In ricordo di Angelo Agostini

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architettura dell’informazione

Sistema sociale e sistema mediatico nell’età digitale di Angelo Agostini

che nessuno (o quasi) ci pensa. Non ci si pensa, non ci pensiamo, prima di tutto perché non siamo stati educati a farlo. Poi perché non ci è mai stato richiesto. E quando, in rarissimi casi, a qualcuno è stato chiesto, l’accettazione è venuta per innata e visionaria passione, oppure in cambio di denaro sonante. In entrambi i casi le reazioni degli altri, dei «giornalisti», quelli «veri», è rimasta tra l’incomprensione e il disprezzo: «ma quelli che cosa fanno, i grafici?», «ma che c’entra tutto questo col giornalismo? Il giornalismo è portare a casa notizie, possibilmente esclusive». Ho iniziato a praticare redazioni più di trent’anni fa, nel 1981. Era l’anno in cui, a maggio, la Federazione della stampa e quella degli editori siglavano un accordo extra contrattuale per l’introduzione delle (allora) nuove tecnologie. Tradotto in italiano: con un paio di decenni di ritardo, anche sui tavoli dei giornali italiani arrivavano finalmente i terminali, collegati al server centrale

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3 Problemi dell’informazione / a. XXXVIII, n. 1, aprile 2013

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del sistema editoriale digitale. Mitici i racconti dei «resistenti», da Giorgio Bocca a Indro Montanelli, fino a Gianni Mura, che s’opposero all’innovazione continuando a sbatacchiare i tasti delle loro macchine per scrivere. Con loro tanti altri, ma era pura mitologia professionale, consolatoria e un po’ funerea, che copriva una realtà totalmente diversa. La realtà, nuda e cruda, è che nonostante il successo di progetti grafici formidabili come quelli di Piergiorgio Maoloni, Giuseppe Trevisani e Sergio Ruffolo, ai giornalisti continuava a non importare nulla della confezione, della composizione e della grafica dei loro giornali. Eccezioni, come sempre, si sono registrate anche in questo caso: come la visione del tabloid maggiorato e delle pagine tematiche che «la Repubblica» di Scalfari finirà per imporre a tutti i concorrenti (e ci vorrà, però, più d’un decennio). Eppure allora, poco più d’un trentennio fa, i confini erano confini seri: i grafici da una parte, i giornalisti dall’altra. Era vietata qualunque «impropria redistribuzione di mansioni». È da tenere bene a mente questo passaggio, per almeno due buoni motivi. Il primo è che quel processo d’innovazione fu drogato; s’avviò in ritardo drammatico; venne irrigidito – in misura oggi totalmente incomprensibile, fin quasi al ridicolo – da chiusure corporative e ideologiche. Chiusure che potevano forse essere comprensibili per i poligrafici, che videro decimato il loro corpo professionale in pochi anni. Ma non avevano alcuna ragione d’esistere tra i giornalisti, che non solo aumentarono vertiginosamente il numero degli occupati, ma si trovarono soprattutto in mano strumenti d’una duttilità fino allora impensabile. Duttilità che avrebbe potuto essere usata contro l’esplosione del consumo televisivo del sistema misto allora nascente, mentre per insipienza e pregiudizio venne invece incredibilmente lasciata a marcire in un angolo. Aggiungiamo infine che il processo fu realmente drogato, perché venne finanziato con denaro pubblico: i fondi per l’editoria della legge 416 del 1981. Quei fondi conobbero diverse storture, a partire dall’uso per scopi non previsti dalla legge (come l’attivismo finanziario di molti gruppi editoriali). Quei fondi certamente contribuirono in misura determinante al risanamento dei bilanci delle aziende editoriali, creando così una vera e pro-

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pria industria, là dove s’era visto fino a quel momento quasi soltanto una proliferazione di iniziative artigianali. Ma quei fondi misero sullo stesso piano giornali, periodici e aziende tra loro diversissimi. Detto sbrigativamente, quei fondi arrivarono a testate decotte, come a giornali sulla strada di grandi successi editoriali; arrivarono a manager ed editori cialtroni e incompetenti (talvolta anche criminali), come ad aziende solide, gestite con competenza e lungimiranza. Di tutta l’erba quella legge fece un fascio, senza potere distinguere le aziende sane e competitive da quelle che stavano in piedi solo perché, come diceva Missiroli qualche anno prima, erano «le voci passive di bilanci ben altrimenti attivi». In buona sostanza, il primo incontro tra i giornalisti italiani e l’innovazione digitale riuscì paradossalmente a confermare, se non a irrobustire, un carattere storico del giornalismo nazionale e della sua cultura professionale: la netta esclusione (spesso autoesclusione) del giornalista dalla dimensione d’impresa («io faccio il giornalista, tu l’editore. Dunque a te conti e bilanci, a me le notizie e l’autonomia professionale»); e di conseguenza, salvo le solite eccezioni, venne addirittura consolidandosi la sostanziale incapacità dei giornalisti di pensare il giornale come un «prodotto». Dove prodotto non vuol dire soltanto qualcosa che deve essere venduto, imponendo a chi lo realizza una conoscenza approfondita e consapevole del proprio pubblico e dei nuovi segmenti potenzialmente acquisibili; ma significa anche competenza e consapevolezza dell’importanza decisiva di conoscere (per governare o per cambiare) l’organizzazione del lavoro, dei flussi produttivi, la corrispondenza della struttura delle redazioni ai mutamenti della società che un giornale dovrebbe raccontare quotidianamente. E a tutto questo, come ho accennato sopra, dobbiamo affiancare la contemporanea affermazione del sistema televisivo misto, che arriva a irrompere anche nel campo dell’informazione quotidiana, quando riesce a trasformare l’obbligo imposto dalla legge Mammì del 1990 in una straordinaria opportunità, che cambierà per sempre il sistema dei media in Italia. Non stupisce dunque, più che tanto, il modo in cui, in un contesto completamente differente, i giornalisti italiani accolsero lo sviluppo, prima timido, poi voracemente impetuoso della rete.

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L’ultimo decennio del ’900 vede prima deboli tentativi visionari, improntati alla passione e alla sperimentazione, forse velleitaria («l’Unità», «il manifesto», «L’Unione sarda», in parte «La Stampa»). Poi, con l’imprevisto successo di «Elezioni 96» il sito di «Repubblica» per le politiche di quell’anno, dal quale nascerà a gennaio del ’97 «Repubblica.it», i grandi gruppi contribuiscono a gonfiare la bolla, come dimostrano le acquisizioni di società operanti in qualsiasi campo purché fossero digitali e dessero benzina alla corsa in Borsa dei titoli della capogruppo editoriale o delle sue controllate digitali. La bolla dura poco e scoppia fragorosamente, lasciando sul campo morti e feriti. Ottimo argomento per gli scettici, gli apocalittici e i conservatori, inorriditi dalla valanga che stava per travolgere gli assetti tradizionali della professione. Ottimo argomento anche perché lungo quel decennio due sono state le figure dominanti: il giornalista (un po’ troppo profeta) invaghito del nuovo che avanza, quali che fossero la praticabilità e gli spazi di mercato; e il manager vorace il cui unico obiettivo era mettere il segno più, magari a due cifre, nelle trimestrali da presentare agli azionisti e al mercato finanziario. Un ottimo argomento di certo, peccato che abbia impedito al giornalismo e all’editoria di comprendere due fatti essenziali. In primo luogo che la bolla, nel frattempo sgonfiata, potesse lasciare in breve nuovi e giganteschi spazi di crescita alla rete. E poi che quanto è venuto sviluppandosi nel primo decennio del nuovo secolo è stato un processo che ha riguardato soltanto tangenzialmente i modelli di redditività delle imprese editoriali, ma ha investito in pieno i modi, i bisogni e la presenza del «pubblico» in rete. Ed è davvero difficile accettare questa definizione, «pubblico», inevitabilmente riduttiva per dire di tutto quello che abbiamo visto negli ultimi anni. Usiamo quindi un altro termine, proposto spesso anche su queste pagine da Luca De Biase. Quel che è cambiato radicalmente è ciò che noi oggi chiamiamo «ecosistema dell’informazione». Difficile dare una definizione esaustiva del nuovo ecosistema dell’informazione, ma volendo coglierne almeno l’aspetto più specifico potremmo individuarlo nella qualità delle relazioni che si stabiliscono in rete tra il produttore e il consumatore d’informa-

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zione, a partire dal fatto che lo stesso consumatore può diventare produttore o può essere, comunque, agente determinante nella valorizzazione dei contenuti, adottandoli e mettendoli in circolo sui suoi canali sociali. Ferme restando tutte le funzioni tradizionali del giornalismo, dal racconto al disvelamento, dal controllo dei poteri alla capacità di farsi interprete della realtà, fino all’intrattenimento e al servizio; fermo restando tutto ciò, è chiaro che la vita e l’eventuale successo dei contenuti nel nuovo ecosistema dell’informazione sono determinati dalla capacità dei contenuti stessi e di chi li produce nell’attivare, nutrire e fare crescere relazioni sociali. Relazioni tra il giornalista e i suoi interlocutori, relazioni tra gli interlocutori, in breve: tutte le relazioni sociali che la rete può animare o fare vivere. Dai «bimbiminkia» alle campagne elettorali, dalle comunità territoriali alle grandi dimensioni internazionali, come nei casi di WikiLeaks o Ushahidi. Un ecosistema, come sottolinea De Biase, non è per sua natura buono e migliorativo di quelli precedenti. Come in natura, un ecosistema può migliorare o peggiorare l’ambiente nel quale si stabilisce, perché un ecosistema dell’informazione è definito proprio dalla qualità delle relazioni sociali che lo alimentano. Verrebbe voglia d’iniziare finalmente a parlare di «ecologia dell’informazione» (desiderio che io coltivo, un po’ di nascosto, da qualche anno). Però è possibile anche iniziare a tratteggiare il campo sul quale esercitare analisi e riflessioni, partendo dal terreno che meglio di altri affronta gli snodi di fondo: è il tema (o la disciplina) dell’architettura dell’informazione. Non mi sogno neppure di dare una definizione di che cosa sia l’architettura dell’informazione e non solo perché Federico Badaloni, con gli altri autori presenti in questo fascicolo, lo fanno naturalmente molto meglio di quanto sia possibile a me. La ragione più profonda è che, dal mio punto di vista di giornalista e studioso dei media e dei loro effetti sociali, l’architettura dell’informazione ha un grande vantaggio rispetto alla «media ecology» o altre impostazioni post McLuhan, ben note negli Stati Uniti. Nell’architettura dell’informazione, così come ho imparato a conoscerla dagli autori italiani, convivono infatti tanto la capacità di studiare il singolo oggetto (la grafica di una pagina, l’usabilità

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di un sito, l’efficacia della comunicazione nei messaggi ai passeggeri d’un treno o ai frequentatori di una stazione), quanto l’attenzione a inserire quella singola pratica o strumento d’informazione dentro l’ambiente mediatico nel quale viviamo. Che cosa sia quell’ambiente non ho qui lo spazio per argomentare a sufficienza. Diciamo che può andare dall’efficacia di una diagnosi o d’un referto medico destinato a un paziente che ha imparato (o crede d’avere imparato) tutto sulla sua malattia in rete, fino al modo in cui il flusso dei contenuti, delle reazioni che generano e della loro vitalità o mortalità nei passaggi tra carta, tv, radio e web deve determinare le scelte di selezione, trattamento e confezione dei contenuti stessi in una redazione cross mediale. Per allargare ulteriormente il campo potremmo aggiungere anche l’innovazione nelle relazioni e negli stili cognitivi di studenti che vivono ormai la scissione tra l’insegnamento tradizionale e le loro abitudini digitali. Ma possiamo anche fermarci qui: l’architettura dell’informazione è un approccio significativo e denso di stimoli per lo studio dei rapporti tra sistema sociale e sistema mediatico nell’età digitale. L’architettura dell’informazione è uno strumento imprescindibile per comprendere come vive e come evolve l’ecosistema dell’informazione.

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