Archibugio XXIII

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L’Archibugio Piccolo almanacco letterario in fogli sparsi

I poeti estinti o

Sòura Casteldélc u i è una cisa sénza suffétt e i méur datònda i tén razèda un zris ch’l’è criséu sòura e’ sulèr e i rèm i tòcca e’ zil—cioè nel vernacolo romagnolo: Sopra Casteldelci c’è una chiesa senza tetto e i muri tengono tra le braccia un ciliegio cresciuto sul pavimento e coi rami che toccano il cielo.

Frugando fra i poeti che di questi tempi ci mancano ho aperto un brano dal Libro delle chiese abbandonate di Tonino Guerra, pensando a quante chiese e case son crollate nella pianura del Po, e tetti e campanili spariti nella polvere, assenti: a quanto pur vivo è ciò che all’apparenza è rudere, abbandonato ceppo su cui han germogliato l’uomo i riti gli dèi e il Dio. Quali solitari entomologi, appassionati botanici con una lente in mano, in cui la luce distorce il vero e l’immaginario e il presunto, l’oggetto nella fluidità delle parole, lingua vivente, lingua di poesia. Così, tra questa bella d’erbe famiglia accade (e come dice Whistler l’arte accade) nella prosa lirica di Tonino, che il nuovo si inerpichi sul vecchio, tra il sonno i nuovi virgulti rifacciano un volto diverso al Tempo, impreciso becchino, ospite inquieto della nostra contemplazione. Quanto è viva la poesia, sasso che ruzzola ai piedi di qualcuno, parola che si insinua nella scarpa e infastidisce sinché detta a voce, seme che cresce fra sterpi e mattoni.

Proseguiva così quella poesia di prosa, dedicata a Tarkovskij: Se qualcuno s’affaccia tra quei muri col desiderio di chiedere una grazia e c’è una foglia che cade proprio in quel momento, è segno che dall’alto avrà una risposta buona...

Lo spirito soffia fra le rovine le parole giuste, le parole dei poeti, estinti per elezione, affacciatisi come per caso su d’un abisso, su d’un’ortaglia, delle foglie o un’orma che permane, misteriosa.

P.V.

- XXIII Giugno 2012

Sommario 1. Exordium 2. Poesia 4. Taccuino: Viaggio al termine della letteratura. Mantova 4. Narrativa: Il cimitero di Soviezzo 8. Cronache: Tranströmer, chi è costui?

9. Cronache: Terra di neve, terra di poesia 9. Saggistica: Pindaro 14. Versioni: Tre haiku di Bashō 16. Bibliotheca: A.M.Ortese Da Moby Dick all’Orsa Bianca C.Bukowski Post Office 18. Lyra:J.Desprez 19. Il ventre della libreria 20. Versi al vento: Andrea Zanzotto

POESIA Lingue battono la corsa Passeggiare a pelo d’acqua di un cavallo nel tempo e sentirsi i piedi riuniti al semplice di un pomeriggio bianco moto ondoso che in un solo mare chiude gambe si intersecano me il sale la sabbia i buchi le lattine come colli di cigni qua e là vigili occhi del moderno. emergono dal lago intermittenti sospiri dei fiori nel buio.

Le tracce presto informi sulla battigia eterna E tu pluviale corpo blu nulla su nulla, onda a onda segue disponi dellʼinterezza del cielo sciacquando cinque dita e la pianta scalena stendi pelle e perle cenno di direzione nuda presenza, su di me suoni di un’assenza. come una pioggia lieve ore 15:58 Effimero presagio del cammino caffè dellʼospite l’arsa acredine, il colore oscuro ospita la mia carta sudata sedimentato, e le mie piccole dita biodegradabile deformi militi sul piede sinistro e io nel mio corpo fermano tese la tavola compatta biodegradabile della rena, artiglio, solco e segno: mi riimmetto in strada trattengono il dolore e il conto spinta da mani invisibili del caos delle stelle dei passi stati. Dei passi andati. e sento questo sapore passando la lingua ai bordi della bocca Paolo Veronese ciò mi porta a tu che conosco poco, che conosco tanto. presagio di anarchie che si abbracciano in unʼarchitettura di spettacolare equilibrio instabile? le mie cellule già protese.

Il libro giallo

Non ci sono poesie stasera sono tutte stanche fanno come le foglie a settembre cadono una alla volta

Maria Zanolli & Laura Veronesi da Dopo le parole, Campanotto 2011 www.dopoleparole.it 2

La Moglie Inglese – The English Wife (A bilingual poem to be read in various directions) Per un’anno mi piaceva parlare solo italiano, anche un poco sgrammatico; imparare a cucinare proprio come sua madre – diventare un’altra persona.

Poi il giorno è arrivato che mi sentivo come una pazza, seduta su una panca con questa voce ormai entrata nella mia testa – una voce che parlava sempre italiano anche nei sogni.

Non riuscivo più a pensare nella mia madrelingua e non sopportavo più la voce strangolata dei turisti inglesi; fino al giorno che un londinese è passato e le sue parole mi invaghivano come musica: l’accento di Londra mi circondava come un braccio alle spalle che pesava che stringeva forte.

For a year I enjoyed only speaking Italian, even with bad grammar; learning to cook just like his mother – becoming somebody else.

Then the day arrived when I felt like a madwoman, sitting on a bench with a voice that by then was right inside my head – a voice that always spoke Italian even in dreams.

I could no longer think in my mother tongue and could no longer stand the strangled voice  of English tourists; until the day a Londoner passed by and his words roused me like music: the London accent surrounded me like an arm on the shoulders that weighed heavily that squeezed tight.

Adele Ward da Never-Never Land, Ward Wood Publishing 2011

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TACCUINO Viaggio al termine della letteratura. Mantova di Paolo Veronese «Cave ab homine unius libri» ammoniva l’Aquinate, in tempi felici dove si sarebbe forse potuto leggere e percorrere tutto lo scibile umano. è bene evitare l’uomo di un solo libro, che lesse e conosce un solo libro è da evitare: sia perché egli non saprà che di quel libro, sia perché di quell’unico saprà ogni minutissima virgola a memoria. A ben vedere anche l’estremo opposto potrebbe essere dannoso, vuoi perché la compresenza e sovrapposizione di troppe e varie letture cagiona dispersione e confusione, vuoi perché leggere tutto e il contrario di tutto annulla matematicamente ogni certezza, e checché i nichilisti à la mode imperversino, uno deve fare i conti con la coscienza a partita doppia, e il nulla come dicono ad Elea e dintorni non ha senso alcuno. O se fossero tutti uomini unius libri, e tutti altrettanti pericolosi, chi ci salverebbe? Fortuna che la rassegna si svolge nella Mantova di Virgilio, e un buon duca che possa trarci in salvo dall’inferno in cui stiamo precipitando forse lo troveremo. È la terza volta che visito il Festivaletteratura -ma chi ha inventato questo nome-, da un trafiletto apprendo che nel 1997 prese a modello una simile iniziativa che avviene in un paesino della campagna gallese, Hay-on-Wye, una città-del-libro che a vederla in alcune foto in rete pare assai graziosa.

Ecco, qui da anni autori giornalisti filosofi attori rivenduglioli di libri si ritrovano ormai con liturgica cadenza, con devota intesa. Per difendere e divulgare la letteratura in tempi che certo non sono provvidi di benemerenze, né di mercato. Se poi si comincia a parlare di crisi a ogni giro di paragrafo e ogni battuta e intervento le cose paiono peggiorare, precipitare, preoccupare. Qui cultura e culto sembrano ritrovare unione nel proprio etimo.

Domenica. Ultimo giorno della fiera, ci sarà un’infinità di gente, caos e tende ribollenti calore e ascoltatori; inoltre sole di settembre ancora in fuoco, e poi zanzare e moscerini, tafani e chi sa cosa, tutti all’appello per un grasso consorzio umano all’interno della graziosa città padana.

Vesto monocromo da esistenzialista metà Novecento, raccolgo un po’ di cose, le chiavi e vado, con un velo di barba e un ventaglio di ipotesi, chiuse nella guida minima all’evento.

Un po’ di coraggio e di sbadigli allo specchio, so già che tornerà con la nausea tipica dell’indigestione culturale, va be’ calzo il capello e via al termine del giorno, della notte e della letteratura. Chissà mai che riesca a prendere messa o almeno metà in un ritaglio di tempo. Ci sono ancora chiese, grazie a Dio. Scelgo un centro operativo in un caffè, tavolini in buona posizione, si vedono due piazze comunicanti. Quante giovani donne, che abitini leggiadri e leggeri…

Sono in ritardo per Finkielkraut, mi fermo un attimo nel tendone dove il poeta Zeichen parla di Anita. Sosto quel poco che ormai so resitere dopo un anno di altari patrii imbiancati dai CL anni famosi e onnipresenti.

C’è da stare in piedi in molti padiglioni. Trovo una sedia e resto ad ascoltare la lettura di un cazzus 4

romanzo di X, mentre a pochi metri un saggio di Y invade l’intreccio amoroso. Mi allontano e godo del fenomeno acustico. A mano a mano che ci si sposti sulla piazza s’odono in percentuali variabili gli altoparlanti di tre contemporanei dicitori. Passeggio un po’ a destra e manca a cercare il baricentro: oh ecco, qui le onde sonore si incontrano e scontrano perfette, le parole perdono senso e schiudono una nuova meraviglia. Non son più le solite cose, le ovvie cose che si sentono sempre.

Lo scorso anno a dire il vero a turbare l’atmosfera e renderla più elettrica ci fu l’autore angloindiano Naipaul, premio Nobel senza macchia né patente di corrette virtù politicanti, impegnate sociali o terzomondiste a scorta; uno che insomma fa il mestiere dello scrittore.

Sentitosi offeso per le osservazioni dell’intervistatrice in merito proprie posizioni sull’islam, lasciò il palco con tanto di carrozzella e moglie, il pubblico sbalordito. Un atto d’orgoglio, d’autarchica consapevolezza del proprio valore, che mi ispirarono immediata simpatia per lui, tanto per cambiare c’è qualcuno che s’incazza, e se lo può permettere. Andai ad acquistare La maschera dell’Africa il giorno dopo.

Scorrendo la lista di quest’anno temo improbabile ripetersi tanto. A ramingo tra gli stand troveremo l’ennesimo poeta bulgaro o il solito F. che inflaziona le vendite.

Per una volta vorrei vedere un autore insolito, di quei piantagrane come Sgarbi o Parente o Buttafuoco o Camillo Langone, qualcuno insomma fuori dal coro pacificato della Repubblica Democratica delle lettere. Niente nenie sul paese che non va etc. su governo etc. od odifreddure etc.: ognuno al riparo del proprio tendone, ognuno col suo educato uditorio e il suo libro, tutto cortesia e fair play, al massimo allignando invidia per l’erba più verde dell’autore vicino; che scaricherà a mezzo stampa l’indomani. Ma vero agone, come si dovrebbe avere in un campo dove la battaglia dovrebbe essere feconda e buona: ben lo sapeva Montale, che lasciò questo mondo trent’anni or sono e qui non gliene cale a nessuno. Ci dimostrino i pennivendoli che con le mani si può reggere penna e fioretto e con pari padronanza (a dire di Piperno, oramai la penna è un ricordo più che altro ornamentale); si erga un ring e si facciano pugilatori da questi pingui mangiapane, si voglia un tenzone e botte da orbi. Divagazioni fra sonno arretrato e un po’ di noia.

Ora è sera, e su Mantova una brezza leggera sembra sparga in giro voci e odori di libri, polveri di strada. Il caffè ha macchiato questo taccuino che -assicura l’etichetta- usavano anche Chatwin e Hemingway. Lungo un sospiro mi sfugge, mentre penso a Fiesta, alla sua brutale bellezza in carne di lettera.

Caffè, acqua tonica, conto. Si allungano le ombre, tagliano in obliquo la piazza, colpetti di tacchi frettolosi mi tengono vigile. Bella piazza, ma non è facile camminare su questo ciottolato, mi dice mia sorella. Ora se ne va Sordello col suo canto provenzale, ora le campane mi salutano. Al prossimo anno.

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NARRATIVA Il cimitero di Soviezzo di Enrico Lenaz Io, in quel cimitero, non voglio più mettere piede. Almeno, non il primo di novembre; e neanche il due.

Trascorrevo là, in quel paesino nella provincia di Vicenza, estati calde, afose, a volte annoiandomi, e allora andavo in bicicletta fino a Montecchio per poi scalare la ripida strada che portava ai castelli di Giulietta e Romeo, o alla stazione di Altavilla-Tavernelle, sulla Statale 11 che tutti chiamavano la ‘Provinciàe’, a veder passare i treni; e c’erano le ‘stradèe’, le strade bianche, sostituite ormai da quasi superstrade. E il ‘giro-paese’, un po’ come le ‘vasche’ in uso presso altri centri, ma che qui era un circuito in quanto Sovizzo era costruito intorno al muro di cinta della villa Curti, e questo muro conteneva anche villa Rigoni. Entrambe figuravano nelle poche cartoline che il paesello metteva a disposizione. O altrimenti a pescare, in compagnia di ragazzi che abitavano fuori del paese, nei numerosi canaletti vicino alla loro casa. Parlavano un dialetto considerato rustico, e frequentarli, anzi il conseguente apprendere certi termini e certa pronuncia, mi rendeva oggetto delle canzonature dei miei cugini quando parlavo.

Non c’era neanche un giornalaio: i quotidiani li prendeva il fornaio, la fornaia anzi, la Mi (l)èna. Poi quel forno cambiò gestore, la figlia, Doriana, era proprio carina; e in seguito divenne sezione del PCI, ancora adesso se ne vede l’insegna sbiadita.

Vado al cimitero; vi riposa mia madre, che da Roma è voluta andare a tenere compagnia ai suoi genitori. Sulla lapide non c’è scritto Elisabetta perché tutti la conoscevano come Lisetta, e quindi questo vi si legge. In dialetto, poi, le consonanti sparivano: ‘De chi sito fio’o ti?’, mi domandavano le ‘vèce’. ‘De ‘a Iseta’. ‘Ah, quéa che ‘a sta a Roma?’ ‘Quéa, sì’.

Quanta gente; sembra uno stadio, non il posticino tranquillo, silenzioso, che mi faceva anche un po’ paura perché c’era il corridore ciclista morto a diciannove anni, e un paio di bambini che erano andati in tenerissima età, foto in bianco e nero con loro e la loro espressione malaticcia, vestiti di bianco; e delle tombe sulla nuda terra con delle croci arrugginite e inclinate dagli anni, dove era apposto un nome che si faticava a leggere. E quanti conoscevo, anche se, a leggerne nome e cognome, scoprivo allora, come mi capita di scoprire anche oggi, come questi andassero scritti: Bèsse in realtà era Bezze, ‘a Nineta Sandri si chiamava Marianna, ‘a Efa Genoveffa, Fernando Gaìna di cognome faceva Marchezzolo (ma tanto qui si dice Marchesó’o), la xia Ìia, che mia zia poi non era bensì di mia madre e dei suoi fratelli, si chiamava Luigina.

Anche il cimitero ha pagato l’incremento demografico e ha dovuto dare il proprio tributo al cemento armato: allargato a dismisura, vi hanno costruito i soliti anonimi loculi, tre, quattro, cinque piani. Stanno piazzando altoparlanti per la messa che sentirò da fuori.

E fuori vado. E’ un pomeriggio di sole, tiepido, che il mattino nuvoloso non aveva certo lasciato immaginare; sono le tre e mezza del pomeriggio e l’Astro cala lasciando un lato delle colline all’ombra, e in modo straordinariamente nitido, preciso, rispetto alla parte ancora soleggiata; l’autunno offre tutti i suoi colori. In alto, Sovizzo Colle, che ho sempre e soltanto sentito chiamare Sovisso Alto; dietro, Sant’Urban (o SS.ma Trinità, confondo sempre quei 6

minuscoli borghi). Ma immediatamente davanti a me i lavori dell’ultimo decennio: l’irregimentazione di un fosso, il Mezzaruolo meglio noto come Smerdaró’o, accanto al quale una volta vidi un pezzo di ferro arrugginito, semisepolto, del quale affiorava dal terreno qualche centimetro, tra questo fosso e un campo di sorgo. Tirai e non voleva venir via; alla fine la vinsi io e mi ritrovai in mano una baionetta di chissà quale guerra. Ma il campo di granturco non c’è più: c’è un parcheggio, più il là il campo da calcio, più in là ancora, e già siamo sulla strada per Sovisso Alto, la piscina comunale. A sinistra del parcheggio lo Smerdaró’o è scavalcato da un ameno ponticello: una pista ciclabile che finisce anch’essa sulla strada pa’ ‘nar su a Sovisso Alto.

E il ponticello, e quel che vedo della pista, e il parcheggio oggi pieno di automobili, non possono non ricordarmi di due mesi fa, dell’ultimo fine settimana di agosto, quando, trepidante ma senza darlo a vedere all’interessato, qui scorrazzavamo, lui con la sua biciclettina, io con una rimediata, ché tanto nella casa, un tempo dei nonni, una bici c’è sempre stata. Per due giorni di seguito siamo andati là, e anche ovviamente in piscina; per due volte di seguito è voluto entrare al cimitero a salutare ‘la nonna Lisetta che sta in cielo’. Si piazzava davanti alla tomba, si faceva il segno della Croce alla maniera ortodossa, e recitava testualmente la preghiera che meglio rammenta: ‘Angelo di Dio che sei il mio custode illuminami e custodiscimi reggimi e governa me che ti fui affidato dalla mia Pietà Celeste amen’. E a me spuntavano le lacrime mentre sorridevo.

Ma oggi sto male. Mi vengono pensieri empi, eretici, nel trovarmi di fronte alla morte. Mi viene da chiedermi che senso abbia tutto: ci mettono al mondo, noi facciamo altrettanto. E’ un ciclo, certo. Però immagino il momento nel quale esalerò l’ultimo respiro, e il momento quando toccherà ai figli che ho concepito. Anche a loro toccherà, sì. Messi al mondo per morire. Il prete parla di resurrezione, ma intanto la persona che se n’è andata non c’è più: solo questo ci è dato toccare con mano. Ci incontreremo tutti di là? Chi crede pensa di sì, anzi, ne è certo. E chi non ha il cosiddetto, e certo consolatorio, dono della fede? Ci vede, si vede come polvere che polvere ritorna.

E questi pensieri si mescolano ai ricordi, belli e brutti, di parte della mia vita trascorsa qua, alle estati della mia infanzia e di parte della mia adolescenza trascorse quasi tutte qui, in questo paesello dove adesso c’è anche un rivenditore di pianoforti e supermercati a iosa. E a tutta la mia vita, in fondo.

La messa sembra non voler terminare. Passa mio cugino, giusto una pacca sulle spalle perché non era molto che non ci vedevamo; entra spedito, io lo seguo per qualche passo ma poi ci ripenso e torno fuori. Accendo un’altra sigaretta.

Ma è tutta questa gente, tra la quale molti che riconosco ma che non ho voglia di salutare, almeno qualcuno di essi - non li avevo in simpatia una volta, perché dovrei averli adesso? E’ tutta questa gente che mi dà noia, o che comunque, per quanto inconsapevolmente, contribuisce al mio malumore.

Tornerò al cimitero, ma da solo o con il bambino, per sentirlo recitare di nuovo ‘… illuminami e custodiscimi reggimi e governa me che ti fui affidato dalla mia Pietà Celeste amen’.

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CRONACHE Tranströmer, chi è costui? di Paolo Veronese Oggi è uscito il numero alla lotteria, l’ultimo premio Nobel per la letteratura. Tomas Tranströmer, poeta svedese, psicologo, 80 anni e tanti acciacchi, una moglie amorevole. Giocava in casa, ottavo premiato in madrepatria.

Quasi una nota trascurabile, i telegiornali danno la notizia en passant, incerti su quel nome inatteso. I favoriti Adonis, Joyce Carol Oates, Murakami, un’altra volta. Ritentate, la lista è impolverata di nomi e storici sepolcri: Borges? Ah, parlò una volta di troppo, fu depennato e tacciato a vita. Peccato.

Nemmeno stavolta Bob Dylan, penso. Avrebbe rotto un po’ gli equilibri, avrebbe suggerito un ritmo nuovo al concetto spesso inamidato della poesia, avrebbe rotto: forse c’è troppa bibbia dentro il profeta del Minnesota, troppa tensione religiosa fra le righe, basta ascoltare bene. Le scusanti che i suoi testi sono sì di spessore ma adeguati per la musica, tutte balle da accademia.

Avrebbe forse risollevato il lustro di cui il titolo godeva nel passato? Chissà, ricordo che da ragazzo sentivo ogni poeta di paese parlare con gli occhi che brillavano del Premio Nobel (Nobèl, probabilmente), come se lo sentisse nelle proprie mani, lui, come se la fama e i soldoni avesse già nelle tasche. Un po’ l’effetto del superenalotto: generatore di sogni, di visioni iperboliche e di speranti chimere. Era strano, ridicolo certo, ma anche generosamente umano.

Mi sembra come passato l’incanto, ora, di anno in anno suona in minore, dal famigerato ’97 in cui il declino si marcò di grottesco e buffo. Quando balzò in Parlamento lo sbigottito tormentone «Chi, Fo? Sarà Bo, no è Fo. Boh.». Saramago, Grass, Xinjang, Naipaul, Kertész, Coetzee, Jelinek, Pinter, Pamuk, Lessing, Le Clézio, Müller, Vargas Lllosa. Alti e bassi, come la borsa.

Dopo quindici anni torna un poeta puro, dopo la polacca Szymborska, che seguiva Heaney. Il primo poeta insignito fu il nostrano Carducci, che però finì lì quasi per caso. Mentre la sorte (dea beffarda) pareva toccare a Fogazzaro, approdato a Stoccolma e respinto in ultimo per la sua obbedienza alla Chiesa Romana. I luterani storsero il naso. Ma il rapporto dell’Italia letteraria con l’Accademia svedese fu tribolato, e riuscimmo a piazzare le nostre bandiere per connivenze interne al comitato… Una storia che meriterebbe un capitolo a parte.

Adesso è il momento di Tranströmer, che gli amici han già battezzato transistor, transformer e così via.

Cerco tra le riviste in archivio, ne trovo due che parlano di lui. Una terza, con un profilo più ampio dell’autore, manca; non c’è. La dannazione di una raccolta del genere è proprio questa, avere l’ingombro di materiale cartaceo e la rarissima volta in cui quel nido di tarli tornerebbe utile si scopre che quel tal numero o quel talaltro non c’è. Buco nero, orizzonte degli eventi, maledizione. Be’ sulle altre due c’è qualcosa, delle poesie. (Piccola digressione: essendo all’antica quando mi occorre un’informazione cerco prima di reperirla nei miei scaffali e solo dopo aver escluso le fonti fisiche cedo all’uso enciclopedico moderno, guardo in rete, finister8

rae metafisico. Procedimento il mio più lento e tortuoso, ma pure, un andare per gradi, categorie e gerarchie, ciò su cui s’è formato e strutturato il pensiero da Aristotele in qui. Meglio conservare la vecchia gravosa enciclopedia caso mai che la wiki improvvisamente collassasse).

Fatica inutile, domani su tutti i giornali sarà adeguatamente descritto e magnificato su tutti i quotidiani, questo autore né più Carneade (che tutti sanno chi sia) né più un pesce solitario nella corrente tumultuosa del mondo delle lettere. I distratti editori recupereranno presto ogni opera del Tranströmer, Crocetti e Herrenhaus, i due editori che dispongono degli unici due titoli tradotti provvederanno a una ristampa, applicandovi l’etichetta colorata campeggiante il nome l’inventore della dinamite, assicurando vendite che coprano i costi, se non profitti da quel campo inaridito e infertile che è il mercato di poesia. Già Balzac nel prefare La peau de chagrin, scriveva, nel 1831: «Al giorno d’oggi che cos’è una reputazione letteraria?... un manifesto rosso o azzurro attaccato ad ogni angolo di strada. E poi, quale poema sublime avrà mai la possibilità di raggiungere la popolarità del Rosso-Paraguay e di non so quale Mistura?».

Ma vediamo, al lume di un esempio di fare i conti con la poesia: La primavera giace deserta. / Scuro come il velluto il fossato / si snoda al mio fianco / senza immagini riflesse. // Soli a splendere / sono dei fiori gialli. // Mi porta la mia ombra, / come la sua nera custodia / un violino. // La sola cosa che voglio dire / brilla fuori dalla mia portata / come l’argento / sul banco dei pegni. (traduzione di M.C.Lombardi) Un uso generoso di figure del classico s’accompagna a una asciuttezza e brevità distillata, con dense suggestioni naturali e una frase poetica sorretta da metafore continue –correlativo oggettivo- che si proiettano in un gioco d’ombre al di sopra del reale, sul telo immaginifico di una metafisica che rinasce a ogni giro di verso, accostando e comprendendo termini lontani, talvolta a balzi divaricando la semantica, accelerando le immagini. Tutto ciò accade, come i poeti sanno, nel silenzio della mente, prima dell’azzardo che tinge inevitabilmente la pagina.

Silenzio cui da anni è costretto il poeta, ma la poesia è anche ictus, ritmo, pausa, ripresa. Così la vita.

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Terra di neve, terra di poesia Un ricordo di Wisława Szymborska di Paolo Veronese È spirata nel sonno, a inizio febbraio, nella casa di Cracovia. A ottantotto anni questa poetessa dagli occhi ridenti, acutamente attenti alla vita come ai drammi di una nazione travagliata, sempre sorretta dall’ironia del suo verso, era una delle voci poetiche più lette sia in madrepatria che nel mondo. Il Nobel conferito nel 1996, a distanza di sedici anni quello del suo mentore Miłosz, fu coronamento di una carriera cominciata nel dopoguerra e allo stesso tempo sigillo ultimo della voce di una nazione polacca che ebbe la singolarità di essere protagonista non comprimaria nella storia del Novecento. Terra aspra e piana, di steppe e di pinete, la sua geografia fu, nel corso del secolo Ventesimo, segnata e ricoperta dalle macerie della guerra, da campi di sterminio tristemente celebri; soffrì il cappio lacerante del regime comunista, e verso il termine del ‘secolo breve’ fu lo scenario da cui si mosse il primo anelito di libertà dal giogo sovietico, nel movimento di Solidarność. L’elezione al soglio Pontificio di Karol Wojtyła fu l’inaspettato. La Polonia, nella sua zolla dura ha saputo seppellire il seme di uno spirito vitale, una radice solida, in attesa che la storia le destinasse un nuovo ruolo, per traghettare un secolo oltre il buio sepolto nella neve. Era infine un poeta mistico l’uomo giunto a sconvolgere gli equilibri politici. Di Wojtyła ci restano drammi e poesie a tema religioso di profondissima ispirazione.

«Con un minimo intervallo di tempo la Natura ha affibbiato alla Polonia non solo Czesław Miłosz, ma anche Zbigniew Herbert», scrive Brodskij presentando l’edizione Adelphi di Herbert. Con Wisława Szymborska si è compiuta la triade dei grandi poeti contemporanea, quasi in richiamo della triade del periodo romantico, il più fecondo della letteratura nazionale: Mickiewicz, Słowacki e Krasiński.

Nonostante i vertici raggiunti la poesia polacca ha da sempre sofferto un isolamento la cui colpa è imputabile alla marginalità linguistica oltre confine.

Apriamo una pagina: lì come in un malagevole srotolarsi di consonanti, v’è un filo spinato che pare inestricabile, un insoluto tortuoso vocabolario di spine, uncini, barre che resta confinato e muto senza averne la chiave, oltre il repertorio del consueto. Incapaci ahimè di una voce che possa sciogliere la trama in un canto inatteso, nella spirante melodia dello slavo.

Rassegnamoci.

Wisława Szymborska, abilmente tradotta da Pietro Marchesani per Scheiwiller e Adelphi, la ricordiamo così. Piccola incantatrice degli oggetti, dove l’invenzione e la filosofia leggera giocano e rivelano i lati meno visibili delle cose, zigzagando sulle sillabe e i sensi, la Nostra si dedicò un ipotetico epitaffio: «Qui giace come virgola obsoleta / l’autrice di qualche poesia. La terra l’ha degnata / dell’eterno riposo, sebbene la defunta / dai gruppi letterari sia stata ben distante»

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SAGGISTICA Pindaro e le Olimpiche di Giorgio Minelli Nell'anno della XXX Olimpiade dell'età moderna è impossibile non subire il fascino intellettuale dell'agone olimpico classico. Non solo, sia chiaro, l'evento in sé stesso, ma tutto ciò che vi orbitava intorno; la retorica della vittoria, la lode del vincente e non da ultimo, gli onori alla divinità.

Innanzi tutto bisogna chiarire cosa fosse l'Olimpiade nel mondo classico. L'agone olimpico era in tutto e per tutto un surrogato della guerra, e per questo ne conservava una buona dose di pericolosità e di rischio. Le gare erano disputate ogni quattro anni e avevano una durata di cinque giorni, a partire dal secondo e terzo plenilunio dopo il solstizio d'estate a partire dal 776 a.C. (cfr. Pausania V 8, 6-7) L'origine dei giochi è dibattuta come è naturale che sia: nell'Olimpica I, Pindaro ne fissa l'occasione con i giochi funebri in onore di Pelope, e pare ne sia stato Ercole in persona il promotore. Gli atleti si affrontavano per l'onore della vittoria, non per denaro, anche se un'affermazione nei giochi portava inevitabilmente lustro e privilegi all'atleta stesso ed alla propria famiglia. Il premio era una corona intrecciata di fronde d'oleastro e l'immortalità per il proprio nome, che veniva ascritto nella lista dei vincitori.

Le specialità sportive, anche se il concetto di sport è radicalmente diverso nel mondo classico rispetto a quello nostro, comprendevano la corsa a piedi, la corsa in armi, la lotta, il pugilato, la corsa dei carri, corsa a cavallo ed il pentathlon (corsa, lotta, lancio del disco, lancio del giavellotto e salto in lungo). I partecipanti dovevano essere di stirpe greca, di condizione libera e non toccati da alcuna condanna; gli atleti si allenavano lungamente e giungevano ad Olimpia un mese prima dell'inizio delle gare per subire una sorta di prova d'ammissione.

Le Olimpiadi, in onore di Giove Olimpio, non erano gli unici giochi che si svolgevano in Grecia, ma erano certamente i più antichi e noti. Lo stesso Pindaro cantò ed elogiò i vincitori dei giochi Pitici, che si svolgevano a Pito, vicino a Delfi in onore di Apollo, e dei giochi Istmici che si svolgevano ogni due anni. Vi erano poi i giochi Nemei, istituiti secondo la tradizione ancora una volta da Ercole, dopo la vittoria sul leone nemeo e si tenevano presso il santuario di Giove Nemeo, nella valle di Nemeo, Peloponneso settentrionale.

L'immortalità del vincitore non era garantita solo dall'imperituro ricordo, ma anche e soprattutto dall'opera dei professionisti della lode, dei cantori dei vincenti e dei loro canti. Tra tutti Pindaro ed i suoi epinici.

Pindaro nacque tra il 528 a.C. ed il 522 a.C. a Cinocefale, presso Tebe, da una nobile famiglia della Beozia. Fu il cantore dei giochi panellenici ed in particolare tessé le lodi della gioventù dorica del suo tempo. Passò la gioventù ad Atene, studiando musica e poesia. Il mito racconta che ancora bambino, addormentatosi all'aperto, fu avvolto da uno sciame d'api che invece di pungerlo gli deposero sulle labbra il loro prezioso miele. Ormai in piena attività artistica rimase coinvolto nella difficile situazione politica che vide Tebe tergiversare di fronte alla minaccia persiana. Fu accusato dagli ateniesi, in quanto rampollo di una famiglia aristocratica, di tenere comportamenti filo-persiani e per questo dovette abbandonare la Grecia per rifugiarsi in Sicilia.

In Sicilia entrò in concorrenza artistica con Simonide e Bacchilide, entrambi beneficiari con Pindaro del mecenatismo di Ierone, tiranno di Siracusa. Alla sua morte, avvenuta nel 466 a.C., rivolse nuovamente la sua attenzione alla Grecia, componendo epinici per giovani atleti 11

ti di Tebe, Corinto, Argo, Rodi e Cirene oltre ad una serie di canti cultuali per feste celebrate ad Atene, Delo, Dodone, Sparta e Nasso tra gli altri. La sua morte è da datarsi dopo il 446 a.C., data del suo ultimo epinicio, la Pitica VIII. All'opera di Pindaro e dei suoi colleghi Bacchilide e Simonide di Ceo, a cui pare si debba attribuire l'invenzione dell'epinicio, è doveroso riconoscere nuovo modo di leggere e scrivere poesia ed un nuovo modo di intendere il rapporto tra poeta e committente.

L'epinicio è un canto in tutto e per tutto celebrativo, che viene commissionato da un cittadino provato, da un tiranno o da una polis intera per celebrare un evento, una festività od una ricorrenza. La funzione precipua del canto è la lode, che può essere rivolta ad una divinità, ad un eroe o ad un singolo uomo, un atleta dei giochi per esempio e questo è propriamente il caso dell'epinicio, la lode di un atleta vincitore.

L'epinicio spesso era cantato in un luogo pubblico, alla presenza del committente e della sua famiglia, ma anche di tutta la collettività che partecipava della gloria del vincitore.

Veniva a formarsi un vero e proprio corteo col poeta ospite e conduttore alla ricerca della dimora del laudando. Benché la tradizione indichi Simonide di Ceo come primo professionista dell'epinicio a partire dal 530 a.C., un testo di recente scoperta ne attribuisce ad Ibico la paternità, identificando con l'ode a Callia, oppositore di Pisistrato e vincitore ad Olimpia nel 564 a.C. nella corsa del cavallo montato (Erodoto VI, 122).

I tre cantori attivi in Sicilia presso Ierone condivisero la corte, la tavola e l'argomento, ma divergettero decisamente nei modi del rispettivo canto. Se dovessimo definire Simonide potremmo dire che fu il più vicino alla committenza nel senso strettamente “commerciale” del termine. Ossia seppe creare una vera e propria macchina produttiva al servizio dei gusti del proprio committente di turno che funzionava tanto meglio quanto più largamente era remunerata. Bacchilide fu strettamente legato a Simonide, ma differenziò la propria opera non tanto nella sostanza o nella scelta dell'occasione, quanto nella tecnica, più dolce morbidamente descrittiva.

Pindaro componeva opere adatte alla scena, non alla lettura solitaria, cercava l'uditorio e la coralità. Alla fine della sua vita il suo modo di cantare l'encomio era rimasto unico e solitario, il genere letterario a cui apparteneva in qualche modo si era estinto, erano gli anni di Euripide, di Anassagora, i tempi erano cambiati e i canti del “vecchio” mondo affascinavano meno il pubblico.

Malgrado tutto l'epinicio ed i suoi cantori si sono guadagnati quel piccolo frammento d'immortalità che la storia della letteratura può garantire; ma come si compone un epinicio pindarico?

La struttura è composta da triadi a loro volta composta da strofe, antistrofe ed epodo, a volte ripetuti in sequenze di varia lunghezza. Gli argomenti sono scelti accuratamente, essi devono necessariamente soddisfare le aspettative dell'uditorio commissionante: accenni alla natura della gara, l'elogio del vincitore e della sua forza e sapienza, valenza e liberalità, poi la sua famiglia e la sua città. Il tutto tenuto insieme da una sapiente rete di accenni mitologici, lodi alle divinità e racconti mitologici posti a creare un tessuto unico e prezioso. Tuttavia non solo parole, spesso era previsto un accompagnamento musicale di lira ed aulo e non di rado un coro. Il coro in particolare era composto dal corteo che segue il vincitore nel percorso trionfale, il poeta appare al seguito e ritrae se stesso come un partecipante occasionale, quasi stupito dalla solennità della processione. Tutto questo rappresenta un cliché, un paradigma a cui necessariamente l'artista deve ricorrere. Dobbiamo ricordare che l'epinicio è una composizione poetica destinata e consumata all'interno di una realtà aristocratica. Gli atleti delle Olimpiadi erano presso che totalmente appartenenti a famiglie nobili, in grado di socazzus 12

stenere le ingenti spese del viaggio, soggiorno e degli allenamenti necessari alla partecipazione all'agone. Dunque compito del poeta era anche quello di accostare il più possibile la famiglia del vincitore ai miti classici, alle divinità stesse. Molto frequente era la citazione di una delle avventure di Ercole, sottintendendo una qualche lontana parentela, o la narrazione di un episodio mitologico che vedesse in qualche modo sfiorata la genìa del vincitore da una qualche divinità. Insomma bisognava prima di tutto accontentare l'uditorio lusingandolo con l'eleganza dei versi la mielosità delle lodi.

Benché l'arte dell'encomio non godé di una lunga tradizione, gli epinici di Pindaro e dei suoi contemporanei furono oggetto di studio già in epoca classica. Il corpus pindarico fu catalogato e tradotto in molti dialetti greci, la biblioteca di Alessandria ne custodì una copia a partire dal III secolo a.C. Lo studio degli epinici ed il loro commento fu occupazione di molti bibliotecari alessandrini, da Zosimo di Efeso ad Aristofane di Bisanzio, da Aristarco di Samotracia fino a Didimo di Alessandria che in epoca augustea fissò il testo da cui ebbero origine tutte le edizioni medievali.

Olimpica XIV. Ad Aropico O voi, che le Cefisie onde otteneste, Che dimorate in una equestre sede, Del fertile Orcomeno o voi regine Grazie, m’udite.

De’ Minii antichi, o protettrici, a voi Volgo le preci. Inver per voi diventa Tutto giocondo e dolce all’uman germe, O che si vanti Alcun di senno o di beltade o d’oro.

Non fan gli Dei senza Grazie danse, Nè conviti, chè in ciel dispensatrici Di tutto sono, Ed hanno il trono al Pitio Apollo presso, Che tratta l’arco d’oro, e fanno onore Al loro padre Olimpio, in sempiterno Lui celebrando.

Aglaia venerando e tu Eufrosine D’inni vaga, di Giove onnipossente Figliuole, prego, a me porgete orecchio Or ch’io v’invoco.

Tu pur, Talia, che sei del canto amica Il guardo volgi all’inno mio corale, Che sostenuto da propizia sorte Ecco, s’inoltra.

In Lidio metro, in meditato carme Canto Asopico: a te si dee, se questa Minia città vinse gli Olimpii giuochi.

Eco, tu vanne Nella sede, ove alberga in negre mura Ecate: al padre Cleodàmo arreca La nobile novella, allor che il vedi, Che il figlio suo Cinse la chioma giovanil d’un serto, Che meritò ne’ generosi ludi, Entro del seno della glorïosa Città di Pisa.

(Trad. A.G. Danesi, 1886)

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VERSIONI A cura di A. Rizza

Tre haiku di Bashō di Igor Fortuna Matsuo Munefusa (Iga Ueno 1644 – Ōsaka 1694), meglio conosciuto con il nome d’arte di Bashō, è uno dei maestri indiscussi dell’haiku, e anzi è ritenuto l’iniziatore stesso di questo genere poetico giapponese ben noto anche in occidente.

Quella dell’haiku è un’estetica dell’essenzialità, potremmo forse dire, che si esprime in una concisa struttura nella quale non potrebbero trovare spazio fronzoli e orpelli retorici: un totale di 17 unità metriche (on), distribuite secondo lo schema 5-7-5.

Questa delicata miniatura in versi si traduce in un equilibrio mirabile, un’efficacia ricca e sobria insieme, un tratto lieve e al contempo deciso che riesce a racchiudere l’esperienza estetica in un piccolo scrigno di parole.

Propongo qui una mia traduzione, accompagnata dall’originale giapponese in caratteri latini, di tre componimenti di Bashô, il primo dei quali è con ogni probabilità il più famoso e citato fra gli haiku.

All’apparenza esso è di un’assoluta semplicità: uno stagno, una rana che balza e si tuffa (tobikomu è il verbo impiegato) nell’acqua, e il suono che questo modesto evento produce.

Modesto, sì, eppure grandioso nella scala minuta dell’haiku, in questo paesaggio poetico cesellato, come si diceva, in sole 17 unità moraiche (e 17 sillabe nella mia resa italiana1 , ché in questo caso, ma non nei due seguenti, ho cercato di trasportare, tra-durre, la struttura stessa).

Furuike ya kawazu tobikomu mizu no oto

水

蛙

古

の

飛

池

音

び 込 む

Antico stagno.

Una rana si tuffa.

Rumore d’acqua.

Nel secondo componimento qui presentato incontriamo il tema del viaggio (tabi), di grande significato e portata nell’ispirazione artistica e nella stessa vita di Bashō, che molto viaggiò e nelle sue peregrinazioni intrecciò vita e letteratura.

Tabibito to waga na yobaren, hatsushigure

れ

我

旅

ん

が

人

初

名

と

時

呼

雨

ば

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“Viaggiatore”: con tal nome sarò chiamato.

Prima pioggia invernale.

Nel terzo haiku antiche statue del Buddha e profumo di crisantemi nella città di Nara: il passato e il presente si sfiorano, si compenetrano, e l’uno traccia sulla tela dell’altro calligrafie di ricordo e presenza. O meglio questa è un’interpretazione personale, inevitabile – ancorché spesso arbitraria – nella fruizione di un testo letterario.

Kiku no ka ya Nara ni wa furuki hotoketachi Profumo di crisantemi.

A Nara, antichi2 buddha.

仏

奈

菊

達

良

の

に

香

は

や

古 き

1

Un esempio della differenza fra la sillaba e l’unità prosodica chiamata on è dato, oltre che dalla stessa parola on, che è costituita da due unità moraiche (o-n), anche da yobaren, nel secondo haiku: la nasale -n vale appunto una mora, e dunque la parola yobaren, dal verbo yobu “chiamare” vale 4 on.

2 Nell’originale furuki, confronta furu- di furuike “antico stagno” nel primo haiku.

Letture consigliate (solo titoli in lingua italiana): L.V. Arena (a cura di), Haiku, ristampa Milano 2010.

E. Dal Pra (a cura di), Haiku. Il fiore della poesia giapponese da Bashō all’Ottocento, ristampa Milano 2011.

M. Muramatsu (a cura di): Matsuo Bashō. Poesie. Haiku e scritti poetici, seconda edizione, Milano 1997.

L. Origilia (a cura di): Bashō. Il romitaggio della dimora illusoria e il sentiero dell’Oku, Con uno scritto di Ryûnosuke Akutagawa, ristampa Milano 2005.

M. Riccò – P. Lagazzi (a cura di), Il muschio e la rugiada. Antologia di poesia giapponese, Milano 1996.

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BIBLIOTHECA Anna Maria Ortese, Da Moby Dick all'Orsa Bianca. Scritti sulla letteratura e sull'arte (PBA 619), Milano: Adelphi, 2011 [a c. di Monica Farnetti, pp. 196, 9788845926167] La minuta scrittura sapiente, e possente. Ecco l'omen di un incredibile caso, l'acrostico, AMO, che prega ad amare le opere degli ingegni che hanno amato ciò che più hanno avuto/mancato, la vita.

Fondamentale ora è avere una penna in mano. Per tirare righe e (ri) pensare. Il pezzo «il piacere di scrivere» definisce bene, come mai avevo sentito, la voglia di scrittura che è tanto diffusa in Italia. Voglia che non può che derivare, a mio senso, in estremo dall'assenza del sentimento di libertà e umanità. Si dice che in Italia ci sono pochi lettori - sarebbe di rilievo? Rispetto a cosa? - pare che eguaglino in numero gli scrittori. Spesso chi legge, scrive. Niente di male, ma alcuni invece lo ritengono un paradosso; perché non so. Anche per la Ortese c'è in tanto un che di negativo. Ma non è questione di numeri o proporzioni. Non gliene frega niente. Il rapporto fra lettori e scrittori (quando sono reciprocamente gli stessi) è nelle sue strutture un rapporto di invidia. Guerra fra poveri, dicasi oggi. Anna Maria, prima di sentenziare implicite soluzioni in celate ma esplicite lamentele (sul modello: «oggi si scrive troppo») si chiede perché e dà una risposta centrale: sostiene che per «gli scrittori italiani [...] nulla [...] è più caro del piacere di scrivere» (p. 76); il piacere nella scrittura ortesiana è un casus, quello che si offre e che viene è invece «una parola che rompa la nebbia» (p. 77). Il verbo 'rompere' con l'oggetto 'nebbia'.

L'immagine è immediatamente poetica ed etica. E poi l'accusa, su cui dovremmo riflettere: sia letta la pagina settantasette, subito.

Mi sembra di capire come in queste pagine, dove si parla di Buzzati, Saffo, Lu Xun, Čechov, Morante, Leopardi, Hemingway, De Amicis, Frank, Mann, Cristo (taccio di quanto mi ha meno colpito e il titolo rende giustizia al resto, ma si aggiunga il dattiloscritto "sulla «mite» di Dostoevskij"), emergano più che altro sprazzi della poetica di A. M. Ortese. «Da lontano, il mare è mare, solo da vicino è la trasparente goccia salata» (p. 86). Da lontano questo è un volume azzurro un poco elettrico, insomma un libro, una cosa. Solo da vicino è la fiamma che vi farà ardere le mani (p. 82).

La sensibile curatrice dei romanzi di A. M. Ortese per Adelphi, Monica Farnetti, ci raccoglie alcuni scritti dispersi apparsi su giornali, riviste, quarte di copertina o parzialmente inediti e, in appendice, alcune lettere. La postfazione innesta a questo ragionare d'amore il nome di Simone Weil.

Alfredo Rizza Charles Bukowski Post Office

Guanda,

Iniziare a “leggere” partendo da Bukowski è come iniziare a strimpellare la chitarra con i Nirvana o con gli Oasis. In entrambi i casi l’effetto è credere di poterlo fare 16

con gli stessi risultati (o per lo meno cum ipso gaudio), scoprendo magari di possedere il talento innato che Naïf, il dio protettore delle velleità, si spera nasconda qua e là. Chi crede di meritare un po’ di visibilità solo perché ha avuto i brufoli o anche soltanto un po’ di sfiga è destinato a rendersi conto che non è facile come sembra. Non riesco a quantificare numericamente gli emuli dello zio Hank, ma fidatevi: sono tanti. Mi spiace per loro, ma per scrivere come Bukowski (così come per suonare e urlare come Kurt Cobain) devi ESSERE Bukowski. Ci siamo passati tutti e ci sta, ma accettiamolo: trucco c’è sempre. E non è che sia chissà quale trucco… è che si deve vivere, per raccontare della vita, e si deve quasi morire per scrivere di rinascita. Se si accetta questo non risulta troppo strano il fatto che un romanzo umoristico che abbia come sfondo un ufficio postale si trovi ad essere ritenuto quasi un manifesto della condizione dei lavoratori nell’Amerika ai tempi in cui da noi si intravedeva il boom economico.

Come avrà modo di affermare Tom Waits anni dopo la scomparsa dello scrittore di L.A. (avvenuta per malattia a 74 anni, nel 1994, pochi giorni dopo il suicidio di Cobain), Bukowski era “l’uomo di strada che scrive per la gente di strada”. Qualcuno potrà dire “e che c’è di nuovo, o di speciale, in questo”? Semplice: Bukowski ha davvero rischiato di morire, è davvero stato senza un soldo, è davvero rimasto solo con la scrittura, o per lo meno questo è il messaggio che ci è giunto (invero molte cose su di lui erano a suo stesso dire “esagerate”, ma ormai era diventato un’icona).

Il romanzo inizia con “cominciò per sbaglio”. Il romanzo è costituito da molti e brevissimi capitoli (lezione per ammissione dello stesso autore imparata da John Fante, di cui era ammiratore), costituiti a loro volta da frasi più asciutte di un phon. Il romanzo in sé non dice nulla di speciale: a volte fa ridere, a volte fa pensare. Forse la sua forza risiede nel fatto di sembrare sempre “sul punto di…”, ed è per questo che ti piace; in fondo, quanto può essere interessante la vita di un impiegato delle poste?

La sua lo è. Da postino supplente a impiegato fisso intercorrono più di dieci anni di vita da girone dantesco (con tanto di “diavoli”: i sorveglianti pronti a sferzare i lavoratori con affilati cartellini di ammonizione). Insomma, il lettore percepisce che si tratta di roba onesta: sono cose che ti può raccontare chiunque, ma a differenza di chiunque lui l’ha fatto in modo efficace (suvvia, anche gli scritti degli Stoici appaiono banalità, ma non può non avere senso leggerli) e sardonicamente fantozziano. Il gap tra Post office e un qualsiasi romanzo dello stesso genere è la sottilenorme differenza che intercorre tra una barzelletta raccontata bene o male: tra il dire e il fare c’è di mezzo E IL. Luca Grazioli

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LYRA a cura di Alfredo Rizza

Missa Pange Lingua (XV sec.)

Ensemble Organum. Marcel Pérès dir.

Ensemble Clément Janequin Musica di Josquin Desprez e canto gregoriano Harmonia Mundi HMG 501239 (p) 1986 (c) 2008 Una produzione del 1986 uscita nella serie hmGold nel 2008. Confezione in carta plastificata, leggera, economica. Stampa molto bella e scelta di apparato iconografico di grande soddisfazione visiva. La copertina della confezione e del libretto presentano due dettagli dell'Agnello mistico di van Eyck.

Il libretto è essenziale, quindi contiene il necessario. Tuttavia nell'edizione che ho trovato in Germania non c'è versione italiana, ma solo francese, inglese e tedesca.

Esecuzione solenne e sontuosa, di certa soddisfazione. La modernità di Desprez è evidente in ogni parte polifonica, con la tecnica motivico-imitativa. Un ascolto adatto per tutti gli amanti della buona musica, non esclusivo degli amanti dell'antico, in particolare lo scoppiettante Sanctus o il godibilissimo eppur solenne Credo. Il Gloria ha un afflato mistico e il Salutaris Hostia non è di Desprez, ma di anonimo del Codex Occo (Biblioteca reale di Bruxel, XIV sec., da questo codice anche una versione della messa di Josquin): splendida scelta per l'elevazione. Un agnus dei minimale ma anche sontuoso nel suo sviluppo. Chiude il Pange lingua, inno del terzo tono su cui si basano le scelte molodiche delle parti polifoniche.

L'impasto vocale degli esecutori è classico per l'antico e tende alla resa mistica. Buon ascolto.

A.R.

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IL VENTRE DELLA LIBRERIA "Davvero questi libri costano così poco?"

Siete tra quelli che ancora frequentano le librerie? Vi piace leggere ma i libri costano troppo per le vostre tasche? Avete il vizio di acquistare cinque o sei libri al mese ma ora alcuni signori cattivi si sono inventati una legge che impedisce ai librai di applicare sconti che facevano la vostra felicità? Bene, non preoccupatevi, venite da me. Entrate nella libreria dove lavoro io e scoprirete che abbiamo classici greci e latini a 3 euro e poi romanzi del ‘700 e ‘800 a euro 4,50. Abbiamo anche saggi e romanzi di questi ultimi anni con un bel bollone rotondo che recita questa cosa: 50% di sconto. Ecco, tutta questa carta scontata è lì, ben visibile e in buono stato. Infatti ieri pomeriggio un signore un po’ su di giri è entrato in libreria, si è guardato attorno e poi con gli occhi ha abbracciato i libri poco costosi. “Cazzo!”, ha detto ad alta voce, e poi rivolgendosi a me, che stavo in cassa, mi ha chiesto “ma è uno scherzo?”. “Cosa è uno scherzo?”, ho domandato io. “Davvero questi libri costano così poco? Tacito, Platone, Seneca, Balzac messi qui, con questo prezzo?”. “Sì, hanno quel prezzo”.

E allora lui si è rigirato tra le mani i volumi e poi, rosso in volto, ha cominciato uno specie di monologo che più o meno faceva così: “Beh, qui adesso c’è da approfittarne, perché di libri così che costano così, beh, c’è da prendere il carrello e riempirlo. E poi dicono che i libri costano tanto e che per questo la gente non legge. Balle su balle. Che vengano a prendersi un po’ di libri a soli tre euro per se stessi e per i figli. Pazzesco” e, insomma, poi ha ripetuto ancora un po’ di volte le stesse cose, ne ha aggiunte delle altre, ha messo sotto sopra i libri che avevamo appena sistemato e poi, guardandomi in faccia, si è bloccato e mi ha detto: “La gente legge boiate spendendo cifre assurde. Ecco qui cosa bisognerebbe leggere. Ma sai cosa c’è? C’è che la cultura si sta sfasciando, che la buona letteratura non interessa più a nessuno. E non vengano a dirmi che è colpa dei prezzi”. E io allora ho cominciato ad abbassare e ad alzare la testa, come per dire che sì, lei ha ragione, la gente legge libri un po’ scemi, basta guardare le classifiche e poi non è vero che i prezzi sono così alti.

Perché io è da tanto tempo che sostengo che nelle librerie si possono trovare libri importanti e decisivi a prezzi stracciati. E penso anche che non sono gli sconti sui libri a fermare o a stimolare la lettura ma semmai altre cose che con l’economia e i prezzi hanno poco a che fare. E questo signore che ieri si è accorto delle buone offerte la pensava come me, aveva colto che la crepa, se così si può dire, non comincia là dove una legge vieta sconti sostanziosi sui volumi.

Ecco, io e lui la pensavamo allo stesso modo, ieri: io, libraio, che stavo in cassa a prendere soldi e a dare libri e lui, cliente, eccitato per i prezzi bassi, bassissimi, di quei classici della letteratura. “Bisogna approfittarne”, “La gente legge boiate invece di questi bellissimi classici”, mi ha detto lui.

Poi, dopo qualche minuto da quel monologo e da quella rapida conversazione, il signore ha alzato una mano, ha detto “Grazie, a presto” ed è uscito dal negozio contento. E io, mentre insacchettavo un libro al cliente di turno, l’ho guardato andare via. A mani vuote. Nonostante i titoli invitanti e i prezzi bassissimi.

Il Disagiato o Brano tratto dal blog ‘sempreunpoadisagio’ reperibile al link: sempreunpoadisagio.blogspot.com

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Versi al vento Andrea Zanzotto Monti mirabili, quali perdite Monti mirabili, quali perdite in voi celate, quali depreda menti abissali?

E quanto d’essi, per inattese folgorazioni voi ci rendete, o improvvisi mancamenti, moltiplicato nell’infinito così come infinite sono le ombre e le luci che vi reggono che vi tessono?

Anche le nostre ombre o le nostre labili radianze da voi ci vengono, e gl’instabili moti e gl’impulsi fedeli verso il dire o l’estendere e il graffire, o il ridare in colori, con i nostri infantili strumenti, paci o battaglie di forme…

E guarderemo e custodiremo l’assenza dei monti e ciò che è stato nostro in rutilanti o povere carte: lieti di capire o fors’anche di stravedere, ma con intatto semplice, ansioso, tic di connivente amore di sacre omertà.

da Ascoltando dal prato, Interlinea 2011

L’Archibugio - periodico d’informazione letteraria Organo ufficiale dell’associazione culturale “Hesperia” di Toscolano-Maderno Redazione: Paolo Veronese, Giorgio Minelli, Barbara Veronese, Alfredo Rizza Per informazioni, suggerimenti o proposte di partecipazione scrivere a wingapo@libero.it o inviare a: Paolo Veronese, via Vivaldi 13, 25080 Maderno (BS) Tutti i testi riportati sono pubblicati previo consenso dell’autore che ne detiene la proprietà Ringraziamo l’Amm.ne Comunale di Toscolano Maderno per il sostegno fornitoci

Gli arretrati in formato stampabile sono disponibili sul sito www.domushesperiae.com