ebook Vite e Mestieri di Basilicata

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Vite e mestieri della Basilicata Enrico Caracciolo, Paolo Simoncelli


L’archeologa spaziale Da Tito Scalo Rosa Lasaponara esplora con l’occhio dei satelliti angoli del pianeta che conservano tesori inesplorati come piramidi Nazca e villaggi neolitici.

Da piccolo sognavo di viaggiare nello spazio e fare scoperte mirabolanti, cavalcare un satellite come un tappeto volante e riuscire a vedere quello che gli altri uomini neanche immaginavano. Poi sono cresciuto e questo è rimasto un fantasogno d’infanzia. Qualche giorno fa ho scoperto che qualcuno è riuscito a sfiorare il mio fantasogno. E per di più senza neanche il bisogno di un tappeto volante. Questo accade a Tito Scalo, due passi da Potenza. Rosa Lasaponara, scienziata del CNR di Potenza è di fatto un’archeologa spaziale. A differenza della xenoarcheologia che punta l’occhio verso civiltà aliene, corpi celesti e UFO, Rosa focalizza l’occhio satellitare verso il pianeta Terra. E scopre luoghi fantastici, come una piramide Nazca sui monti tra Perù e Bolivia o il villaggio neolitico di Irsi, a due passi da casa sua. La Terra non ha confini ed è ricca di tesori da scoprire e in assenza di mappe, cartine e leggende si può fare col remote sensing, vale a dire il monitoraggio della Terra attraverso i satelliti. Dunque niente bussola, picozza o georadar, ma sofisticati algoritmi, tomografi e infrarossi. Per la precisione gli strumenti tradizionali dell’archeologo entrano in azione in un secondo momento, solo dopo la scoperta rilevata con immagini multispettrali interpretate scientificamente. In realtà Rosa è un occhio, l’altro è Nicola Masini, suo marito e compagno d’avventura. Ma quando passo per Tito Scalo, trovo solo lei. Lui è in Perù per un sopralluogo. Gli scienziati che si sono impossessati dei miei fantasogni sono lucani doc: Rosa è di Irsina e si è laureata a Bari in Ingegneria elettronica delle telecomunicazioni, mentre Nicola è di Calvello, borgo noto per le ceramiche artistiche, laureato a Potenza in Ingegneria edile. Innamorati dell’osservazione tecnologica del mondo scoprono a cavallo degli ultimi due millenni quanto è bello e interessante curiosare negli angoli inesplorati del pianeta. Appuntamento al centro commerciale di Tito Scalo. Incontro Rosa con alcuni colleghi al fast food. La pausa pranzo è finita e così si va al bar. Non mi era mai capitato di bere un caffè in compagnia di scienziati. Nelle loro teste sgomitano formule, calcoli, tesi, ipotesi e sintesi ma qui a Tito Scalo gli


scienziati sono umani, umanissimi direi, e anche la disquisizione sul caffè buono non ha nulla di razionale. Insomma è bastato un caffè per distruggere il mio stereotipo di scienziato. Per fortuna Rosa Lasaponara non è rintracciabile nella fuga di cervelli. Lei ha deciso di rimanere a Potenza, nella sua Lucania. “Non c’è bisogno di partire”, dice con un sorriso che l’accompagna costantemente. “La scoperta della piramide in Perù ha suscitato grande interesse da parte della comunità scientifica internazionale e si prospettava l’ipotesi di poter andare altrove ma oggi è possibile fare bene questo lavoro anche da Tito Scalo. L’unico problema in Italia, rispetto ad altri Paesi, è lo scarso interesse verso la ricerca applicata a beni culturali”. Ovviamente c’è grande rammarico in queste parole ma anche la consapevolezza che far parte della comunità scientifica internazionale regala una vita intensa di viaggi, contatti, scambi culturali. Il sogno di Rosa e Nicola è iniziato agli albori degli anni Novanta, quando è diventato possibile curiosare dai satelliti anche a menti un po’ più creative di rigidi apparati militari. A parte l’aspetto romantico che è bello raccontare è importante evidenziare l’aspetto tecnologico dell’avventura fondato su una metodologia innovativa di grande portata. Rosa Lasaponara nasce in casa, come avveniva abitualmente a Irsina quando i satelliti non girovagavano ancora nello spazio. Per la verità quando è nata Rosa lo Sputnik era già in viaggio da qualche anno, ma niente lasciava pensare che quella bimba avrebbe osservato la Terra dallo spazio... Il bello di conoscere una scienziata è che, dopo poche parole, regala subito la prima sorpresa. “Sono una provinciale”. Ma come, una mente della comunità scientifica internazionale può mai essere provinciale? “Certo!” risponde Rosa senza alcun dubbio. “Mi piace la dimensione piccola dei miei luoghi, passeggiare e incrociare voci e volti conosciuti. Vivere a poca distanza dalle mie radici è stata una scelta resa possibile dal Cnr di Potenza. Amo viaggiare, mi piace scoprire il mondo lentamente, parlare con le persone, vedere cosa accade dall’altra parte del mondo. Osservarlo dal satellite è affascinante ma poi è altrettanto bello scoprire luoghi e persone lungo tracciati terrestri”. Poche persone al mondo possono dire di far convivere dentro di sé le dimensioni tecnologica e romantica del viaggio. “Mi piace partire, sono attratta dall’altrove, ma è importante tornare sempre. Dove? A Irsina naturalmente. L’emozione di tornare e trovarmi nei grandi spazi della campagna sempre diversa nei colori e nei profumi, ma sempre familiare, è pari alla scoperta di nuovi luoghi”. E così Rosa, oltre a scoprire piramidi e villaggi neolitici è stata capace di dare una valenza positiva al provincialismo. Nessuna formula scientifica, ma una scoperta filosofica che può sintetizzarsi nel “valore delle piccole cose in tempo di globalizzazione”. In buona sostanza Rosa è una scienziata provinciale, se ne vanta e fa bene. Un vento gelido d’oriente rade Potenza e spazza la terra di Lucania. È il momento di andare. Non prima di capire che il bello di essere archeologa spaziale è trasferire nel lavoro la geografia della vita: “Ogni sguardo satellitare regala qualcosa su cui investigare”, racconta Rosa. “È un po’ come giocare con un puzzle senza dare mai niente per scontato. Problemi non mancano mai, tutto sta ad individuare il filo che porta alla soluzione. E tra le cose più belle del mio lavoro ci sono la condivisione delle avventure “spaziali” (non sono mai sola) e il fascino di andare molto lontano per scoprire come migliaia di anni fa l’uomo affrontava problematiche ancora attuali come la gestione delle risorse naturali. Trovo molto interessante indagare ad esempio sui sistemi di approvvigionamento delle acque e scoprire che viaggiando negli spazi temporali di antiche civiltà si può imparare qualcosa di molto attuale. Ed è ancora più affascinante scoprire realtà dove la mano dell’uomo ha distrutto e cercato di


rendere invisibile qualcosa che al satellite non sfugge, come accaduto in Sud America con i colonizzatori spagnoli”. Con un pizzico d’orgoglio Rosa mi saluta non senza aver sottolineato che il bello dell’archeologia spaziale è il non essere limitata a un periodo specifico ma viaggia trasversalmente a qualsiasi epoca. Lei e Nicola non lo sanno ma la loro genialità è anche aver smontato per sempre l’ aforisma di Marcel Proust secondo cui “L’unico vero viaggio verso la scoperta non consiste nella ricerca di nuovi paesaggi, ma nell’avere nuovi occhi”. Da Tito Scalo, in Lucania, partono veri viaggi che consistono nella ricerca di nuovi paesaggi, con nuovi occhi.


Il risveglio del lupo Ulderico Pesce, attore, racconta la rivoluzione antropologica che ha trasformato la gente di Lucania da lupo mite e silenzioso a lupo che ulula e ringhia.

“In Basilicata c’è una lentezza veloce, a Roma, dove vivo, c’è una velocità lenta”. Per Ulderico Pesce, attore lucano di Rivello, la sua terra è un palcoscenico dove l’uomo viaggia in una dimensione spaziotemporale che sembra ignorare le dinamiche delle comunicazioni globali. Ulderico si prende una pausa durante un laboratorio teatrale. La location è il Centro Polifunzionale a due passi dalla fiumara della Val Sarmento. Si chiama Area PIP, un’isola di cemento armato dal nome che evoca arida burocrazia, immersa nel silenzio, apparentemente senz’anima. In realtà non è così perché San Costantino e San Paolo i due villaggi albanesi che sfiorano il cielo sembrano proteggerla dall’alto come angeli; e negli spazi vuoti interni Ulderico cerca di spiegare ai suoi giovani allievi che in teatro, come nella vita, bisogna imparare a comunicare con la pancia: musica, parole, gesti passano per la mente ma se non nascono laggiù, portano messaggi asettici che vivono di velocità lenta. Lui invece prova a comunicare quello che ha imparato dalla sua terra. La lentezza veloce. “Al lucano non piace il dibattito dove spesso le parole vengono utilizzate in modo strumentale, mentre è portato alla condivisione”. Il sogno di Ulderico Pesce è portare il teatro sulla strada e nelle piazze. L’idea è quella di riprendere quanto accadeva nell’immediato dopoguerra con il progetto di alfabetizzazione, peraltro molto complicato, che viaggiava sul Bibliobus, un vecchio pulmino Fiat, che portava i libri nei villaggi e nelle famiglie. Il teatro ideale di Ulderico potrebbe viaggiare su un nuovo Bibliobus. “La Lucania è una terra enorme. Quasi 10.000 kmq anche se nell’immaginario collettivo è “piccola”. In realtà la dimensione si ingigantisce se relazionata alle 600.000 anime che la popolano. Basti


pensare che nei 13.000 kmq della Campania vivono oltre 6 milioni di persone... tra un paese e l’altro ci sono spazi sconfinati caratterizzati da un paesaggio che rincorre l’orizzonte con montagne, colline, vallate e calanchi. A Noepoli se ti butti dalla finestra ci metti 40 secondi ad arrivare a San Giorgio Lucano, ma se ci vai per strada ci vuole più di mezz’ora”. Tutto questo per dire che la Lucania è un pezzo di mondo dalla percorribilità antica. Il Sinni, l’Agri, il Basento e il Bradano erano importanti vie fluviali della Magna Grecia. L’Agri, anticamente Akiris o Kyris, in lingua osca significava fiume navigabile. Le strade arrivarono in seguito. Ma Ulderico sottolinea che “è difficile sostituire i fiumi e che dentro questa geografia c’è un popolo sparpagliato”. Il tono sommesso e lo sguardo un po’ stanco per il lavoro trovano improvvisa vitalità. Semplicemente perché Ulderico trova la chiave per aprirci le porte della sua Basilicata raccontata. E così ora fa quello che insegna ai suoi ragazzi. Gli occhi si illuminano e le parole vengono scandite più chiaramente. “In questa terra convivono struggente bellezza e spigolose difficoltà del vivere qui; in Basilicata convivono Gerusalemme e la Scandinavia”. Osservare il paesaggio durante un viaggio lentamente veloce significa perdersi dietro a un patrimonio naturalistico dall’umore imprevedibile, caratterizzato da improvvisi sbalzi d’umore: boschi a picco sul mare, onde di grano, grandi pianure, fiumi carsici e calanchi: sculture consumate, pietre assetate, argille precarie, alberi corazzati, pascoli ubriachi di vento. “La gente di Lucania è isolata da sempre. Sono i fiumi che hanno reso possibili incontri e scambi con altre civiltà come arabi e greci, e poi normanni e angioini. E siccome quello lucano è un popolo permeabile questi incroci costituiscono un patrimonio importante nella cultura di questo territorio”. Perché terre e villaggi hanno subito un progressivo abbandono in epoca moderna? “Semplicemente perché nella nostra cultura manca la capacità di fare sistema. I nostri nonni erano pastori o agricoltori, senza alcun sistema imprenditoriale. Ma il desiderio di imparare, crescere, riscattarsi da una condizione difficile ha fatto si che i figli di pastori e contadini siano partiti per andare a fare l’università. La sete di conoscenza era più importante delle risorse materiali perché le famiglie hanno vissuto per secoli trovando valori importanti anche in una semplice economia di sussistenza. E oggi la Basilicata è la regione che vanta il maggior numero di laureati in rapporto alla popolazione”. E così le caratteristiche di questi luoghi l’isolamento e l’essere sconosciuti - rappresentano i valori dei lucani. Ulderico Pesce vive “quasi” stabilmente a Roma ma il richiamo verso le sue origini è molto forte, tribale, viscerale. “Nel mio modo di fare teatro racconto la Basilicata”. Il poeta che meglio ha dipinto con le parole la terra dei lucani è senz’altro Rocco Scotellaro in “Contadini del Sud”, raccolta di cinque vite contadine in cui si raccontano le battaglie bracciantili per il territorio e la sussistenza, primi aneliti verso un salto culturale e una rivoluzione dell’anima. Tutto era pronto in quello che poi è avvenuto in seguito con le lotte degli operai di Melfi. Ulderico l’ha ben rappresentato con FIATo sul collo nient’altro che la sceneggiatura di come una realtà agricola pastorale si trasforma in ipermoderna dal punto di vista industriale. “Nel 1993 la Fiat di Melfi è lo stabilimento metalmeccanico più moderno d’Europa e io racconto come 5300 operai da uomini di terra diventano uomini di fabbrica, scoprendo che i sistemi industriali giapponesi portano alla schiavitù. La ribellione dei lucani nel 2004 ottiene l’annullamento dei moderni sistemi di sottomissione. E poi con Storie di Scorie Ulderico racconta le terribili vicende che hanno portato alla violente proteste contro lo stoccaggio di scorie nucleari a Scanzano Jonico. Finalmente i lucani scoprono di esistere e di poter urlare. “Il nostro simbolo è un lupo che non ulula perché è mite. Mia nonna ha fatto la bracciante agricola a Rivello dedicando 90 anni alla coltivazione dei fagioli sulle rocce... abituata ai sacrifici, all’umiltà, alla disciplina. Con le vicende di Melfi e


Scanzano la conformazione antropologica del popolo cambia e ora abbiamo una seconda pelle. Chi è partito per studiare ritorna e ha tante motivazioni per vivere qui. Sono gli studenti emigranti e ritornati che ci regalano la nostra seconda pelle. Ora siamo un lupo che ulula e ringhia per conquistare spazi e competenze perdute, spesso rubate”. E Ulderico Pesce è l’ululato teatrale di questa rivoluzione antropologica. Le sue storie portano sul palcoscenico il lupo lucano e la sua seconda pelle. È ora di tornare a lavorare con i ragazzi ma Ulderico si ferma ancora un minuto. “Mi piace immaginare un nuovo modo di viaggiare in Basilicata, regione sconosciuta a molti, attraverso la scoperta della lentezza. Cominciare a pensare che per andare a teatro si può impiegare anche una giornata. Le aziende petrolifere vengano pure qui a estrarre petrolio ma ci lascino le nostre strade così come sono. Per andare da Terranova di Pollino a Lagonegro ci vuole un’ora e 10, diversamente non sarebbe Basilicata”.


L’ironia del poeta e la corona del maiale Una satira tagliente ispira Roberto Linzalone, poeta materano che gioca con la parola per colpire la retorica della Lucania povera e contadina.

Quante raffiche nelle parole Roberto Linzalone! Sono parole sussurrate nell’anima grande e invisibile dei Sassi di Matera; sono parole che sfondano il silenzio come tuoni. I giochi dialettici del poeta sono terremoti che scuotono la pigrizia mentale dei benpensanti sempre in cerca di maniglie sicure e di malcelate omologazioni. Sono parole che prima di ogni cosa rivelano il suono lucano. Precipitano, scivolano, si arrampicano, si nascondono negli spazi e nei silenzi dei Sassi, saltellando sui ritmi di una metrica colta e popolare. Poi vanno dritte a imbrattare di autenticità i luoghi comuni. Linzalone comunica a viva voce nelle cantine della città rivolgendosi alle persone con cui condivide la terrena quotidianità: professori, soloni, sapienti, aristocratici e rampanti salottieri, non sono invitati. Anzi, l’intellighenzia è invitata a rimanere a casa. Elettricisti, imbianchini, tipografi, tabaccai, pompieri, buontemponi e sognatori sono invitati a brindare come vuole la tradizione della poesia d’occasione. A dieci anni Roberto duettava col prete poeta amico di famiglia ma lui non aveva bisogno di parole scritte. Costruiva poesie all’istante seguendo immediate ispirazioni. Luogo d’aggregazione della sua giovinezza era la parrocchia. “Non tanto mi piaceva fare il chierichetto. Molto meglio i campi estivi dell’Azione Cattolica con partite di calcio, cacce al tesoro ma soprattutto il giornalino, dove davo il meglio di me. Affisso con un chiodo a un albero di Camigliatello Silano diventava il “luogo” del mio gioco preferito: con le parole partorivo caricature e imitazioni viaggiando nei meandri dell’antropologico umano. Negli anni del liceo la mia “vittima” era “lo scapolo di Bitonto”, mio professore”. Poi l’esordio in teatro con Si entra solo in bollo, la prima opera tanto originale quanto “acerba e maldestra” in cui il poeta fa il vestito su misura alla gente di Matera. Sempre ai margini della storia, i materani non hanno mai imparato come si vive e come si muore. Così accade che quando si presentano alle porte del paradiso San Pietro esclama: “Lo sapevo, anche questo viene da


Matera! Infatti non ha il bollo...” E viene rispedito a vivere ancora nei Sassi, luogo di emarginazione, fatica e sofferenza. Linzalone, ventenne e autodidatta si accorse che la sua satira colpiva i bersagli giusti quando l’alto prelato Michele Giordano alla fine dello spettacolo, invece di offrire le 50 lire di rito, gli mise in mano 20.000 lire (!) raccomandandosi però di rivedere la sua visione della chiesa e dei santi, in particolar modo di San Pietro. Il giovane poeta non fu tanto infastidito dall’offerta spropositata (“i soldi servivano!”) quanto dalle parole che avevano un preciso obiettivo. Ma questo era niente in confronto alla trovata più geniale che all’inizio degli anni ’80, agli albori del tracollo di valori della società civile, scosse profondamente la gente “per bene”: Roberto Linzalone fonda la Lega Italiana contro i maiali. Era il momento di essere più incisivi, di scaraventare l’ironia tra la gente con tutti mezzi possibili: cartoline, magliette, calendari. Ma soprattutto lanciarsi nel corpo a corpo a corpo col pubblico con “Vino e poesia nelle cantine di Matera”. Riconosciuto e sostenuto da importanti autori della tradizione lucana come Sinisgalli e Parrella, Roberto Linzalone usa la sottile lama dell’ironia per fare a pezzi i luoghi comuni, la retorica della Lucania povera e contadina. L’8 aprile del 1988 Linzalone organizza l’evento del secolo e si sparge la voce di un ospite d’onore unico per la sua serata di poesia; in molti si chiedono chi sarà il personaggio più importante della Basilicata... Orazio è morto, le famiglie Carafa e Sanseverino non sono presenti... La marcia reale accompagna l’ingresso del Maiale in carne e ossa che incredibilmente si inginocchia per l’incoronazione più irriverente della storia. Il maiale è il simbolo della voracità dei politici e l’incoronazione sa di forte provocazione. “Stringere la cinghia, ammonì il maiale, e affondò il suo grugno nel piatto di caviale” canta il poeta. Poesia, ironia, satira sono i volti della passione che lega Roberto Linzalone alla sua Matera. La satira si aiuta con parole forti, spesso pesca nella volgarità, mentre le sferzate verbali del poeta materano colpiscono duro, smontano consolidate convenzioni, sgambettano ingannevoli maschere di falsa umanità con parole rotonde e gentili, proprio come i sentimenti che albergano nella gente di Lucania. “La satira è come il fumo nella tana della volpe. Stimola la città ad esporsi ed è più efficace di manifesti, urla e comizi. La poesia è scienza della polvere, ma quante raffiche in quella polvere”. Sono le 8 del mattino. Nuvole veloci si strappano sui Sassi di Matera. Roberto è pronto per andare a lavoro. L’ultima domanda. Perché Vino e poesia? È un omaggio a Omar Khayyām, poeta, astronomo, matematico e filosofo persiano dell’XI secolo che usava l’ironia per colpire l’ipocrisia e il bigottismo dei religiosi che pretendevano di spiegare il mistero dell’esistenza umana; ed esaltava la sacralità del vino che nella tradizione ortodossa veniva usato per lavare i morti. Un millennio diventa un attimo tra Omar e Roberto che ci saluta così: “Un dato caratterizza Matera: il vuoto il vuoto del pane che nasce dalla lievitazione; il vuoto dei sassi, ventre materno che accoglie sempre chi cerca asilo; il vuoto della memoria che è la vera causa della sconfitta dei materani”



Nel segno dello stupor mundi Franco Cacciatore, giornalista, storico, saggista e poeta conosce storia e storie della Lucania e vive nel segno di Federico II, l’imperatore illuminato.

Cammina con passo leggero ma deciso facendosi spazio tra i pensieri e le pietre di Melfi. Franco Cacciatore porta dentro di sé l’anima della sua terra: la Lucania. Giornalista, saggista, storico, poeta per noi è soprattutto il “Professore”. “No, non sono professore; scrivo, mi piace scrivere, sono giornalista” tiene a precisare. E invece per noi è il Professore, perché ha tante cose da raccontare e da insegnare. Non la storia in senso scolastico, ma la storia e le radici della sua terra raccontate col cuore. Siamo ospiti nella sua Melfi. L’incontro a Piazza Umberto quando il sole di mezzogiorno offusca le menti, toglie l’appetito e piega le gambe. Franco ha le idee chiare e prima di tutto consiglia di rinfrescarsi con l’invenzione di Antonio De Pietra al Bar Nazionale: limone e fragola in acqua frizzante, meglio di una granita, più buono di un sorbetto, per recuperare gli equilibri vitali; un lampo glaciale nella calura di un’estate che non vuol tramontare. Trenta passi e ci accomodiamo nel salone della Società Operaia. Chioma d’argento e occhi cerulei, Franco Cacciatore, prima di ogni cosa, fa chiarezza nel binomio Basilicata - Lucania. Non ha dubbi. Siamo in Lucania. La matassa è sbrogliata in pochi minuti. Il nome originario è Lucania e avrebbe le sue radici nel greco leukos o nella radice latina lux, nel senso di terra della luce; o da lucus, bosco sacro; oppure ancora da lukos, lupo. Qualcosa che evoca bellezza, fascino, natura. Basilicata è qualcosa di diverso che appare nell’XI secolo sotto forma di Basilikos, funzionario regio di Costantinopoli, che ne rivendica il possesso. Da quel momento è un tira e molla sul nome che oggi è ufficialmente Basilicata solo per un equivoco. “Con l’avvento della Repubblica, si escluse il nome Lucania nella convinzione (sbagliata) che Lucania fosse il nome imposto dal regime fascista. In realtà Mussolini suggeriva, per corrette ragioni storiche,


di tornare al nome originario”. Come dare torto al nostro “Professore” che legge nella Basilicata un concetto di estraneità legata ad una dominazione straniera, mentre nella Lucania, le radici di una terra e soprattutto di un popolo, i lucani, caratterizzati da una forte identità. Il suo libro Lucania e Basilicata, due nomi per una regione cerca di mettere un po’ d’ordine e poi dipinge con ironia il telegiornale RAI del 23 novembre 1980 che comunicava la tragedia di “un catastrofico terremoto che ha colpito tre regioni del Meridione d’Italia: la Campania, la Lucania, la Basilicata”. La mimica di Franco disegna concetti nell’aria, mentre smorfie e sorrisi accompagnano storia e storie così come un padre le può raccontare a un figlio. Franco Cacciatore è un lucano doc perché nel suo argomentare sa essere gentile e accogliente. Nei suoi racconti la logica e la storia incontrano l’umanità. C’è passione quando in un attimo ripercorre i 30 anni di vita trascorsi come presidente della Pro Loco da lui stesso fondata. È stato lui a battezzare Melfi la “città delle Costituzioni di Federico II”. A questo punto la sedia gli va stretta, gli occhi brillano di orgoglio, le parole diventano incalzanti. Franco Cacciatore ora è un pirata che naviga nel mare della storia col suo tesoro. Siamo al dunque. È il momento di Federico II di Svevia, l’imperatore nato sotto una tenda in quel di Jesi, il cui nome si fonde con il cuore di pietra di questa piccola e nobile città. Ma ora, proprio sul più bello squilla il telefono. Franco è visibilmente infastidito. Come probabilmente è infastidita la moglie che l’aspettava a pranzo... Anche noi dovevamo pranzare ma a questo punto non avrebbe alcun senso interrompere il viaggio insieme al Professore. Riordinate le idee è il momento di incoronare la memoria di Federico II. “Correva l’agosto del 1231 quando l’imperatore compì l’atto più grande di uno statista: la promulgazione in Melfi delle Costitutiones Melphitanae, un codice che coniuga il diritto romano con quello germanico dando un corpus di leggi a quell’autentico mosaico di razze e credi religiosi in cui convivevano arabi, latini, ebrei, normanni, greci e tedeschi che popolavano il Regno di Sicilia. Le Costituzioni furono un messaggio geniale creando presupposti per un ordine legislativo nell’Europa fino a quel momento governata dalla barbarie”. E poi, sulla cresta dell’onda, prosegue vedendo tra noi la figura di Federico II. “È lui l’anima geniale e nobile di questa terra! Viaggiava in anticipo sui tempi grazie ad un’apertura mentale fuori dal comune, molto più vicino a un rivoluzionario che a un imperatore. E quando il potere è in mano a queste rare personalità la storia racconta cose straordinarie come la Scola Humanitatis di Melfi e la Scuola di Medicina di Salerno, la prima università in terra italica”. Coraggioso nell’imporre il concetto di laicità nella cosa pubblica e avveniristico nel promulgare le prime leggi contro l’inquinamento, Federico II, non a caso noto come Stupor Mundi, è il faro che illumina la sensibilità di Franco Cacciatore. E la sua è una sensibilità ferita se pensa agli “imperatori” che negli ultimi decenni sono riusciti a far dimenticare la Lucania all’immaginario collettivo. Lui che ha identificato nello Stupor Mundi, la musa ispiratrice della “sua” Pro loco nella promozione del territorio, non nasconde il disagio e la frustrazione per aver subito amministrazioni scellerate che hanno relegato l’immagine della Lucania ad una foto sbiadita zeppa di luoghi comuni fatti di povertà ma soprattutto arretratezza, e legando il nome di una città gloriosa come Melfi allo stabilmento FIAT. E così alla fine, quando ormai la moglie di Franco, ha riposto il pranzo mancato nel frigorifero e sparecchiato la tavola, scopriamo dove si incanala la sua profonda sensibilità. Saper raccontare la storia con cuore e passione è qualità di pochi. Bisogna essere poeti per poterlo fare. E infatti Franco Cacciatore è un “poeta d’istinto”: così l’ha fotografato Roberto Murolo, uno dei più grandi cantori di napoletanità. Un poeta vero che parla d’amore, di illusioni e nostalgie, sogni e desideri in vernacolo


napoletano. ‘O Core ‘e Napule è la sua ultima raccolta. Scrive e parla benissimo in napoletano, ma lui è il cuore di Melfi. La sua visione del mondo risente dell’influenza lucente di Federico II ma, a differenza dell’imperatore, riesce a sintetizzarne la sua complessità con giocosa leggerezza, così come racconta nella bellissima poesia ‘O munno è ‘na jacuvella. Federico II, l’imperatore illuminato, avrebbe nominato Franco Cacciatore, magnifico rettore della Scola Humanitatis di Melfi.


Il profeta del mischiglio Viaggio a Terranova di Pollino nel covo di Federico Valicenti, un po’ gastrofiosofo, un po’ oste saggio che nei suoi stravolge i concetti di ricchezza e povertà.

Federico Valicenti è un cantastorie. Quasi tutti lo conoscono come uno degli chef più talentuosi d’Italia. Canta storie della sua terra ma invece di essere accompagnato da una chitarra, recita in una cucina che profuma di Lucania. La Luna Rossa di Terranova di Pollino è il suo palcoscenico dove quotidianamente racconta storie e leggende col cibo. Oggi intorno al cibo si possono incontrare stravaganti personaggi e ancor più stravaganti filosofie. I grandi chef invadono pagine e teleschermi, parlano di cose complicate e propongono arditi accostamenti per sfidare le frontiere del gusto. Federico Valicenti è un grande chef ma la sua vita, da trent’anni a questa parte, è una sperimentazione continua tra i pini loricati del Pollino e la sua Terranova. La sua filosofia e i suoi piatti non hanno nulla di ardito, niente che vuole sorprendere per forza facendo qualcosa di unico e irripetibile, sono distanti anni luce da elaborazioni fusion o molecolari. La sua ricchezza è tutta nella curiosità che l’ha spinto a conoscere le radici della sua terra. I suoi piatti sono il frutto di viaggi e scoperte su strade, sentieri, borghi, cantine e cucine della Lucania. Ha viaggiato in profondità per farsi raccontare da uomini e donne come e cosa si mangia nelle loro case; e soprattutto cosa ricordano delle proprie mamme, nonne, zie; di matrimoni, funerali e ricorrenze popolari. E ora lui è diventato un gastrofilosofo che si presenta col phisique du role dell’oste saggio e ottimista, artista dell’intrattenimento spontaneo. I racconti cominciano nell’orto dove Valicenti si districa con difficoltà in una giungla di zucche, pomodori e piante aromatiche. Entra e esce dalla cucina, poi si siede al nostro tavolo. Parla con gli occhi e col sorriso e condisce tutto con l’entusiasmo, una spezia sempre presente nella sua vita.


La storia comincia nel 1981 con una pizzeria - ristorante - bar. “Non sapevo friggere neanche un uovo e il perché ho aperto il ristorante a Terranova rimarrà un mistero. Ho capito subito però che la cucina per me era un modo importante di comunicare; e ho scoperto così il modo per aprirmi, cercare, amare il mio territorio”. Le fortune gastronomiche di Valicenti iniziano con la coscia d’a zita (la coscia della sposa), vale a dire la coscia dell’agnello cotta in un sugo chiamato ragone e destinata come forma di indennizzo allo sposo che doveva subire la terribile usanza dello jus primae noctis che l’aristocratico del paese, barone o conte, faceva valere nei confronti delle novelle spose. Valicenti riprende l’antica ricetta togliendo la coscia dal sugo e cuocendola col solo calore di riverbero del mattone. La Basilicata si racconta con una cucina dalle radici antiche dove ogni ricetta è intrisa di forti simbolismi. A Pasqua, ad esempio, si mangia l’agnello in padella con uova, asparagi e formaggio dove l’uovo è il simbolo della resurrezione, l’asparago della terra e il formaggio bianco simboleggia il candore della verginità. Basti pensare che anticamente i casari non potevano cagliare nel giorno dell’Ascensione perché dovevano regalare il latte a tutti. E sulla tavola non mancavano mai i tagliolini (che simboleggiavano il grano e il lavoro dell’uomo) bolliti nel latte che rappresentava verginità, purezza e catarsi. Anche nel giorno dei morti il mangiare racconta con intensità il significato della ricorrenza: il grano bollito significa la resurrezione, il mosto cotto utilizzato per il condimento è il lutto, il miele la dolcezza del trapasso e i chicchi di melograno sono ricchezza e prosperità, ma anche la rappresentazione della brace che mantiene viva la vita durante il trapasso. Ogni giorno dell’anno, ogni luogo della Lucania può essere raccontato in un piatto che nella saggezza di Federico diventa un traduttore di umanità, di antiche tradizioni e di significati profondi. Non ha dubbi Federico Valicenti quando spazza via il luogo più comune e per lui fastidioso. “La cucina povera è un falso ideologico! E il motivo è presto detto: i poveri non mangiavano e il pane era simbolo di ricchezza, non come il formaggio che invece era sulle tavole di tutti. Come potrebbe essere considerata povera la cucina alle falde del Pollino che, oltre a essere una bellissima montagna, costituisce una delle officine botaniche più ricche d’Europa? La Basilicata è ricca in quanto terra di passaggio e di luce, nel senso di permeabilità e aperture verso culture diverse”. C’è un piatto che sintetizza e rivoluziona i concetti di ricchezza e povertà: il Mischiglio, il cui profeta è il nostro Valicenti, cantastorie errante che ha scoperto questo “piatto fantastico” nei misteri dell’antica Contea di Chiaromonte tra i borghi di Calvera, Fardella e Teana. Si tratta di una pasta fatta con legumi e cereali: ceci, orzo, fave, semola di macinato Senatore Cappelli e grano Carosella. Pasta povera e allo stesso tempo ricchissima, patrimonio di tavole aristocratiche e focolari domestici, il Mischiglio è simbolo di contaminazione e forte identità. La Strada del Mischiglio è il sogno di Valicenti che vede nello spirito lucano un innato senso di accoglienza. L’acqua per il Mischiglio bolle e c’è tempo per l’ultimo racconto: “La mia Basilicata è come la Giovanna Mezzogiorno, interprete del film di Rocco Papaleo, che vuol fuggire via ma alla fine riscopre il senso del vivere lentamente come essenza di vita e come ritorno alla ricchezza. Non ha senso vivere nell’arcaicità del piagnisteo”. Una breve pausa, profumi e vapori che lo avvolgono mentre torna ai suoi fornelli, prima dell’ultimo ritornello del cantastorie: “La vecchia vestita di nero facciamola morire; il ciuccio chiudiamolo nella stalla!”.



Il riabitante di Matera Raffaele Stifano fa la guida per viaggiatori curiosi; non racconta i monumenti ma l’anima dei Sassi partendo dal vicinato.

Si chiama Raffaele e da bambino correva, saltellava, si nascondeva e sognava dentro ai Sassi. Il vicinato era il suo piccolo grande mondo e lì ha costruito i suoi valori. Il vicinato è il volto umano della città di pietra, uno spazio dove la vita è condivisione di sentimenti, di aiuto, di sostegno reciproco. In quello spazio dove pubblico e privato, verticale e orizzontale, luce e tenebre, si confondono, uomini, donne e bambini danno un volto ai silenzi, gli affanni, gli entusiasmi, la pace e i tormenti della vita. Raffaele giocava e correva nella città immobile, tra uomini piegati dalla stanchezza e donne vestite di nero, ma un giorno del 1952 una legge nazionale mise la parola fine all’ultima città degli uomini. “Le condizioni ambientali erano effettivamente difficili ma c’era un equilibrio molto complesso difficilmente comprensibile per chi non ha vissuto i Sassi”, prova a spiegare Raffaele. Non c’era acqua corrente, né elettricità; uomini e animali vivevano negli stessi spazi e la vita era lavoro, fatiche e amori. La condivisione viscerale trasformava il vicinato in una famiglia allargata. Vita e morte convivevano durante il graduale sgombero terminato nel 1970: i Sassi abbandonati erano ogni giorno sempre più il simbolo dell’angoscia di una città a cui la modernità aveva dato dignità abitativa ma aveva rubato l’anima. Così Raffaele anche da sfrattato non li ha mai abbandonati “per sempre” e non ha mai smesso di andare laggiù a rincorrere il “suo” bambino. “Alla fine dello sgombero facevano quasi paura; le nostre case, i nostri vicinati, i nostri muri e le nostre chiese urlavano senza voce in un vuoto dove la vita aveva le sembianze di crolli e ricordi. “Mia mamma ha ringraziato il cielo il giorno che ha scoperto rubinetti, termosifoni e lampadine. Io ho cominciato a sognare di ritornare. La spinta verso le mie origini di pietra era fortissima, irresistibile e


così sono stato tra i primi a ritornarci. Non era permesso ma insieme ai miei amici condividevo il sogno della città più bella del mondo”. Visionari, sbandati, sognatori e squilibrati, fors’anche pericolosi: ecco cosa pensavano dei riabitanti dei Sassi gli altri materani che come kamikaze si lasciavano esplodere nel boom economico dove l’ambizione era solo quella di una ricchezza materiale. Al Raffaele bambino non importava niente dell’elettronica e del tubo catodico, lui voleva tornare a camminare, mangiare, vivere, amare dentro i Sassi. “Eravamo considerati incalliti conservatori. Tornare in un passato di stenti veniva considerato come una pericolosa involuzione. Invece eravamo proiettati nel futuro e “vedevamo” la ricchezza di questo luogo, impossibile da costruire artificialmente”. E vedevano giusto. Dopo un periodo di occupazione Raffaele riabita il Sasso Caveoso. Nella sua casa, quasi al centro del salotto, una bellissima altalena fissata al soffitto. “La tengo per tutti i bambini che passano da casa mia”... Sarà vero ma sono sicuro che lui sull’altalena torna bambino per dondolarsi nella sua infanzia e riappropriarsi pienamente del suo Sasso Caveoso. E forse dondolandosi sente le voci del vicinato e in quel momento nessuno sta bene come lui. Raffaele Stifano è la chiave per entrare dentro Matera. Ufficialmente è una guida ma non ha nulla del cicerone che descrive piazze e monumenti. Non illustra la storia ma le storie e la sua figura non è diversa da un sarto. Cuce la Matera su misura per tutte le persone che si affidano a lui. “Ho imparato nel vicinato a entrare in contatto con l’altro, a capire, ascoltare con chi ho a che fare. Non mi piace comunicare via mail perché la voce già mi racconta tante cose. E poi non so mai quale Matera mostrerò. Molto dipende dalle persone che incontro. I bambini inseguono tutte le curiosità e i Sassi ne sono pieni zeppi. Una persona anziana può preoccuparsi per la mancanza di un percorso semplice e allora me la prendo sotto braccio e, piano piano, andiamo alla scoperta della città. Come mi ha insegnato il vicinato mi piace coinvolgere turisti e viaggiatori nelle relazioni con i miei concittadini con cui spesso mi fermo a parlare. E così ogni visita è un viaggio unico dove si dicono e si vedono, accadono e si manifestano cose diverse”. È proprio vero, navigare a vista nei Sassi è un’esperienza particolare. “Non amo rispondere subito alle domande. Lo faccio quando è il momento giusto. Non descrivo la città, ma la metto in condizione di raccontarsi da sola”. Sembrano sfumature ma è una filosofia. Solo Raffaele può comunicare l’anima della città perché ha vissuto la sua tormentata storia e ne conosce vergogne e miracoli. Non è un caso che Mel Gibson per la sua Passione di Cristo abbia scelto questa terra ma soprattutto si sia affidato a Raffaele per l’individuazione delle location più importanti. Faccio fatica a salutare Raffaele. Ogni volta. Faccio fatica perché devo allontanarmi dalla sua passione. Appoggiato a un muretto, avvolto dal fumo statico della sua sigaretta, guarda il Sasso Barisano. Vorrei sapere cosa pensa e cosa vede ma lui non me lo direbbe mai. Io lo vedo bambino nel suo vicinato, capace di sorprendersi in ogni dove, aiutare una zia, rincorrere un cane, specchiarsi nel buio di una cisterna, portare del pane al vicino, scappare con gli amici verso la Gravina. Ciao Raffaele. Se ora mi volto indietro lo vedo sulla sua altalena. Felice.



L’ultimo dei vendi a Matera Cercava se stesso e ha trovato i Sassi di Matera. Ralf Koslowski, scultore di labirinti, era venuto per stare zitto nella città vuota dove si è celebrato il suo matrimonio con la pietra.

Mancavano una ventina d’anni al terzo millennio. Era partito dalle brume di Daneneberg, villaggio della Bassa Sassonia, voltando le spalle al Mar Baltico per inseguire tepori mediterranei. Nel suo diario di viaggio, prima di approdare a Matera, ci sono racconti levantini, storie di legno e salsedine tra Molfetta e Monopoli. Gli occhi di Ralf Koslowski sono come i venti gelidi del Baltico che sibilano nei grandi spazi, le sue parole sono pietre lavorate con estro e genialità, le mani scolpiscono labirinti. Ralf è l’unico discendente dei Vendi che riesce a districarsi abilmente nei suoni del dialetto materano. “Ero venuto per stare zitto nella città vuota”. Inizia così il suo racconto mentre la luce dell’est sfiora la Gravina e rimbalza nella sua casa sospesa tra il cielo e il Sasso Caveoso. Era venuto per stare zitto ma anche per liberare il suo genio creativo che scrive storie con la materia: ottone, vetro, legno, ma soprattutto pietra. “A Matera sposi la pietra. Sono permeabile e contagiabile dal posto e dal materiale. A Monopoli facevo barche con un vecchio maestro d’ascia. Mare e legno mi erano entrati dentro”. Nei Sassi si è celebrato così il suo matrimonio con la pietra. All’inizio aveva lavorato con Peppino Mitarotondo, una stella nel cielo degli artigiani materani, nella realizzazione di vetrate e cornici in pietra leccese. “Vivere nei Sassi significa essere sopra, dentro, intorno alla pietra. Ai materani non piace perché fa polvere e muffa, invece io l’adoro perché è viva e dinamica. Già la pietra che respira...” L’ultimo dei Vendi approdato a Matera può fare l’impensabile con la pietra, scolpisce sentimenti e costruisce percorsi improbabili, o meglio, labirinti. Perché labirinti Ralf? “Perché sono forme mediterranee, trasformabili e imprevedibili, proprio come la vita di ognuno di noi. E perché i Sassi sono un labirinto e prima, quando i muri erano più alti, lo erano anche di più. Da quando i muri


sono diventati muretti la Cattedrale e la Gravina costituiscono i punti di riferimento visivi e non ci si smarrisce più”. La casa di Ralf è la sua storia e i suoi racconti sono pietre che riempiono il vuoto del laboratorio, della cucina, della sua camera, del bagno. Lui scolpisce racconti, accarezza i suoi gatti, impregna la barba di fumo e pensieri. Tra un racconto e l’altro partono schegge di filosofia. “Arrivato nella città vuota ho incontrato le persone della cooperativa Malve che aveva come obiettivo l’occupazione sistematica per rivitalizzare i Sassi che potevano essere riabitati”. E con loro Ralf condivideva il sogno di restituire un’anima alla città. La vita di quartiere in uno dei posti più belli del mondo era il sogno. Ma non è andata così. “Ad esclusione di pochi cortili come questo vicinato, tutto il resto è albergo e cartolina. La città si è riempita ma è ancora vuota...”. L’angoscia che ha rovinato il sogno di Ralf è stata l’applicazione della legge di Conservazione e Recupero dei Sassi del 1986. “Fino a quel momento i Sassi erano il più grande esempio di bioarchitettura. Poi sono arrivati tanti soldi, tantissimo cemento che ha riempito i polmoni vitali della pietra che viveva e respirava. È cominciata così la distrutturazione di Matera. Alla pietra locale, pelle della città, si sostituivano pavimenti lavabili e cotto fiorentino. Matera soffocava, moriva in nome di una sciagurata modernità, di un progresso plastificato”. Quello dello scultore sassone e materano è un vissuto tormentato, nella continua ricerca di un equilibrio improbabile all’interno di un labirinto. Nella tormenta però Ralf riesce a vedere uno scenario chiaro e le sue parole sono pietre che costruiscono la sua Matera, “un posto ideale ma anche fallimentare”. Il fumo e la luce dell’est lo avvolgono ma la sua voce si apre un varco e proietta “un campo arido dove nascono i fiori più belli”, e dipinge “una società cruda e spigolosa, gentile me non favorevole”. Poi torna nella sua storia e nella sua illusione: “Pensavo di essere entrato nella città, di farne parte, ma non è stato così. In pochi mesi ho imparato l’italiano ma con i materani mi capivo meglio prima... Avevo l’impressione fosse un luogo magico dove tutto è il contrario di tutto. Poi ho tradotto magico in fiabesco e poi ancora e definitivamente ho capito di vivere in un luogo estremo. Nei Sassi si concentra una fortissima energia spirituale che ti ubriaca di entusiasmo e creatività. Questa energia si impossessa delle persone e allora ho compreso perché i materani sono gentili ma chiusi. L’energia di Matera ti aggredisce e senza corazza perdi l’equilibrio”. Ralf Koslowski ha sposato i Sassi, scolpisce labirinti, si nutre e si difende con la pietra. Ha trovato la formula dell’equilibrio Materano.



Pietre e parole della rabatana Nel quartiere arabo di Tursi, tanto caro ad Albino Pierro, Paolo Popia il poeta di oggi interpreta poesie del poeta di ieri; Oreste Morano e Maria Teresa Prinzo creano poesie di pietra.

Il mondo circostante potrebbe franare da un momento all’altro. A Tursi inizia la Lucania dei calanchi che raccontano l’impermanenza di un’esistenza condizionata dagli elementi. La Rabatana è l’anima saracena di questa terra, aggrappata al cielo di Tursi, un mondo di pietra abitato da pochissime persone e tanti ricordi. Da quassù la Basilicata è grande come il cielo e tra pietre e calanchi sibila la voce di Albino Pierro, il poeta che ha scolpito parole e fissato ricordi in versi che disegnano fedelmente la parte alta di Tursi: Cchi ci arrivè a la Ravatène si nghiànete ‘a pitrizze ca pàrete na schèhe appuntillète a na timpa sciullète (Chi arriva alla Rabatana sale lungo una strada irta di pietre che sembra una scala addossata a una parete argillosa in rovina). Albino Pierro è scomparso alla fine del secolo scorso accarezzando il sogno di un Premio Nobel mai raggiunto ma la sua voce è ancora viva tra i silenzi di pietre consumate dal vento e scavate dalla pioggia. È un giorno d’estate quando Paolo Popia raccoglie tra i sassi le parole di Pierro e le lancia nel cielo di Tursi. Parole di pietra, dure, talvolta taglienti, altre volte friabili che franano sulle pareti morbide dei sentimenti. Paolo Popia le spinge e le raccoglie e poi sembra inseguirle con gli occhi mentre la donna che l’ascolta osservando lo spazio vuoto sotto la Rabatana, fa fatica a difendersi dai tremori dell’anima che bagnano gli occhi. I significati si nascondono nella polvere del dialetto ma il suono proviene da un tempo antico e riesce a raccontare la Lucania che non si può nè vedere nè toccare, solo ricordare. L’atmosfera è completamente diversa quando il poeta regala versi e sentimenti ai suoi ospiti in attesa della cena al Palazzo dei Poeti, dimora per viaggiatori romantici. I versi in dialetto sono una musica avvolgente, a volte simile a un lamento, altre volte forte come un abbraccio carico di


passione. Oltre a quelli di Albino Pierro c’è spazio per i suoi versi delicati e viscerali, sussurrati e urlati, che comunicano l’amore per la sua terra. “Scrivo poesie per dare voce alla pietra che racconta lo spirito della Lucania, il vissuto e il carattere della sua gente che è di pietra: duro nell’orgoglio e nella convinzione di voler riscattare una terra ricca di risorse, e allo stesso tempo povera perché non sono i lucani a godere della ricchezza di questa terra isolata e dimenticata. La poesia dialettale instaura una comunicazione che va oltre la conoscenza linguistica. L’ospite entra in contatto col genius loci attraverso i suoni di Albino Pierro e percepisce il sentimento e la sofferenza di qualcosa che vuole essere espresso e arriva a toccare corde intime e universali”. La rabatana è un luogo forte e simbolico dove “in contrapposizione alle pietre c’è l’argilla, materia in continuo movimento, pelle di un paesaggio mutevole dove la nota costante è l’abbandono. Tra l’argilla e la pietra c’è il lucano”. Lui è nato qui ma ha vissuto anche altrove e dopo aver studiato architettura a Firenze, capitale del bello, è ritornato nella sua culla di pietra per ristrutturare il Palazzo dei Poeti, buen retiro e ambizioso progetto per dare la possibilità ai “forestieri” di vivere nella Rabatana. Per lui è un simbolo della rinascita, un tentativo di dare respiro e linfa vitale a questa terra che sta cercando di tornare a vivere. A poca distanza dai poeti c’è una storia d’amore che ha trovato nelle pietre di Tursi la sua concretizzazione. Lei si chiama Maria Teresa Prinzo, artista e restauratrice, che da Milano è approdata alla Rabatana grazie Oreste Morano, “muratore attento” e innamorato che ha in questo luogo le sue radici. L’idea è quella di condividere il progetto di far rivivere il borgo abbandonato di Tursi. Lei definisce Oreste “muratore attento” per l’intuito e la sensibilità con cui scova, muove, aggrega la pietra. E lui racconta la Rabatana un luogo dove sente il profumo della storia antica e il vissuto della sua storia. “Ho scoperto la Rabatana da ragazzo; qui mi districavo tra i miei sogni e la mia libertà. Guardare nei muri era come guardare l’orizzonte perché qui tutto trasuda storia, umanità, arte. E ancora oggi, in questo mondo di pietra sento una serenità dilagante, la stessa che mi accompagna da quando giocavo e scoprivo il senso della vita”. Maria Teresa dipinge, lavora e crea con ceramica e legno. I suoi impulsi creativi trovano la giusta dimensione nello spazio avvolto dalla pietra dell’”Istrice”, il laboratorio che pulsa nel labirinto della Rabatana. L’autoritratto in cui si dipinge d’azzurro ha uno sguardo profondo che insegue luoghi lontani e insondabili, forse quella Basilicata che, prima del suo viaggio verso la Rabatana, non si immaginava così ricca di “luce e dolcezza”. E che poi sì è rivelata quasi parte di sé “con quella creta che tanto coinvolge il mio lavoro e la mia creatività che mi fa sentire un profondo legame con la Magna Grecia”. A differenza di Oreste non si sente di nessun luogo, ma si è lasciata rapire da un sogno e qui c’è un bel progetto da realizzare. E mentre ne parla gli occhi sono identici a quelli dell’autoritratto. Guardano lontano, verso il progetto da condividere con le pietre di Tursi. Lei è l’argilla delle crete, Oreste la pietra dura e raffinata, i loro sentimenti trovano la giusta energia nella Rabatana. Un vento pungente asciuga la pioggia della notte mentre cammino in compagnia di Teresa, Oreste e Paolo. Mani, menti e cuori, voci e passioni che attraversano il borgo arrampicato. Alle undici del mattino puntuali passano Nicola e Bianchina, il “ministro dei trasporti” con la sua asinella diretti alla stalla scavata nella roccia. Nicola è un uomo minuto e di poche parole. È l’ultimo abitante della Rabatana di Albino Pierro, l’anello di congiunzione con il secolo scorso. La vita di questo luogo magico è un filo sottile che sembra potersi spezzare da un momento all’altro. “Ma ié le vògghie bnéne ‘a Ravatène, (ma io voglio bene alla Rabatana), ripete il poeta di oggi con le parole del poeta di ieri. Il legame con questo luogo è molto forte: “Ho deciso di far nascere qui i miei figli, tra questi sassi che


conservano i valori semplici della nostra civiltà. L’imprinting lucano è ispirato a relazioni di grande umanità: le radici sono solide, mente e cuore sono aperti verso l’integrazione con altri popoli e altre vite”. La Rabatana è un luogo di partenze e di arrivi, una dimensione forte e fragile allo stesso tempo, dove si tocca con mano l’essenza della lucanità. Un ponte verso altre culture.


Il diavolo e l’acqua santa L’arpa viggianese, strumento nobile e raffinato, era sulla via dell’estinzione. Luigi Milano è il più grande interprete e sarebbe stato l’ultimo se non avesse incontrato Daniela Ippolito.

Cosa si nasconde dietro l’arpa viggianese: il diavolo o l’acqua santa? “La lezione numero uno è suonare con passione e dolcezza”, dice Luigi Milano, ottuagenario maestro classe ’31 e oramai unico interprete dello strumento. Restai ad ascoltarlo mentre agitava le corde con tocchi rapidi e leggeri delle falangi. Suonava lo strumento nell’androne di una vecchia casa di Moliterno, tra il vecchio batacchio del portale raffigurante un leone e, sullo sfondo, una affascinante scala dalla ringhiera in ferro battuto. Le note di Malafemmina, soavi, leggere, lievitavano dolcemente. Non era musica. Era un’orpello floreale, un ricamo nell’aria. “Ci vuole silenzio per suonare l’arpa”, ama ripetere il maestro. E infatti il silenzio in quell’anfratto architettonico dal fascino decadente era totale. Chi camminava sul marciapiede di fronte, sbirciava dentro. All’improvviso una testa fece capolino sullo sfondo dell’androne. Poi vidi la figura intera sedersi sulle scale con le mani appoggiate al mento, rapita nell’ascolto. Accanto a lei un catino di plastica col bucato da stendere. C’era Luigi Milano che suonava: il bucato poteva aspettare. Per un attimo mi tornò alla mente la sequenza di Lisbon Story, in cui il protagonista del film si blocca in estasi per ascoltare i Madre Deus mentre interpretano “Guitarra”. L’unica differenza è che qui nel vecchio androne di Moliterno non c’erano azaulejos portoghesi ma pareti scrostate di un vago color ocra e un’eco che, come nel film, trascinava le note in ogni anfratto. “È la voce degli angeli” pensai. Mi sbagliavo. Tornato due mesi dopo a Viggiano mi trovai di fronte una forza della natura dai lunghi capelli rossi e la voce baritonale. Non si trattava di Marilyn Manson arrivato in paese per trasformare l’arpa viggianese nello strumento del demonio ma di Daniela Ippolito da San Mauro Forte, già allieva del maestro Milano ed ora arpista di eccelse


qualità. “Quando suono divento un’altra persona” dice nella piccola stanza accanto al cervellotico parcheggio di Viggiano in cui tutto si può fare anziché parcheggiare. È qui, nella scuola diretta dalla professoressa Anna Pasetti e dal paraguaiano Lincoln Almada, che due volte alla settimana Daniela impartisce lezioni a gruppi di bambini dai tre ai dodici anni. Pensate, bambini piccoli come birilli che vanno a lezione di arpa. Non è meraviglioso? Quando arrivai, c’erano sei arpe disposte a semicerchio, rinchiuse nelle loro custodie. Alcuni bambini dovettero salire sulle scale per sgusciarle via. Poi la lezione ebbe inizio, sotto lo sguardo di un paio di rilassatissimi genitori. “Quando nel 2008 Luigi Milano mi disse che dovevo suonare con passione e dolcezza ebbi un sussulto” dice Daniela alla fine di una jam session. “Sulla passione non avevo problemi, sulla dolcezza invece, considerato il mio carattere esuberante, avevo qualche riserva”. “Perché”, le chiesi, “cosa mai si può fare con un’arpa?”. La risposta di Daniela arrivò all’istante. “Ho sempre sognato”, disse mentre sistemava sulle corde le manine di una aspirante arpista seienne, “di suonare con qualche gruppo heavy metal, per esempio i Monowar”. Rivoluzionario! L’arpa tra la batteria e la chitarra elettrica! Del resto, non era l’arpa che nell’Irlanda di un tempo accendeva gli animi in battaglia? Non era il suono dell’arpa che intonava le marce di vittoria degli antichi popoli della Mesopotamia? Chissà cosa ne pensa Luigi Milano che iniziò a strimpellare lo strumento, una vecchia arpa triste che nessuno suonava più, a soli 4 anni? “Quell’’arpa abbandonata da tutti mi incuriosiva”, ricorda Luigi. “Le toglievo il tessuto che la ricopriva e poi, piano piano, per non farmi sentire, la suonavo muovendo le corde con le mie piccole dita”. E più suonava, più l’arpa entusiasmava il piccolo Luigi. “Così andai a lezione dal nonno acquisito Vincenzo Lapenta per tre anni di fila, tutti i giorni alle 2 del pomeriggio” dice Luigi mentre posa accanto ad uno degli amori della sua vita, un’arpa inglese dorata marca Herald di 200 anni d’età. “Fu proprio il nonno a regalarmela”, ricorda con commozione, “lasciò scritto tutto nel testamento”: L’arpa a rotella che cambia tonalità coi pedali la lascio al mio nipote acquisito Luigi Milano. Da giovanissimo il piccolo Luigi, passava il tempo suonando insieme al fratello Nicola, “un flautista meraviglioso”, ricorda. Per raggranellare qualche soldino, lui, il fratello e altri musicisti suonavano le “novene” a Natale (almeno fino allo scoppio della seconda guerra mondiale), accompagnavano in musica i matrimoni che a quei tempi si celebravano in casa oppure improvvisavano concerti nei negozi da barbiere, ce n’erano diversi in quegli anni in paese. Non doveva essere male farsi fare barba e capelli con un sottofondo di chitarra, arpa viggianese, flauto e mandolino. “Che anni indimenticabili sono stati quelli” dice con malinconia nel negozietto dove fino a pochi anni fa, dal ’75 al dicembre 2011, esercitava il mestiere di orafo. Ne è passato di tempo, era tra la metà degli anni ‘40 e ’50, eppure ricorda ancora perfettamente i nomi dei suoi compagni musicisti: Antonio Albini al violino, Francesco De Biase alla batteria, Marcello Garofalo alla chitarra e mandolino, Nicola Milano al flauto. E cosa suonavate?, chiedo. “La risposta arriva subito, con un lampo negli occhi. “I nostri pezzi forti erano La polka fiorita, in cui il cavaliere gira intorno alla donna senza toccarla, quasi una danza di corteggiamento e poi la tarantella moliternese, il “tarascone”, un ballo tipico del meridione in cui si fanno schioccare le dita. “Nell’arpa viggianese”, aggiunge subito dopo, “tutte le otto dita sono sempre impegnate sulle corde, solo i due mignoli restano quasi sempre inattivi”. Intanto arriva anche la moglie. Si appoggia al vecchio bancone e si mette ad ascoltare. Anche lei gentile, dolce, riservata. È quasi sera. Luigi chiude la porta. Appare nel controluce della vecchia bottega. Con la coda dell’occhio, mentre sto per svoltare l’angolo, lo vedo armeggiare accanto alla sua vecchia arpa. “Tutto bene?”, chiedo. “Ti svelerò un segreto”, sussurra l’”arpaiolo”, “Il momento più bello della giornata è quando


mi faccio una bella suonatina tutto da solo�.


L’uomo nero di rapolla Gerardo Consiglio, professione spazzacamino. È l’unico in Basilicata che può salire sui tetti, ispezionare e pulire canne fumarie, risolvere fumosi problemi.

In Inghilterra avere due spazzacamini come testimoni di nozze è un considerato un portafortuna. Volto sporco di fuliggine e tradizionale “riccio” dalle lamelle di metallo sullo sfondo del prete che officia il rito, sono il viatico migliore per una vita coniugale felice. In Basilicata invece, per i novelli sposi non esiste un simile talismano. Di spazzacamino infatti ce n’è uno solo, Gerardo Consiglio da Rapolla. Se ce n’è uno solo, il lavoro non dovrebbe mancare. E invece no. Che posto occupano le canne fumarie nelle menti dei lucani? Chi di loro è a conoscenza che una canna fumaria tirata a lucido porta vantaggi indubitabili, economici, ambientali, energetici? Pochi o nessuno. “Una pulizia regolare”, conferma Gerardo seduto al tavolo di casa insieme a tutta la famiglia, “garantisce minor consumo di legna, riduce l’inquinamento e infine azzera o quasi gli incendi causati da un accumulo di fuliggine, altamente infiammabile, nella canna fumaria stessa”. “Come ti è venuta l’idea?”, chiedo all’ex guardia giurata che purtroppo ha da poco perso il lavoro (lo spazzacamino lo faceva a tempo perso), mentre su Rapolla si abbatte un forte temporale e le stradine sembrano torrenti in piena. “Nel 2007”, dice Gerardo, “mi accorsi che tutte le regioni d’Italia avevano almeno uno spazzacamino, alcune poi tantissimi. La Basilicata era l’unica a non averne. Avevo problemi con la canna fumaria di casa mia ma non sapevo a chi rivolgermi. Feci ricerche su internet. Consumai i polpastrelli sfogliando le pagine gialle dell’intera regione. Sembrava impossibile e invece in Basilicata non c’era l’ombra di uno spazzacamino”. Nelle vicine Calabria, Puglia e per esempio in Sardegna, ce ne sono almeno quattro o cinque. E in Basilicata nessuno. Così, arrangiandosi, facendo riparazioni qua e là tra i tetti e il cielo di Rapolla, alla fine Gerardo prese confidenza col bistrattato mestiere. E, nonostante a scuola


prendessero in giro la figlia per la professione del papà, alla fine prese la decisione. Avrebbe fatto lo spazzacamino. Dunque sarebbe diventato come il dinoccolato Bert, alias Dick van Dyke, nel film Mary Poppins? Sicuramente no. Gerardo non avrebbe cantato e ballato tra i comignoli della Basilicata soprattutto perché il mestiere di spazzacamino non ha mai avuto nulla di romantico. Quanti bambinispazzacamino piccolissimi, anche di 7-8 anni, scelti da padroni-aguzzini per il loro fisico magro e scattante, adattissimo ad infilarsi negli stretti pertugi di camini e canne fumarie, sono morti, soprattutto nel nord Italia, tra la fine dell’ottocento e la prima metà del Novecento? Tantissimi. Sembra Medioevo e invece succedeva appena nel secolo scorso. Comunque sia il mestiere di moderno spazzacamino non ha nulla a che fare coi luoghi comuni del passato. Lo spazzacamino del terzo millennio è un moderno imprenditore di se stesso, dotato di altissima professionalità e non ultimo, per l’attività ecologica che svolge, un paladino del risparmio energetico. E infatti “l’uomo nero” di Rapolla gira a bordo di un camioncino stipato degli attrezzi del mestiere, per esempio scovolo (spazzola d’acciaio), sondaflex per la pulizia di canne fumarie e canali di ventilazione, sistema computerizzato di video ispezione che rileva il monossido e l’umidità e, così attrezzato, se ne va in giro con la scritta “Jerry service” in bella evidenza sulla carrozzeria. Gerardo iniziò l’attività con una sorta di fai da te, risolvendo i “fumosi problemi” dei vicini di casa. Poi, visto che il lavoro incominciava a richiedere professionalità, migrò per un periodo a Pordenone dove frequentò corsi di aggiornamento professionale organizzato dalla Anfus (Associazione Nazionale Fumisti Spazzacamini). “Tutto a mie spese”, dice Gerardo sconsolato, “perché non esistono sovvenzioni di enti o istituzioni per questo genere di lavoro”. In realtà c’è una normativa che obbligherebbe ogni due anni ad una rigorosa pulizia di tutti gli impianti termici (a gas, a legna o pellet). “Ma è una normativa e non una legge e nessuno la rispetta”. E questo causa costi sociali notevolissimi alla comunità: un camino intasato inquina e consuma il doppio. “Il mio sogno”, dice Gerardo davanti ad una fila ben assortita di dolcetti lucani, “sarebbe quello di lanciare il progetto di uno “spazzacamino a chilometro zero”, cioè di una figura professionale sempre pronta ad intervenire, e rapidamente, in ogni angolo della Basilicata. E, di pari passo, attivare anche una scuola per giovani”. Ecco una buona idea per le istituzioni lucane: investendo in questa direzione la Basilicata diventerebbe una regione moderna e aperta al futuro. Al moderno spazzacamino infatti non si richiede più soltanto di pulire caldaie e camini che, tra l’altro, con le moderne tecnologie stanno diventando sempre meno, ma soprattutto di gestire i moderni sistemi di riscaldamento. Ecco una bella idea per i giovani lucani, nel caso fossero in cerca di una professione originale e in continua evoluzione. Sono molteplici le emozioni che da questo mestiere. Per esempio, com’è successo a Gerardo, può capitare di imbattersi in un nido di pericolosissimi calabroni rossi. “È successo in una villetta di Melfi”, ricorda Gerry , “il nido, grosso come una palla da rugby, era nel sottotetto”. Quando si trovò di fronte a quegli insetti ronzanti che la tradizione popolare ritiene in grado di uccidere un cavallo con sette punture, e infatti si chiamano anche “ammazzasomari”, Gerardo molto poco eroicamente se la diede a gambe. Questa volta sì saltellando e zompando come Bert lo spazzacamino! Finché, alla fine, un adeguato fuoco sotto il nido disperse il bellicoso esercito di insetti in una nuvola di fumo. Intanto fuori c’è il diluvio universale. Non proprio il tempo ideale per prendere scopino e salire sui tetti a dare una pulitina. Da qualche parte, il cielo nero come la pece emana una piccola luce. Forse un segno di buon auspicio. Presto anche in Basilicata ci saranno almeno due spazzacamini da sistemare accanto all’altare!



La scuola che non c’è A Terranova di Pollino vive Pino Salamone, artigiano costruttore e suonatore di zampogne, strumento dimenticato che evoca le radici della vita agropastorale.

In una piccola prigione di vetro, nel Centro di Educazione Ambientale di Terranova del Pollino, ci sono tre vecchie zampogne. Pensando al loro passato, trascorso a tuonare note tra selvagge montagne, grandi spazi aperti e feste paesane, fa uno strano effetto vederle ridotte così, inanimate e silenziose. La pelle di capra che forma il serbatoio giace inerte come uno straccio. E chissà da quanti anni le canne di legno dal tubo a campana reclamano guance gonfie d’aria? Dov’è finito lo zampognaro metà mendicante e metà pastore descritto da Hector Berlioz che suonava avvolto in una cappa di panno nero col cappello a punta dei briganti? “Queste zampogne hanno più di cent’anni” dice Pino Salamone, abile interprete e costruttore dell’arcaico strumento. Sono state costruite a regola d’arte tra la fine dell’800 e l’inizio del secolo scorso dai maestri liutai del Pollino. Il loro suono antico, penetrante e carismatico, ha rimbombato per i vicoli del paese fino agli anni’70. Nel piccolo percorso museale dedicato agli strumenti del territorio, c’È anche la surdulina appartenuta a Giuseppe Salamone, il nonno di Pino. Lo vedo suonare nella copertina di un libro che racconta vita e segreti di zampogne e ciaramelle. “È da nonno Giuseppe che mio padre ha imparato a suonare la zampogna e io ho imparato da lui”, racconta Pino negli spazi vuoti del Centro che nella mente di pochi “illuminati” come lui dovrebbe diventare un percorso museale e laboratorio didattico dedicato allo strumento. Immagino un luogo della memoria affollato di giovani che vanno e vengono con la zampogna in spalla mentre le note dello strumento, ultime testimoni di un mondo agro-pastorale oramai perduto, lievitano nell’aria. Invece qui c’e solo silenzio. Sfila davanti agli occhi una asettica esposizione su natura, geologia, flora e fauna della Val Sarmento, sicuramente interessante ma che vive solo nell’attimo delle rapide visite


scolastiche. Nel Centro, l’angolino dedicato alle zampogne occupa un misero e triste spazio. “Le istituzioni ci voltano le spalle”, dice Pino sconsolato. “Sono anni che proponiamo la creazione di un polo culturale e di una scuola dedicati alla zampogna”. Tutto inutile. Quando non arrivano profitti e vantaggi economici, la classe politica volta le spalle. “E invece la creazione del Centro garantirebbe un ritorno enorme per la popolazione locale e l’intero territorio: ma questo non interessa a nessuno”, sbotta Pino prima di improvvisare un concertino dando fiato ad un’antica ciaramella. “Che cos’è la ciaramella?”, chiedo”. La “compagna della zampogna: una sorta di oboe tradizionale di legno d’ulivo e acero”, risponde il musicista tra uno sbuffo e l’altro. A quanto vedo, entrambi gli strumenti hanno dimensioni enormi. “Tra i due palmi e mezzo e i sei”, risponde Pino riponendo le zampogne in gabbia dopo la “mezz’ora d’aria”. Il palmo è un’antica misura borbonica che corrisponde a 25 centimetri. Paragonata a ciaramelle e zampogna, la surdulina lunga meno di un palmo, tra i 14 e i 20 centimetri, fa la figura di Pollicino davanti ai giganti. “La cosa interessante”, continua il musicista, “è che la si può costruire anche coi legni degli alberi da frutta, ciliegio, prugna, albicocco, bosso, adoperando solo accetta e coltello, senza l’uso del maglio che invece serve a modellare la struttura esterna di grandi strumenti come la zampogna e la ciaramella”. Inoltre la surdulina ha un potere che gli altri due colossi non possono permettersi: un foro interno nella canna sinistra “zeppato”, cioè chiuso, che permette gli stacchi musicali. Pause sonore che danno il tempo all’ascoltatore di digerire le note. E di fantasticare. Si è fatta sera. Una notte gelida traforata di stelle sta per allungare il mantello sui tetti di Terranova. Si sta benone seduti in un localino a sorseggiare qualcosa. Vino locale per lui, acqua minerale con limone per me, Pino mi racconta la sua storia. “Sin dall’inizio, il mio intento è stato quello di recuperare la credibilità di uno strumento come la zampogna, considerato a torto un sottoprodotto del mondo agro-pastorale. Carpendo tecniche e segreti, ho iniziato a costruire zampogne nella bottega del maestro Antonio Leonardo Lanza, che stava sotto le montagne, in località Casa del Conte. È da lui che ho imparato i metodi di costruzione”, racconta, “la scelta dei legni, l’utilizzo del maglio. Da mio padre invece, giù nella casa-laboratorio della frazione Calvario, ho imparato la tecnica dell’accordatura.” Va ricordato che tutti i maestri liutai sono oramai quasi estinti e dunque il lavoro di recupero delle antiche tecniche di costruzione da parte di Pino, è meritevole della più alta considerazione. Dovrebbe essere tutelato e valorizzato e invece procede zoppicando tra l’indifferenza generale. “In paese oltre a me, c’è un altro costruttore di zampogne che continua la tradizione, Leonardo Riccardi. Esistono inoltre due gruppi musicali storici, i Totarella (di cui Pino fa parte) e i Suoni. E soprattutto un gruppo di ventenni, gli Istamanera, che portano avanti con entusiasmo la tradizione della zampogna e degli altri strumenti arcaici a fiato del territorio”. Guardando gli occhi luminosi di Pino, e non si tratta di vino perché non ha nemmeno finito il primo bicchiere, mi viene da pensare che vivere sin da piccoli avvolti nella serenità che offre la melodia della zampogna, è un ottimo viatico per una vita se non migliore, almeno più rilassata. Intanto il racconto continua. Ben presto, iniziando una sorta di lento apprendistato musicale, il giovane Pino, incominciò a seguire il padre che si esibiva qua e là, per piazze e sagre, intervenendo nelle innumerevoli ricorrenze religiose che sono il sale della vita lucana: la Madonna del Pollino, la Madonna del Carmine a Terranova, gli antichi riti arborei di Rotonda e Accettura, la Madonna Nera di Viggiano. Poi iniziò a fare pratica sullo strumento. Ma non prima di 16-18 anni però. “Prima di una certa età”, precisa mentre il locale incomincia a svuotarsi, “considerate le dimensioni della zampogna, le difficoltà tecniche e la resistenza fisica necessaria per mantenere il ritmo sonoro, è impossibile prenderne confidenza. Da


bambino acquisisci le cognizioni dello strumento, quando cresci incominci a suonarlo”. Il padre di Pino in particolare, non doveva essere male con la zampogna tra le braccia, visto che fior di studiosi, ricercatori ed etnomusicologi, il professor Roberto Leydi, fondatore del Dams di Bologna, il professor Pietro Sassu e Vincenzo Lavena per esempio, andavano a trovarlo armati di microfoni e taccuini. Dunque la zampogna non era lo strumento del mondo agropastorale da accantonare in soffitta con vergogna ma una creatura nobile, gonfia di dignità oltre che d’aria. A casa nostra”, ricorda, “ci venivano persino studenti, ora docenti universitari, in cerca di informazioni per la loro tesi”. È mezzanotte, la tv continua trasmettere l’ennesima trasmissione dedicata al gastronomia e alla dieta mediterranea con uno chef che spiattella tra intingoli e fritture. “Mai una volta che si parli di zampogna e di tradizioni musicali ” dice Pino sconsolato, mentre il titolare sta per buttare giù la saracinesca. “…a parte il solito stucchevole servizio sugli zampognari a Natale. Sono anni che lo strumento è in attesa di divenire Patrimonio Immateriale dell’Unesco: richiesta puntualmente disattesa dalle Istituzioni.” Meglio non pensarci su. Cacciati dal titolare entriamo nelle strade vuote. Questi silenzi, parlano degli emigrati che negli anni hanno abbandonato il borgo natio in cerca di fortuna. Hanno colonizzato come api l’America, il Canada, l’Argentina. Tutta gente che ha trovato il lavoro, non certo il benessere. Come si suol dire “tira a campare”. “Quando col gruppo Tatarella andiamo a suonare da quelle parti è come un ritorno alle origini” dice Pino prima di sparire verso la parte alta di Terranova, dove abita. “Il suono arcaico della zampogna è il collante che unisce più di un cordone ombelicale. Ai nostri concerti, sento sempre un tuffo al cuore nel vedere i vecchi emigrati con gli occhi umidi”. Tra questi, a Buenos Aires dove vive una folta colonia di lucani, c’era anche la sorella di Pino. Ma purtroppo adesso non c’è più. È lontano dai luoghi d’origine, quando ti senti perduto, che pulsa più forte l’amore per le proprie radici.


I colori ritrovati Un po’ poeta, un po’ visionario Tony Montemurro è il pittore naïf che è riuscito a imprigionare la memoria dei Sassi.

Questa è la storia di Tony Montemurro, l’omino piccolo e minuto che un giorno, non si sa bene quando, riempì un sacco coi Sassi di Matera e piano piano, lungo il selciato dove gli zoccoli dei muli non si sentivano più, arrivò in un bugigattolo stipato di tele e pennelli. Doveva fare presto il “pittore nato con gli inchiostri”. Voleva imprigionare la memoria prima che anche questa si dissolvesse nell’oblio. Con l’abbandono dei Sassi negli anni ’60, la vita all’improvviso non c’era più. In un lampo il formicaio del “vicinato” che per secoli aveva reso nobile una tana fatta di spelonche, diventò un deserto. Il Sahara in mezzo alle pietre. Voci, grida, rumori. Tutto finito. Peccato. “Era il tempo del pre consumismo”, dice il maestro “e ogni giorno si celebrava nei Sassi l’arte del risparmio”. Anche la memoria stava per scappare via. Tony Montemurro l’acciuffò per i capelli. Giusto in tempo. Ora è lì, dentro le cornici, a volte serena e a volte giù di corda, vegliata da un esercito di colori che sembrano inespugnabili castelli di Lucania. Nel suo studio a nido d’aquila sulla punta di Sasso Barisano, il mondo sociale del vicinato, la “sacra coralità” materana che da sempre fa visita al pittore, riceve le luci di cristallo di un giorno di dicembre. Il freddo colpisce duro”. Non ci sono fuochi di camini. Ne stufe. Riscaldano il cuore i colori. Escono dalle cornici insieme ai Carri Trionfali della Bruna, sotto i riflessi dei vetri dove le scene di vita dei Sassi si dibattono. Sembrano farfalle che cercano di prendere il volo. Almeno la memoria è salva. Tony Montemurro ride poco. Ha gli occhi piccoli e tondi. Lo sguardo furbo di una volpe, la saggezza, anche questa da conservare sottovetro, di un capo indiano. Il padre faceva il sarto in una atelier di alta moda di Napoli. Le sorelle erano molto studiose. Stavano tutto il giorno sui libri. Tony le ascoltava, non era sordo allora, mentre costruiva carri della Bruna in


miniatura coi fili di rame. E poi disegnava. Andava bene tutto: un muro, un lenzuolo del bucato. È nei Sassi, mentre intorno la vita brulicava, che imparò a conoscere i grandi della storia, da Gengis Khan a Giovanni Pascoli. Nessun bambino era più colto di lui. A 8 anni conosceva già la Divina Commedia. Era in quella fornace di uomini e di idee, in quella grande madre, che il pittore dei ricordi è cresciuto. “Sono un figlio d’arte” dice, mentre per un movimento maldestro il mio zaino fotografico sgancia dal chiodo il quadro che raffigura bambini legati con un filo agli aquiloni. Lo stesso cordone ombelicale che unisce Tony Montemurro ai Sassi. “Gli orfani del suo amore” li chiama. Oggi sono pittoreschi, ieri erano una vergogna nazionale. Quando con la chiusura dei Sassi la favola di Tony si frantumò, il pittore che cercava le proprie radici era considerato l’eremita di un passato da cancellare. Eppure, appena trasferito a Matera nuova, nel rione Serra Venerdì, aveva già voglia di ritornare. Quando ci rimise piede i Sassi erano irriconoscibili. Devastati, saccheggiati, invasi dalla vegetazione. Non c’era anima viva. Solo il battito del suo cuore. “Ero l’unico”, dice “ a credere ancora nei Sassi. Ma cosa potevo fare?”. La sola arma in suo possesso erano la pittura. Il pensiero la massima fonte d’ispirazione. Tony decise di dare vita ai fantasmi coi pennelli. Li ha imprigionati dentro gabbie di tela ma li ha salvati. Non hanno espressione i personaggi di Tony. Nei suoi quadri l’umanità che popola i Sassi, la folla che assedia il Carro e poi lo sbrana è una visione senza tempo ne luogo. Le figure sono palline bianche senza volto. Non hanno occhi, non hanno naso, non hanno bocca. Così vanno bene per tutti. Ognuno è libero di entrare nel quadro. Butti uno sguardo e diventi fornaio, falegname, buffone di un circo. E così il mondo dei Sassi si ricompone. In una tela il buon Tony immagina persino il tempo in cui si scioglieranno i ghiacci. Si vedono barche fluttuare in mezzo al mare, tra i Sassi e la Murgia Quadra. Forse sono gondole. Matera come Venezia. O forse Tony Montemurro è come Matera. Adesso il gelo sfonda le ossa. Il maestro saluta, tira su il bavero e se ne va.


L’artigiano e il campione Giuseppe Scelzo è un maestro costruttore di organetti e interprete polivalente di strumenti aerofoni, Rocco Errichetti ha vinto i campionati mondiali di organetto.

Una ventina d’anni fa, ad Acerenza, durante i festeggiamenti per il nono centenario della costruzione della cattedrale, il gruppo musicale “Lucania Liscio” invitato a rallegrare le celebrazioni e guidato da Giuseppe Scelzo, suonatore, costruttore, accordatore di organetti allora dotato di discreta capigliatura, s’imbatté in Rocco Errichetti, un bambino di dieci anni che armeggiava con maestria uno strumento più grande di lui. Per la prima volta, Rocchino da Ruoti, futuro campione del mondo di organetto, si esibiva sul palco insieme all’uomo dalle cui mani oggi nascono alcuni tra i più straordinari strumenti a mantice del mondo. Opere d’arte assemblate pezzo per pezzo attraverso lunghi e complessi fasi di costruzione. ”Si vedeva subito che Rocchino aveva i numeri” dice Giuseppe vent’anni dopo nella sua casa-laboratorio in via Infante 2 a Brienza. “Quella sera fu il padre di Rocco a chiederci se il figlio poteva suonare insieme a noi. Accettammo con entusiasmo”. In realtà nemmeno lo “stradivari di Brienza” era da meno, visto che a 14 anni, era la metà degli anni 70’, già strimpellava nel gruppo folk “Lucania Verde”. Anche l’amore di Giuseppe per l’organetto incomincia in giovane età. “In realtà all’epoca mi piaceva la fisarmonica; mio padre era un ottimo suonatore. Era un autodidatta che suonava ad orecchio. Per questo motivo voleva che, a differenza sua, dessi carattere didattico alla mia passione, imparando a leggere la musica e la tecnica del solfeggio”. Così Giuseppe incominciò a frequentare le lezioni dell’insegnante Giuseppina De Rosa a Brienza. Poi affinò l’arte a Potenza e presso il conservatorio locale e infine, erano gli anni ’80, conseguì il diploma di quinto anno di pianoforte al conservatorio di Salerno. Erano studi che vertevano soprattutto sul pianoforte. E a Giuseppe interessava la fisarmonica. Così nell’82 per stare più vicino all’oggetto dei suoi desideri, gli


balenò l’idea di aprire un negozietto di strumenti musicali e di assistenza tecnica diretta alla riparazione di fisarmoniche e organetti, per i quali aveva una sorta di naturale predisposizione. Una volta aperta la rivendita, Giuseppe si ritrovava spesso a dover portare gli strumenti nelle Marche per la riparazione, a Castelfidardo, la capitale della fisarmonica. È qui che ha carpito i segreti dello strumento, ne ha vivisezionato l’anatomia. “Ho approfondito le nozioni tecniche di base sia presso le ditte che mi fornivano gli strumenti, sia trascorrendo molto tempo osservando il lavoro dei maestri artigiani, ognuno specializzato in un settore: chi faceva il mantice, chi accordava, chi faceva le voci, chi le tastiere. A questa sono seguite fasi di studio e di ricerche individuali, finché nel 2000, mastro Scelzo, dopo aver riparato un buon numero di strumenti e imparato a conoscere vita e miracoli di ogni singolo componente, incominciò ad accarezzare l’idea di costruire organetti con le proprie mani. Lo fece anche Leonardo da Vinci, più o meno cinquecento anni fa. In un suo disegno conservato alla Biblioteca Nazionale di Madrid infatti, compare un omino che stringe tra le mani uno strumento molto simile alla fisarmonica, con schizzi di rudimentali canne, tastiere e mantice “La parte più semplice della costruzione”, dice Giuseppe al pianterreno della casa, nel garage stipato di macchinari dove pulsa l’attività della ditta “Scelzodiatonici”, “è l’assemblaggio della cassa armonica di legno, quella più difficile l’accordatura e il montaggio dei somieri, castelletti lignei su cui viene appoggiata la voce. Ad ogni voce infatti corrisponde un volume d’aria”. “Ci vuole grande esperienza e soprattutto orecchio”, continua Giuseppe mentre arriva un cliente. A vederle radunate qua e là nel suo caotico laboratorio, alcune ancora in fase di costruzione, altre nuove di zecca, lucide, eleganti, mi risulta difficile pensare che questi strumenti vengano suonati quasi esclusivamente per allietare sagre e feste di paese, serate di liscio, insomma ghettizzate nel cosi detto genere musicale folk. A dire il vero sono entrate a far parte anche delle struggenti ballate, tra tango e jazz di Astor Piazzolla e in alcuni pezzi di De Andre come Il Giudice e Dolcenera. Ma si tratta di casi sporadici. Il mio naturalmente è il parere di un profano. Ma ecco Giuseppe corrermi in aiuto. “Il suono della fisarmonica”, dice mentre apre le porte al cliente, “non è mai stato sviscerato. Ed è un peccato. Le sue potenzialità sono infinite. Può adattarsi a molti generi musicali, compresa il jazz e la musica classica”. Rinfrancato dall’illustre parere già fantasticavo un duetto tra la fisarmonica di Scelzo e l’arpa viggianese di Luigi Milano, arrivando persino ad immaginare lo strumento in un concerto rock dei Deep Purple. L’altra cosa interessante, è che su Giuseppe lo strumento esercita anche un potere taumaturgico. Di carattere chiuso, timido e introverso, geloso del proprio carattere, forse con una vaga inclinazione al pessimismo leopardiano, ogni volta che Giuseppe incomincia a far correre le dita sulla tastiera, il suo umore cambia. “Sono stato salvato dalla musica. Sono uscito fuori dal guscio grazie a lei”, dice al secondo piano della casa dove ci sono la macchina per i somieri ed un moderno pantografo cnc realizzato insieme al figlio che riproduce sul legno linee e rilievi del computer. “Non c’è un momento preciso. Sono diversi i piccoli passi che, giorno dopo giorno, al ritmo della musica mi hanno salvato dall’isolamento”. La fisarmonica meglio dello psicanalista dunque. “Quando suono divento un’altra persona, un “compagnone”, aggiunge Giuseppe mentre imbraccia un voluminoso organetto per improvvisare una suonatina nel suo ufficio, tra la porta e la scrivania. Dalle origini, era il ‘74, a oggi, sono più di tremila le serate musicali tenute da Giuseppe Scelzo da Brienza che ha da poco fondato insieme ad un altro organettista del paese, Salvatore Mongella, il “Duo Fantasy”, meglio conosciuto come “Peppino e Salvatore”. Intanto Giuseppe continua a suonare. I mantici dello strumento sembrano ali d’uccelli che si aprono e si chiudono. E mentre le note lievitano nell’aria la mente corre a Ruoti, il


paese natale di Rocco Errichetti, campione mondiale dell’organetto. Ricordo che quando andammo a trovarlo, il paese, un grumo di case aggrappate alla collina, era deserto. Era una torrida giornata di settembre. Nelle ripide, tortuose strade del centro storico non c’era un’anima. Bastò però il suono dell’organetto di Rocco a risvegliare la popolazione. Se per popolazione intendiamo cinque o sei vecchietti, alcune con le stampelle, ai quali si unì per l’occasione l’indiavolato tamburello di Francesco Aquino, ruotese doc trapiantato per motivi di lavoro in Belgio. In un lampo l’aria si frantumò. L’allegria s’impossessò delle dentiere dei vecchi. Persino le stampelle presero a danzare mentre il suono del tamburello sfidava l’incalzante, travolgente ritmo dell’organetto. Ruoti sembrava il centro del mondo. Il sudore schizzava da tutte le parti, le ottuagenarie articolazioni scricchiolavano come nella danza macabra di Rimskij Korsakov. Che ritmo ragazzi! Non volevo andare più via. E invece, come tutte le cose belle e brutte della vita, anche quel piccolo concertino in cui, forse non succederà mai più, ballarono dentiere e stampelle, all’improvviso ebbe fine. Dopo sorrisi e pacche sulle spalle, Ruoti tornò silenziosa. Giuseppe Scelzo che ha scardinato il guscio della sua anima grazie alla musica, ha ragione. Chi non si concede al suono della fisarmonica, deve essere proprio un caso patologico.


Il papas di San Paolo Albanese Don Francesco Mele, pastore di anime in una piccola comunità arbëreshë custodisce antichi riti di una minoranza linguistica come il matrimonio con rito greco-bizantino.

La strada che sale tortuosa verso San Paolo Albanese va molto lontano. Nessuno passa da qui casualmente: il piccolo borgo tra le montagne della Val Sarmento è una meta. Eppure, nell’era delle omologazioni, insieme alle altre minuscole comunità dei dintorni, è anche la capitale della diversità. Tutto, a partire dalla lingua, ha una fortissima identità legata alla cultura arbëreshë. Chi vive qui, gli albanesi d’Italia, discende dalle famiglie sfuggite alla violenza degli invasori turchi, insediatisi a metà del ‘400 nel territorio nativo, dopo la morte di Giorgio Castriota Skanderbeg. A San Paolo in particolare, fino all’inizio del secolo scorso, erano vietati i matrimoni misti. E ancora oggi, nella comunità nativa e nei paesi vicini come San Costantino, è ancora molto forte l’attaccamento ad una cultura dalla fortissima identità. Il motivo? L’isolamento geografico forse, l’ancestrale legame alle proprie radici che non si spezza. Quando un popolo è costretto a fuggire dai luoghi d’origine, conserva la memoria con un attaccamento quasi morboso. Gli arbëreshë lucani lo hanno fatto in modo discreto, senza clamori ma risoluto. Basti pensare alla legge che permette di insegnare nelle scuole l’arbëreshë, lingua antica, della quale molte parole sono da tempo dimenticate. Nessuno le cita più oramai nel moderno idioma albanese. Oggi a San Paolo Albanese vivono poco più di trecento persone. Il primo incontro è con zia Antonietta: le rughe del volto sono come i merletti della sua camicia. Gli occhi brillano di orgoglio. È un giorno qualunque ma Antonietta è elegante come un giorno di festa. Dunque trecento anime vivino qui. E un solo pastore: Don Francesco Mele, papàs, a cui Santa Romana Chiesa ha riconosciuto il diritto di contrarre matrimonio. “Domenica a messa ci sono circa 60 fedeli”, precisa Don Francesco,


“ma in paese ci conosciamo tutti. Sono un pastore di anime, e come tutti i pastori ho un ottimo rapporto col mio gregge”. Un legame quasi familiare. Don Francesco schiva qualsiasi ruolo che ne accentui la visibilità eppure è il punto di riferimento di chi cerca conforto. Alcuni vedono in lui la “luce divina”, altri il barlume di saggezza di cui tutti, prima o poi hanno bisogno. Altri ancora una molto più prosaica assistenza terrena. “Pastore di anime, ma non solo; a volte anche di corpi”. Scusi Don Francesco, in che senso? “Una notte di qualche anno fa sento bussare alla porta di casa. Erano le 3 di notte. Incredulo mi trovo davanti un compaesano. Gli domando: cosa vuoi a quest’ora? Mi fa male la baiku, è la risposta. E cosa c’entravo io con la sua pancia? Alla fine ho trascorso la notte con lui, prima dal medico, poi in ospedale”. È bello e nobile in fondo, che in una piccola comunità chiusa tra i monti, si viva ancora di equilibri antichi, come una grande famiglia. Don Francesco ha trasformato la chiesa di San Paolo Albanese in un tempio bizantino dandosi da fare coi pennelli per dipingere l’iconostasi. Ha imparato la tecnica della tempera all’uovo da un seminarista. Molte icone sono opera del maestro Josif Droboniku, il “Mosaicista di Dio”, artista albanese che vive a Lungro, in Calabria. Altre bellissime icone invece le ha dipinte Rosellina, la figlia di Don Francesco. Il papàs adesso parla sottovoce. Nella chiesa vuota i racconti scalfiscono appena il silenzio. Qualche risata regala umanità alle parole. “Venti di globalizzazione arrivano anche su queste montagne; il benessere inteso anche come eccesso di individualismo, allontana le persone dalla fede”. E come fa il pastore di San Paolo a tenere unito il suo gregge? “Lavoro per una nuova evangelizzazione: cerco di individuare nuove idee per riavvicinare le persone ai valori della fede. Le feste per esempio diventano una grande occasione di condivisione. Cerco di fare in modo che anziani e bambini possano vivere insieme momenti di condivisione”. You Cat è l’opuscolo destinato al suo gregge, in cui spiega il catechismo con riferimenti a santi e teologi. Però non fa in tempo a spiegare meglio. C’è Antonio, promesso sposo che, in vista del matrimonio, è venuto a confrontarsi con Don Francesco su questioni logistiche. “Sarebbe bello potessi partecipare alla festa il prossimo 8 dicembre; il matrimonio arbëreshë con rito greco bizantino è un’esperienza tanto rara quanto intensa”. Antonio si dimostra disponibile e mi estende l’invito. Poco dopo è il momento dei saluti. Arriva anche Vasyl Roshko, parroco ucraino di Farneta: figura statuaria dal profilo scolpito. Solo poche parole, qualche accenno alla strada solitaria, quasi mistica, che unisce questo pezzo di Lucania alla vicina Calabria. C’è solo il tempo di una foto ricordo. Vasyl chiede a Don Francesco l’abito nero e il kalimafion, il copricapo cilindrico dello stesso colore. Entrambi posano per un ritratto. Vasyl è più immobile di un’icona. Adesso Don Francesco deve davvero andare. Con garbo mi dice che vari impegni lo attendono. Lascio San Paolo con meno malinconia, sapendo che fra qualche mese tornerò per il matrimonio. L’8 dicembre piove a dirotto: È giorno di festa. Ombrelli, petali di rosa, profumi indicano la strada verso la casa dello sposo. Tutto il paese è li dentro. La grande famiglia arbëreshë è riunita per l’evento. E poi ci sono io, lo sconosciuto di turno, accolto come uno di loro, invitato a mangiare e bere, a condividere l’emozione della festa. Bibite, confetti e biscotti per tutti, banconote che piovono sul letto. E vengono stesi sul letto dello sposo. Piove ancora mentre la grande famiglia s’incammina verso la chiesa dove Don Francesco Mele è pronto per la celebrazione del matrimonio. Intanto, mentre il corteo passa, vecchine dai volti ieratici nel costume tradizionale, allungano i loro antichi volti da tartaruga scostando persiane e tendine. S’affacciano a porte e finestre. Zia Antonietta è bellissima; per la festa indossa uno scialle rosso, onda di passione arbëreshë che sembra allontanare la pioggia.


Antonio, lo sposo, cammina con la mamma sottobraccio; gli occhi sgranati tradiscono tensione. Il rito arbëreshë è una storia seria. Ha una sacralità pervasa di forti simbolismi: gesti, voci, suoni e profumi raccontano l’unione indissolubile di un uomo e una donna. Lo scambio degli anelli simboleggia la promessa di fedeltà assoluta, mentre l’incoronazione coi tre tradizionali incroci sulle teste degli sposi la perfezione, la gloria celeste caduta su di loro. Antonio e Chiara sono emozionati. Bevono vino dallo stesso bicchiere che poco dopo Don Francesco farà cadere a terra. Il vetro va in mille pezzi: un gesto che simboleggia perenne fedeltà. Il papàs detta i tempi in maniera perfetta anche se per tutta la cerimonia confonde il nome della sposa. Continua a chiamarla Sara. La sposa vera Chiara, sorride con dolcezza. Ride anche Antonio. E insieme a loro i volti sereni della folla che assiste al rito. Ma va bene lo stesso. Nell’austero rito arbëreshë non c’è abitualmente spazio per la fallibilità dell’uomo. Ci pensa Don Francesco a ricordare a tutti che la perfezione non è di questo mondo.


Il vigile tuttofare Franco Tuzio è il vigile urbano di Craco Peschiera. I sette chilometri e le settecento anime il paese fantasma e il paese “nuovo” sono il suo mondo; una vita tranquilla solo in apparenza tra il Duca fuorilgge, imprevisti quotidiani, e l’affetto di tanti concittadini.

Amato. Odiato. Invidiato. Nelle piccole comunità i sentimenti girano come in un frullatore. “Il mio è un lavoro di prestigio, fa gola a molti”. Sembra uscito dalla penna di Giovannino Guareschi, Franco Tuzio, il vigile tuttofare di Craco Peschiera. Il suo regno è un paese di 600 anime diviso a metà da una strada lunga 7 chilometri che serpeggia tra i calanchi. In alto c’è Craco Vecchia, il paese fantasma abitato da Antonio Duca detto il “Duca”, il pastore ribelle, giù a valle, lontano anni luce, Craco Peschiera, il nuovo insediamento che ruota intorno al Municipio. Sembra un microcosmo. Eppure il mondo è grande intorno a Franco Tuzio. Ci sono strade da pattugliare, vasti spazi aperti. Gli ingredienti? Occhi di falco, mente lucida e un pizzico di cuore. Una volta erano in tre a svolgere la missione. Oggi è rimasto solo lui. “Un carabiniere è andato via nel ‘90, un altro quattro anni dopo”, dice Franco di buon mattino davanti ad un gruppo di operatori ecologici che ramazzano le aiuole davanti al Comune. È giorno di mercato. Voci e colori animano un po’ l’anonimo grigiore del paese. Ci sono allegria e pacche sulle spalle. Il dialetto locale si fonde allo slang degli extracomunitari che vendono borse, fiori finti, cagnolini di pezza con la testa che dondola. Un altro bel frullato. Si sta benone a Craco. Forse troppo. “Franco il vigile” con mezzo sigaro in bocca lo conoscono tutti. Anche i bambini lo salutano mentre vanno a scuola di corsa. Il suo non è un mestiere. È una missione. E la sua vita un terno al lotto. Non sa mai cosa può succedere quando si sveglia la mattina. Se va tutto bene a Craco Peschiera, non è detto che lo sia a Craco Vecchia. Così il mondo di Franco è diviso a metà. Sempre su e giù per i monti a bordo della panda comunale quattro per quattro. Con tutti i chilometri


percorsi avanti e dietro lungo la breve strada tra i due paesi avrebbe potuto fare il giro del mondo. Ma è inevitabile. Le mansioni di Franco sono tante. E le più disparate. Può restare per ore in un posto di blocco a fermare automobilisti indisciplinati, controllare l’accesso a Craco Vecchia, recintata e con l’accesso regolamentato da una ordinanza comunale del sindaco La Cicerchia oppure ascoltare i variegati problemi dei suoi cinquanta abitanti. “È qui che sono nato”, dice, “accanto al gazebo dove inizia il percorso di sicurezza dentro il paese che non c’è più”. Aveva 6 anni Franco il vigile quando la frana del ’63 spopolò un mondo di pietra che sembrava inespugnabile. “Piano piano se ne andarono tutti”, racconta. “Prima si riversarono da una casa all’altra. Quelle più solide erano diventate dei fortini. Come se gli ostinati abitanti cercassero un ultimo appiglio prima della resa. Ma il destino oramai era segnato”. Già, Craco Vecchia. Non è vero che gli abitanti se ne sono andati tutti. Ogni mattina c’è “il Duca” che viene qui a far pascolare le sue capre. Esili e scattanti, i quadrupedi saltellano da un rudere all’altro. Contro tutto e tutti, contro divieti e ordinanze comunali, il risoluto pastore ha fatto delle case diroccate dignitosi ovili per il suo gregge. E non c’è verso di mandarlo via. “È un storia lunga e complicata che va avanti da anni”, sospira Franco. “Il pastore non dovrebbe nemmeno entrare: esiste un’ordinanza di sgombero che vieta l’occupazione abusiva. Intanto “il Duca”, sposato, due figli e 400 capre, continua a regnare su un mondo di rovine. “Se ne sono andati tutti”, dice il Duca, “Io sono rimasto”. È una teoria anche questa. Staremo a vedere. La cosa certa è che agli automobilisti di passaggio lungo la provinciale, deve apparire come un quadro di De Chirico la visione di capre e caprette in equilibrio su tetti e cornicioni diroccati. Con o senza il Duca in ogni caso, Franco Tuzio continuerà ancora a lungo a venire qui. “Ogni tanto mi siedo sulle rovine di casa mia” dice. “Guardo le pietre che sono sguardi verso la fine. Riascolto le voci, risento gli odori. Persino quando vado in altri paesi dimenticati rivedo la mia vecchia Craco: basta un bucato appeso alle mollette, l’odore di un sughetto che esce da una finestra”. Intanto si avvicina una vecchietta. “Franco non arriva più l’acqua”. E un altra: “Franchino, la lampadina si è fulminata”. Piccoli problemi che fanno sorridere, ma che sembrano insormontabili per chi vive ai confini del mondo. Intanto dopo le rassicurazioni alle due anziane signore, il racconto continua. “Conosco bene le abitazioni di Craco Vecchia, una ad una. Facevo il chierichetto da piccolo: accompagnavo il parroco a benedire le case”. Intanto arriva un’altra richiesta. E subito un’altra rassicurazione. Tutto intorno la scenografia del paese è incantevole: una miniatura nella solitudine di colline e aridi canyon che sfida il tempo. L’insediamento industriale più vicino è a venti chilometri. C’è solo silenzio. Sono tanti i film girati a Craco vecchia: “Cristo si è fermato a Eboli” di Francesco Rosi, “King David” di Bruce Beresford, “Nativity” di Chatrine Hardwicke,“Il sole anche di notte” dei fratelli Taviani, “Terra Bruciata” di Fabio Segatori. È inoltre tra le rovine di Craco che Mel Gibson ha girato la scena dell’impiccagione di Giuda nel film “The Passion”. Ma la passione più grande è quella che prende il vigile di Craco quando ripensa al passato. C’è sempre un’immagine, tra le tante, che gli torna alla mente. Soprattutto di pomeriggio, anzi verso sera, quando il vento incomincia ad alzarsi. “Il vento del crepuscolo che attraversava Craco”, ricorda, “ripuliva dalle pagliuzze ceci, cicerchie, fave e tutti gli altri frutti, che a colpi di maglio i contadini facevano uscir fuori dalle piante secche. Le raccoglievano nei campi, era un paese di agricoltori Craco vecchia, e poi le sistemavano davanti alle case. Ricordo come fosse ieri quelle grigie distese che come tappeti occupavano stradine e piazze”. Franco deve andare. Di nuovo dall’altra parte del mondo: Craco Peschiera. Sono tante le mansioni per chi guida scuola-bus, va a comprare lampadine, è stato aggredito da malviventi, ha sventato rapine l’ultimo dell’anno,


accompagna vecchiette a ritirare la pensione e poi le riaccompagna a casa col gruzzoletto. “Hanno paura”, dice mentre entra per salutare due di loro sedute coi capelli incatramati dalla parrucchiera Emy che sta sotto il Municipio. “Craco non è più come una volta, quando si lasciavano le chiavi attaccate alla porta di casa!”. Appena entrato, in divisa, col mezzo sigaro in bocca, Franco riceve una robusta dose di baci e abbracci dalle arzille ottuagenarie Antonia Copeta e Giuseppina La Penna, vedova Vitelli, due dei 50 abitanti del vecchio borgo. Per l’entusiasmo il cappello del vigile cade, il naso ruota da una parte, gli occhiali s’appannano. Risate e allegria aleggiano su spazzole e asciugacapelli. Si sta proprio bene a Craco.


Le lame dei briganti Vito Aquila costruisce balestre aviglianesi: antica tecnologia e raffinate decorazioni che hanno segnato la storia di Avigliano, borgo di nobili artigiani come Canio Genovese, l’ultimo bottaio.

Primo scatto: avvertimento. Secondo scatto: ti sfido. Terzo scatto: attacco. Nel garage-laboratorio dove da più di vent’’anni Vito Aquila crea coltelli artistici consegnati alla storia col nome di “balestre”, entra un’aria gelida come le lame in acciaio appena affilate. Le lame raffiguranti foglie d’ulivo sono la parte terminale del coltello che luccicava al sole negli agguati dei briganti aviglianesi. ”Nicola Summa detto Ninco Nanco, uno dei più brutali, considerato nell’ottocento una sorta di eroe popolare per i continui attacchi ai ricchi dell’aristocrazia locale”, dice Vito mentre un brivido mi corre lungo la schiena, “usava lame lunghe 35 centimetri”. Una volta “sguainate”, non c’era modo di tornare indietro. A quei tempi infatti la balestra aviglianese aveva un solo scatto o scrocco e così una volta lanciata la sfida, il coltello a serramanico non poteva più essere richiuso, nemmeno accidentalmente. La balestra era dunque in perfetta sintonia col motivo per cui era stata creata: una micidiale arma di offesa e difesa, indispensabile in quegli anni di violenze e duelli all’arma bianca. Una vera e propria appendice della persona. E pensare che agli inizi nacque come “coltello dell’amore”, se per amore si intende un coltello donato alla propria donna perché si difendesse dai malintenzionati. Pare infatti che il primo coltello aviglianese sia stato forgiato nel ‘600 da un giovane fabbro per la futura sposa. Appreso che il signorotto locale voleva esercitare su di lei lo “jus primae noctis”, il fabbro le donò un micidiale coltello a serramanico dalla lama sottilissima che la giovane nascose sotto le vesti e poi usò la notte fatidica ferendo a morte, alla gola, il tiranno. Il signorotto agonizzante fece appena in tempo ad uscire in strada per poi stramazzare a terra morendo dissanguato nel luogo dove oggi sorge “il cavalcavia del riscatto”. C’è anche una targa che ricorda l’avvenimento.


Una storiaccia. Mentre Vito stende sul velluto rosso una serie di balestre, piccoli, raffinati capolavori, dal manico in corno di bue maschio e le lame traforate che s’allungano come sinistre falangi mostrando le venature dello “scolasangue”, mi viene da pensare ad altre umane appendici, simboli di ammonimento, orgoglio o vanità: l’astuccio penico delle tribù della Papua, indossato come auspicio di fertilità per esempio o i piatti labiali delle donne Surma. Nessun“umano prolungamento” però è più ferale di un balestra aviglianese al “terzo scrocco”che brilla al sole. “Agli inizi del ‘900”, continua a raccontare il pluripremiato artista, ex allievo del maestro d’arte Giuseppe Galasso, attivo fino alla metà degli anni ’60 e ultimo interprete della tradizionale coltelleria locale che risale al XVII secolo, “gli scrocchi divennero tre, una vera e propria rivoluzione tecnica per la balestra”. E anche di coscienza civile. Da allora infatti, dopo il primo scatto di avvertimento e il secondo di sfida, si passò all’epoca in cui si rifletteva un po’ di più prima di passare alla fase tre, cioè all’attacco. Nei processi per omicidio o ferimento da balestra tra l’altro, proprio per il fatto che l’arma prevedeva uno scatto di avvertimento e quindi la consapevolezza della sua pericolosità, era previsto addirittura uno sconto di pena per il condannato. Quasi una istigazione all’uso indiscriminato della balestra! Ci pensò Mussolini in persona, promulgando un codice di condanne più severo per gli accoltellatori, a ridurre a più miti consigli i focosi patiti della balestra. In realtà sono numerosi anche ai nostri giorni i fan del coltello aviglianese ma non si tratta più di iracondi briganti della selva ma di innocui collezionisti da salotto che commissionano al talento di Vito, vere e proprie opere d’arte da esporre sottovetro, accanto a un quadro di Felice Casorati o a una ceramica di Meissen. “Ci vogliono due settimane per costruire una balestra”, racconta il maestro “se è damascata anche tre”. Guardando attentamente i meravigliosi coltelli, mi accorgo che hanno tutti un manico d’osso che termina con una appendice, questa volta inoffensiva, all’estremità opposta della lama. “È la varola conica (dal nome del guscio della castagna)”, spiega Vito, “, sulla quale venivano incise dai fabbri le iniziali delle famiglie del paese, una sorta di sigillo, quasi un impronta digitale, la cosi detta “firma del coltello”. Si usava soprattutto alla fine dell’800 e agli inizi del ‘900 durante la grande fase migratoria degli aviglianesi in America. Erano tempi di miseria nera e l’educazione scolastica era l’ultimo dei pensieri. Ben pochi in quegli anni sapevano leggere e scrivere. Cosi le donne, quando si rivolgevano agli scrivani di Avigliano per scrivere lettere da spedire a mariti e fratelli emigrati in America, chiudevano sempre la busta col sigillo di famiglia, unico e inimitabile, di ceralacca, inciso sulla punta della balestra. Questo “timbro personalizzato”, era l’unico modo sicuro per l’emigrato di riconoscere la firma dell’amato congiunto che stava dall’altra parte dell’Oceano. Già, l’emigrazione. Una piaga amara. Ha spolpato il paese come fa il cane con l’osso. “Una volta qui”, racconta Vito, “i rumori che uscivano dalle botteghe erano la colonna sonora della giornata”. Era in questi caotici, rumorosi anfratti, nell’epoca lontana in cui gli oggetti avevano un’anima, che brulicava il microcosmo di artigiani aviglianesi dediti all’arte del lavoro manuale. Uscito dal garage di Vito, provo ad andare in cerca delle memorie del paese. Per le strade vuote, che vanno su e giù e s’aggrovigliano come fili di un gomitolo, trovo solo silenzio. Non c’è traccia del fracasso di un tempo. Ci deve essere un vecchio sarto, mi dicono, ma non sta molto bene. Con un giro di telefonate riesco a scovare Tonina Salvatore, artista dedita all’arte del telaio. Da li a pochi giorni, sarebbe partita insieme a Vito per la fiera di Chicago, questa volta non una migrazione ma un viaggio con biglietto di ritorno, a mostrare le eccellenze artistiche del territorio. Il bottaio Canio Genovese invece non c’è. “Deve essere da qualche parte, qui vicino” dice qualcuno, “forse giù alla Società Operaia di Mutuo Soccorso, ha lasciato il cane dentro la bottega”. Èoramai


chiaro che ad Avigliano gli artigiani sono oramai rari come le mosche bianche. Intanto trovo il bottaio. Guarda un gruppo di anziani compagni giocare a carte. Lo convinco a salire. Arrivati in bottega, un laborioso antro dei tempi andati, Canio mi mostra i vecchi oggetti del mestiere tra riccioli e scaglie di legno. Il suo cagnolino scodinzola tra vecchie stufe, botti, botticelle traforate, grandi tini, alcuni a metà dell’opera, altri già finiti, ricoperti da centimetri di ragnatele. Adesso sul paese scende una pioggia leggera che rende tutto lucido. Lascio Canio alle sue faccende e salgo nella parte alta del paese, dove ho parcheggiato l’auto. In giro non incontro un’anima. Il bagliore della luna lancia dardi argentati tra nuvole che non promettono nulla di buono. Qualcosa di simile all’inquietudine mi accompagna mentre salgo. Adesso che in paese la notte è uguale al giorno e il silenzio regola la vita degli uomini, la lama della balestra aviglianese tende agguati ad ogni vicolo.


Le maschere dell’Aldilà Dietro le maschere di Aliano si celano misteri e ancestrali energie, ma soprattutto le mani, l’anima e la creatività di Nicola Toce.

Ho sempre pensato che se un bambino è attratto dalle maschere avrà una vita magica. Metterà nel cilindro l’arte del trasformismo, impiegandolo a fin di bene. Potrà giocare a rimpiattino con la sorte, ingannare il tempo, valicare i confini del mondo senza dare nell’occhio. Crescendo avrà tutto il tempo di dialogare con lei, e la maschera contraccambierà donandogli il potere dell’inganno. La terra di cui è fatta emanerà l’energia primordiale di cui ha bisogno e così il giovane crescerà con la tempra di un guerriero. Se il legame si instaura in età adulta, il potere svanisce. La maschera si limiterà ad un dialogo fisico. Non c’è infatti più tempo per l’alchimia. Nicola Toce da Aliano invece, creatore di maschere e scultore, formatosi artisticamente all’Istituto d’Arte di Potenza e poi frequentando l’Accademia di Brera di Milano, ha incominciato a cedere alle loro lusinghe da piccolissimo. Succedeva durante il carnevale, quando vedeva uscire dalle case misteriose figure coi volti nascosti dietro maschere inquietanti, a volte munite di corna, con copricapi, i cappelloni, pieni di fettucce e strisce di carta colorata che ondeggiavano al vento, nasi e orecchie immonde e sguardo luciferino. Incutevano terrore e meraviglia al tempo stesso le maschere di Aliano. Correvano, interagivano con la folla. E così facendo gli uomini, protetti dalla maschera, sfogavano la rabbia del lavoro oppressivo, delle angherie dei padroni, delle ingiustizie sociali. Nicola restava affascinato in particolare nel vedere la loro straripante energia lievitare nell’aria e impossessarsi del pubblico. Cresceva in lui anche il desiderio di sapere com’era fatta una maschera e come si creava. Carpì il segreto della creazione dai vecchi artigiani. Mentre li guardava, ascoltava affascinato i loro racconti che parlavano di esseri misteriosi che venivano dall’Aldilà. Erano questi i nemici da cui difendersi. Ed a questo


servivano le maschere: ad esorcizzare la paura. Così si potevano affrontare con più coraggio gli scatacubbe e i monacelli, gli esseri sotterranei e gli spiriti di boschi e burroni. Nicola costruì la prima maschera con le sue piccole mani in quarta elementare. “La ricordo bene”, dice il giovane artista nella piazzetta di Aliano, “era un volto di cartapesta, con piccole corna, dipinto di rosso e decorata con motivi geometrici concentrati soprattutto sul naso”. A quei tempi ognuno realizzava la propria maschera in segreto, spesso nei magazzini che si trasformavano in veri e propri laboratori, da soli o in piccoli gruppi di amici. Così si conservava il segreto di chi, nei giorni di carnevale, si celava dietro un grido terrificante, un ghigno, una ciclopica risata. Erano maschere di cartapesta realizzate dagli abitanti, quasi tutti contadini che, dissodando il terreno coi trattori, riportavano alla luce reperti archeologici risalenti alla cultura enotrio-lucana, in particolare vasi figurati e statuette fittili ai quali si ispiravano per le loro creazioni. Sono centinaia le tombe riportate alla luce nel punto più alto del territorio di Aliano, sulla montagna di Santa Maria la Stella e, più in basso, in contrada Cazzaiola, (presso Alianello), durante gli scavi degli anni Ottanta. Ad Aliano, il rapporto con la maschera va di pari passo con la storia del territorio. Un legame ancestrale profondo, mitologico, che forse arriva dalla civiltà ellenistica o dalle nebbie di un passato ancora più remoto. Lontano anni dal concetto di maschera cornuta al quale tutti, molto superficialmente, accostano il manufatto. Quando sente chiamarla così, a Nicola subito il sangue va in ebollizione. “Le maschere di Aliano”, dice, “ sono maschere di Aliano e basta”. Ma c’è un altro luogo comune da sfatare. Carlo Levi non ha mai parlato delle maschere di Aliano nel suo “Cristo si è fermato a Eboli”. Nel libro descrive un altro tipo di travestimento che si usava a Carnevale, senza però parlare della maschera vera e propria. Lo scrittore descrive “tre fantasmi vestiti di bianco” che “urlavano come animali inferociti, esaltandosi delle loro stesse grida; ..anche il loro viso era dello stesso colore, infarinato, come le scarpe”. Carlo Levi li paragona a demoni per l’aspetto e l’atteggiamento, ma non fa menzione delle maschere colorate, multiformi e grottesche. Ne parla solo in alcuni versi di una raccolta di poesie dove descrive il cappellone che le accompagna (Carlo Levi, Poesie, Donzelli Editore, 2008). La cosa certa è che le origini della maschera alianese sono molto antiche, forse risalgono al VII secolo a.C., quando erano fatte di gesso e garza o di legno. La cartapesta infatti, nascerà solo mille anni più tardi. Le fasi della creazione sono lunghe e complesse. Prima Nicola realizza il positivo, cioè la scultura in argilla sulla quale poi, applicando colla vegetale e non vinilica, fissa strati di normalissima carta di diversi tipi e rigorosamente riciclata. Quindi passa ad una prima asciugatura fatta con un forno comune, togliendo successivamente l’argilla dal suo interno ed infine passa alla focheggiatura, operazione che serve ad eliminare segni e particolari superflui mediante bruciatura, utilizzando attrezzi di varie fogge. Così facendo si crea una sorta di patina che serve anche come antitarlo. I colori usati per la decorazione sono polveri e terre colorate, colori ad olio, raramente acrilici. L’intero processo, lento, laborioso e delicatissimo si compie in circa due o tre settimane. “L’aspetto interessante di questa tecnica”, dice Nicola appena tornato dalla casa-studio di Aliano con tre meravigliose maschere tra le mani per la foto di rito sullo sfondo dei calanchi, “è che ogni pezzo è unico ed irripetibile”. “Se invece il calco fosse in gesso”, aggiunge, “si potrebbero produrre maschere all’infinito. Come in una catena di montaggio”. Ed invece nelle maschere di Nicola non c’è nulla di artificiale. Tutto nasce dalle mani e dall’anima. Dall’inizio alla fine, da quando va con la vanga ed il sacco a prelevare l’argilla in Località Agreste, fino all’ultima pennellata sulla scultura. Le conosce tutte una ad una le sue maschere. E mentre le costruisce, nasce anche il nome con cui poi le chiamerà: Saravattaglia, Zoopartù, Sauro,


Xanto, Agreste, Catoju... Sì, perché le maschere di Aliano sono vive. Basta smuovere l’energia che hanno dentro ed il letargo svanisce. Dipende da chi le indossa e da chi le muove. In sintonia col mito di Persefone che trascorreva sei mesi negli Inferi e sei mesi sulla terra, la maschera di Aliano, tra i tanti poteri, sembra possedere anche il dono dell’ubiquità: l’argilla che le ha dato vita resta a terra, l’anima vola in cielo.


Il miracolo del carro Artisti, scultori, pittori, decratori e un po’ architetti, i padri del Carro della Bruna sono maghi della cartapesta; Michelangelo Pentassuglia è la tradizione, i fratelli Daddiego rappresentano l’innovazione.

Papà Ciccio Pentassuglia ricevette la ferale notizia quando passeggiando per le strade di Matera incontrò il maestro del figlio. “Suo figlio Michelangelo”, gli disse, “ha fatto filone”. Era vero. Il piccolo Michelangelo anziché andare a scuola passava il tempo su al castello a giocare alla fuggetta con altri marmocchi. Facevano dei buchi nel terreno e, a colpi di falangi, cercavano di buttarci dentro dei bottoni. Non era un gioco entusiasmante ma era sempre meglio della matematica. In realtà a quei tempi con le truppe d’occupazione americane e canadesi ancora presenti in città non è che la scuola fosse un impegno durissimo per uno sbarbatello. A malapena si andava a lezione un giorno sì e tre no. “La matematica”, dice il maestro Pentassuglia settant’anni dopo mentre dipinge il volto di un bellissimo angelo di cartapesta nella bottega via Volpe 2, “mi dava proprio fastidio. Dalla quinta elementare non sono più andato a scuola”. “Ora basta”, disse il padre Francesco detto Ciccio, rincarando il rimprovero con botte e cazzotti, “ora vieni a lavorare con me.” Era il 1947, quando Michelangelo Pentassuglia da Matera, scultore, pittore e decoratore, incominciò la sua fulgida carriera d’artista. In realtà anche prima. Aveva infatti appena otto anni quando una tale “Musone” gli commissionò alcuni pupazzetti. Il fatto è che coi soldi guadagnati il piccolo Michelangelo pensò bene di acquistare l’oggetto dei suoi desideri, una bellissima coppola. “Coi soldi non si comprano le coppole” gli disse il padre morto centenario alcuni anni fa. E giù di nuovo botte e cazzottoni. Intanto l’angelo dalle ali bianche dispiegate e il volto rosa oramai è finito. I pennelli giacciano inerti accanto alla tavolozza di colori. Allegri o malinconici, a seconda degli umori. “Sono innamorato di Matera”, dice il maestro all’improvviso alzandosi in piedi per migrare davanti al presepe che sta in vetrina, “la


vedevo anche a Betlemme”. La giornata è radiosa. I raggi dorati del sole filtrano dal vetro. Si posano delicati sulle figure di cartapesta, come avessero paura di romperle. Così inondati di luce sembrano evocare il tempo dei Sassi, quand’erano popolati da un’umanità dedita ad una vita di stenti ma pervasa di solidarietà. “È bellissimo” esclama in un filo di voce. “Non c’è nulla però”, racconta il maestro, “che rappresenta l’anima di Matera come il Carro della Bruna. Ne ho costruiti a decine. E ogni volta sembra sempre la prima volta. Pensa che per costruirli a regola d’arte ho dovuto rinnegare me stesso, mettendomi a studiare architettura!” In realtà per costruire un carro bisogna essere molte cose insieme: pittore, scultore, architetto, decoratore. Il lavoro di costruzione è come una grande orchestra: funziona solo se tutti gli strumenti sono accordati. Ogni anno esce il bando del nuovo Carro e le storiche famiglie di costruttori materani propongono i bozzetti poi selezionati da una apposita commissione che decreta il vincitore. Oltre a Michelangelo Pentassuglia anche i fratelli Carmine e Mario Daddiego, eredi del “Bottegaccio”, antica bottega di antiquari-artigiani in via Madonna dell’Idris 10, da generazioni specializzata nella cartapesta e nella terracotta, partecipano puntualmente alla tenzone artistica. “Usiamo tecniche antiche e materiali moderni”, dice Carmine in assenza del fratello Mario, in Argentina per un corso di docente sull’uso della cartapesta. Per esempio la gomma siliconata che fa assumere forme molto più fedeli e rifinite. “Con questa tecnica raggiungiamo risultati di grande effetto artistico; le sculture sono molto più realistiche rispetto alle forme tradizionali decisamente rudimentali”. La più grande emozione per i fratelli Daddiego è stata la presentazione della Carro della Bruna dello scorso anno. “Per la prima volta l’abbiamo costruito da soli. Èstata una gioia immensa”. E la più grande emozione per Michelangelo Pentassuglia? “Quella durante l’edizione del Carro della Bruna ‘96”, racconta. “Era il 25 giugno” dice col tono di chi ha raccontato la storia migliaia di volte e le parole fossero come scolpite. “Avevamo appena consegnato il nuovo Carro della Bruna perché fosse mostrato al pubblico. Alle due di notte squilla il telefono. “Maestro, hanno bruciato il carro”. Non ci credevo. Solo le sirene dei pompieri mi diedero la conferma che era tutto vero. Del carro era rimasta solo la torre posteriore. Tutto il resto era un cumulo di ceneri fumanti. Quello che ricordo molto bene è la disperazione della gente. Dietro al cancello del cantiere piangevano tutti. Mai viste tante lacrime”. Sembrava tutto perduto. A quel punto come sempre succede agli uomini quando il mondo gli crolla addosso, Michelangelo prese una decisione: “Andiamo a prendere il legno. Bisogna rifare il carro”. Tutti lo guardarono allibiti. Era mezzogiorno del 29 giugno. Mancavo tre giorni alla festa della Madonna della Bruna. Sembrava impossibile. E invece il miracolo si compì. “In 72 ore, lavorando giorno e notte, finimmo ciò che di solito si realizza in non meno di un mese e mezzo”. Il carro della Bruna edizione ’96 sfilò regolarmente. E come sempre fu spolpato fino all’osso dalla folla materana posseduta dal sacro furore di fede e passione. “Ma perché si sbrana il carro?”, chiedo. “Non fa male vedere distruggere in un secondo il frutto di tanto lavoro? Tutti quei santi ridotti a brandelli?”. Adesso la luce del giorno si è affievolita. Grosse nuvole scure hanno coperto il sole. “Se a Matera dici che il carro della Bruna non va rotto, succede la guerra civile”, dice Michelangelo con un sorriso mentre chiude bottega per andare a prendere il nipotino a scuola.



Il cantastorie e la principessa Mimmo Rago da Valsinni racconta il mondo in rime e musica, tra paure antiche e insondabili certezze accompagnato dalla storia della poetessa Isabella Morra.

Vita solitaria, da piccolissimo calzolaio. A tre anni riparava le scarpe, Mimmo Rago cantastorie da Valsinni. In cambio gli davano il formaggio. I suoi racconti sono fotografie letterarie degli anni ’60. Parlano della vita, della gente, e più indietro, molto più indietro nel tempo, di Isabella Morra, poetessa triste, reclusa e uccisa dai fratelli nel castello di Valsinni, per la sua relazione col barone spagnolo, e poeta pure lui, Diego Sandoval De Castro. “Giudice di me stesso, dell’incerto e del progresso”, attacca all’improvviso Mimmo sparando parole come la mitragliatrice sputa proiettili, “del passato scuro e duro, del presente e del futuro”. “Dov’è incominciato tutto?”, gli chiedo mentre posa accanto al metafisico volto scolpito, è anche scultore il buon Mimmo, raffigurante Albino Pierro, poeta della Rabatana, vetusto quartiere arabo di Tursi arroccato tra le nuvole. “Sono storie rubate in una vecchia bottega”, dice. “Ricordo molto bene due anziani signori nella semioscurità, Zi’ Davide, allora novantenne, e Zi Peppe detto O’ Scascione, cioè “scassatore di sacchi”, raccontare storie a modo loro. Ne ero affascinato”. Da qui in poi, la vita di Mimmo è un romanzo. Che non gli garba molto raccontare. Siamo a disagio: io nel fare domande e lui nel rispondere. È bello ogni tanto, in un mondo di certezze, non averne affatto. Io e Mimmo dunque siamo in sintonia. Se ho capito bene, la sua infanzia è stata un concentrato di magia e di paure. “Isabella Morra fu uccisa dai suoi fratelli”, dice “e noi eravamo sei figli, quattro maschi e due femmine: poteva capitare anche a me il triste destino della poetessa lucana?”. È con questo enigma sconfinato, tra ansie e dubbi inconsci, che il piccolo Mimmo è cresciuto. Finché piano piano, negli anni, imparando a conoscere i dolci sonetti di Isabella, la paura è diventata innocua malinconia: “D’un alto monte, onde si scorge il mare, miro sovente io Isabella tua


figlia, sal cul legno spalmato in questo appare”. Cercava la barca del padre in mezzo al mare, la poetessa triste, più o meno come Mimmo, e in fondo tutti noi, cerca la sua strada. Mimmo Rago non è un semplice cantastorie. Mimmo Rago è una cipolla. Strato dopo strato, a volte di rabbia, altre di ironia, spero di arrivare al nocciolo. Ma il nocciolo non arriva mai. Nel 68’ migra a Milano, ritrovandosi in mezzo al caos della rivoluzione giovanile. “Insieme ad altri studenti scrivevo pagine di storia raccontandole in modo artistico”, spiega, “era la costruzione di una cultura sommersa”. Mimmo ha vissuto anche sul lago di Garda. Sotto casa sua abitava uno scienziato che era nell’orbita intellettuale di Rudolf Steiner, il fondatore della Società Antroposofica. E così ogni tanto si ritrovava a frequentare i “ricercatori spirituali”che si incontravano per dissertare in quella casa. Poi resta un anno e mezzo in India dove, di paese in paese, porta in giro “Pulcinella va in Oriente”, spettacolo teatrale d’avanguardia, insieme ad un gruppo di personaggi guidato dall’architetto fiorentino Paolo Consiglio, appassionato di filosofia orientale e grande letterato. “Suonavo la chitarra”, dice, “cantavo storie inventate e scritte da me ispirate alla cultura della Calabria, della Puglia, della Basilicata, del sud Italia insomma”. Dopo l’India, o forse prima, chi si ricorda? e cosa importa?, Mimmo abita per un po’ anche a Ferrara e a Bologna (lavorava al Sant’Orsola), dove incontra Guccini, Claudio Lolli, Dalla, altri abili tessitori della vita. Bastava frequentare la storica trattoria “Da Vito” in via Bentivoglio, a quei tempi formidabile concentrato d’energia, passioni politiche e fermenti culturali per incontrarli. “C’era tanta poesia nell’aria. E così li stavo ad ascoltare e basta”, racconta. “Quando capisci che certe persone hanno una grande anima non c’è bisogno di rompergli le scatole”. Forse per Mimmo hanno un’anima anche le pietre. Le raccoglie nei fossi, nelle montagne del Pollino, lungo le sponde del fiume Sinni, soffermandosi in contemplazione soprattutto quand’è in piena, “ha una musicalità incantevole” dice, “ma ci vogliono silenzio e sensibilità per riconoscerla”. Poi, ancora all’improvviso, l’abile cantastorie recita come uno scioglilingua: “Pietre che parlano e fanno pensare: neve, pioggia e temporale”. Con le pietre Mimmo crea sculture. Le assembla senza lavorarle, così come sono. “Ogni pezzo è unico: così almeno non ti possono copiare”. Non si offenderà il buon Mimmo, anche perché è un complimento, se dico che era ed è un randagio della vita. Non piace alle persone. E le persone, soprattutto i cosidetti benpensanti, non piacciono a lui. “La gente mi dava addosso perché nei miei viaggi sentimentali raccontavo la realtà a modo mio, come faceva Isabella Morra cinque secoli fa”, dice su di giri. Se ancora ho capito bene, Mimmo ricerca le cose estreme, le decisioni risolute. Dall’India ha rischiato di non tornare più indietro. È tornato solo perché un gruppo di genovesi hanno fatto una colletta per comprargli il biglietto di ritorno. “Ho raccolto più dai liguri che dai lucani”, dice con ironia. “La cultura vera è nel sottobosco, nel brigantaggio”, sentenzia poi con tono risoluto. “Però non mi va di raccontare queste cose”. Avrei voglia di chiedergli altro. Ma non mi va di aprire una conchiglia che non ha voglia di aprirsi. Mi sembra di aver profanato il suo piccolo mondo. Èstato un privilegio. Ma ora basta. Mentre Mimmo il cantastorie sparisce nella Rabatana, mi rimbombano in testa le sue ultime parole. “Chi vuol capir capisca, chi no si frechi”: chi vuol capir capisca, chi non lo fa si fotte.



La rivoluzionaria delle forbici Franca D’Aria di Grassano è l’interprete più autorevole dei costumi tradizionali lucani per statuette e raffinata creatrice di abiti da sposa.

Quando Teresa Pirrone, ballerina e futura sposa, chiese a Franca D’Aria di confezionare per lei l’abito delle nozze, era il Natale di una decina d’anni fa, la sarta di Grassano sfoderò un coup de théâtre: un pellicciotto di piume di struzzo sopra un abito di seta impreziosito da pizzi e lustrini di Swarovski. Non si era mai vista una cosa simile in paese. Fino a quel giorno le spose erano entrate in chiesa agghindate in modo classico, spesso simili a lampadari o a sacchi di farina, ora invece la creatività di Franca D’Aria, anima e cuore della bottega in via Meridionale 83, aveva trasformato una danzatrice in una ballerina da carillon. Niente più abiti infiocchettati o gonfi come mongolfiere. La “rivoluzione delle forbici” era incominciata. L’abito di Franca, autodidatta per vocazione che da piccola si divertiva a vestire bambole e bamboline, fece faville. Armonioso, allegro, pieno di vita. Piaceva a tutti. Oggi il negozio-atelier di Franca, è un punto di riferimento per future spose e mamme al seguito che vengono a chiedere consigli o semplicemente per gli amanti del buon gusto. All’entrata, in un trionfo di colori, c’è la rivendita di tessuti e un manichino vestito col costume antico della Pacchiana (ne esiste uno per ogni comune della Basilicata), che le donne dell’aristocrazia e del ceto medio usavano anche per il matrimonio. Sul retro invece, come si conviene per un luogo della creatività, il caotico laboratorio con gli attrezzi del mestiere, metro, forbici e poi tutto quello che non si vede, genio e sregolatezza. Ci sono anche un grande tavolo e un piedistallo rotondo per la prova vestito. È un negozietto all’antica. Una di quelle botteghe di una volta dove si veniva anche in cerca di conforto. Ci si aspetterebbe di vedere entrare una femme fatale o l’ispettore Poirot con fiore all’occhiello e panciotto uscito da un romanzo di Agatha Christie. A ben guardare il negozio ha due


anime. La Coco Chanel di Grassano infatti non veste solo giovani spose adattando il vestito alla loro personalità, “prima le guardo poi decido” dice Franca ma, dopo un attento studio del personaggio, anche le figure in terracotta create da artisti e artigiani. Ce ne sono un buon numero in vetrina, altre stanno in una bacheca, altre ancora, o meglio le loro parti anatomiche, braccia, mani, teste e gambe, sono disseminate qua e là in attesa dell’assemblaggio. Franca crea anche il manichino di stoppia che poi ricopre con carta paglia e uno strato di cartapesta. E poi ombrellini, sedie, ceste e tavoli che decorano le scenografie. Finché arriva il momento più sacro del rito, perché di rito si tratta, la vestizione. La sarta di Grassano usa stoffe prese da vecchi abiti dismessi: lana, broccati di seta, passamaneria. “È molto difficile”, dice, “ trovare tessuti adatti a personaggi storici”. E ancora più difficile è assemblare i colori. “Faccio lavorare molto la fantasia” dice mentre aggiusta la gonna di una popolana in miniatura con la brocca in testa diretta alla fonte. Un paio d’anni fa, la sarta-stilista ha vestito persino i Re Magi che ogni anno i piccoli pazienti del Policlinico Gemelli regalano al Papa in visita all’istituto. Un’emozione difficile da dimenticare. L’ultimo atto è uno strato di colla vegetale che combatte l’usura del tempo. In realtà Franca quando veste una statuina non ha che l’imbarazzo della scelta. Sfogliando per anni vecchi libri e spulciando biblioteche, ha infatti scoperto che in Basilicata, unica regione d’Italia, ogni paese ha il proprio costume tradizionale. Ognuno diverso dall’altro. Sono più di centotrenta. Per riprodurli a regola d’arte, non aveva che una strada: studiarli con scientifica precisione. In effetti i personaggi che ho di fronte sono vere e proprie opere d’arte. Sembrano vive. Non fatico a credere alle parole di Franca: “Sono tutti figli miei”. E mentre lo dice per poco non piange ancora. Intanto la giovane Carmela, esile, sinuosa modella presa in prestito da un call center di Matera, sta sul piedistallo insieme a Margherita e Francesca, due amiche in abito bianco. Future clienti? Forse. Carmela indossa uno sfavillante abito blu e bianco mentre Franca le gira intorno col metro sulle spalle. Sono colori armoniosi, dice, il blu è molto elegante, di buon auspicio per le nozze. La sarta ha realizzato anche il bouquet: una pochette ricoperta di rose blu. Fa anche pandan col vestito. È tardi. L’intervista troppo lunga ha accumulato in via Meredionale 83 una fila di clienti. Gironzolano, guardano, fanno domande. E tornano a sbirciare. Forse l’acquisto è una scusa. Stanchi di vivere nell’era delle importazioni da Taiwan, hanno varcato la porta del tempo e sono entrati nel negozietto in cerca di merce rara: un po’ di buon gusto.



La sarta di mucche e tori Angela Rivelli è uno dgli artefici silenziosi del Carnevale di Tricarico; arte della sartoria e passione per la tradizione sono alla base delle sue creazioni.

Il 17 gennaio vacche e tori guidate dal mandriano si scatenano accompagnati dall’incalzante suono dei campanacci per le strade di Tricarico. Non si tratta di animali ma persone mascherate, tutti rigorosamente uomini, dall’identità nascosta. Il carnevale di Tricarico è una transumanza umana in cui i simbolismi del rapporto uomo e natura sono evidenti. Dunque mucche e tori sono maschere che esaltano la corporeità di danze primordiali. Angela Rivelli è la sarta di mucche e tori. Minuta, occhi cerulei e un volto arcaico che dietro spigoli e silenzi protegge una grande morbidezza d’animo. Nel suo laboratorio chilometri di nastro aspettano di essere tagliati e fissati ai cappelli a falda larga delle maschere. Quelli delle mucche sono di vari colori mentre i nastri del toro quasi tutti neri con qualcuno rosso. Il tulle della mucca è bianco mentre quello del toro è nero. “I nastri cadono liberamente fino alle caviglie e per ogni maschera servono circa 220 metri di nastro” racconta Angela specificando che “oggi il materiale utilizzato è il raso che costa fino a 80 centesimi al metro, mentre anticamente venivano utilizzate stoffe e lenzuola tagliate”. Angela è dentro al carnevale di Tricarico da quando era bambina. “Il carnevale lo si aspetta e lo si ricorda tutto l’anno. E lo si vive con intensità in quanto costituisce un momento di grande condivisione che permette il riavvicinarsi ti diverse generazioni. Grandi e piccoli si lasciano travolgere dal ritmo giocoso delle tarantelle scandito da tamburelli e cubba-cubba”. La sarta di Tricarico progetta, taglia e cuce le maschere che il giorno di Sant’Antonio si animano di istintiva e quasi animalesca vitalità. “Uomini senza identità si rincorrono e simulano l’atto dell’accoppiamento. Nel suono delle campane e nel martellare dei campanacci c’è un qualcosa di ancestrale che rievoca le antiche transumanze che transitavano per Tricarico, uno dei passaggi più


frequentati tra i monti di Potenza e le pianure di Laterza”. Quali sono i sentimenti che accompagnano i mucche e tori? “Sicuramente il piacere di osservare i volti di anziani e bambini che rimangono come ipnotizzati dalla visione delle maschere e del loro linguaggio corporeo. Gli anziani di Tricarico vivono il Carnevale come il tempo che passa e loro che da attori diventano spettatori continuano a interrogarsi sui misteri di questa transumanza umana. I bambini si emozionano alla vsita delle maschere”. Angela ricorda bene cosa è stato il Carnevale per lei bambina: “Il toro nero, imprevedibile, forse minaccioso mi ha sempre fatto paura, mentre la mucca solare e colorata mi ha sempre rassicurata. Ancora oggi quando mi ritrovo dentro al carnevale rivivo le stesse emozioni della mia infanzia. Uno degli aspetti più affascinanti è che non sai chi c’è dietro la maschera”. Dal laboratorio ci incamminiamo verso il Palazzo Vescovile. Angela cammina porando con sé una mucca e un toro mentre la brezza della sera scompiglia i nastri che iniziano a danzare e ad allugarsi disegnando l’energia del vento. E Angela rivive l’emzione più grande del carnevale quando i nastri cominciano ad agitarsi e come da piccola è attratta dai colori della mucca. Con le maschere tra le mani la sarta delle mucche e dei tori sembra abbracciare contemporaneamente gli spiriti sacri e profani della transumanza di Tricarico. E rivede la mandria che il giorno della festa incede verso la chiesa per raggiungere la benedizione; il tutto si mescola all’istintualità. Dopo tre giri intorno al paese la mandria con le maschere raggiunge la chiesa per farsi scacciare il malocchio. Angela è una donna di poche parole e attraverso mani di grande sensibilità resta una protagonsta silenziosa e discreta del Carnevale. Si rivede e si sente ogni giorno nella Trcarico scoperta da Carlo Levi in compagnia di Rocco Scotellaro. “Il paese era svegliato a notte ancora fonda, da un rumore arcaitco, di battiti su strumenti cavi di legno come campane fessurate: un rumore di foresta primitiva che entrava nelle viscere come un richiamo infinitamente remoto; e tutti salivano sul monte, uomini e anmali, fino alla Cappella alta sulla cima. Sant’Antonio… Intanto si accendevano i fuochi, scoppiavano i mortaretti: la giornata passava nei balli finché la notte, i paesi splendevano, per tutto il giro dell’orizzonte, di fuochi vicini e lontani come costellazioni”. È un giorno caldo di settembre e Angela, insieme alla mucca e al toro, torna controvento verso la sua piccola sartoria. Ha il passo leggero, sfiora i sorrisi dei concittadini e le sue maschere sembra danzino per lei: il toro la segue; la mucca l’avvolge con i suoi istinti colorati.



Le signore del formaggio A Moliterno vive Maria Santoro, a Chiaromonte c’è Maria Stellato: i loro formaggi sono il frutto di passione, intelligenza, amore per il territorio.

La Fiat Tipo Millequattro a benzina di Maria Santoro colma di speranza e formaggi viaggia verso la Franciacorta. Accompagnata dalle brume autunnali per ben 932 chilometri, è la prima volta che Maria Santoro parte con il suo formaggio oltre la Val d’Agri, per la precisione verso Castegnato, terra di bollicine, ma anche di una fiera ben nota a casari e amanti del formaggio: Franciacorta in Bianco. Il suo Canestrato di Moliterno, prodotto con latte di capra e pecora, fa bella mostra di sé tra gli stand di Osella e Grana Padano. Maria si sentiva come una sarta di paese tra Gucci e Ferragamo. “Ma tutti si fermavano ad assaggiare i nostri formaggi, chiedevano dove fosse mai Moliterno e quando rispondevamo che si trovava in Basilicata lo sguardo si perdeva in un vuoto sconosciuto verso il meridione d’Italia... Ancora ricordo le parole più belle di quei giorni di un signore che gustando il nostro casieddu, formaggio di capra a pasta morbida aromatizzato con la nepitella, si lasciò scappare: “Questo formaggio lascia la bocca da baciare!”. Maria mi accoglie con Vincenzo Scannone, suo marito, nel piccolo caseificio. Lui lavora nel Museo Archeologico di Grumento Nova e prima di ogni cosa mi mostra una cartina della Lucania d’epoca romana in cui la zona di Moliterno è caratterizzata da una forma di formaggio. Maria è una casara silenziosa e delicata nel suo modo di essere, Vincenzo è abile oratore e in poche efficaci parole racconta l’evoluzione del pianeta Moliterno, dove la storia profuma di Canestrato. “Il Canestrato di Moliterno vive il suo momento d’oro tra fine ‘800 e inizio ‘900, quando la Val d’Agri era una terra ricca di pastori e casari. Ma la cosa più importante è che il Canestrato racconta la vita di questo territorio e della sua gente legando il suo nome al fenomeno dell’emigrazione verso le Americhe. Nelle case d’oltreoceano non mancava mai il formaggio di


Moliterno, simbolo delle radici di una antica civiltà”. Gli emigranti portavano con sè valigie e scatole piene di paure e nostalgie, preghiere e speranze. Purtroppo le cose buone della terra rimanevano in Val d’Agri, tranne il pecorino stagionato che ben resisteva al tempo e ai trambusti del viaggio. “I moliternesi infatti”, racconta Vincenzo accarezzandosi i baffi importanti che disegnano il suo volto e nascondono smorfie e sorrisi, “sono noti come stagionatori di formaggio pecorino anche in America”. Basti pensare che il molo Beverello al porto di Napoli era anche noto come molo Moliterno per l’assidua presenza di emigranti e commercianti provenienti da Moliterno. Intorno alla metà del ‘900 comincia l’abbandono delle campagne e così la produzione del Canestrato si ferma nella sua zona d’origine e diventa una produzione tipica sarda. Strano ma vero. Oggi si producono due tipologie di Moliterno: il Canestrato con marchiatura a fuoco e placca di rintracciamento e il semplice Moliterno prodotto in Sardegna. Dal 2000 si costituisce il Consorzio di Tutela del Canestrato di Moliterno che ne definisce le caratteristiche. Tra le più note il latte che prevalentemente è ovino integrato con latte caprino per una percentuale compresa tra il 10 e il 30%; e poi la stagionatura nei fondaci, ambienti seminterrati che garantiscono le condizioni ideali per la conservazione. Maria e Vincenzo non hanno peli sulla lingua. Parlano del formaggio come di una loro creatura, curata con sentimento e calore umano. Ma c’è amarezza perché tanti sono i sacrifici e l’azienda a volte costituisce quasi una missione. “Se non ci fosse la passione e un pizzico di incoscienza, Maria avrebbe già cambiato mestiere...” Le motivazioni vengono da lontano, anzi da lontanissimo e precisamente dalla consapevolezza dell’importanza culturale, sociale, economica di questo formaggio, uno dei simboli della Val d’Agri. Durante gli scavi di una tomba del V secolo a.C. Vincenzo ricorda che nel corredo funerario furono rinvenuti una formaggetta i terracotta e una grattugia in bronzo. “Pastorizia e trasformazione del latte sono nel nostro DNA ma siamo rimasti in pochissimi a produrre formaggio”. E i discorsi sono gli stessi che scatenano la rabbia di tanti lucani. “La Basilicata è una terra meravigliosa, ma è come se non esistesse... Abbiamo avuto politici di levatura nazionale come Emilio Colombo ma è evidente che si è preferito per tanti anni gestire un popolo nell’ignoranza piuttosto che confrontarsi e valorizzare le peculiarità umane e naturalistiche di questi luoghi. La terra anzichè costituire una risorsa è diventata un bacino artificiale di consensi. In massima sintesi, è triste dirlo, qui comanda il dio petrolio. E in questo la Basilicata è in piccolo lo specchio del mondo. Siamo due o tre i produttori di Canestrato di Moliterno. Troppo pochi e troppo soli”. Qualche chilometro più in là, a Chiaromonte tra la valle del fiume Sinni e le propaggini del Pollino, isolata tra le colline, c’è l’azienda di Maria Stellato che insieme marito Nicola produce un formaggio di grande qualità. Hanno vinto la scommessa di riuscire a produrre formaggio a latte crudo (non pastorizzato) durante tutto l’anno. Per fare ciò nei mesi caldi è indispensabile curare nei minimi dettagli l’igiene degli animali, del pascolo e degli ambienti di lavorazione perché il proliferare dei batteri nel latte non pastorizzato è un fenomeno normale. “Ma il bello è proprio questo”, sottolinea Maria, “il latte non pastorizzato mantiene tutte le qualità naturali, a partire da aromi e profumi; per questo motivo diventa di grande importanza la qualità del pascolo, del processo di produzione e della stagionatura in grotta. La nostra scommessa era raccogliere il testimone dei nostri padri senza ricorrere alla pastorizzazione e produrre durante tutto l’anno (cosa non possibile anticamente per la proliferazione di batteri nei mesi caldi), in quanto nostra unica fonte di reddito”. Qual è la differenza col formaggio prodotto con latte pastorizzato? “Aromi e profumi vengono aggiunti in un secondo


momento, ma è un po’ come ricostruire un prodotto naturale a cui prima si leva qualcosa (con la pastorizzazione a 72°) e poi si restituisce. Il latte crudo è un prodotto più autentico e meno lavorato, ma richiede più attenzioni in fase di lavorazione. Il risultato è un formaggio naturale che esprime direttamente sapori e profumi dei nostri pascoli ricchi di finocchietto selvatico, mentuccia e timo. Altra particolarità è la salatura a secco, senza ricorrere alla salamoia: il sale viene cosparso sulla forma di formaggio a mano; è una fase della lavorazione che richiede sensibilità e aiuta la formazione della corteccia. Infine la stagionatura in grotta, altro processo naturale durante il quale si devono monitorare le muffe, lavando quelle cattive”. È un fiume in piena questa donna sospinta da una spiccata forza interiore. Maria e Nicola hanno vinto la scommessa. Producono un formaggio di altissima qualità ma il loro sogno deve ancora avverarsi. “Le nostre colline sono bellissime; questa per me è l’oasi della pace, luogo ideale per una fattoria che vive con 500 capi tra capre e pecore; ma le oasi si sa, sono lontane, non facilmente raggiungibili. Vorrei che la mia fattoria fosse attiva al 100%.”. Chiedo a Maria cosa significhi nel suo sogno il “100%”. “La risposta è semplice, il sogno più complicato”, sorride mentre mi offre uno spicchio di pecorino stagionato. “Essere agricoltori oggi è problematico; far vivere una fattoria in un luogo “lontano” come la Basilicata lo è ancora di più”. La casara di Chiaromonte ha le idee chiare e non si può che darle ragione. “Agricoltori e allevatori svolgono un ruolo importante nella salvaguardia del territorio ma la loro professionalità, che ha la stessa dignità di quella di un ingegnere o un avvocato, non è riconosciuta. Tanti giovani sono affascinati dall’idea di lavorare a stretto contatto con la terra ma non hanno prospettive”. In un momento in cui la grande distribuzione e la disinformazione fanno enormi danni ai prodotti autentici Maria ci tiene a raccontare cos’è il suo formaggio: “Dentro ogni forma c’è una storia, momenti di vita, pezzi di anima e corpo. Le persone che vengono a trovarci in azienda capiscono subito che è più giusto parlare di valore piuttosto che di prezzo. Nei negozi si vende il formaggio al kilo, in azienda si vende una storia, un territorio. E soprattuto si sviluppa la consapevolezza di ciò che si mangia, valore ormai perso in un mondo dominato e controllato da etichette lontanissime dai territori e dalle mani di uomini e donne che lavorano, dove frequentemente i sapori sono costruiti con la chimica”.



Vite e mestieri della Basilicata Enrico Caracciolo, Paolo Simoncelli © 2013 by Enrico Caracciolo, Paolo Simoncelli Accordo di programma quadro in materia di beni culturali tra la Regione Basilicata ed il MIBAC - III Atto integrativo - “Cultura Basilicata” Delibera CIPE 14/2009 ISBN 9788890786976 Giugno 2013


Table of Contents Copertina L’archeologa spaziale Il risveglio del lupo L’ironia del poeta e la corona del maiale Nel segno dello stupor mundi Il profeta del mischiglio Il riabitante di Matera L’ultimo dei vendi a Matera Pietre e parole della rabatana Il diavolo e l’acqua santa L’uomo nero di rapolla La scuola che non c’è I colori ritrovati L’artigiano e il campione Il papas di San Paolo Albanese Il vigile tuttofare Le lame dei briganti Le maschere dell’Aldilà Il miracolo del carro Il cantastorie e la principessa La rivoluzionaria delle forbici La sarta di mucche e tori Le signore del formaggio Copyright

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