezza del sito, per impedire ulteriori episodi di inquinamento della falda acquifera situata quasi al piano campagna. L’obiettivo è quello di estendere il ciclo di vita della discarica dal 2026 al 2035 per una capienza totale di circa un milione di metri quadrati. Le zone di ampliamento, le “valli”, si presteranno inoltre ad essere impiegate come parco multidisciplinare, con pannelli fotovoltaici e una distesa di nuove essenze arboree.

a cura di Leonardo Latella STORIA NATURALE DELLA CITTÀ DI VERONA Memorie del Museo Civico di Storia Naturale di Verona 2. Serie, Monografie naturalistiche 6-2021 Un compendio delle ricerche multidisciplinari condotte dai ricercatori e da molti collaboratori delle diverse sezioni del Museo di Storia Naturale di Verona, incentrate in particolare sull’area urbana di Verona. L’ampia raccolta di dati scientifici e analisi naturalistiche si pone anche come utile strumento per la gestione e pianificazione di interventi su aree naturali in città.

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delle acque meteoriche, riducendo conseguentemente i costi di gestione della discarica stessa. Sovrapponendo nuovamente gli strumenti cartografici, il sito rientra in questo caso nello spettro di corridoi biologici; tra le specie interessate vi è la Myrmecina Prenolepis nitens, la formica più comune da osservare nel territorio veronese, che è solita a nidificare sia tra i fili d’erba che tra le fessure dei marciapiedi o delle strade asfaltate; onnivora, predilige i semi di piante erbacee che accumula in celle granaio, e rientra tra le specie più intaccate come confermato dalla presenza dei dati più attuali.

Luca Quagliato, Luca Rinaldi LA TERRA DI SOTTO Penisola Edizioni, 2020, pp. 204 Il libro è composto da 97 fotografie scattate tra il 2014 e il 2019 dal fotografo Luca Quagliato e corredate da didascalie che propongono un approfondimento per ogni caso di inquinamento raccontato. Il saggio di apertura “Il secolo del rifiuto” e i saggi introduttivi dei 4 capitoli interni portano la firma di Luca Rinaldi, giornalista investigativo. Nell’ultima sezione il ricercatore in architettura del paesaggio Matteo Aimini introduce all’analisi territoriale della Megalopoli Padana oggi con il saggio “La terra dello scarto”. Il volume si chiude con le rappresentazioni cartografiche e visulizzazioni di dati a cura del cartografo Massimo Cingotti.

01. Discarica di Torretta, Legnago (foto di Luca Quagliato).

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Calata nel suo contesto geografico e ambientale, sia pure come sito deturpato, la discarica diventa parte di un processo di evoluzione idro-geomorfologica che, da luogo di degrado, può tramutarsi in un momento di conoscenza della storia naturale del territorio, emblematico nella sua varietà di aspetti. Un’analisi comparata degli strumenti cartografici più aggiornati – PTRC del 2020 – evidenzia come il sito non ricada all’interno di corridoi biologici, né rientri in un’area per la quale la diversità dello spazio agrario risulti medio-alta, e di conseguenza impattante per la biodiversità peculiare del territorio a partire dalle colture limitrofe, fauna e colonie di insetti. Nell’area, infatti, si evidenzia la presenza di popolazioni di insetti quali lo Scarabaeidae Neophandon pyritosus. Gli Scarabaeinae sono una sottofamiglia molto eterogenea, la maggior parte dei quali si nutre di escrementi di vertebrati, ma vi

CÀ DI CAPRI, SONA-VERONA

sono anche specie che si alimentano di funghi e di materiale vegetale e animale in decomposizione. CÀ BALDASSARRE, VALEGGIO SUL MINCIO

Altrettanto dibattuto è il caso di questa discarica che, dopo la chiusura del 2011, prevede quindici anni di operazione di bonifica e messa in pristino, a seguito di una disastrosa attività decennale di raccolta di rifiuti solidi (‘83-’93) con un’ingente produzione di percolato, biogas e relativo assestamento del corpo rifiuti. Per arginare il danno ambientale il Comune di Verona (che conferiva i suoi rifiuti urbani a Valeggio) ha provveduto tramite fondi regionali alla realizzazione di una nuova copertura sommitale, costituita da una geo membrana impermeabile sintetica per ammortizzare la penetrazione

Volta prevalentemente al trattamento di rifiuti non pericolosi e in particolare al car fluff, ossia alle componenti delle automobili costituito da circa quaranta e più tipologie di plastica differenti e non recuperabili, Cà di Capri ha una storia decennale di gestione poco chiara e conflittuale. Nel 2017 si stimava di saturare completamente gli spazi con inerti e conseguentemente di chiudere l’impianto. Come nel caso di Cà Baldassarre, si è prevista la copertura con materiale vegetale e geo membrane sintetiche per limitare l’azione del percolato, da veicolare verso le apposite canaline di raccolta di modo da non infierire in alcun modo sulla falda posta a circa venticinque metri di profondità. Suddivisa in tre lotti – i primi due rientranti nel comune di Sona mentre il terzo, già sigillato, nell’ambito comunale di Verona – a

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02-03. Discariche di Cà Baldassarre, Valeggio, e Cà di Capri, Sona-Verona (foto di Luca Quagliato). 04. Esempi di popolazioni “residenti” nelle aree delle discariche: Scarabaeinae Copris Lunaris, Neophaedon pyritosus, Prenolepis nitens.

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seguito delle operazioni di messa in sicurezza e adeguamento la discarica è oggi visitabile per gruppi organizzati. Riproponendo il medesimo processo analitico, anche questo sito ricade in corrispondenza di un corridoio verde; qui troviamo in particolare il Chrysolina fastuosa fastuosa, un coleottero appartenente alla famiglia Chrysomelidae, genere diffuso principalmente in Eurasia, Asia Minore e paesi del Caucaso come ospite in diversi genere di Laminacee.

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DA LUOGO DELL’ILLECITO A LUOGO DEL RISCATTO AMBIENTALE

I danni e le ripercussioni ecologiche derivati dalla presenza di una discarica non si limitano al luogo specifico della discarica stessa e a quella fetta circoscritta di “biodiversità” offesa, ma si estendono a tutto tondo anche sull’intero ciclo di vita di quelli che, citando Menno Schilthuizen, biologo evoluzionista olandese, possiamo definire micro-ecosistemi, flora e fauna relativi. Per non parlare poi degli aspetti penali legato a sistemi di gestione spesso poco “puliti”. Questa lettura incrociata dei due volumi vuole pertanto rappresentare uno spunto di riflessione per eventuali approfondimenti e per una

presa do consapevolezza sia da parte dei progettisti che degli stakeholders locali, in vista di possibili - anzi necessari - piani di intervento che possano reinterpretare i luoghi dell’illecito, simboli delle ecomafie, come occasioni di riscatto ambientale. E non si intende con ciò la mera misura preventiva di contenimento del percolato con un telo sintetico, ma possibili impieghi alternativi di riciclo verde, volti alla produzione di biogas, impianti di fitodepurazione, innesto di nuovi parchi tematici verde, o delle vere e proprie fattorie didattiche entomologiche. Basti pensare al caso del Museo della Merda di Castelbosco a Piacenza, che ha saputo trarre dallo scarto delle realtà imprenditoriali decisamente alternative e perché no, persino forme d’arte progressiste.

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Notti magiche e archeologiche

Una mostra nel trentennale dei lavori realizzati in occasione dei mondiali di calcio di Italia 90 mostra finalmente al pubblico parte dei ritrovamenti archeologici emersi in quell’occasione Testo: Alberto Vignolo

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cavi stradali e partite di pallone, ruspe in azione e vasi di coccio in frantumi, fiumi di soldi da spendere e scadenze impellenti, politici disinvolti e funzionari integerrimi, ossa di morti e colate di cemento... Sembrano gli ingredienti un po’ sconclusionati di un poliziesco all’italiana, quelli che emergono dalla mostra allestita nei magniloquenti spazi di Porta Palio su quanto si svolse lì accanto tre decenni fa. Non c’è un delitto, come d’obbligo in un giallo, ma di morti ce ne sono eccome: quelli della vastissima necropoli romana rinvenuta a seguito dei lavori per la realizzazione del sottopasso viario nei pressi di Porta Palio, pensato in vista dei mondiali di calcio del 1990 che fecero una fugace tappa a Verona per un girone eliminatorio presto dimenticato. Ma l’evento portò comunque, sull’onda dell’emergenza e dei lauti finanziamenti statali, a realizzare non solo l’ampliamento dello stadio ma una serie di infrastrutture, tra le quali i sottopassi gemelli di Porta Nuova (che venne aperto per tempo) e, appunto, di Porta Palio. Chi magnifica oggi quella stagione per le ultime grandi opere pubbliche realizzate in città, forse dimentica il dibattito sull’impatto devastante che tali opere avrebbero e hanno avuto: sullo snellimento del traffico, basta guardare il caos in superficie attorno alle suddette porte, ancora tristemente ridotte a rotatorie stradali; e il fatto che si preveda oggi l’unificazione delle due sottovie nell’ambito dei lavori per la realizzazione del filobus la dice lunga sulla loro attuale inefficacia. Si sa del resto come andò: c’erano tanti soldi e l’importante era spenderli, di lì a qualche anno Tangentopoli avrebbe svelato il perché. Ma intanto, l’avvio tardivo dei lavori nei pressi di Porta Palio nel dicembre 1989 si accompagnò con la sorpresa di un inattesi “giacimento” archeologico, con la messa in luce di un tratto dell’antica via Postumia e di una delle necropoli di età imperiale della città. Lo ha ricordato durante la presentazione della mostra Giuliana Cavalieri Manasse, uno dei personaggi chiave di questa vicenda, allora direttore per Verona della Soprintendenza Archeologica del Veneto. Dalle fonti non era infatti attesa una necropoli così estesa; la stessa Manasse ha ricordato come nei

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01. Alcuni dei reperti provenienti dalle campagne di scavo del 1990 allestiti in occasione della mostra a Porta Palio. 02. Fotopiano con l’area dello scavo del sottopasso di Porta Palio che intercettò un tratto della via Postumia. 03. La navata di Porta Palio con i pannelli espositivi della mostra. 04. La mascotte dei campionati del mondo di calcio Italia ‘90 in una singolare declinazione veronese.

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PROGETTO ESPOSITIVO PER IL TRENTENNALE DELLA SCOPERTA DELLA NECROPOLI DI PORTA PALIO Comune di Verona: Francesca Toffali (coordinamento), Ettore Napione Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio per le provincie di Verona, Rovigo e Vicenza: Vincenzo Tiné (coordinamento), Brunella Bruno, Giulia Pelucchini, Ilaria De Aloe Università di Pavia,Dipartimento di Ingegneria Civile e Architettura, DAdaLAB: Sandro Parrinello (coordinamento), Francesca Picchio, Francesca Galasso” in collaborazione con Società Mutuo Soccorso Porta Palio VIDEO https://veronacittamurata.it/

05. Lo scavo archeologico sul sedime del sottopasso di Porta Palio . 06. Lucerne in cotto rinvenute tra i corredi delle sepolture nella necropoli emersa durante gli scavi del 1990. 07. Esempio di elaborazioni grafiche prodotte per la mostra: il rituale dell’incinerazione.

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primi scavi si videro volare per aria frammenti di vasi, reperti e suppellettili funerarie in frantumi, e quante se ne persero nella realizzazione delle paratie di contenimento del sottopasso; così come nei lavori della bretella da Verona Nord allo Stadio nei pressi della Spianà. Fu anche un delicato gioco delle parti, diciamo così, tra le pressioni della politica (“io la faccio trasferire in Sardegna!”), le esigenze del calcio über alles e la fermezza di chi seppe resistere tenacemente, sostenendo un punto di vista “di minoranza”, quello dei beni culturali. L’invettiva sui “quattro sassi” che interrompono ogni lavoro non sarà che una replica della medesima tragicommedia. La mostra, dal taglio divulgativo, ripercorre le vicende dello scavo che, dopo le iniziali “tensioni”, vide all’opera una quarantina di archeologi guidati da Peter J. Hudson, lo stesso che pochi anni prima aveva condotto una campagna pionieristica per metodologia nel cortile dell’ex Tribunale di Verona. Nonostante i tempi serrati

e le problematiche del cantiere di scavo legate anche alle esigenze della viabilità, la conoscenza della Verona romana è stata arricchita dai tratti extra urbani della via Postumia messi in luce in tale occasione; sono state inoltre individuate nello scavo di Porta Palio 536 sepolture, nell’area della Spianà 807 tombe e altre 104 più oltre, lungo via Albere. Le strutture funerarie, di diverse tipologie, hanno svelato una grande quantità di corredi, una piccola parte dei quali è mostrata al pubblico per la prima volta nella mostra – cara archeologia, riuscirai mai ad essere meno “timida”? –, tra monete, lucerne, coppe e bicchieri in ceramica, bottiglie in vetro, mestoli e chiavi in ferro, eccetera. Quanto esibito nella mostra di Porta Palio potrebbe rappresentare a pieno titolo una sezione del tanto auspicato Museo della Città, che riunisca le stratificazioni dell’archeologia, la storia urbana antica e recente, le vicende del passato prossimo e uno sguardo verso il futuro della città. Speriamo di poterlo vedere entro i prossimi trent’anni.

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Ci mette il becco LC La figura del committente Sulla qualità della progettazione e dell’importanza di un committente, intelligente o assente che sia

Testo: Luciano Cenna

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giudicare dagli esempi pubblicati sui numeri di questa rivista, la rassegna della produzione architettonica degli architetti veronesi non eccelle ma neppure sfigura nel più vasto panorama regionale e nazionale. Cos’è allora che non convince? A mio parere, non convince la presenza di un linguaggio talvolta affidato a elementi “inusuali”: il piano inclinato di una facciata, il vezzo di inserimenti in legno, il tocco superficiale che infonde nell’opera quel tono di novità o modernità, la semplificazione geometrica spinta fino a sembrare carenza di idee. Non sottraggo a questo giudizio severo nemmeno le opere del mio studio pur se, della parte di banalità che possono contenere, ne incolpo la committenza per la frequente modestia intellettuale, a cui spesso gli architetti – me compreso – rispondono con alcuni “voli” personali che peggiorano il risultato anziché sollevarlo dalla mediocrità. So che torna comodo prendersela con gli assenti, i committenti; d’altra parte, come diceva Frank Lloyd Wright, il merito della qualità delle opere di architettura va diviso in parti uguali con il committente (quindi sia che il risultato sia positivo

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che negativo). Circa le sue responsabilità, non ho difficoltà a confermarle con alcuni esempi personali o, meglio, realizzati dallo studio Calcagni e Cenna negli anni Sessanta e Settanta. Mi riferisco a due opere pubbliche di buon livello – ma potrei citarne altre – in cui la figura del committente è stata pressoché nulla: la casa per anziani di via Don Carlo Steeb, affidataci per aver vinto un concorso di progettazione e, oltre dieci anni più tardi, la ristrutturazione del vecchio ricovero per anziani di vicolo Santa Caterina. In entrambe le occasioni, tutte le fasi progettuali e le realizzazioni sono state completate senza interferenze e condizionamenti dei committenti pubblici, per altro ragionevolissimi, ai quali volentieri ascrivo il

« Credo di trovare gran parte di voi d’accordo se concludo che la qualità delle realizzazioni pubbliche degli anni recenti è seriamente peggiorata » 50% del merito. Così come sono disposto a fare nei confronti dell’amico Noris, committente silenzioso della villa del Cerro, che considero tuttora una delle nostre più riuscite progettazioni (cfr. «AV» 81, pp. 54-61). In questo caso il vero committente era stato sostituito dall’architetto, che ne ha interpretato e filtrato le esigenze adeguando alla sua la sensibilità dell’amico (situazione perfetta). Successivamente, e per molti anni, le cose non sono cambiate fintanto che gli incarichi professionali sono stati assegnati direttamente; poi, con l’aggiudicazione degli incarichi a seguito di gara, tutto è peggiorato: i bandi vengono generalmente redatti da burocrati a cui i dirigenti chiedono di

inserire il maggior numero di richieste possibile, che poi il proponente deve rigorosamente tenere presenti se vuole aggiudicarsi il progetto definitivo che sarà chiamato a sviluppare sulla base di un progetto di massima proposto dal bando di gara , progetto scadente e dotato di risorse insufficienti. Credo di trovare gran parte di voi d’accordo se concludo che la qualità delle realizzazioni pubbliche degli anni recenti è seriamente peggiorata. Personalmente ho trovato il modo di eludere la responsabilità della parte meno valida delle opere pubbliche che progettiamo addossandola al “collega” committente. È un modo scorretto e furbesco, ma è la mia risposta alla bassa qualità dei bandi dei concorsi pubblici di progettazione. Scusate la lunga digressione, ma torno subito all’argomento iniziale – quello della qualità delle progettazione e dell’importanza di un committente intelligente o assente – per esprimere il mio parere attuale sulla qualità delle opere che abbiamo imparato ad apprezzare seguendo i criteri e il metodo che i nostri docenti dello IUAV degli anni Cinquanta e Sessanta ci avevano insegnato con i loro esempi e attraverso le opere dei maestri del Razionalismo. Su questa base, ancor oggi ritengo buone architetture quelle di architetti italiani (o no) che mantengono il carattere rigoroso seppur nella loro maggior complessità rispetto alle opere del passato, in quanto sono chiamate a soddisfare esigenze più articolate, e che, pur con l’ausilio delle tecnologie di oggi, non vengono meno a quell’obiettivo di semplicità che resta uno dei traguardi di una buona progettazione, ieri come oggi. E se vi rimane qualche dubbio in proposito, mettetevi davanti a un progetto o meglio a una realizzazione di uno di quei maestri, e ditemi se non vi commuove.

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QUASI ARCHITETTI

Prendersi cura del Castello Un progetto di laurea affronta il tema del restauro del Castello di Illasi per conservare la memoria storica e identitaria del bene e ridare voce a una delle architetture ancora in abbandono presenti nel territorio veronese

Testo: Laura Bonadiman

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All’interno del nostro territorio vi è una moltitudine di emergenze architettoniche di forte interesse storicoculturale che, sia per la difficoltà del loro mantenimento sia per la mancanza di una funzione che si adatti alle esigenze odierne, si trovano spesso ad essere abbandonate. Ciò vale in particolare per i castelli presenti nel veronese, la maggior parte dei quali è in rovina. Tra questi, ha attirato l’attenzione di Alice Barborini e Andrea Bonomi il castello d’Illasi, sul quale hanno redatto la loro tesi di laurea presso l’Università Iuav di Venezia che ha meritato anche il primo posto al XXIV Premio di laurea sulle Architetture fortificate, concorso organizzato dall’Istituto Italiano dei Castelli, un’associazione che ha lo scopo di incoraggiare lo studio storico, archeologico e artistico di castelli e monumenti fortificati.

« Il progetto di restauro è il mezzo attraverso il quale si può giungere alla valorizzazione del bene come patrimonio collettivo » Risalgono al X secolo le prime tracce della presenza del castello, che si colloca all’interno di un complesso di edifici e terreni che costituivano il feudo della famiglia Pompei. Il castello diventò col tempo una struttura simbolo, inserita all’interno di un grande parco a collegamento delle ville residenziali sorte nelle vicinanze. Nell’intero complesso si distinguono la cinta muraria, il palazzo, la torre, la casa colonica, la stalla, l’area della casamatta e due pozzi. Ad oggi in totale abbandono, secondo il progetto dei due neo architetti il castello di Illasi

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01. Render della struttura metallica di progetto entro le mura del palazzo. 02. Inquadramento dell’area di progetto. 03. Foto aerea del castelloo 04. Rilievo materico e del degrado: prospetto sud.

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non solo continuerebbe ad essere un riferimento visivo nel paesaggio, ma tornerebbe ad essere un’architettura fruibile, anche per il significato che riveste per la comunità da un lato come testimonianza del passato, dall’altro come monumento identitario. Come doveroso per un progetto di tale natura, anche (e forse soprattutto) a livello accademico, una gran parte del lavoro è di tipo storico, analitico e descrittivo degli interventi previsti sia a livello statico che materico, mentre gli inserimento di parti ex novo, sulle

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QUASI ARCHITETTI

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05. Veduta del palazzo, stato attuale. 06. Schema funzionale e di fruizione dell’intero complesso. 07. Esploso assonometrico di progetto: la struttura metallica e il palazzo.

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quali è facile concentrare l’attenzione, non sono che l’esito di uno scrupoloso percorso. Il primo passo è il rilievo dello stato di fatto, analizzando i fenomeni di degrado e le criticità, identificando di conseguenza la migliore strategia di intervento. Uno dei primi interventi previsti, data l’attuale instabilità del manufatto, è il miglioramento strutturale, per garantire condizioni di sicurezza e permettere un’accessibilità senza rischi. Gli interventi ipotizzati includono un irrigidimento degli orizzontamenti, il consolidamento della merlatura, il ripristino degli architravi lesionati e dei giunti degradati. A seguito si rende necessario un restauro delle superfici, da eseguire basandosi sulla mappatura delle patologie. La vegetazione spontanea infestante, che comporta fratture e disgregazioni delle malte e degli elementi lapidei e infiltrazioni di acqua meteorica, deve essere rimossa con trattamenti di devitalizzazione. Interventi che, per garantire il mantenimento del manufatto e delle opere di ripristino, devono essere monitorati con manutenzioni programmate e continuative nel tempo. Affrontate le problematiche legate alla statica e alla sicurezza nella fruizione, l’attenzione del progetto si è spostata sull’approccio metodologico relativo al bene. Che ruolo attivo può avere il castello, e come può essere fruito? La sua collocazione al di sopra di una collina, per quanto strategica e visibile da Illasi e dalla vallata, non presenta una facile accessibilità. L’area archeologica ha una notevole estensione, con percorsi disomogenei e dislivelli tra le varie aree del complesso. Inoltre, essendo il castello un bene privato, non esiste ad oggi un percorso di visita, e non viene valorizzato né

paesaggisticamente né culturalmente, nonostante i potenziali scorci panoramici. L’ipotesi progettuale prevede pertanto di configurare diversi livelli di accessibilità. Un primo percorso pedonale di tipo naturalistico seguirà il percorso antico di accesso; un secondo prevederà l’utilizzo di mezzi pubblici o privati, con la creazione di parcheggi nelle vicinanze del sito. Particolare importanza viene data nel garantire una buona fruibilità da parte del pubblico con disabilità, limitando al massimo le pendenze e mettendo a disposizione piccoli veicoli elettrici per gli spostamenti. Una volta giunti al complesso, oltre al consolidamento del mastio e delle

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08. Sezione di progetto del palazzo. 09. Area di sosta con vista panoramica verso il paesaggio esterno. 10. Piante di progetto a diverse quote.

ATENEO Università IUAV di Venezia Corso di Laurea in Architettura per il Nuovo e l’Antico TITOLO Il Castello d’Illasi: una proposta di restauro e valorizzazione PROGETTO Alice Barborini, Andrea Bonomi RELATORE prof. Paolo Faccio ANNO ACCADEMICO 2019-2020

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mura, il recupero dei fabbricati minori consente l’inserimento di alcuni servizi: la casa colonica è utilizzata come luogo d’informazione e spazio espositivo, mentre la stalla ospita la documentazione relativa agli scavi archeologici. Per quanto riguarda il palazzo, fulcro dell’intero complesso, il progetto ne mantiene l’attuale condizione di rovina, conservando in questo modo la sua storia, garantendone però l’apertura in condizioni di sicurezza. L’assenza di partizioni interne orizzontali ha permesso di rapportarsi a livello progettuale con uno spazio completamente vuoto, unitario e di grande impatto emotivo. Il cono visivo interno tra il basamento e la sommità è stato mantenuto, sviluppando un percorso di visita ad andamento verticale con l’inserimento di una grande scala a chiocciola che raggiunge i 20 metri di altezza, collegando il livello dell’accesso a una serie di ballatoi a quote superiori. Si viene a creare una vera e propria “passeggiata” all’interno

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dell’edificio, con punti di sosta legati alla storia del palazzo e i ballatoi che permettono ampi spazi di veduta sia verso l’interno sia verso il paesaggio della vallata. La struttura utilizzata per il percorso di visita è di tipo metallico, reversibile, con lamiere stirate per i piani di calpestio e i parapetti delle scale. In prossimità dei punti panoramici è stato preferito l’utilizzo di elementi in vetro per garantire una vista profonda e senza barriere. L’approccio metodologico esemplificato da questo lavoro dimostra come sia possibile agire per la conservazione di un bene come memoria storica e identitaria di un territorio, ridando voce a una delle numerose architetture abbandonate. Secondo l’articolo 29 del Codice dei beni culturali, “prendersi cura” è l’azione primaria da privilegiare su un manufatto. Il progetto di restauro è il mezzo attraverso il quale si può giungere alla valorizzazione del bene come patrimonio collettivo a disposizione della comunità.

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Architetti veronesi raccontano la loro esperienza professionale “fuori dalle mura”

Qui Rotterdam città d’acqua e d’architettura

Dall’Erasmus alle esperienze post laurea all’estero che nel tempo si stabilizzano: un percorso oramai comune attraverso il racconto di Manuel Magnaguagno

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Testo: Manuel Magnaguagno Cura: Alberto Vignolo

Manuel Magnaguagno, classe 1990, originario di Roncá – piccolo comune dell’est veronese – dopo essere cresciuto tra colline e vigneti, vive dal 2017 a Rotterdam e lavora come architetto in Olanda. Il balzo nella città-porto dei Paesi bassi è avvenuto subito dopo la laurea conseguita all’Università iuav di Venezia, e dopo alcune esperienze internazionali durante il periodo degli studi. Il tirocinio olandese, che doveva essere a termine, si è in realtà tramutato in una permanenza che data da allora, grazie alle esperienze in alcuni studi medi e grandi, tra cui mvrvd, che gli hanno permesso di lavorare a diversi progetti internazionali di alto profilo, tra Paesi Bassi, Germania, Russia e Albania, alcuni dei quali sono attualmente in fase di costruzione.

Non è certo ancora il tempo di bilanci per un trentenne come me, ma l’occasione di raccontare il mio percorso professionale mi fa riandare alle origini di quanto sto vivendo ora, come architetto veronese che vive e lavora in Olanda. Il mio interesse per l’architettura non ha un inizio ben definito: come molti, potrei dire che sin dall’infanzia ho iniziato a sperimentato con i Lego, e mi sono appassionato alle costruzioni e al disegno in generale. Durante le scuole dell’obbligo ho fatto pratica con il disegno artistico, mentre il disegno tecnico ha trovato spazio alle superiori, a San Bonifacio, concluse con il titolo di geometra. Il passaggio ad architettura a Venezia è stato il naturale proseguimento di questi interessi.

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01. La O-il punto più alto, Quartiere Franklin-Mitte, Mannheim (Germania). Concept per le torri residenziali H-O-M-E. Progetto: MVRVD (2019). A destra: ritratto di Manuel Magnaguagno. 02. Rigenerazione urbana dello scalo ferroviario di Porta Genova a Milano, progetto di tesi di laurea, Università IUAV (2017). 03-06. Jonas, edifico residenziale, sociale e commerciale a IJburg, Amsterdam. Progetto: Orange architects (2017-2018). 02

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Il percorso di studi all’Università iuav è stato fondamentale, non solo per il bagaglio di conoscenze ma anche per l’acquisizione di un metodo di studio, particolarmente utile in quest’epoca in cui molte delle nostre competenze devono essere continuamente poste in discussione e rinnovate. Un metodo basato sul dialogo tra le discipline, la ricerca e un approccio innovativo alla progettualità. Tra i banchi dell’università ho imparato l’importanza del lavoro di gruppo, che si è rivelato fondamentale quando mi sono inserito nel mondo del lavoro, in quanto la professione dell’architetto spesso è legata all’attività collettiva, alla collaborazione tra diverse figure e con diverse competenze. L’importanza di saper ascoltare, di analizzare e di prendere decisioni: tutto ciò che fa parte di quelle che vengono definite soft skills, ovvero quelle competenze trasversali che si imparano con l’esperienza di studio e di lavoro, e che consentono di relazionarsi con le persone. Durante il periodo degli studi ho avuto la fortuna di risiedere a Venezia, sull’isola della Giudecca: un’esperienza unica in una città unica per la sua identità, per la sua storia e per le occasioni che offre, dalle manifestazioni internazionali come la Biennale alle mostre e ai suoi musei e spazi culturali. Formidabili quegli anni! Ma già in quegli anni, grazie al servizio di mobilità Internazionale e alle borse di studio concesse dall’università, ho avuto l’opportunità di svolgere alcune esperienze all’estero. Fondamentale è stato

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07-08. Golden City Block 7, San Pietroburgo (Russia). Progetto: Orange architects (2017). Alzato e render complessivo.

09-11. Recupero della Piramide di Tirana (Albania). Progetto: MVRVD (2018). Assonometria dell’ingresso, veduta esterna e pianta esplosa del piano terreno.

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l’Erasmus a Praga, nella Repubblica Ceca, nel 2015, prolungato poi con un tirocinio presso uno studio di architettura molto giovane e di piccola dimensione ma con una visione internazionale, lo studio Edit Architects, all’interno del quale mi sono occupato principalmente di interior design per la riqualificazione di spazi domestici e commerciali e la progettazione di piccoli edifici residenziali. Tornato in Italia, ho concluso il percorso di studi con la laurea Magistrale in Architettura a marzo 2017, con un progetto di rigenerazione urbana dello scalo ferroviario di Porta Genova a Milano guidato dal professor Martino Doimo e premiato come una delle migliori tesi di laurea magistrale di quell’anno.

Da qui in poi inizia la mia vera e propria esperienza olandese: una settimana dopo la laurea, infatti, ero già a Rotterdam per un’ altra esperienza Erasmus traineeship (tirocinio professionale) presso lo studio Orange Architects. Inizialmente pensavo di rimanere all’estero per sei mesi, la durata fissata del tirocinio, e invece mi ritrovo ancora qui con un lavoro stabile e motivante. Perché l’Olanda? Sono sempre stato ispirato dall’architettura olandese contemporanea, ed esperienze come l’esposizione “Elements of Architecture” alla Biennale del 2014, curata da Rem Koolhaas, o libri come Delirious New York dello stesso Koolhaas o FARMAX. Excursions on Density curato da Wini Maas e dai soci di mvrvd mi hanno decisamente ispirato. Già il progetto di tesi su Milano mi aveva messo a confronto con una dimensione metropolitana, lasciandomi alle spalle l’affascinate ma conservativa Venezia. Il passaggio alla dinamica e contemporanea Rotterdam è stato il passo successivo. Rotterdam è una città in continua trasformazione, che potemmo definire un parco-giochi per architetti. L’impeccabile pianificazione urbana olandese è figlia di una radicata tradizione di governo del territorio, e come è noto la bicicletta è il mezzo di trasporto tradizionale e “dolce” per gli spostamenti quotidiani. L’Olanda al momento sta vivendo un periodo di grande sviluppo dal punto di vista urbanistico ed architettonico, con l’obiettivo di realizzare un milione di nuove case entro il

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12-14. Downtown I, Tirana (Albania). Progetto: MVRVD (2018). Render in quota e veduta generale, schema di facciata, piante ai diversi livelli.

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2030, per far fronte al grossissimo problema dell’attuale carenza di case e dei prezzi del mercato immobiliare cresciuti esponenzialmente. Ritornando alle mie esperienze professionali, l’inizio della collaborazione con Orange Architect mi ha messo a confronto con uno studio al tempo di piccole dimensioni ma con grandi ambizioni, tenuto conto che almeno nelle grandi città olandesi lo studio medio non ha meno di dieciventi componenti. Uno dei primi lavori che ho seguito è stato il progetto di concorso per un edificio residenziale con un mix di funzioni sociali e commerciali da realizzare a IJburg, un’isola

« L’entusiasmo che mi aveva fatto arrivare a Rotterdam esiste ancora ed è maturato in nuove responsabilità progetto dopo progetto » artificiale ad Amsterdam. Il progetto si chiama “Jonas” – per la presenza di un grande guscio interno in legno, come il ventre della balena nel quale finì Giona – ed è risultato vincitore anche contro concorrenti molto più grandi di noi, come appunto mvrvd. Questo risultato ha portato a una grande espansione dell’ufficio e a nuovi lavori; personalmente mi sono concentrato sullo sviluppo di questo progetto nella fase preliminare, assieme ad altri progetti in Olanda. In parallelo, ho potuto lavorare anche allo sviluppo di un progetto internazionale di grande respiro, chiamato “Golden

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City Block 7” a San Pietroburgo. Molti dei progetti sui quali ho lavorato presso Orange sono attualmente in fase di costruzione. Successivamente, curioso di poter fare un’esperienza con uno degli studi che più mi aveva ispirato, ho avuto l’opportunità di lavorare da mvrvd. Lo studio ha un ambito globale e fornisce soluzioni a problemi architettonici e urbani contemporanei in moltissime aree del mondo. Il team di progettazione è altamente collaborativo e basato sulla ricerca. In ogni progetto si coinvolgono non solo i clienti, ma anche le parti interessate ed esperti di una vasta gamma di campi sin dalle prime fasi del processo creativo. I risultati sono progetti spesso esemplari, e nel bene o nel male hanno creato delle icone. Inizialmente da mvrvd ho lavorato su un progetto di riqualificazione del monumento nazionale di Tirana, un edificio a forma piramidale costruito trent’anni fa per il dittatore del tempo; in questo caso, è stata utile per me l’esperienza sul rapporto tra antico e nuovo, l’ambito all’interno del quale avevo maturato la mia esperienza di laurea magistrale a Venezia. Un altro progetto che ho seguito è quello di una torre ad uso misto residenziale e per uffici, Downtown one, sempre a Tirana. Entrambi i progetti albanesi sono in via di realizzazione. In seguito mi sono focalizzato su progetti in Germania, come lo sviluppo nelle

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15-18. La O-il punto più alto, Quartiere Franklin-Mitte, Mannheim (Germania). Progetto: MVRVD (20192020). Assonometria e render notturno, dettagli di facciata, sezione trasversale su vuoto della “O”.

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fasi di progettazione preliminare, definitiva ed esecutiva di una torre residenziale alta 50 metri a Mannheim, in Germania. In questo caso, si tratta di un edificio totalmente nuovo, che fa parte di un progetto di riqualificazione urbana di una vasta area periferica, ed è riconoscibile per il grande “buco”, una forma iconica del lavoro di mvrvd. In queste occasioni ho lavorato molto spesso con Winy Maas, uno dei tre fondatori dello studio oltre che direttore della rivista «Domus» nel 2019. Winy mi ha ispirato molto sia come architetto

ma soprattutto come persona: nonostante lo status di archistar che gli si attribuisce, è una persona semplice che ama il suo lavoro, capace di trasmettere i suoi ideali e la sua passione al team che lavora con lui. Dopo questa positiva esperienza internazionale, sono ritornato in uno studio di media grandezza, RoosRos Architecten, più focalizzato sul mercato olandese. Qui mi sto ritagliando ruoli e responsabilità sempre maggiori; per questo sto anche cogliendo l’occasione di studiare la lingua olandese, ahimè non semplice da imparare. Attualmente sto lavorando sul progetto di un campus studentesco ad Amstelveen, vicino Amsterdam, per 3.200 unità abitative e 100.000 metri quadri di superficie, suddiviso in sette nuovi edifici con un mix addizionale di funzioni sociali e commerciali. Sto seguendo lo sviluppo di questo progetto complesso con un team di persone e collaboratori: apprezzo molto la fiducia che mi è stata concessa e l’apertura mentale a lavorare con persone che hanno un bagaglio culturale diverso, come il mio.

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Nella cultura olandese, il mix culturale è radicato nella società, soprattutto per il fatto che Rotterdam è una città porto famosa in tutto il mondo. Per questo motivo, la maggior parte della popolazione parla inglese fluentemente. La cultura del tempo libero è un altro fattore positivo della società olandese, che si riflette anche nelle condizioni lavorative. Dopo il periodo iniziale di transizione e adattamento, ora dopo quasi cinque anni continuo a vivere e a fare l’architetto in Olanda. L’entusiasmo che mi aveva fatto arrivare a Rotterdam esiste ancora, ed è maturato in nuove responsabilità progetto dopo progetto. A volte uso questo entusiasmo per partecipare ad alcuni concorsi di architettura, come il recente Europan 16 con un progetto urbano per il sito austriaco di Klagenfurt. Tra le ragioni per rimanere, oltre al lavoro motivante e appagante, si aggiungono le motivazioni personali: qui ho incontrato la mia compagna Clementien, belga, e i piani per il futuro sono ancora da scrivere; l’ipotesi di una carriera professionale in Italia resta per ora lontana. Intanto, finché sarò impegnato su nuove sfide e su progetti stimolanti, non mi annoierò, continuando a lavorare per una società sostenibile e un un’architettura cooperativa, basata sui dati, ecologica, stimolante e carismatica, per creare una vita intelligente e piacevole.

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19-21. LeBeN, biblioteca a GrabenNeudorf (Germania). Progetto: MVRVD (2020). Assonometria esplosa a quota zero, render e schema strutturale della copertura in legno. 22-23. Europan 19, insediamento urbano a Klagenfurt (Austria). Progetto: Manuel Magnaguagno, Marco Stecca, Ferdinando D’Alessio (2021-2022). Render e planimetria generale.

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PORTFOLIO: EDILIZIA PRIVATA (DI OGNI DIGNITÀ)

Per formazione e prassi operativa, gli architetti sono abituati a pensare che forma è sostanza, e che l’immagine esteriore di un edificio ne debba rappresentare i significati più profondi. Ciò vale nei casi migliori ma anche, purtroppo, in un’accezione negativa. Cosa esprime di se, con la lingua dell’architettura, l’edificio ove hanno sede gli uffici dell’Edilizia Privata del Comune di Verona, ben nota ai colleghi ma non solo, visto il suo rilevante ruolo urbano sul fronte di Lungadige Capuleti? Non c’è bisogno di infierire con i termini, perché ciò che si presenta da tempo sotto gli occhi di tutti è a dir poco imbarazzante: una vecchia scuola oggi diventata un rottame murario rabberciato, che accoglie tra abbandono e decadimento, miseria e noncuranza, chi si appresta a disegnare la città del presente e del futuro. Uno stato di bruttezza che, del resto, corrisponde perfettamente a suo assetto interno da un punto di vista organizzativo e gestionale. Provare per credere: un vero incubo per ogni professionista che voglia semplicemente svolgere il proprio lavoro. Mentre si deve porre urgentemente mano ai processi e al funzionamento degli uffici, ovvero alla sostanza di una “edilizia privata” rappresentativa di una città che vuole dirsi moderna ed efficiente, non dimentichiamoci della sua espressione formale. E non accontentiamoci di un semplice maquillage: il luogo e l’istituzione richiedono un’architettura civile degna di tale nome.

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La casa che respira Soluzioni in canapa e calce per una muratura isolante e igroregolatrice

LA BACHECA DI AV

01. Eliminazione dei ponti termici dei giunti con la malta di allettamento in calce e canapa. 02. Muratura di tamponamento in canapa e calce applicata con macchina spruzzatrice.

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La crisi ambientale degli ultimi decenni ha influito molto sui requisiti degli involucri edilizi. Le pareti di un edificio non svolgono più soltanto la funzione di proteggere l’ambiente abitato dall’esterno, ma sono dei veri e propri filtri che regolano il passaggio dell’aria, del calore e dell’umidità. L’edilizia più diffusa usa realizzare tamponamenti di pareti perimetrali a cui aggiungere uno strato isolante, meglio conosciuto come “cappotto termico”. Il cappotto assolve le funzioni di isolamento indispensabili ad abbassare il fabbisogno energetico degli edifici. Tuttavia, la scelta di materiali sintetici e la separazione tra lo strato di chiusura e lo strato di isolamento porta con sé diverse problematiche come, ad esempio, la formazione di condense interstiziali, che si è costretti a risolvere con l’impiego di barriere al vapore che limitano la traspirabilità del muro. Possiamo pensare a un modo semplice che assolva a tutte le funzioni che attribuiamo ad una parete perimetrale di un edificio, ma che allo stesso tempo riduca l’impiego degli impianti tecnologici e non subisca le oscillazioni del mercato dei materiali sintetici e minerali? Gli involucri in canapa e calce offrono, in una soluzione unica, un’alternativa al binomio tamponamento-cappotto. Il

biocomposito di cui sono fatti contiene unicamente calce aerea cotta a basse temperature, canapulo, la parte legnosa dello stelo di canapa industriale, microrganismi probiotici e acqua. La consistenza massiva della calce, unita alle proprietà isolanti del canapulo, ci restituisce un prodotto resistente ma leggero, in grado di mantenere la casa fresca d’estate e calda d’inverno. Alcuni vantaggi della muratura in calce e canapa sono: la semplificazione del pacchetto murario, la riduzione degli strati e quindi delle fasi di posa, con conseguente velocizzazione e ottimizzazione delle operazioni di cantiere. Il materiale è totalmente riciclabile e riutilizzabile in altre forme, ad esempio lo sfrido della lavorazione può essere impiegato come isolante sfuso nelle intercapedini o nei sottofondi. Il degrado portato dalla presenza di acqua negli elementi costruttivi è tra i più diffusi e i materiale che siamo abituati a utilizzare per l’efficientamento energetico degli edifici mal sopportano la presenza di umidità, durando poco nel tempo e portando nuovi problemi di muffe e condense. Il canapulo associato alla calce subisce un processo di mineralizzazione perché sottoposto anch’esso al ciclo di carbonatazione e 02

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05. Palazzina di dieci appartamenti a Grezzana (VR) con invulcro in canapa e calce. 06. Struttura ricettiva a Lazise (VR) con involucro in canapa e calce. 07. Possibilità di sagomare il blocco in opera facilmente.

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03. Perfetto adattamento del blocco di canapa e calce a tutti i tipi di strutture portanti. 04. Rapidità nella realizzazione delle tracce impiantistiche su blocco in canapa e calce.

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indurimento, al termine del quale diventa immarcescibile, proprio come un minerale, garantendo piena traspirabilità del muro. Oltre ai mattoni, il biocomposito di canapa e calce si declina in diverse soluzioni per realizzare contropareti, divisori, intonaci, coperture isolate e sottofondi, e rispondere alle innumerevoli esigenze della costruzione ex-novo e di conservazione, restauro ed efficientamento del costruito esistente.

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Dal 1890 solidità, utilità, bellezza

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Da oltre un secolo sul territorio scaligero, allergici al “non si può fare”, Berti articola la sua massima espressione nella produzione di serramenti in alluminio, portoni sezionali e basculanti su misura. I nostri portoni sezionali, oltre a poter fare affidamento su una struttura d’acciaio interamente sartoriale, vengono equipaggiati con il nostro motore brevettato e realizzato con componenti in acciaio torniti e temprati ad hoc: nessun motore a traino, il nostro agisce in totale autonomia all’interno del traverso che solleva i pannelli per mezzo di due catene in acciaio incanalate nei montanti. I vantaggi della nostra meccanica sono molteplici. Antintrusione: tali catene rendono ostico il tentativo d’efrazione dall’esterno per sollevamento. Minor ingombro: poiché essendo il motore collocato all’interno del traverso, abbisogna di solo 19cm di altezza. Non meno importante il fattore estetico: grazie infatti ad una protezione il motore viene nascosto per rendere il nostro portone sezionale una vera e propria opera di pregio e, infine, un impianto elettrico precalblato all’interno del portone. Non solo quindi innovazione tecnologica, ma anche uso sapiente dei materiali, studiati negli anni per garantire sicurezza e durabilità.

BERTI SNC DI BERTI STEFANO VIA I MAGGIO 34 37012 BUSSOLENGO (VR) TEL +39 045 7150689 TEL +39 328 986 9051 WWW.BERTIVERONA.IT INFO@BERTIVERONA.IT

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