Maitan, Alla fine

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Introduzione Livio Maitan Al tennine d'una lunga marcia: dal Pci al Pds:

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1990,coop. me emme eilizioni Redazione: vI. Libia 174- 00199 Roma Versamenti su c/c/p n. 24957003 PubbI. periodica (autorizz. Trib. di Roma 268 - 12/5/89) Stampa: Tipolito Erp Roma Prima edizione: novembre 1990 In copertina: Ingrao (1966) di Ennio Calabria

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1. Il Pci nella dinamica sociale e politica italiana

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2. I fattori condizionanti internazionali

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3. Da Livorno alla socialdemocrazia

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4. Erano possibiliscelte alternative?

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5. I protagonisti:da Togliattia Berlinguer

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6. L'ultimasvolta?

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7. Elogio della rivoluzione

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INTRODUZIONE

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Per il movimento operaio italiano e per il Partito comunista l'ora di un bilancio complessivo non è scoccata una sola volta. Vn bilancio si sarebbe potuto fare già nel 1948, dopo che la vittoria delle forze conservatrici alle elezioni del 18 aprile aveva sancito l'insuccesso del progetto che aveva ispirato la politica di unità antifascista e la strategia di democrazia progressiva1. Gli stessi presupposti analitici di questa strategia erano venuti meno. Sul piano interno, i gruppi egemoni delle classi dominanti e il loro partito, la Democrazia cristiana, erano più che mai decisi a imporre la propria scelta di ricostruire il paese dalle rovine della guerra restaurando lo Stato tradizionale con i suoi apparati e i suoi modi di funzionamento e rilanciando i meccanismi classici dell'economia capitalistica: trascorso il breve interludio dell'emergenza, non avevano nessuna intenzione di stabilire una sistematica collaborazione con i partiti operai associandoli al governo. Sul piano internazionale, a partire dal discorso di Churchill a Fulton sulla cortina di ferro (1946), le potenze imperialistiche avevano ormai lanciato la guerra fredda, facendo tramontare rapidamente le illusio-

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Il restauro (1984), di Ennio Calabria

l In un articolo di Rinascita su cui ritorneremo, Palmiro Togliatti constatava il fallimento del «compromesso del fronte antifascista» già nell'agosto del '46 (una periodizzazione analoga è stata abbozzata anche da Pietro Secchia).

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ni di un accordo duraturo tra i paesi "democratici" per l'edificazione di un mondo libero e pacific02. D'altra parte, nel giugno 1948, il primo episodio clamoroso di crisi dello stalinismo, la rottura tra sovietici e jugoslavi avrebbe dovuto stimolare un processo di riflessione critica, tanto più che sino al giorno prima la Jugoslavia era apparsa agli occhi dei comunisti italiani come il miglior modello, dopo l'Urss, di paese socialista. Un'altra grande occasione si era presentata nel '56, dopo la denuncia chruscioviana dei crimini di Stalin e l'emergere di movimenti di massa antiburocratici in Polonia e in Ungheria (già tre anni prima avvenimenti analoghi avevano avuto luogo in Germania orientale). TIPci aveva subito allora uno scossone senza precedenti, con un ripensamento critico dei propri atteggiamenti passati nei confronti della direzione dell'Urss. Ma non era andato al di là di un'accettazione, in linea di massima, della prospettiva chrusciov'iana, cioè di una prospettiva di autoriforma della burocrazia. E quando l'esercito sovietico era intervenuto in Ungheria, la tesi ufficiale era stata accolta e la repressione contro gli insorti approvata esplicitamente. Un bilancio d'insieme, da un punto di vista nazionale e internazionale partendo, da una parte, dall'esperienza cecoslovacca e dal nuovo intervento sovietico, dall' altra, dalla crisi sociale e politica che scuoteva profondamente la società italiana, come quella di altri paesi dell'Europa capitalistica, spezzando gli equilibri relativi stabiliti dalla fine degli anni '40 non era stato fatto neppure nel 1968-69. C'erano state anche allora correzioni e riaggiustamenti, con prese di posi-

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2 Alla fine della guerra, i dirigenti del Pci negavano recisamente che si fossero creati due blocchi con relative sfere di influenza. Chi scrive, in dibattiti awti come militante socialista con esponenti del Pci, si è sentito spesso trattare con qualifiche ed epiteti poco lusinghieri, per il semplice fatto di sostenere che c'era stato l'incontro di Jalta dove erano state delineate le zone di influenza.

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zione più nette che in passato nei confronti dell'Urss, ma senza che si arrivasse a un riesame complessivo di analisi, prospettive e orientamenti. C'è voluto il terremoto del 1989, preceduto dal declino ormai decennale del partito, perché ci si decidesse a rimettere in discussione tutta un'esperienza storica. Indipeudentemente dalle conclusioni che se ne possano trarre, è ovvio che il bilancio necessario deve avere una dimensione internazionale e non solo nazionale. Deve partire da una riflessione complessiva, da una ricostruzione storica che eviti le tentazioni apologetiche o giustificazionistiche. Si tratta, né più né meno, del bilancio di decenni di "costruzione del socialismo" in società di transizione burocratizzate e, in primo luogo, della tragica esperienza staliniana della fine degli anni '20 e degli anni '30 e '40. Si tratta contemporaneamente del bilancio, per non risalire più indietro, di oltre mezzo secolo di vicende del movimento operaio e dei partiti comunisti nei paesi capitalistici industrializzati. Le devastazioni sono state cosi profonde, i fallimenti cosi clamorosi, le contraddizioni cosi laceranti, lo smarrimento ideologico e morale cosi grave, che non si possono più sostenere gli argomenti di realismo politico o presunto tale - con cui si è accettato come ineluttabile, per lunghi decenni, il contesto dato, lanciando l'ostracismo contro chiunque mettesse in dubbio analisi o prospettive, scelte tattiche o strategiche, metodi di direzione o di organi7.7.azione.I risultati dell'opera dei cosiddetti "realisti" sono drammaticamente chiari e proprio questo consente alle classi dominanti, ai loro gruppi dirigenti e ai loro intellettuali, di intonare la marcia funebre del comunismo e del socialismo, proclamando la perennità dell'ordine esistente. Per parte nostra, restiamo convinti che il crollo dello stalinismo e la crisi senza precedenti del movimento operaio tradizionale in Italia, in primo luogo, del Pci non provano

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affatto che movimento operaio e lotta anticapitalistica vadano relegati tra i cimeli del passato. Restiamo convinti che un'analisi di quella che realmente è la società contemporanea, nazionalmente e internazionalmente, consente di individuare, al di là di tutte le vicende congiunturali, non solo il persistere, ma addirittura l'aggravarsi delle contraddizioni intrinseche di questa società e che i prossimi decenni, in vari paesi o in varie regioni del mondo, probabilmente anche i prossimi anni, saranno segnati da crisi ed esplosioni più - e non meno - laceranti di quelle che hanno pur sempre segnato ricordiamolo ai troppi afflitti oggi da amnesia una parte cosi grande del nostro secolo. In tale contesto, le classi che continuano a essere oggetto di sfruttamento, di oppressione e di alienazione, la cui esistenza quotidiana resta subordinata agli imperativi del profitto e i cui diritti democratici, nell'esercizio reale, si riducono a ben poca cosa, non rinunceranno a rilanciare la loro lotta, a intensificarla e a generalizzarla, dandole nuove dimensioni e, partendo da esperienze vecchie e nuove, sapranno dotarsi degli strumenti politici e organizzativi necessari. Si tratterà di un'opera estremamente ardua di ricomposirione e di rifondazione, o di fondazione ex novo, che non potrà essere disgiunta da una contemporanea azione su scala internazionale. Il bilancio del passato ne è una premessa sine qua non. Scopo del nostro saggio è di contribuirvi ripercorrendo criticamente l'itinerario di un partito che, dopo avere svolto per circa cinquant'anni un ruolo di assoluto primo piano, è stato investito da una crisi che lo ha indotto a rimettere in discussione non solo il suo passato, ma la sua stessa ragion d'essere e il suo stesso avvenire3.

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3 Questo saggio riprende e rielabora, owiamente, analisi e motivi critici avanzati in nostri libri, saggi o articoli, dal 1945 in poi, che avremo occasione di richiamare.

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1. IL PCI NELLA DINAMICA SOCIALE E POLITICA ITALIANA

Il contesto storico Nell'arco dei settant'anni trascorsi dalla sua fondazione, il Partito comunista è stato componente essenziale e, dalla rme degli anni '40, nettamente egemonica del movimento operaio, con un ruolo di primo piano nella lotta politica italiana. Per comprendere come ciò sia stato possibile, bisogna partire da un richiamo, sia pur sintetico, del quadro storico complessivo. In una società che aveva conosciuto uno sviluppo capitalistico diseguale e le cui istituzioni parlamentari non consentivano che un'espressione del tutto parziale degli interessi e delle aspirazioni della grande maggioranza della popolazione - quindi in un contesto contraddistinto da un'elevata eonflittualità

e da ricorrenti

esplosioni

- il

movimento

operaio aveva conosciuto una forte crescita sin dagli inizi del secolo e si era venuto configurando un Partito socialista per molti aspetti diverso dalle classiche socialdemocrazie. Negli anni immediatamente successivi alla Prima guerra mondiale, l'Italia era scossa da una crisi sociale e politica ben più profonda di quella di altri paesi dell'Europa occidentale (eccettuata, beninteso, la Germania), con una politicizzazione e radicalizzazione di vasti settori della classe operaia, di

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importanti strati contadini e di settori della stessa piccolaborghesia. Tutto ciò accentuava ulteriormente certi caratteri specifici del nostro movimento operaio e dello stesso Partito socialista (tra l'altro, con l'emergere, oltre che di una consistente tendenza comunista, di una componente maggioritaria massimalista, con la relegazione in una posizione nettamente minoritaria dei riformisti turatiani). E' tale contesto di crisi rivoluzionaria o prerivoluzionaria, non sfruttata in senso favorevole, come sarebbe stato possibile nei momenti più alt~ che spiega perché proprio l'Italia sia stata il primo paese a conoscere il fenomeno fascista. E la ventennale dittatura mussoliniana doveva, a sua volta, influire sul tipo di risposte, di lotte, di mobilitazioni che si sviluppavano una volta precipitata la crisi del regime. Ricordiamo, per esempio che, nel marzo '43, come pure l'anno successivo, si verificavano degli scioperi di massa: un fatto unico nella vicenda della resistenza antifascista nell'Europa occidentale. Questa maturazione politica di vasti settori della popolazione, combinata al disfacimento del vecchio esercito nei giorni dell'armistizio, creava le condizioni per lo sviluppo di un ampio movimento clandestino e di conSistenti forze partigiane. Senza indulgere a interpretazioni apologetiche, va detto in secondo luogo che proprio l'asprezza della lotta in quel periodo e l'attiva partecipazione popolare hanno avuto un impatto duraturo sul quadro sociale e politico dei decenni successivi. Cosi, tutta una fase della ricostruzione postbellica è stata segnata da un'acuta e persistente conflittualità politica e sociale, tradottasi in grandi mobilitazio~ alcune delle quali come quella del 14 luglio 1948, dopo l'attentato a Togliatti - con tratti addirittura insurrezionali. E anche dopo che le classi dominanti e i loro governi erano riusciti a imporre una ristabilizzazione relativa, il movimento operaio manteneva sostanzialmente le sue forze orga-

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nizzate e la sua influenza, senza subire sconfitte paragonabili, per esempio, a quella subìta dalla classe operaia in Francia con l'avvento al potere di De Gaulle e l'istaurazione della V Repubblica. Nel 1968-69 si apriva una nuova crisi politica e sociale. Non ritorniamo sui fattori che l'hanno determinata e sulle

sue manifestazionil, Se in Italia non c' è stata un'esplosione rivoluzionaria concentrata come il Maggio francese, in compenso la crisi ha investito più in profondità strutture e rapporti sociali, istituzioni politiche, amministrative e persino giudiziarie, e rapporti sui luoghi di produzione, con una radiCllIi77az1onesenza precedenti. Questa crisi - ancora una volta, variante eccezionale nel quadro dell'Europa capitalistica si è prolungata, con alti e bassi, per Qltre cinque anni, con rilanci e sussulti nel periodo successivo. Per sintetizzare, è in tale contesto, dalla rme della guerra alla metà degli anni '70, che il movimento operaio ha potuto costruire, rafforzare e mantenere organizzazioni politiche e sindacali così forti (come pure un vasto e articolato movimento cooperativo), esercitare una notevole influenza sul piano culturale, occupare solide posizioni a tutti i livelli delle istituzio~ anche se la sua componente maggioritaria restava esclusa dal governo. Ed è tale contesto che spiega, in ultima analisi, la crescita e il consolidamento di un partito comunista, da decenni il più for,te dei paesi capitalistici e in grado di evitare cadute catastrofiche come quelle del Partito comunista francese o di quello spagnolo.

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1 Tra questi fattori vanno sottolineati, in primo luogo, l'accresciuto peso specifico della classe operaia e l'irrompere sul1a scena del1a forza politica e sociale nuova costituita dal movimento studentesco (vedere a questo proposito ciò che abbiamo scritto in Pci:1945-1969: stalinismo e opportunismo, Samonà e Savelli, Roma, 1969, pp. 311 e sgg; n partito /eninista, Samonà e Savelli, Roma, 1972 e Dinarruca delle classi sociali in l/alia, Samonà e Savelli, Roma, 1976.

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Le tappe di una costruzione Detto questo, se non si vuoi correre il rischio di una interpretazione meccanicistica, bisogna cogliere contemporaneamente i fattori soggettivi che sono intervenuti, indicare più concretamente come il Pci abbia potuto sfruttare a suo favore le potenzialità delle situazioni oggettive che si sono via via delineate. Ripercorriamo, dunque, rapidamente alcune tappe della sua costruzione. Il Partito comunista d'Italia nasce quando la fase ascendente rivoluzionaria è in via di esaurimento e le classi dominanti sono passate alla controffensiva. In questo senso, non hanno torto coloro che, da diversi angoli di visuale e in termini diversi, hanno affermato che è nato troppo tardi2. Troppo tardi per sfruttare a vantaggio della classe operaia la crisi politica e sociale del dopoguerra e troppo tardi per costruire in tempo uno strumento di lotta in grado di contrastare con successo l'ascesa del fascismo e il suo avvento al potere. La difficoltà era ulteriormente accresciuta dal fatto che concezioni e metodi di analisi prevalenti sotto la direzione bordighiana ostacolavano seriamente la presa di coscienza del significato del sino allora inedito fenomeno fascista. 2 Vale la pena di richiamare qui la valutazione espressa all'inizio degli anni '30 dall'Opposizione di sinistra italiana: «Questo partito nasceva troppo tardi per portare a compimento vittorioso l'ondata rivoluzionaria scatenatasi In Italia alla fine della guerra (1919-1920~, ma esso rappresentava la sola garanzia di successo nella lotta per I awenire del proletariato italiano per impedire che tUtto andasse perduto, per creare le condizioni di vittoria sulla borghesia: a condizione, però, che esso sapesse dare non solo una giusta soluzione teorica ai problemi della rivoluzione proletaria, ma di condurre una politica adeguata per portare le grandi masse ad accettare e a far proprie le soluzioni presentate dal Partito comunista. Questa politica è ciò che mancò principalmente al nostro partito nel suo periodo di "infanzia", il periodo della direzione bordighiana» (Bollettino dell'opposizione comWlista italiana, n. 13, 19febbraio 1933).

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Ciò non toglie che il partito nasce con forze niente affatto trascurabili e che, nonostante i colpi subìti, mantiene un'organinazione abbastanza consistente nei primi anni del nuovo regime, registrando addirittura un nuovo afflusso di iscritti dopo l'assassinio di Matteotti. In particolare, continua a disporre di una notevole influenza in alcune grandi fabbriche. Cosa ancor più importante: dopo il consolidamento della dittatura, è incontestabilmente la sola organizzazione politica che riesca a svolgere un'attività all'interno del paese anche nei momenti più difficili3. Vedremo più avanti quale preL"ZO abbia pagato per gli errori commessi attorno al 1930. Resta che, grazie ai suoi legami organici con le classi sfruttate e in primo luogo con significativi settori proletari, ai quadri che aveva formato sin dalla prima fase della sua esistenza, all'influenza anche di massa conquistata nell'emigrazione (soprattutto in Francia, ma anche nel Belgio, nel Lussemburgo e in Svizzera), alla forza e all'autorità che gli derivavano dall'appartenenza alla Terza internazionale e dalla rivendicazione del significato della rivoluzione russa, il Pci - a differenza di tutti gli altri partiti o movimenti e in particolare del Partito socialista - ha potuto

assicurarsi una sostanziale continuità durante tutto il ventennio della dittatura. Ed è tale continuità che consentirà ai suoi

3 AI Congresso di Livorno, circa 60.000 iscritti avevano appoggiato la mozione comunista; a questi andavano aggiunti 35.000 voti, su un totale di 43.000, della Federazione giovanile (ricordiamo che i massimalisti erano circa 100.000e i riformisti 15.000). La corrente sindacale comunista contava 288.000 aderenti nelle Camere del lavoro e 136.000 nei sindacati di categoria. La composizione sociale del nuovo partito era proletaria al 98%. Alle prime elezioni cui partecipava, il 7 aprile 1921, otteneva 291.952 voti e 15 seggi (il PSI un milione e mezzo di voti e 122 seggi). Nell'autunno 1924 gli iscritti erano 25.000 e alcune migliaia in più un anno dopo, mentre nel 1926 non erano più che 16.000. Ricordiamo, infine, che nell'aprile 1925, alle elezioni per la commissione interna della Fiat, la lista del Pci otteneva quasi lo stesso numero di voti della lista della Fiom, appoggiata dai due partiti socialisti.

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militanti, pur spesso non collegati al centro del partito, di dare un contributo decisivo agli scioperi già ricordati della primavera del '434. E' ben nota la parte che i comunisti hanno avuto nella Resistenza e che è alla base della loro eccezionale crescita in quel cruciale biennio. Questa crescita, se è stata favorita in notevole misura dal prestigio di cui l'Urss godeva allora, è stata possibile perché il Pci è entrato nella lotta con un patrimonio di quadri e di militanti senza paragone superiore a quello di tutte le altre organizzazioni. A partire dal luglio '43, a coloro che già erano attivi in precedenza, si aggiungevano coloro che ritornavano dalle carceri o dalle isole o rientravano dall'estero, un certo numero dei quali aveva fatto una preziosa esperienza militare nella guerra civile in Spagna. E' grazie a questa ossatura che il Pci potrà dare il contributo di gran lunga più importante al movimento clandestino, a mobilitazioni di massa come gli scioperi della primavera del '44 e alla lotta partigiana. Registrerà in tal modo un afflusso massiccio di nuove forze, che avranno un ruolo centrale nella sua attività e nella sua vita interna nel corso dei de. . .5 cenm successiVi .

4 All'inizio del '43 ci sono 80 iscritti alla Fiat Mirafiori, circa 30 alla Lancia, circa 60 alla Viberti, circa 70 all'Aereonautica e complessivamente circa 1.000 iscritti nella città di Torino, quasi tutti operai. Questi dati potranno sembrare modesti rispetto agli effettivi su cui il Pci potrà contare più tardi. Ma chi abbia un'idea di che cosa significhi lavorare nella clandestinità e del ruolo determinante che possono assumere in grandi fabbriche, quando se ne creino le condizioni, nuclei anche molto ristretti, non può non dare una ben diversa valutazione e non comprendere il valore del lavoro compiuto per poter arrivare alle scadenze del '43 con un simile potenziale. 5 Nei 45 giorni si calcola che siano stati liberati circa 3.000 militanti e già nella seconda metà del '43 si realizzava la saldatura fra le tre "componenti": gli ex-prigionieri, i militanti dell'emigrazione e le giovani reclute (Paolo Spriano, Storia del Partito comunista italiano, Einaudi, Torino, 1973,voI. IV, p. 344). Per i dati sugli iscritti nelle fabbriche alla fine del '43, cfr. ibidem, voI. V, pp. 225-226).

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Alla fine della guerra, il Pci ha già un'influenza prevalente nellia classe operaia e si colloca a un livello di poco inferiore a quello del Partito socialista come forza elettorale6. I suoi militanti sono in prima linea nella costruzione delle organizzazioni sindacali, operaie e contadine e di altre organizzazioni di massa. I rapporti di forza nell'ambito del movimemto operaio evolvono ancor più nettamente a suo favore negli anni successivi. Vedremo più avanti quale giudizio si debba dare, a nostro avviso, sui suoi orientamenti e sulle sue contraddizioni in quel periodo. Qui basti ricordare che, nella misura in cui il PSI è indebolito dalla sua inconsistenza politica e dal suo accentuato codismo nei confronti dei comunisti e poi dalla scissione di Palazzo Barberini, il Pci appare sempre di più agli occhi delle masse popolari come la sola forza in grado di contrastare l'offensiva restauratrice delle classi dominanti e la costituzione del blocco politico e militare imperialistico dell'Alleanza atlantica. A questo proposito, due episodi sono stati indicati a giusto titolo come emblematici: la battaglia, nel parlamento e fuori, contro la firma del Patto atlantico nel '49 e la lotta democratica contro la legge elettorale truffaldina quattro anni più tardi. Nella nuova fase che si apre negli anni '60 con l'avvento del centro-sinistra, quando il Psi diviene parte integrante di governi incapaci di realizzare le stesse timide riforme abbozzate all'inizio, il ruolo del Pci come la sola credibile forza di opposizione e come lo strumento più valido di difesa degli interessi e dellie aspirazioni delle masse popolari non può che rafforzarsi. 6 Il Pci otteneva, il 2 giugno 1946,4.356.686 voti contro 4.758.129 del Psi. Al momento della liberazione, cioè alla fine del periodo clandestino, in tutta una parte del paese, contava 90.000 iscritti al Nord e 311.960 nel resto del paese. Al V Congresso, il primo del dopoguerra, vengono annunciati 1.770.896 iscritti. Il livello più alto sarà raggiunto al VII Congresso, nel 1951, con circa 2,5 milioni.

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Una contestazione di questo ruolo non si delinea che a partire dal 1968-69, con l'ascesa dei grandi movimenti di massa operai e studenteschi. Per la prima volta nella sua storia, il partito è attaccato su vasta scala alla sua sinistra. Ma, grazie alla incontestabile duttilità tattica del suo gruppo dirigente e alle operazioni condotte con eguale duttilità per non dire con abile trasformismo dai suoi dirigenti sindacali, riesce a reinserirsi nel giuoco abbastanza rapidamente, recuperando obiettivi dei nuovi movimenti e influenzandone larghi settori. Quando il periodo più acuto della crisi politica e sociale si chiude, quando cominciano a porsi i problemi della crisi economica nazionale e internazionale del 1974-75, di fronte ai quali l'estrema sinistra è in larga misura disarmata (e anche per questo comincia a declinare), quando le grandi masse si inseriscono di nuovo in una prospettiva istituzionaleelettorale, il Pci appare ancora una volta come il solo strumento efficace. Si arriva così ai suoi successi elettorali del 1975-76, mentre su scala internazionale giunge l'ora del cosiddetto eurocomunismo, che appare come un tentativo organico di dare alle lotte e alle prospettive politiche la dimensione sovranazionale necessaria. E' proprio in quel momento che, con la segreteria di Berlinguer, il Pci raggiunge il punto più alto della sua parabola. Ricapitolando, la sua forza è dovuta, dunque, a un'azione condotta per oltre mezzo secolo, senza vere e proprie soluzioni di continuità. E' dovuta a un profondo radicamento sociale, nella classe operaia, in larghi strati contadini e in settori di piccola-borghesia, moderna e tradizionale, che la funzione politica e organizzativa obiettivamente assolta gli ha permesso di realizzare, sviluppare e consolidare. E' dovuta all'influenza molteplice esercitata nella cultura del paese, grazie a una vasta gamma di intellettuali, presenti nelle sue

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me o alla sua periferia (soprattutto su questo terreno può sfruttare, anche se abusivamente, il prestigio di Antonio Gramsci). E' dovuta egualmente alla valorizzazione costante e prioritaria di quelli che, alla maniera di Lenin, erano chiamati una volta i "rivoluzionari di professione", cioè di uomini e donne per i quali la lotta contro la società esistente era la ragione stessa di vita, che erano dotati di un ammirevole spirito di sacrificio e costituivano un elemento di forza di cui nessun'altra formazione politica poteva neppur lontanamente disporre (vedremo quali siano stati gli aspetti negativi dell'esistenza dell'apparato, almeno tendenzialmente, monolitico che si è via via formato). E' dovuta, infme, a una utilizzazione sistematica - con risultati, specie nelle amministrazioni locali, per vari aspetti positivi - del quadro istituzionale in cui il peso elettorale assicurava, come si è accennato, una presenza molto vasta.

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2. FATTORI CONDIZIONANTI INTERNAZIONALI: DALL'OTTOBRE 1917AL "RAPPORTO CHRUSCIOV"

Il Pci e l'Internazionale comunista

Nel sintetizzare la parabola storica del Pci abbiamo fatto astrazione, salvo qualche accenno, dai fattori condizionanti internazionali. Ci è sembrata opportuna questa impostazione in un momento in cui pullulano ricostruzioni "storiche" a dir poco semplicistiche, che riducdno tutto o quasi ai crimini di Stalin e alle complicità di Togliatti. Ma un'analisi e una valutazione complessiva devono ovviamente integrare in tutta la loro portata le componenti internazionali, respingendo, al pari delle interpretazioni denigratorie, le interpretazioni apologetiche che sono prevalse per decenni e neppur oggi sono state del tutto abbandonate. Sin dall'inizio, come risulta anche dall'opera di colui che è stato sinora il suo maggiore storico\ l'evoluzione del Pci e

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prima ancora la sua stessa formazione- è stata determinata in larghissima misura dagli interventi diretti o indiretti della Terza internazionale. Nei primissimi anni, l'Internazionale ha 1 Paolo Spriano ha spesso tendenze giustificazionistiche, in particolare nei confronti di Togliatti. Ma il valore del suo lavoro è provato dal fatto che fornisce materiale ed elementi che permettono di ricavare valutazioni e conclusioni diverse dalle sue.

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cercato di far valere il suo peso, non senza difficoltà, per un superamento delle concezioni bordighiane, in particolare a favore del fronte unico proletario e di una collaborazione con il Psi in una prospettiva di riunificazione con quella che era stata a Livorno la tendenza dei massimalisti. Successivamente, gli interventi e le pressioni internazionali hanno contribuito alla formazione di un nuovo gruppo dirigente in rottura con Bordiga2. Analogamente, senza i dibattiti e le esperienze a livello internazionale non ci sarebbero state nel 1926 le Tesi del Congresso di Lione, che hanno segnato una pietra miliare nell'evoluzione del partito. La valutazione di queste tesi è stata oggetto di discussioni nella sinistra rivoluzionaria, giacché i bordighisti le hanno considerate come una tappa sulla via che avrebbe portato inevitabilmente alla politica di fronte popolare e d'unità nazionale. Si tratta, secondo noi, di un'interpretazione altrettanto errata di quella sostenuta ufficialmente per decenni e che in fondo andava nello stesso senso, con la differenza che quello che agli occhi degli uni era negativo, era, invece, positivo agli occhi degli altri. In realtà, le Tesi di Lione hanno rappresentato un contributo valido di analisi della società italiana e della sua dinamica e di defInizione di una strategia rivoluzionaria: e l'apporto di Gramsci è stato decisivo. Non va, tuttavia, taciuto un altro aspetto: il dibattito sulla strategia e sugli oriéntamenti politici in Italia si è svolto nel quadro, carico di ambiguità, della cosiddetta "bolscevizzazione" dei partiti comunisti. Lanciata dal V çongresso dell'Intetnazionale, essa corrispondeva certo a una esigenza di omogeneizzazione politica e di superamento di metodi di organi77.azio2 Neppure nel periodo antetiore alla burocratizzazione staliniana sono stati sempre evitati metodi verticistici. Proprio nel caso del Pc d'Italia, nella sessione dell' Esecutivo allargato del giugno 1923, il Comintern interveniva per la prima volta di autorità per determinare la composizione della Direzione di una sua sezione (un esecutivo misto di 5 membri, 3 della maggioranza e 2 della minoranza).

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ne e di funzionamento ereditati dai vecchi partiti riformisti. Ma, anche per precisa responsabilità di Zinov'ev, allora presidente dell'Internazionale, è stata indubbiamente un preludio della burocratizzazione del periodo successivo. Nella stessa preparazione del Congresso di Lione, peraltro, erano stati usati metodi non molto democratici: a questo proposito, le lamentele bordighiane non erano prive di fondament03. Il condizionamento internazionale ha in ogni modo assunto un carattere qualitativamente diverso durante i decenni di egemonia dello stalinismo: un dato di fatto che nessuno può contestare. Non essendo scopo di questo saggio percorrere tutte le vicende di quei decenni, ci soffermeremo su alcuni momenti tra i più significativi.

Dalla svolta del 1930 ai fronti popolari In primo luogo, ritorniamo sulla "svolta"del 1929-30,inserita nel cosiddetto "terzo periodo" dell'Internazionale co3 Al III Congresso dell'Internazionale comunista Zinov'ev ha definito la bolscevizzazione come segue: «Bolscevizzazione significa per noi che i partiti accettano quello che, in generale, era contenuto nel bolscevismo, e che Lenin ha precisato a proposito della "malattia infantile". Per bolscevizzazione dei partiti mtendiamo l'odio implacabile contro la borghesia e i capi socialdemocratici, la possibilità di tutte le manovre strategiche contro il nemico. La bolscevizzazione è la volontà inflessibile di lottare per l'egemonia del proletariato contro i capi controrivoluzionari e i centristi, contro i pacifisti e tutte le escrescenze dell'ideologia borghese. Bolscevizzazione significa creare una organizzazione saldamente strutturata, monolitica, centralizzata, che risolva armoniosamente e fraternamente le divergenze nelle sue file. Come ha insegnato Lenin, la bolscevizzazione è il marxismo in azione. E' la fedeltà all'idea della dittatura del proletariato, alle idee delleninismo. Bolscevizzazione significa pure non imitare meccanicamente i bolscevichi russi, ma prendere ciò che era e resta essenziale nel bolscevismo».

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munista, che prospettava crisi rivoluzionarie generalizzate a breve termine e imponeva l'abbandono della politica di fronte unico e la denuncia dei partiti socialdemocratici come socialfascisti. I frutti di gran lunga più amari di queste impostazioni sono stati raccolti in Germania, dove l'orientamento del Partito comunista è stato un elemento non secondario della tragica sconfitta di fronte a Hitler 4. Ma il partito italiano ha fatto esso pure le spese dell'operazione, cioè di una svolta puntualmente operata secondo le direttive moscovite. A proposito della svolta, esiste una interpretazione, avanzata in particolare da due uomini così diversi come Giorgio Amendola e Pietro Secchia, secondo cui in Italia sarebbe stata dettata da fattori specifici e avrebbe assunto particolari forme di applicazione. C'è in questa interpretazione un nocciolo di verità, nella misura in cui la svolta sembrava corrispondere a una esigenza di radicalizzazione della lotta, avvertita in particolare dal settore più giovane' del gruppo dirigente, e di rilancio del lavoro organizzato all'interno del paese, lasciando da parte le diatribe dell'emigrazione. Va aggiunto che certe formule staliniane, come quella del socialfascismo, sembravano porsi sulla stessa lunghezza d'onda di precedenti formulazioni del bordighismo, uno dei cui motivi ispiratori era consistito nel rifiuto di ogni forma di unità con il Partito socialista5. 4 l,.a polemica contro gli orientamenti staliniani del terzo periodo è stata un leit motiv della critica trotskiana di quegli anni, la cui giustezza e lungimiranza sono state quasi universalmente riconosciute, purtroppo con decenni di ritardo... 5 Va aggiunto che la categoria del socialfascismo non era una pura "coperta staliniana. Al V Congresso dell'Internazionale, Zinov'ev aveva uffcrmato: «Il fatto essenziale è che la socialdemocrazia è divenuta un'ala del fascismo». Pur mantenendo l'idea del fronte unico, aveva privilegiato il fronte unico dal basso. Per parte sua, Togliatti, al Convegno di Corno, rlcollegandosi a Zinov'ev, aveva definito gli "unitari", cioè i socialisti rlformisti, «un'ala del fascismo». L'atteggiamento settario nei confronti dei .ocialisti non era stato superato neppure al Congresso di Lione.

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Ciò non toglie che la svolta era stata decisa in sede internazionale, in conformità con le esigenze della direzione sovietica in quel momento, e imposta a tutti con le buone o con le cattive6. Come controprova, ci si potrebbe porre la domanda: se non ci fosse stata la decisione dell' Internazionale, il Pci avrebbe egualmente delineato le analisi e la politica del terzo periodo? La risposta non può che essere negativa. Difficilmente, per esempio, senza la spinta proveniente da Mosca, l'Unità sarebbe giunta al punto di proclamare in un titolo: «E' l'ora di passare alla violenza pro[etaria" e di aggiungere: «Dobbiamo prepararci a dare piombo al fascismo e al capitale».

Questo nell' Italia del 19307! L'argomento di Amendola e di Secchia, secondo cui la svolta è stata la condizione del mantenimento della continuità con tutto quello che ne è seguito, è specioso e sin troppo chiaramente apologetico. Infatti, gli stessi oppositori della svolta, rapidamente espulsi dal partito, non erano affatto contrari al rilancio dell'attività interna. Ma il rilancio poteva essere concepito in altro modo, senza prospettive e pratiche avventuristiche e, quindi, senza le conseguenze catastrofiche degli arresti e delle lunghe detenzioni di un numero elevato di militanti8. 6 Cfr., a questo proposito, in particolare il verbale del Comitato centrale del Pci del marzo 1930 e numerosi scritti di Alfonso Leonetti (tra i quali, in particolare, Un comunista, Fe[trinelli, Milano, 1977,pp. 157-176). 7 Nell'appello del Congresso di Colonia (1931) SI legge, tra l'altro: «gli elementi di una crisi rivoluzionaria si accumulano Compito fondamentale del partito nella situazione attuale è di tendere con tutta [a sua azione ad accelerare i[ processo di maturazione di una crisi rivoluzionaria». Il Plenum dell'InternazIonale comunista aveva parlato di una «nuova ondata rivoluzionaria che sale» e di « maturazione in certi paesi di una crisi rivoluzionaria». 8 Lo stesso Amendola doveva scrivere: «Bisognava prendere atto che la "svolta" non aveva raggiunto i suoi obiettivi» (Storia del Partito comunista italiano 1921-1943, Editori Riuniti, Roma, 1978,p. 201).

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La svolta successiva è quella che ha portato alla politica dei fronti popolari, «cambiamento brusco» (Spriano) a partire dall'estate 1934 (il1? agosto si firma il patto d'unità d'azione coi socialisti). Neppure questa volta s'è trattato di un'iniziativa autonoma del Pci, ma di una decisione presa a Mosca. A partire dal momento in cui era stato costretto a constatare il disastro della sua politica tedesca, Stalin si era cominciato a preoccupare del pericolo di guerra rappresentato dall'avvento al potere del nazismo e si era posto il problema di un nuovo orientamento della politica estera dell'Urss. Questo nuovo orientamento cominciava a delinearsi appunto nel '34 e si concretizzava a maggio dell'anno successivo con una dichiarazione congiunta con la Francia di Laval. Ne discendeva per l'le la politica adottata al VII Congresso. I partiti comunisti si prospettavano ormai alleanze non solo coi partiti socialisti, ma anche con partiti borghesi (in Francia, per esempio, col Partito radicale), senza escludere neppure un'eventuale partecipazione a governi di coalizione. Per una valutazione di questa politica ci possiamo rifare allo stesso Spriano, che non era certamente un estremista: «La raccomandazione di favorire governi di fronte popolare scrive

- sarà

['indicazione

fondamentale

a cui si sacrificheranno

_

le

stesse rivendicazioni rivoluzionarie fondamentali, richieste ora come garanzia che tali governi non divengano una riedizione di governi socialdemocratici, sostanzialmente borghesi, e poi abbandonate come accadrà in Francia, col risultato di compromettere gravemente [~natura popolare dei governi del

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froI)te, di staccarli dalle masse»

.

Ma per Stalin e la direzione del Comintern tutto questo passava completamente in seconda linea: prioritari erano gli interessi diplomatici dell'Urss. I dirigenti del PCI hanno sempre sostenuto che la politica adottata durante la Seconda guerra mondiale, e successivaI) P. Spriano, op. cit., voI. m, p. 27.

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mente, traeva origine, in sostanza, dalla svolta dei fronti popolari e dalle decisioni del VII Congresso dell'lc. Hanno insistito su questo motivo per provare la loro coerenza e il carattere non congiunturale della loro strategia. Le cose non sono così semplici, soprattutto perché c'è stato l'intermezzo del Patto russo-tedesco, che ha rappresentato una rottura di continuità, anche se di breve durata. Comunque sia, il richiamo alla politica dei fronti popolari non è un argomento a favore della specificità e dell'autonomia del Pci, che, al contrario, aveva fatto proprio, ancora una volta, un orientamento dettato dalla direzione dell'Internazionale, corrispondente a le esigenze dello Stato sovietico e del suo gruppo dirigente lO.

Da Salemo al XX Congresso

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svolta ci si vuole richiamare per sostenere che sin da allora 1943-44 - il Pci aveva una prospettiva democratico-istituzionale e non rivoluzionario-insurrezionale, l'argomento è sen-. . . . 11 , z altro pertmente. Ma non ne denva che m questo caso Cl sia stata una scelta autonoma e specifica. Di fatto, la linea applicata sempre più sistematicamente a partire dal rientro in patria di Togliatti, è stata comune a tutti i partiti comunisti dell'Europa occidentale - mutatis mutandis, non solo dell'Europa occidentale - e l'iniziativa era spettata sempre alla direzione sovietica e all'ormai moritura Internazionale comunista12. L'insistenza di Giorgio Amendola sul fatto che la propaganda di Togliatti da Radio Mosca era orientata già prima del suo ritorno verso l'unità antifascista prova esattamente il contrario di quello che pretende di provare lo stesso Amendola. Infatti, da un lato, Togliatti non era allora collegato alla direzione in Italia

Una terza svolta, su cui si sono versati i tradizionali fiumi d'inchiostro, è quella cosiddetta "di Salerno". Se a questa lO Non affrontiamo qui un altro aspetto del problema: la linea di fronte popolare non ha avuto né poteva avere in Italia le stesse implicazioni pratiche che in Francia o in Spagna. Il fronte popolare veniva prospettato come unificazione di tutte le correnti di opposIZione al fascismo, compresa una corrente fascista critica o supposta tale. AI Comitato centrale di fine ottobre del '35, Ruggero Grieco nella sua replica affermava: «Noi saremo i dirigenti del fronte popolare, se sapremo saldare come dice Ercoli l'opposizione antifascista all'opposizione fascista». Veniva allora lanciata la parola d'ordine della «riconciliazione nazionale» e di un «programma di pace, di libertà e di difesa degli interessi del popolo italiano». Ci si dichiarava disposti a combattere assieme ai fascisti critici per la realizzazione del programma fascista del 1919. In una risoluzione di fine settembre del '36, non ci si peritava di affermare che <<isindacati fascisti possono essere uno strumento di lotta contro i padroni e perciò debbono essere considerati come i sindacati operai nelle attuali condizioni italiane». Simili prese di posizione provocavano, come si può ben immaginare, vive e tenaci polemiche nell'opposizione antifascista, con ricadute all'interno stesso del partito.

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L

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- praticamente

inesistente

in quanto orga-

nismo - e non poteva quindi essere il portavoce di una linea elaborata autonomamente dal suo partito. Dall'altro - ciò che è ancora più importante chiunque abbia una idea anche approssimativa del funzionamento del regime sovietico agli inizi degli anni '40, non può credere seriamente che i suoi dirigenti mettessero a disposizione di un comunista straniero i mezzi necessari, nella fattispecie una potente radio trasmittente, per consentirgli di esprimere le sue idee indipendente-

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11 In polemiche recenti, si è preteso di cogliere una presunta incoerenza del Pci nel fatto che durante la resistenza aveva lanciato appelli all'insurrezione. L'argomento è assolutamente pretestuoso: si trattava di una insurrezione contro il fascismo e non per il rovesciamento del capitalismo, e in collaborazione con tutte le forze antifasciste. 12 Nella sua ultima risoluzione (15 maggio 1943), l'Internazionale comunista affermava, tra l'altro: «Nei paesi del blocco hitleriano, il compito fondamentale degli operai, dei lavoratori e di tutti gli onesti consiste nel contribuire alla sconfitta di questo blocco. Nei paesi della coalizione antihitleriana, il sacro dovere delle larghe masse popolari... è di sostenere con tutti i mezzi gli sforzi militari dei governi di questI paesi». 27


mente dagli orientàmenti del Cremlino. Neppure è pensabile che Togliatti rientrasse in Italia per decisione del tutto autonoma e delineasse al suo arrivo, di propria iniziativa, una linea che, sulle prime, provocava turbamento in buona parte del ~Ftito, senza che una decisione fosse stata presa in alto loeo . Più in generale, neppure la scelta della via nazionale al socialismo può essere rivendicata come un'espressione di originalità e di autonomia. Basti ricordare che lo stesso StaIin, prima dell'inizio della guerra fredda, aveva ventilato la possibilità di vie diverse al socialismo in una conversazione con una delegazione del Partito laburista e, poco dopo, in un incontro con il dirigente del Pc cecoslovacco Gottwald, e che vari dirigenti di partiti comunisti se ne erano fatti eco. Va aggiunto che, dopo la formazione del Cominform nell'anno 1947 e dopo le critiche da parte di Zdanov, nella riunione costitutiva, al Pci e al Pcf, sospettati di cedimenti opportunistici, il partito si riadattava rapidamente al nuovo clima e, pur senza mutare sostanzialmente la sua politica _ cosa che gli stessi sovietici non avrebbero voluto metteva la sordina sul tema delle vie nazionali al socialismo: un tema destinato ad essere rilanciato solo nove anni dopo, al Congresso del '5614. Questo congresso è stato, in realtà, un'altra pietra miliare

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nella storia del Pci: sono i suoi testi

-e

non quelli degli altri

tre congressi che lo avevano preceduto dopo la fine della 13 La drammatica esperienza della Grecia è una conferma a contrario dell'ispirazione g:enerale della linea dei partiti comunisti. Infatti, Stalin condannava esplicitamente i movimenti che si erano prodotti in quel paese e che avevano contrapposto forze partigiane e truppe britanniche. 14 Nel luglio '48 Togliatti dichiarava: «La guida non può essere che per tutti una: nel campo della dottrina è il marxismo-leninismo, nel campo delle forze reali è il paese il quale è già socialista e nel quale un partito marxista-Ieninista temprato da tre rivoluzioni e da due guerre vittoriose ha la funzione dirigente».

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........

guerra1S - che hanno sistematizzato la concezione della «via italiana al socialismo». Questa sistematizzazione era stata preparata da orientamenti precedenti. Ma anche in questa occasione la spinta decisiva è venuta dai dirigenti del Pcus. C'era stato infatti, nel febbraio dello stesso anno, il XX Congresso, in cui Chrusciov aveva avanzato la prospettiva di un passaggio al socialismo per via pacifica, istituzionale, nei paesi capitalisti industrializzati. E' sulla scia di Chrusciov - cui Togliatti faceva esplicito riferimento nella sua relazione introduttiva che venivano elaborati idee e orientamenti dell'VIII Congresso. Più in generale, è dopo il famoso Rapporto dello stesso Chrusciov sui crimini di Stalin e il disgelo nell'Urss che il partito inaugurava, con assai cauto gradualismo e non senza contraddizioni, un processo di revisione critica - parziale dello stalinismo e del suo stesso passato. Tra la svolta di Salerno e il Congresso del '56 si era prodotto un avvenimento cui abbiamo già accennato e che doveva pesare sulle sorti del movimento comunista: la rottura tra Mosca e la direzione jugoslava, nel giugno 1948. La direzione del Pci non esitava un solo istante: dimenticando tutto quello che aveva detto e scritto sulla Jugoslavia e su Tito, si associava senza riserve alla furibonda campagna antijugoslava, con il ricorso ai motivi e agli epiteti classici dello stalinismol6. Con pari sollecitudine, quando, dopo la morte di Stalin, Chrusciov andava a Canossa riconoscendo l'errore commes-

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15 II primo Congresso del dopo~erra, il V, ha avuto luogo negli ultimi giorni del 1945 e nei primi giorni del 1946; il secondo, il VI, nel 1948 e il terzo, il VII, nel 1951. Per il carattere particolare del V Congresso cfr. Archivio Pietro Secchia, 1945-1973, Annali Feltrinelli, Milano, 1979,p. 212. 16 Chi scrive si trovava in quel momento a Venezia ed era in contatto con dirigenti della Federazione comunista. L'annuncio radiofonico in tarda serata della rottura dell'Urss con la Jugoslavia provocava nel partito una reazione di sgomento. Ma il mattino successivo, all'apertura della sede provinciale, il ritratto di Tito era già sparito!

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so, si allineava di nuovo sullc scelte ùi Mosca. Reagiva allo stesso modo nel novembre '56, approvanùo l'intervento sovietico in Ungheria.

Prassi organizzativa staliniana Come vedremo più avanti, il Pci ha subìto meno profondamente di altri partiti comunisti il processo di stalinizzazione nel suo funzionamento organizzativo. Ma ciò non significa che non sia stato fondamentalmente staliniano anche da questo punto di vista. In realtà, non ha conosciuto, per esempio, un dibattito interno democratico che per un periodo molto limitato, nei primi anni della sua esistenza 17.Successivamente, lo stesso passaggio all'attività clandestina favoriva l'affermarsi di tendenze verticistiche con il crearsi di rigidi compartimenti stagni. Sino alla fine degli anni '20, le discussioni continuavano, ma si limitavano a organismi di direzione sempre più ristretti e ricostituiti per cooptazione. Già nella battaglia contro la tendenza bordighiana, prima e dopo Lione, si faceva ricorso a misure disciplinari di stile burocratico. All'inizio degli anni '30, la crisi provocata dalle divergenze sulla svolta segnava un altro passo in avanti in senso negativo: i minoritari erano espulsi per direttissima e iniziava nei loro confronti una campagna denigratoria senza esclusione di colpi. 17 Va detto che neppure Bordiga aveva, per parte sua, una concezione molto democratica del funzionamento del partito. La sua idea era che, invece che di centralismo democratico, sarebbe stato preferibile parlare di centralismo organico. Non si trattava di una questione puramente terminologica, se Bordiga si dichiarava favorevole a «una disciplina di tipo militare». La sinistra bordighiana era, peraltro, favorevole a un massimo di centralizzazione dell'Internazionale.

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All'epoca dei processi di Mosca, la campagna antitrotskista era lanciata anche in Italia, dove il movimento trotskista non esisteva (i pochi militanti erano quasi tutti nell'emigrazione). Questa campagna si svolgeva pure nelle prigioni e al confrno: coloro che non condividevano la linea del partito o anche solo certi suoi aspetti (a maggior ragione, la linea del Pcus e del Comintern), erano attaccati duramente, isolati ed espulsi con metodi sommari ~il caso più clamoroso è stato quello di Umberto Terracini)1 . Dopo Lione (1926), per due decenni, c'è stato un solo congresso (Colonia, 1931), in cui non si è avuto nessun dibattito sulla svolta dell'anno precedente, che pure aveva portato all'espulsione di quasi la metà dell'Ufficio politico. Né va dimenticato che il Pci ha accettato senza battere ciglio, nel 1939, lo scioglimento del suo Comitato centrale da parte della direzione staliniana dell'Internazionale e la creazione a Mosca di un "centro ideologico" o di "riorganizzazione", con la designazione di un segretario non solo senza consultazione, ma addirittura all'insaputa generalel9. Questa misura non aveva le conseguenze tragiche di misure analoghe, o ancor più gravi, nei confronti di altri partiti comunisti, come, per esempio, il Partito comunista polacco, distrutto letteralmente. Ma non poteva che aggravare la crisi di direzione di quel periodo; ci si può chiedere legittimamente se, con una soluzione più democratica di questa crisi, il partito non avrebbe potuto affrontare in condizioni sensibil18 Secondo certe testimonianze di ex-confinati, gli ex-membri, specie negli ultimi anni, sarebbero stati trattati correttamente dai loro compagni di sventura rimasti nel partito. Non abbiamo ragione di dubitare di queste testimonianze. Ma ne esistono altre, più numerose, che vanno in senso contrario: coloro che erano usciti dal partito, o ne erano stati espulsi, erano vittime di vere e proprie campagne persecutorie. Atteggiamenti simili sono stati abbastanza diffusi anche durante la resistenza (per esempio, nei confronti dei militanti di Stella Rossa a Torino e di Bandiera Rossa a Roma). 19 Questo segretario era Giuseppe Berti.

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mente più favorevoli la cruciale scadenza della guerra20. Nella fase aperta dalla crisi e dalla caduta del fascismo si sviluppavano nel partito vive discussioni, che però restavano strettamente limitate ai gruppi dirigenti, di fatt9 ai due centri di Milano e Roma, senza nessuna partecipazione dei quadri, per non parlare dei militanti di base21.Al rientro di Togliatti, dopo il consiglio nazionale che aveva approvato la svolta di Salerno, la linea era imposta senza andare troppo per il sottile: per riprendere le parole di ~riano, «era la fine di un regime di più libera discussione» . In seguito, si diffondeva in forme sempre più smaccate il culto di Togliatti, mentre le decisioni più importanti restavano riservate a un gruppo ristretto di massimi dirigenti. Quando c'erano punti di vista diversi, erano discussi in questo nucleo senza portarli a conoscenza non solo dei militanti, ma neppure degli altri organismi di direzione. Pietro Secchia, che pure ha sempre avuto del centralismo democratico una concezione più vicina a quella staliniana che a quella leniniana, in una lettera a Togliatti del novembre del '54, ha descritto in questi termini i processi decisionali vigenti: «Dal 1945 ad oggi, molte decisioni su questioni assai importanti per l'orientamento politico del partito e per la sua azione pratica sono state prese individualmente; è accaduto anche che non si discutesse prima che fossero prese, ma che si discutesse dopo. Ed anche quando se n'è discusso prima, la discussione è stata condotta con tale rapidità e in forma tale che la personalità aveva il peso schiacciante e gli interventi degli altri non servissero che a dir di sì, ad approvare la proposta».

20 Lo stesso Amendola, il cui libro è pur costantemente intriso di giustificazionismo, deve scrivere: «Il Pci giungeva alla prova della guerra in gravi condizioni di debolezza organizzativa e di confusione politica» (op. cit., p. 369). 21 Cfr. P. Spriano, op. cit., voI. V, p. 79. 22 Op. cit., vol. V, p. 326.

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Sempre secondo Secchia, vari compagni avevano dichiarato a un certo momento che il Comitato centrale «non era che un'assemblea di attivisti convocata di tanto in tanto per impartire delle direttive» 23. Le cose cambiavano solo molto parzialmente dopo il XX Congresso, nonostante gli accesi dibattiti, a tutti i livelli, svoltisi nel corso del 1956. Nello stesso periodo berlingueriano, non veniva affatto meno il funzionamento verticistico. Alcune delle prese di posizione e delle decisioni cruciali di quel periodo (l'enunciazione del compromesso storico prima e poi l'abbandono della politica di unità nazionale) erano prese senza discussione preliminare nella stessa direzione e a maggior ragione nel Comitato centrale24. In realtà, le vecchie concezioni e i vecchi metodi non saranno abbandonati che negli anni '80. Ciò non comportava, tuttavia, una reale democratizzazione, bensì piuttosto la sostituzione dei metodi staliniani e post -staliniani con metodi più tipici di partiti socialdemocratici.

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23 Archivio Pietro Secchia, 1945-1973, Feltrinelli, 1978, p. 673. Un giudizio sostanzialmente analogo, anche se espresso in termini piu vellutati, è quello di Pietro Ingrao, in Le cose impossibili, Editori Riuniti, Roma 1990, p.76. 24 Luciano Lama ha affermato che, pur essendo membro della direzione del partito, aveva letto su Rinascita le tesi di Berlinguer sul compromesso storico e appreso da l'Unità che si passava alla politica di alternativa democratica (Intervista sul partito, Laterza, Bari,1982).

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3. DA LIVORNO ALLA SOCIALDEMOCRAZIA

mentalmente questi partiti non è stata tanto un'ideologia quanto l'accettazione del ruolo egemonico dell'Urss, "patria del socialismo", del suo partito unico e del suo capo incontestato. In altri termini, è stata la subordinazione tramite il Comintern sinché è esistito e poi con altri meccanismi2 - degli interessi e dei bisogni del movimento operaio dei singoli paesi agli interessi e alle esigenze dello Stato sovietico, concretamente della sua casta dominante. E' a causa di questa subordinazione che hanno cessato di essere dei partiti rivoluzionari nel senso più preciso del termine. Hanno, tuttavia, mantenuto una differenziazione genetica rispetto ai partiti riformisti di tipo socialdemocratico, la cui deformazione opportunistica e burocratica era stata determinata essenzialmente dai condizionamenti economici, sociali e politici derivanti dal loro inserimento nel quadro e nei meccanismi istituzionali della società capitalistica. Sintetizzati questi elementi di caratterizzazione, va immediatamente aggiunto che gli interessi e le esigenze della burocrazia sovietica non potevano essere la componente esclusiva della politica di un partito comunista, quanto meno di un partito che avesse superato le dimensioni del gruppo di propaganda stabilendo legami reali con strati sociali e movimenti di massa. Entravano in azione due altri fattori: la necessità di tener conto, per l'appunto, dei bisogni dei movimenti in cui si era inseriti, e gli interessi dei gruppi dirigenti e degli apparati nazionali non necessariamente coincidenti con quelli dello Stato e del partito sovietico. A seconda delle fasi, i tre fattori agivano e si combinavano in misura diversa.

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Le contraddizioni dei partiti staliniani Abbiamo accennato all'importanza del Congresso del '56 nell'evoluzione del Partito comunista. Cerchiamo ora di sintetizzare questa evoluzione da un punto di vista più generale. Il Pci rappresenta il caso-limite di un fenomeno politico di cui era difficile intuire la possibilità sino aIfa metà degli anni '50: la trasformazione di un partito sorto come partito rivoluzionario in rottura con il riformismo e divenuto poi un partito staliniano, in un partito neoriformista di tipo socialdemocratico1. Ritorniamo innanzitutto sulla nozione di partito staliniano. Negli anni '30 e '40 i partiti comunisti staliniani hanno sviluppato una specifica ideologia, cioè una loro concezione della società socialista e dei suoi tratti distintivi, come pure una loro concezione del partito e del suo funzionamento, dei rapporti tra partito e organi77azioni di massa, del ruolo della cultura, ecc. Questa ideologia ha subito periodicamente mutamenti e riadattamenti. Ma ciò che ha caratterizzato fonda-

2 Riferendosi al {leriodo successivo allo scioglimento del Cominform, Luigi Longo ha scntto: «Il Pc dell'Urss restava il punto di riferimento, la "gerarchia" da rispettare anche nella nuova dinamica del movimento comunista. Da questo punto di vista, la logica della Terza internazionale sopravvisse (ed ebbe nel 1948 una sua nuova e particolare esplicitazione nell'Ufficio d'informazioni), condizionando il comportamento di tutti o quasi i partiti comunisti» (Opinioni sulla Cina, Milano, 1977).

1 Per la precisione, Trotsky aveva indicato la tendenza dei partiti comunisti a trasformarsi in partiti comunisti nazionali, riformisti o neoriformisti, già alla vigilia della guerra, in particolare in un articolo scritto dopo gli accordi di Monaco (cfr. L. Trotsky, Guerra e rivoluzione, Mondadori, Milano, 1973,pp. 38-40).

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Nel caso del Pci, questa diversità può essere colta con maggiore evidenza. Negli anni '30, il primo fattore era di gran lunga prevalente, da tutti i punti di vista (aiuti materiali, forza derivante al partito dal fatto di apparire come il rappresentante di un movimento mondiale guidato dal primo Stato "socialista" della storia, ecc.). Ma, a partire dal momento in cui ha cominciato a crescere, ad acquistare una consistente base di massa per divenire poi organizzazione egemonica nel movimento operaio, il peso degli altri due fattori aumentava progressivamente. Il punto di svolta era rappresentato dagli avvenimenti del '56: da allora, gli interessi "nazionali" tendevano a prevalere sui condizionamenti internazionali, anche se il legame con l'Urss non era affatto spezzato (lo sarà completamente solo oltre vent'anni dopo). Anche quando Stalin è morto e sepolto e ben pochi si azzardano ormai a prendere le difese dello stalinismo, quando l'Urss non appare più come un modello di socialismo e la sua direzione è contestata dai gruppi dirigenti burocratici di altri paesi, oltre che da forze rivoluzionarie, il cordone ombelicale è mantenuto perché il riferimento ai "paesi socialisti" e al "movimento comunista" ~uò essere valorizzato come un elemento di forza del partito . Quando, però, la politica di Mosca rischia di avere gravi conseguenze negative per la sua stessa battaglia come accade con l'invasione della Cecoslovacchia o con l'intervento nell' Afghanistan -, il Pci non esita a prendere le distanze con dichiarazioni di esplicita condanna. In realtà, la contraddizione fondamentale, intrinseca, dei partiti staliniani - e del Pci tra di essi - è esistita sin dalla se-

conda metà degli anni '20 e ancor più dall'inizio degli anni '30: dovevano subire il condizionamento determinante della direzione dell'Urss tramite l'Internazionale burocratizzata, ma, se volevano agire effettivamente e costruirsi non potevano fare astrazione dal loro contesto nazionale. Per tutto un periodo, la contraddizione è stata più potenziale che attuale ed era difficile individuarla o coglierne tutta la portata; questo tanto più che, quando già operava direttamente, come nel caso della Cina, le parti in causa erano interessate a non farla emergere alla superficie e a riasconderla dietro rituali formule politico-ideologiche ben ben poco corrispondenti alla pratica reale 4. Solo dopo l'aperta esplosione della crisi dello stalinismo e le vicende degli anni '50 e '60, sulla base delle testimonianze di protagonisti ancora in vita o di studi storici, si è venuti a conoscenza di quello che prima poteva essere tutt'al più intuito, cioè che la contraddizione aveva agito sin dall'inizio provocando conflitti e lacerazioni, al di là delle proclamazioni unanimistiche. Il 1956, sia per la portata effettiva degli avvenimenti sia per il suo valore simbolico, segna uno spartiacque. In particolare per il Pci, la contraddizione si configura ormai in termini diversi: è la contraddizione di un partito che non è più da decenni un partito rivoluzionario e cessa di essere un partito classicamente staliniano, ma non è un partito socialdemocratico, continua a rifiutare esplicitamente di essere definito. tale e non può agire coerentemente come riformista nel contesto di una società in cui pure ha acquisito un peso specifico notevole. Qui va colta, in ultima analisi, la ragione del-

3 Ancora nel 1968 si poteva le~ere in una relazione di Enrico Berlinguer: «NGi siamo e resteremo un partito intemazionalista; siamo e resteremo in un movimento nel quale c'e l'Unione Sovietica, altri paesi socialisti, nel quale c'è Cuba, c'è il Vietnam e vogliamo mantenere aperta la prospettiva con la Cina,).

4 L'esempio più pertinente è quello della Cina degli anni '30, quando la direzione maoista ha applicato una linea sensibilmente diversa da quella degli altri partiti comunisti e agito indipendentemente dal Comintem, pur senza differenziarsi ideologicamente e senza mai esprimere pubbicamente il minimo dissenso (anzi, participando all'esaltazione di Stalin e dell' Urss, patria del socialismo).

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la sua incapacità di realizzare gli obiettivi strategici che si era prefissati e di sormontare gli ostacoli che le classi dominanti continuano a frapporre alla sua assunzione a forza di govern05. La nuova fase è contraddistinta da sviluppi diversi e in parte contrastanti, su cui non possiamo dilungarci. Basti indicare il comune filo conduttore: ormai, la politica del Pci non è più condizionata - se non parzialmente o indirettamente dalla politica dell'Urss e del cosiddetto movimento comunista, peraltro in via di progressivo sfaldamento, ma fondamentalmente da fattori nazionali. A ciò contribuisce il declino del prestigio dell'Urss e del "mondo socialista" e della loro forza d'attrazione, per non parlare del crollo irrimediabile del mito staliniano. Ma l'essenziale non è questo.

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Origini e fasi di una socialdemocratizzazione II riformismo socialdemocratico tradizionale si era sviluppato soprattutto nel decennio, o nei decenni, prima della guerra mondiale 1914-18, che avevano segnato nell'Europa occidentale e centrale una crescita economica e una relativa stabilità delle istituzioni democratico-borghesi. In tale contesto - in cui non si producevano crisi rivoluzionarie o prerivoluzionarie, nonostante l'esplodere a volte di aspri conflitti sociali e politici - era logico che il movimento operaio puntasse 5 Per queste analisi e valutazioni, ci permettiamo di rinviare al nostro libro Teoria e politica comunista nel dopoguerra. Schwan, Milano, 1959, ripreso e sviluppato in Pci: 1945-1969: stalinismo e opponunismo, Samonà e Savelli, Roma, 1969. Contrariamente ad analisi sviluppate successivamente, scrivevamo allora: «il Pci non può né potrà essere un partito riformista». L'ipotesi non si è rivelata giusta, crediamo, soprattutto per la diversa evoluzione del contesto internazionale.

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sul conseguimento di conquiste parziali (economiche, sociali e politiche). Proprio i successi, anche limitati, su questo terreno erano alla base dello sviluppo dei partiti socialisti, dei sindacati e di altre organizzazioni di massa. Ma si innestava contemporaneamente, per usare una terminologia peculiare del marxismo rivoluzionario, una dialettica delle conquiste parziali. Nella misura in cui strati sempre più larghi di classi sfruttate, grazie alle loro lotte e alla loro organizzazioni, ottenevano non trascurabili miglioramenti delle loro condizioni di vita e una serie di diritti democratici, si preoccupavano di non mettere a repentaglio quello che avevano acquisito e tendevano, quindi, più o meno consapevolmente, a subordinare alla difesa e ampliamento delle conquiste parziali la prospeuiva di una lotta rivoluzionaria per il rovesciamento del capitalismo. Soprattutto questa era la base oggettiva dello sviluppo del riformismo e la ragione della sua influenza persistente, nonostante le sconfitte catastrofiche subite in momenti cruciali dai partiti che vi si ispiravano. L'Italia del secondo dopoguerra, dopo il primo difficile periodo di ricostruzione, ha conosciuto un boom economico prolungato senza precedenti nella sua storia e un processo di modernizzazione che, nelle forme in cui si è realizzato, non era stato previsto da nessuno. Questa crescita avveniva in un contesto di relativa stabilità politica e nel quadro di istituzioni parlamentari più avanzate non solo di quelle dell'Italia prefuscista, ma anche di quelle di altri paesi dell'Europa occidentale 6. In linea generale, pur mantenendo certe sue specificità - in primo luogo, quella del Mezzogiorno - la società 6 Non condividiamo certo le esaltazioni acritiche della Costituzione del '47, ma è indubbio che, sul piano della democrazia capitalistica, è, con quella tedesca di Wcimar del 1919, tra le più avanzate. Nell'Italia del dopoguerra, in linea di principio, i diritti democratici, in primo luogo elettorali, sono stati garantiti piu e non meno che altrovc.

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italiana diveniva sempre più omqgenea al resto dell'Europa capitalistica, checché ne pensino tutti coloro che della sua presunta arretratezza hanno fatto, e magari continuano a fare, un cavallo di battaglia, sia sul piano delle analisi sia su quello della strategia politica. Grazie al conseguente rafforzamento del peso specifico sociale della classe operaia e, più in generale, dei lavoratori dipendenti, si creavano così le condizioni di lotte operaie e popolari per rivendicazioni economiche importanti e non meno importanti diritti democratici. Di fatto, lotte a diversi livelli si sviluppavano pressoché senza interruzioni e, non di rado, con concreti risultati; d'altra parte, i partiti operai, e in primo luogo il Partito comunista, conquistavano solide posizioni nelle istituzioni, divenendo forza di governo in numero notevole di città, di province e anche di regioni. Tale contesto si è prolungato per decenni e non è stato modificato sostanzialmente neppure dalla crisi sociale e politica della fine degli anni '60 e degli inizi degli anni '70. Constatazione che va sottolineata: si tratta di un arco di tempo assai più ampio di quello in cui avevano agito i partiti riformisti prima del '14, per non parlare del periodo tra le due guerre. E' perfettamente spiegabile, dunque, che un partito che ormai dalla metà degli anni '30 aveva rinunciato a ogni prospettiva e strategia rivoluzionaria e non dava più da tempo ai suoi quadri e ancor meno ai suoi militanti la formazione che aveva dato loro agli inizi, che considerava la Costituzione repubblicana come il quadro necessario e sufficiente della transizione al socialismo e prospettava questa transizione per lIapprossimazioni successive", fosse portato ad agire sempre di più come un partito riformista, diventando alla rme un partito di tipo socialdemocratico.

Non ripercorriamo qui tutte le fasi di un processo che, prima di giungere a conclusione, si è sviluppato per oltre tre

decenni7.

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Ci limitiamo ad abbozzare sinteticamente una periodizzazione (che, come tutte le periodizzazioni, comporta inevitabilmente elementi di arbitrarietà e di schematismo) : I) Una fase che va dal XX Congresso all'agosto 1968. E' la fase in cui viene avanzata, sia pure in forma parziale e non senza gravi reticenze, una critica dello stalinismo e si tenta di defInire i contorni di una democrazia socialista presentata come obiettivo finale. Il legame con l'Urss sussiste e non sono affatto scomparse tendenze giustificazionistiche. Ma nell'agosto 1968, quando le truppe del Patto di Varsavia pongono fine alla primavera di Praga, che il Pci aveva accolto con favore, c'è per la prima volta una condanna aperta. II) Una fase che potremmo defInire berlingueriana, dall'inizio degli anni '70 alla "strappo" seguito al colpo di Stato del generale Jaruzelski. Il partito prende defInitivamente le distanze dall'Urss e dai "paesi socialisti", dopo aver riconosciuto esplicitamente l'appartenenza dell' Italia alla Nato. Lo fa per rendere credibile, sul piano interno, prima il progetto di compromesso storico e successivamente la politica di unità nazionale e di alternativa democratica e, sul piano internazionale, il progetto eurocomunista. Il motivo conduttore, da un punto di vista teorico, è quello della terza via o della terza fase, con uno sforzo persistente di differenziazione, su quesfo terreno, dalla socialdemocrazia. III) La fase di cui sono simbolo due congressi post- berlingueriani, il XVII e il XVIII, che prendono atto del fallimento del progetto eurocomunista, peraltro verificatosi già prima che si esaurisse la fase precedente, e rinunciano alla 7 Lo abbiamo fatto, per parte nostra, oltre che in volumi già citati, in Destino di Trockij, Rizzoli, Milano, 1979.

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terza via e a ogni differenziazione strategica rispetto alle socialdemocrazie (in primo luogo, rispetto a quelle che si portano ad esempio come interlocutrici privilegiate). Il Pci si proclama "parte integrante della sinistra europea", cercando di stabilire una collaborazione con la stessa Internazionale socialista (la Fgci, per parte sua, entra a titolo consultivo nell'Internazionale giovanile socialistal Non è forse superfluo richiamare a questo punto i tratti distintivi dei più tipici partiti socialdemocratici:

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una concezione gradualistica della transizione verso una nuova società (sinché questa prospettiva finale viene mantenuta); - una concezione metastorica della democrazia (la democrazia come valore universale permanente, al di là delle forme storiche concrete di società) e un'accettazione, in pratica e in teoria, del quadro esistente delle democrazie parlamentari o presidenziali capitalistiche; una strategia di conquiste parziali da conseguire combi-

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8 Dirigenti del Pci si sono preoccupati a più riprese di definire la differenza tra Pci e partiti socialdemocratici. Il piÙ delle volte si è trattato di definizioni mutevoli e del tutto parziali, se non fittizie. Nel settembre 1978 Berlinguer ha affermato che «il tratto comune delle socialdemocrazie resta che rinunciano a lottare per uscire dal capitalismo e per trasformare le basi della società in senso socialista» e circa due anni dopo, in una intervista a Repubblica ha s{>iegato che «i socialdemocratici si sono preoccupati molto degli operai, del lavoratori organizzati nei sindacati, ma poco o nulla dei marginali, dei sottoproletari e delle donne". Quanto alla terza via e alla terza fase, ecco come lo stesso Berlinguer ne ha illustrato la differenza nel gennaio 1982: «Terza via è una specifica posizione in rapporto ai modelli di tipo sovietico da una parte e alle esperienze di tipo socialdemocratico dall'altra. La formulazIOne terza fase si riferisce, Invece, all'esperienza storica e, dunque, alle due precedenti fasi di sviluppo conosciuto e attraversato dal movimento operaio europeo. E' pero evidente che la ricerca della terza via non sarebbe possibile se non ci fosse una terza fase e se noi non ritenessimo possibile avanzare su di essa». Dove si vede come si possa dare l'impressione di un tutto coerente combinando a una prima una seconda cscogitazione.

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nando azione parlamentare e azione delle organizzazioni di massa e privilegiando la prima rispetto alla seconda; una prospettiva di razionalizzazione e "democratizzazione" della società esistente; una prospettiva di trasformazione dei rapporti internazionali, soprattutto tramite le organiz7.azioni esistenti (tra le due guerre, la Società delle nazioni e, attualmente, le Nazioni unite), allo scopo di ridurre gli armamenti e garantire la pace, senza per questo mettere in discussione gli orientamenti di fondo della politica estera dei rispettivi paesi; una concezione di costruzione e consolidamento del movimento operaio in funzione del peso nelle istituzioni e in convergenza con l'azione di sindacati impegnati nella cogestione e di cooperative rispettose dei meccanismi del sistema; - una concezione per cui il partito funziona sempre di più come uno strumento elettorale e le scelte del movimento operaio sono decise non tanto dai militanti organizzati quanto dai vari centri o gruppi di pressione (gruppi parlamentari, amministrazioni locali, gruppi dirigenti dei sindacati e delle cooperative, intellettuali organizzatori della cultura ecc.). I partiti socialdemocratici hanno stabilito e mantenuto tradizionalmente legami molteplici con vasti strati della società. Ma la loro debolezza intrinseca è consistita nel fatto che la rappresentanza di questi strati è stata esercitata settorialmente e parzialmente, nei casi peggiori in forme addirittura corporative. Questa è la conseguenza di un'ottica di adattamento alla società esistente e di abbandono di ogni impostazione anticapitalistica. Proprio per questo, se le socialdemocrazie hanno avuto e hanno tuttora un peso considerevole e un ruolo egemonico in molti paesi dell'Europa capitalistica, se hanno svolto un'innegabile funzione nella conduzione di battaglie che hanno consentito loro di strappare conquiste parziali a

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vantaggio delle forze sociali su cui si appoggiano, hanno avuto la responsabilità di sconfitte decisive di queste stesse forze. Già alla metà degli anni '60 era chiaro che il Pci operava sempre di più come un partito neoriformistic, inserito nel quadro istituzionale, con una prospettiva prevalentemente elettorale, e puntava essenzialmente sul rafforzamento di strumenti tradizionali come le ~mmini!:trazionilocali, i sindacati e le cooperative. Era nella logica di una simile evoluzione che la percentuale degli iscritti si restringesse rispetto a quella degli elettori; che l'adesione non comportasse un costante impegno militante, ma solo una partecipazione limitata a certe occasioni; che il peso degli elementi piccolo-borghesi e degli intellettuali soverchiasse quello degli operai e degli altri iscritti di estrazione popolare; che l'attività nelle. fabbriche non andasse. al di là delle campagne elettorali o dell'appoggio a certe lotte sindacali; che i giovani costituissero una componente sempre più marginale, in una organizzazione priva di ogni carica ideale in senso anche solo genericamente rivoluzionario. A maggior ragione, questo identikit da partito socialdemocratico è applicabile al Pci della rme degli anni '70 e della prima metà degli anni '80.

Un paradosso storico Questa trasformazione, di cui abbiamo indicato le radici strutturali, al di là delle scelte soggettive dei gruppi dirigenti, va situata più concretamente in un evolvere della situazione nazionale e internazionale che, per molti aspetti, non era facile ipotizzare non solo alla fine della guerra, ma neppure alla fine degli anni '50. 44

Da un lato, infatti, il sistema capitalistico mondiale - grazie anche al fatto che le orgllni7'7-azionioperaie più forti rinunciavano a contestarlo e gli consentivano di superare indenne i momenti critici (come la crisi dell'immediato dopoguerra e quella del 1968-75) - riusciva prima ad acquistare un nuovo dinamismo con l'onda lunga ascendente di circa un quarto di secolo, poi a vincere in larga misura la battaglia delle ristrutturazioni nella prima metà degli anni '80, assicurando cosi una relativa stabilità istituzionale ai paesi industrializzati dell'Europa occidentale e dell'America del Nord, oltre che al Giappone. Dall'altro, le società di transizione burocratizzate, incapaci di introdurre riforme sostanziali, entravano in una fase in cui le loro direzioni diventavano un freno assoluto e non più relativo alla crescita e all'orgllni7'7.a7ionedelle forze produttive e le loro istituzioni erano in rotta di collisione con i bisogni e le aspirazioni di strati crescenti della società, motivo per cui si avviavano rapidamente verso un catastrofico declino. Tutto questo non poteva non avere profonde ripercussioni sull'azione e sulla presa di coscienza della stessa classe lavoratrice e sulle sue orgllni7'7.a7ionipolitiche e sindacali, soprattutto se si tiene conto che le controtendenze non riuscivano, tranne che per br;evi periodi e anche allora parzialmente, ad affermarsi e a consolidarsi (il rapido declino delle formazioni di estrema sinistra degli anni '60 e '70 era un riflesso di questo limite). E non poteva che rafforzare la tendenza del Pci ad avvicinarsi e poi a identificarsi alle socialdemocrazie, tendenza la cui prima origine lo abbiamo visto risaliva alla svolta del 1935. Ma, se vogliamo usare questa espressione, il paradosso storico consiste nel fatto che il Partito comunista si trasforma in un partito di tipo socialdemocratico in un' epoca in cui le più grosse e rappresentative socialdemocrazie sono cosa ben

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diversa da quello che erano state alloro apogeo. Partiti socialdemocratici "storici" anche se troppi tendono oggi a ignorarlo o a dimenticarlo avevano già assolto un ruolo di salvatori del sistema capitalistico in momenti critici del primo dopoguerra e, tra le due guerre, per riprendere l'espressione del Léon Blum del fronte popolare, avevano gestito lealmente il capitalismo come ministri e capi del governo. Ma la novità degli ultimi decenni, anticipata, per ragioni specifiche, dalla socialdemocrazia svedese, è che partiti socialdemocratici hanno assunto la direzione di paesi capitalistici per periodi prolungati e, in certi casi, sono divenuti addirittura lo strumento principale di gestione del sistema. E' il caso dello Stato spagnolo, dove dall'inizio degli anni '80 la borghesia non è stata in grado di esprimere un proprio partito egemone e si è affidata, non a torto dal suo punto di vista, al Psoe di Felipe Gonzalez, e, in misura diversa, della Francia, diretta da dieci anni da un presidente socialista. Si è avuto così, in primo luogo, un mutamento della stessa composizione sociale di questi partiti: sono ancora in grande maggioranza lavoratori salariati i loro elettori, ma non i loro iscritti e ancora meno i loro quadri, e i loro gruppi dirigenti sono in stragrande maggioranza di origine piccolo-borghese, se non addirittura borghese. In secondo luogo - cosa ancora più importante - questi partiti si sono invischiati sempre più inestricabilmente negli apparati statali e IImministrativi come pure negli organismi economici, pubblici e privati (non è affatto vero che questa sia una prerogativa solo del Psi craxiano). Così la loro contraddizione principale si è venuta configurando in termini diversi: da una lato, se non vogliono smarrire completamente la loro identità e perdere la loro base sociale - o più volgarmente la loro clientela elettorale - non possono ignorare del tutto gli interessi e le rivendicazioni della classe operaia, di altri strati popolari e di settori picco-

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lo-borghesi colpiti, direttamente o indirettamente, dall' onda lunga di ristagno; dall'altro, come gerenti del potere o candidati "responsabili" a questa gestione, accettano un quadro di compatibilità sempre più rigido, impegnandosi a imporre ai loro stessi elettori il fardello delle politiche di costanti ristrutturazioni, di forsennate centralizzazioni e concentrazioni e di austerità (naturalmente a senso unico). Il Pci non è ancora investito in pieno da questa contraddizione per il fatto stesso di essere stato escluso dal governo dall'ormai lontano 1947. La sua contraddizione è consistita nel fatto di avere avanzato per decenni una sua prospettiva riformista senza essere in grado di tradurla in pratica (e lasciando al Psi la possibilità di apparire più concreto, appunto perché giudicato maggiormente in grado di ottenere qualche sia pur modesta misura riformista). Ma ha cominciato a pagare a sua volta il prezzo della sua impostazione soprattutto al momento dell'unità nazionale, quando ha appoggiato governi democristiani e si è assunto, in prima persona o tramite i suoi esponenti sindacali, un ruolo di freno delle lotte, facendo propria la politica di austerità. Dopo l'abbandono dell'unità nazionale, non ha mutato qualitativamente il suo atteggiamento, nella misura in cui vuole apparire come candidato credibile alla gestione del governo, disposto a rispettare

compatibilità

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e incompatibilità

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regime esistente. In questo senso, è investito a sua volta dalla contraddizione tipica della socialdemocrazia contemporanea, smarrendo, ancor più dei socialdemocratici, la propria identità. E' in questo contesto che, sotto l'impatto degli awenimenti internazionali del 1989, Achille Occhetto si è lanciato nel suo giuoco d'azzardo, aprendo la crisi più grave della lunga storia del partito.

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4. ERANO POSSmU..ISCELTE ALTERNATIVE?

In un momento critico per il futuro dell'attuale partito comunista e, più in generale, del movimento operaio, ci si può porre legittimamente la domanda: le scelte che sono state fatte, nazionalmente e internazionalmente, nel corso di settant' anni, erano le uniche possibili, oppure se ne sarebbero potute fare delle altre ottenendo risultati ben diversi? Diciamo subito che non acccettiamo la classica obiezione: la storia non si fa coi "se" e riscriverla sulla base di ipotesi non verificabili è un'operazione perfettamente oziosa. Dal punto di vista politico, accettare che tutto quello che è accaduto dovesse inevitabilmente accadere significa aderire a una sorta di fatalismo giustificazionistico e precludersi ogni possibiltà di riflessione critica e autocritica. Ma l'obiezione non regge neppure dal punto di vista storico. E' sin tropo ovvio che una ricostruzione storica deve preoccuparsi soprattutto di cogliere gli awenimenti nella loro intima connessione, di spiegame la genesi e di individuame la dinamica. Ma questo non significa ignorare che, in situazioni date, esistono sviluppi possibili diversi, diverse potenzialità, di cui una ricostruzione esauriente non può non tenere conto se si vogliono analizzare le situazioni in tutti i loro aspetti e, ancor più, valutare protagonisti il cui agire non era meccanicisticamente predeterminato. Questo problema di metodo si è posto per quanto riguarda l'evoluzione dell'Unione Sovietica a partire dalla metà de-

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gli anni '20 e per l'insieme del movimento internazionale comunista. Noi abbiamo sempre rifiutato, partendo da indicazioni analitiche concrete e con concrete argomentazioni, l'idea secondo cui la burocratizzazione era inevitabile, da cui può 1logicamente discendere una giustificazione dello stalinismo. Respingiamo egualmente una interpretazione analoga nel caso specifico del Pci e, più in generale, del movimento operaio italiano. Notiamo che dirigenti di questo partito hanno ventilato a più riprese l'ipotesi di un corso diverso degli awenimenti, qualora scelte diverse fossero state fatte da parte di forze che vi erano coinvolte. Per es., nella sua Intervista sull'antifascismo2, Giorgio Amendola, riferendosi alla situazione alla vigilia dell'awento del fascismo, non si è peritato di affermare: «Se le forze del movimento operaio avessero avuto la capacità di fare una politica di unità con le forze democratiche; se avessero favorito la formazione di un governo Nitti, è evidente che si poteva fare qualche altra cosa» (p. 47).

Secondo esempio: parlando delle possibilità esistenti alla fine della guerra e in particolare della politica di De Gasperi, Togliatti ha scritto: «La grande borghesia possidente, lasciata a sé non poteva ricostruire se non in quel modo, perché questo corrispondeva alla sua natura di c1a;se. Ma era possibile ottenere che si procedesse in

. modo

diverso'?»

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La risposta è che era possibile che una parte importante delle classi dominanti si alleasse con i partiti operai e impedisse alla grande borghesia di fare il buono e il cattivo tempo. 1 Per quanto ci riguarda, abbiamo affrontato questa tematica in varie introduzioni a edizioni italiane delle opere di Trotsky, oltre che, per esempio, in Irotsky, oggi, Einaudi, Torino, 1958 e in Destino di Irockij, cito 2 Laterza, Bari, 1976. 3 Rinascita, ottobre 1955.

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Non aver fatto questa scelta è stato, secondo Togliatti, l'errore di De Gasperi. Tale motivo era stato avanzato già nell'agosto del '46 in un articolo, già citato e su cui ritorneremo, nel quale si parlava di due «prospettive possibili» della politica di blocco antifascista 4. Ancor più interessante è ricordare che la linea definita dal gruppo dirigente comunista è stata contestata in varie occasioni e a vari livelli e che sono state proposte o abbozzate scelte diverse, anche se non diametralmente opposte. Non ritorneremo qui su episodi noti e già richiamati come le opposizioni e le resistenze manifestatesi al momento della svolta del 1929-30, che avevano coinvolto non solo tre membri dell'Ufficio politico Pietro Tresso, Alfonso Leonetti e Paolo Ravazzoli - ma lo stesso Antonio Gramsci e altri dirigenti, allora nelle carceri fasciste, come Umberto Terra-

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ClDJ.

Critiche e opposizioni vi sono state anche in seguito al Patto russo-tedescco del '39, che aveva creato il più profondo smarrimento nelle file del partito. Terracini aveva assunto di nuovo una posizione critica, che gli era costata - paradossalmente quando l'U rss era già stata attaccata dai nazisti l'espulsione dal pàrtito. Più pertinente, nel quadro di questo saggio, ci sembra un richiamo alle resistenze, alle critiche e alle vere e proprie opposizioni emerse tra il 1943 e il 1945 e, per certi aspetti, nel periodo successivo.

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4 Al metodo di giudicare l'opera di protagonisti tenendo conto di alternative possibili, fa ricorso anche Giulio Andreotti a proposito di De Gasperi: «Se fosse mancata allora una collaborazione tra Dc e Pei possiamo dire che l'Italia avrebbe avuto o un dominio di quest'ultimo o il protrarsi per almeno un decennio dell'occupazione militare» (De Gasperi e il suo tempo, Milano, 1956).

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L'unità antifascista: riseIVe e opposizioni La politica di unità antifascista aveva sollevato obiezioni e rigetti già prima del 25 lugli05. La stessa politica di collaborazione con gli altri partiti nei Comitati di liberazione nazionale (Cln) durante la resistenza non è stata accettata senza opposizioni ed è stata oggetto di diverse interpretazioni. Ciò avveniva non solo tra militanti di base, vecchi e nuovi, ma allo stesso livello di direzione, con una differenziazione tra il nucleo installato nel Centro-Sud e il nucleo del Nord, più direttamente legato alla resistenza e al movimento partigiano. Amendola cerca di individuare un comune denominatore di questi atteggiamenti, indicando una sorta di «sovrapposi~ zione, non criticamente meditata, della linea di unità nazionale elaborata dall'le a partire dal VII Congresso sulla vecchia visione di un'azione diretta per l'instaurazione della dittatura del proletariato» 6. L'osservazione ci sembra sostanzialmente giusta, come è giusta la valutazione delle differenziazioni a proposito del ruolo dei Cln All'impostazione di chi accettava una limitazione di questo ruolo all'elaborazione e all'applicazione di una politica comune a tutti i partiti che vi appartenevano, si contrapponeva l'idea che bisognava puntare sulla presenza determinante nei Cln stessi delle organizzazioni di massa o espresse dalla base, con lo scopo di «assicurare una reale egemonia della cla6se operaia». 5 Per resistenze alla base, si veda quanto scrive, per esempio, P. Spriano (op. ciL, vol. IV, p. 225). Lo stesso autore riferisce di rcticenze o critiche aperte al1a prospettiva di col1aborazione nazionale, in particolare a proposito di un messaggio radiofonico di Togliatti (op. cit, voI. V, pp. 121-123 e 133-131). In certe regioni meridionali, non pochi militanti avevano considerato un tradimento la nuova linea del partito (v. intervento di Velio Spano al V Congresso). 6 G. Amendola, Lettere a Milano, Editori Riuniti, Roma, 1974,p.109.

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«Spinta alIe sue estreme conseguenze scrive Amendola questa linea, pur giusta nelIe sue premesse democratiche, portava tuttavia alIa rottura dei On, e a una contrapposizione col governo di Roma e con gli alIeati. Era una linea che si muoveva nella direzione indicata dagli Jugoslavi. E l'esempio jugoslavo era motivo ricorrente di discussione fra di noi» (pp. 340-341).

Per parte sua, Spriano parla di una linea Longo-Secchia, secondo cui si sarebbe dovuto «fare dei Cln organismi di potere operaio», «accentuarne le caratteristiche democratiche e trasfromare il criterio di rappresentanza paritetica in quello della rappresentanza sulla base di una direzione effettiva delle masse». Lo scopo doveva essere, in ultima analisi, «la presa del potere» da parte della resistenza prima dell'arrivo degli eserciti alleati. Ciò sarebbe stato decisivo per l'indirizzo politico e lo sviluppo futuro del popolo italiano»7. Correnti o sensibilità di opposizione alla linea di unità antisfascista e di collaborazione con i partiti della borghesia sono emerse a più riprese nel Partito socialista8. Prima dei 45 giorni era esistito addirittura un movimento separato, il Mup9, in cui avevano una parte preminente uomini come Le-

7 P. Spriano, op. cit., voI. V, pp. 372-373. 8 E' sotto l'influenza di elementi di sinistra che il Psiup ai primi di ottobre del '43 si pronunciava contro la colIaborazione con i partitI borgltesi e per un «saldo blocco di forze incrolIabilmente repubblicane» e criticava i «compromessi colIaborazionistici e patriottardi del Pci». 9 In un articolo del primo agosto '43 Basso definiva in questi termini la concezione del Mup sul partito nuovo da costruire: <<I)essere libero dal peso delIe vecchie tradizioni, pur senza rinnegarle, del Psi; 2) essere costruito democraticamente dal basso; 3) lottare per una soluzione socialista su scala europea; 4) lottare per la conquista inte~\'Itle del potere politico distruggendo l'apparato borgltese; 5) considerarsI membro delIa nuova Internazionale che sarebbe sorta dalIe rovine della Seconda e della Terza internazionale; 6) superando la limitazione del movimento socialista come organizzamone del proletariato industriale, dovrà organizzare tutte le forze del lavoro (operai, contadini, tecnici, impiegati, professionisti e intellettuali, che sono sfruttati dal capitalismo e non sfruttano il lavoro altrui»> (Cfr. P. Spriano, op. cit., voI.V, p. 233).

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lio Basso, Lu~lULUU..i:tllu\..Lurrado Bonfantini. Ma anche dopo la confluenza del Mup nel partito unificato, denominato appunto Psiup, alcuni mantenevano la loro opposizione. Lelio Basso usciva addirittura dal partito, su posizioni per alcuni aspetti simili a quelle del movimento romano di Bandiera Rossa. Per quanto riguarda più direttamente l'area del Pci, gruppi e movimenti in aperta dissidenza sorgevano in varie città. Per esempio, a Torino, era attivo dall'inizio del '43 il gruppo Stella Rossa, che ha avuto a un certo momento 2.000 aderenti (contro i 5.000 della Federazione comunista)10. Un altro gruppo si formava a Legnano attorno a Mauro e Carlo Venegoni, mentre a Napoli si organizzava nersino, per un breve periodo, una Federazione concorrente . Ma il fenomeno più rilevante è stato quello della formazione a Roma del Movimento comunista d'Italia (Bandiera Rossa). Fondato durante i 45 giorni in seguito alla fusione di vari gruppi preesistenti, questo movimento ha conquistato subito una larga influenza nelle borgate e, alla fine del '43, contava probabilmente un numero di militanti superiore a quello della Federazione del Pci, che aveva 1.700-1.800iscritti (il suo giornale avrebbe tirato più de l'Unità). Alla liberazione di Roma sarebbe arrivato ad avere addirittura 6.000 iscritti, di cui 1.000 nella sola borgata di Torpignattara12. Il motivo ispiratore comune di questi gruppi o movimenti era il rifiuto della politica di unità nazionale, accompagnato lO Cfr., oltre che P. Spriano (op. cit, voI. IV, p. 145), il libro di Raimondo Luraglti, il movimento operaio torinese durante lo resistenza, Einaudi, Torino 1958, passim. 11 Questa federazione era sorta in contrapposizione ai funzionari centrali e

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i suoi animatori tra i quali Enrico Russo, Ennio e Libero Villone,Mario Palermo

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erano contro l'alleanza con i partiti borgJtesi e per un

funzionamento democratico del partito. 12 Cfr. Silverio Corvisieri, Bandiera Rossa nella resistenza romana, Samonà e SaveIli, Roma 1968.

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l__ dall'esigenza di un funzionamemto democratico del partito. Nelle loro fIle si univano vecchi militanti, formati alla scuola degli anni '20 e '30, e giovani, per cui l'opposizione al fascismo assumeva contemporaneamente la dimensione di una lotta contro la società capitalista. Erano alimentati non solo o non tanto da una differenziazione sul piano ideologico, quanto dalle conseguenze pratiche della scelta del partito. Il loro tallone di Achille era l'assenza di una visione strategica complessiva, dovuta, in sostanza, a un'analisi sbagliata dell'evoluzione del Pci e soprattutto della politica dell'Unione Sovietica. Il caso più chiaro è quello di Bandiera Rossa che, pur lasciando trasparire a volte qualche motivo vagamente trotskisteggiante, si rifaceva all'Urss come paese del socialismo e allo stesso Stalin senza nessuna riflessione critica. Peggio: in certi casi rimproverava al Pci e a Togliatti di essere in contrasto con gli orientamenti .dei dirigenti ' .13 sovietici, che avrebb ero prospettato una lin ea nvo 1UZlOnana . Vale la pena di ricordare che la tesi secondo cui la linea del Pci sarebbe stata in contrasto con quella del Pcus e di Stalin è stata parzialmente riesumata negli anni '50 dal gruppo, esso pure effimero, di Azione comunista. A proposito della posizione di Stalin, un episodio significativo: durante una visita a Mosca, Secchia aveva espresso dinnanzi a lui alcuni apprezzamenti critici sulla linea applicata dal partito, ma con risultato negativo. Infatti, Stalin si dichiarava esplicitamente d'accordo con Togliatti. E' questa fondamentale inconsistenza che rendeva inevitabilmente precaria l'esistenza di questi gruppi e finiva per 13 Cfr. per esempio, gli articoli comparsi su Bandiera del Convegno di Napoli (gennaio 1945), che Lenin-Stalin e accusava Togliatti di non applicare la internazionale e di Stalin» (cfr. anche l'opuscolo dicembre 1944).

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Rossa e la risoluzione proclamava l'identità linea del «comunismo La via maestra, del

ondannarli a una rapida sparizione: tanto più che il Partito comunista, dopo averli attaccatti, il più delle volte, nel più classico stile staliniano, accusandoli di essere agenti del nemico, manovrava abilmente per recuperarli14. Una considerazione analoga vale per un personaggio per molti versi singolare come Lelio Basso, che ha alternato critiche sia alle posizioni del Pci, sia a impostazioni staliniane,a un'accettazione opportunistica delle une e delle altre, che, all'inizio degli anni '50, lo ha condotto persino a giustificare le condanne di processi infami come quello contro Léiszl6 Rajk. Circa quindici anni dopo, Basso riprendeva sostanzialmente il suo giudizio del '43-44, parlando di una «vera occasione storica mancata», e aggiungendo: «La posta in giuoco era grossa: si trattava, in ultima istanza, di decidere se l'Italia postbellica avrebbe dovuto veramente essere "nuova" e quindi In rottura con il precedente ordinamento monarchico-fascista, costruita dal basso sulla base della volontà e dell'iniziativa popolare liberamente esplicantesi, o se viceversa avrebbe dovuto esprimersi su una linea di continuità giuridico-politica con il vecchio Stato, e quindi legittimando tutto il passato e risolvendosi di fatto nella restaurazione dall'alto. Le sinistre finirono per sacrificare allo sfono bellico ogni altra esigenza, accettando tutta una serie di compromessi successivi, che facilitarono la restaurazione delle vecchie strutture e delle vecchie fone sociali». La responsabilità di tutt~ questo incombeva soprattutto sulla «famosa svolta di Togliatti» .

Si può accettare la valutazione critica come punto di partenza, ma, come si vede, il discorso sull'alternativa è tutt'altro c]te preciso e, comunque, non rimette in discussione la scelta fondamentale dell'inserimento nel quadro del sistema. La stessa ambiguità persisterà, mutatis mutandis, nelle posizioni 14 Il grosso del Movimento comunista d'Italia si scioglie nel 1947, entrando in maggioranza nel Pci (nel quale, però, alcuni dei suoi dirigenti non saranno accettati). Un piccolo gruppo si è mantenuto fino al 1949. Uno degli esponenti più noti, Francesco Cretara, doveva aderire più tardi alla Quarta Internazionale. 15 L Basso, Il Psi, Nuova Accademia, Milano, 1958, p. 248.

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I che Basso . 16 assumerà più tardi sui problemi della strategia operata . Orientamenti che vanno in direzione analoga a quella delle posizioni già menzionate sono state formulate da Rodolfo Morandi, che le ha sintetizzate in particolare in un articolo comparso nei giorni della liberazione. Affrontando a sua volta il problema del ruolo dei Cln, Morandi scriveva: «L'autorità suprema dello Stato non può essere oggi rappresentata ed espre~ che da una conferenza generale dei Comitati di liberazione» .

E successivamente doveva impostare la prospettiva di quelle che si chiamavano allora le "riforme di struttura", in termini ben diversi da quelli prevalenti: secondo lui, queste riforme dovevano essere concepite come «guida di un'azione d'urto e altrettante forme di frattura del sistema». Ma queste enunciazioni subivano la stessa sorte di altre: restavano cioè accenni, indicazioni molto generali, senza alcuna concretizzazione o senza inserirsi in una critica più generaIe dell'azione del movimento operaio nazionale e internazionale.

Pietro Secchia e Umberto Terracini

Tra coloro che hanno prospettato, a scadenze importanti, impostazioni e orientamenti diversi da quelli della maggioranza del gruppo dirigente, merita di essere ricordato Pietro Secchia. Il fatto che le sue posizioni critiche siano state esplicitate 16 A questo proposito, si veda la nostra valutazione operaio in una fase critka, cit., pp. 141-146. 17 Avanti, 28 aprile 1945.

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critica in n movimento

solo in sede storica, quando Secchia era stato da tempo emarginato, non ne sminuisce la portata intrinseca, soprattutto dal punto di vista che qui ci interessa. Secchia aveva assunto una posizione particolare già alla fine degli anni '20, quando, assieme a Longo, aveva rappresentato una "tendenza" di giovani che respingevano una correzione di linea giud,icata opportunista: contro l'adozione della parola d'ordine dell'Assemblea costituente erano favorevoli a mantenere quella precedente di "rivoluzione popolare per un governo operaio e contadino". E' partendo da questa critica che Secchia accettava con entusiasmo la "svolta", di cui poteva considerars~ almeno in parte, un precursore. L'accentuazione che ne dava e l'interpretazione difesa a spada tratta anche quarant'anni dopo avevano una tonalità particolare: secondo lui, l'essenziale era che il partito impegnasse di nuovo il massimo delle sue forze nella costruzione all'interno del paese e soprattutto da questo punto di vista gli sembrava condannabile la critica degli oppositori (a nostra conoscenza, ha sempre sorvolato sul fatto che tra questi andavano annoverati molti detenuti e lo stesso Antonio Gramsci)18. Il suo giudizio coincideva, dunque, in larga misura, con quello di Giorgio Amendola, che, pur riconoscendo l'erroneità dell'analisi che era stata fatta e il non raggiungimento dei risultati sperati, ha giustificato anche nel suo libro del 1978 la condanna dei "tre", giudicando la svolta feconda per la.successiva crescita del partito. Esempio da manuale di quel giustificazionismo di cui Amendola è stato uno dei campioni, anche quando si era assunto la parte - in larga misura illusionistica - dell'iconocla18 Secondo Terracini, la prospettiva di un possibile ritorno al «metodo democratico», cioè di una prospettiva opposta a quella della svolta, «era pacifica nelle idee comuni degli ospiti di Regina Coeli». 57


sta, deciso a infrangere tabù tradizionali e a sollevare questioni che altri preferivano evitarel9. In più occasioni, Secchia è ritornato sulla situazione nell'ultima fase della guerra e nell'immediato dopoguerra. E' soprattutto a proposito in quel periodo che, secondo lui, il partito avrebbe potuto e dovuto assumere una linea diversa da quella effettivamente assunta. «Non penso affatto

- scrive

per

esempio

nel

1958

-che

La stessa valutazione è espressa, anche se in termini più problematici, in un altro testo: «Si tratta di esaminare se con opera più decisa e più ampie lotte unitarie delle masse lavoratrici non era possibile Impedire quella che poi si è chiamata la "restaurazione del capitalismo", il ritorno al dominio dei gruppi monopolisti e dei grandi industriali, se non era possibile un'azione unitaria più decisa e conseguente per portare avanti il rinnovamento economico, politico e sociale del paese, per riformare le sue strutture e realizzare un rc~ime di vera democrazia. Ed è in questo senso che tutti i partiti antifascisti, nessuno escluso, dovrebbero approfondire lo studio con uno spirito autocritico che :ù'rescinda, per quanto possibile, dal patriottismo di partito...» .

nel 1945 si

potesse fare la rivoluzione. Il nostro paese era occupato dagli anglo-americani ecc. Condivido pienamente l'analisi fatta dal partito in quel periodo e le conclusioni cui è giunto. Ma si trattava di puntare di più sui movimenti di massa, di difendere maggiormente certe posizioni e di fare qualcosa di serio e di positivo quando eravamo al governo. Inoltre gli anglo-americani a un certo momento se ne sareb}3ero andati e noi avremmo dovuto puntare maggiormente i piedi» .

Un errore particolarmente grave, all'origine di «molte debolezze», sarebbe stato, sempre secondo Secchia, <d'aver considerato la Dc un partito democratico-popolare rappresentante gli interessi dei contadini, dei ceti medi e delle classi lavoratrici. Che la Dc avesse una base ed una influenza di massa non cambia fondamentalmente il carattere, la natura di classe e la ~unzlpne che ha assolto da dopo la liberazione in poi questo partito» .

E in uno scritto del 1971 precisa: «Già nel corso della resistenza ed in particolare alla vigilia dell'insurrezione il contrasto tra il Pci, le forze di sinistra e quelle moderate s'era manifestato in pieno, chiaramente, specie nell'assetto da darsi allo Stato, sul tipo di democrazia da attuare. L'attacco ai Cln, quali nuovi organismi di potere, quali pilastri portanti della nuova democrazia, fu deciso e netto e dopo la liberazione non trovò adeguata risposta ed energica difesa neppure da parte nostra. Si cedette di fronte al ricatto, mancò la fiducia nella possibilità di gettare le fondamenta di un nuovo Stato, di creare uno Stato che non fosse quello prefascista;2~i ebbe timore dello scontro e del profilarsi della situazIOne greca»

«nella politica sindacale e di mobilitazione delle larghe masse

-

sl?e~i.e 2.figrandicentri industriali-si sarebbe potuto e dovuto fare

.

19 Amendola si è avventurato nella stesura di una storia del Partito comunista che, c'è appena bisogno di dirlo, non regge neppure lontanamente al confronto con quella di Spriano. Proprio in questo libro, è del tutto trasparente il suo giustificazionismo anche per quanto riguarda lo stalinismo (nel 1978!). Scandalosa la giustificazione dei processi di Mosca, che, secondo l'autore, «non intaccarono l'autorità di Stalin, se egli poté, con una decisione personale, promuovere una così rapida concentrazione di volontà per il raggiungi mento dell'obiettivo che aveva indicato» (op. ciL, p. 307). 20 Archivio Secchia cit., p. 192. 21 P. Secchia, il PCI e la guerra di liberazione, 1943-1945, Annali Feltrinelli, Milano, 1971, p. 581.

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Un altro motivo della critica sccchiana riguarda l'impostazione delle lotte operaie. Così, riferendosi al periodo 1947-1948,Secchia ritiene che diplu» . E altrove scrive: «Non v'è dubbio che vi è stato un ritardo nel difendere con ampie IRtte generali le commissioni interne e la libertà nelle fabbriche» .

Altri rilievi toccano punti più specifici. Per esempio, Secchia non è d'accordo sul voto del Pci favorevole all'elezione 22 23 24 25

Ibid., p. 1061. Archivio Secchia cit., p. 583. Ibid., p. 427. Ibid., p. 268.

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alla presidenza di Giovanni Gronchi nel 1955 e non nasconde il suo scetticismo sulla parola d'ordine del controllo democratico dei monopoli26.Al momento della lotta contro la legge elettorale truffaldina (1953) critica l'atteggiamento, a suo modo di vedere, troppo moderato di Togliatti, che avrebbe rivelato «ancora una volta una concezione parlamentaristica»Zl. Si tratta, complessivamente, di critiche non irrilevanti, mosse sistematicamente, per così dire, da sinistra. Ma rappresentano, in realtà, più che una vera e propria alternativa, un progetto di applicazione più dura, meno conciliante, della strategia complessiva del periodo considerato. Ciò è confermato senza possibilità di equivoci dal fatto che Secchia si dichiara d'accordo sull'obiettivo centrale, la "democrazia progressiva", sia pure, ripetiamolo, in una versione più radicale.

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-

«Lo sbocco della resistenza scrive non poteva essere il socialismo, ma doveva essere una democrazia nuova, progressiva, con le nuove istituzioni direttamente rappresentative delle masse popolari, quegli o~anismi di potere che in parte erano già sorti durante lacon resistenza» .

Ma il limite di Secchia consiste non tanto e non solo nel suo modo di affrontare i problemi strategici sul piano nazionale, quanto nel non avere mai fatto, neppure negli ultimi anni della sua vita, i conti con lo stalinismo. Per quanto riguarda gli anni '30, per esempio, non ha mai rettificato in alcun modo gli argomenti con cui aveva giustificato allora l'accettazione dei processi di Mosca, né si è sforzato di cogliere le radici e la dinamica degli avvenimenti nell'Urss. Peggio ancora: 26 Ibid., pp. 267 e 269. 27 1bid., p. 237. 28 Ibid., p. 585. A nostra conoscenza, neppure successivamente Secchia ha rimesso in discussione la linea generale del partito. Le riserve espresse sulla via italiana al con cautela e più indirettamente che direttamente socialismo appaiono tutt'al più ideologiche, senza implicazioni sul piano della strategia politica.

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anche dopo il XX Congresso, non si è peritato di scrivere che l'Urss «deve essere al centro del movimento comunista, perché, ci piaccia o no, per la funzione che obiettivamente assolve, l'Unione Sovietica è alla testa, all'avanguardia del mondo socialista".

Contemporaneamente, ha continuato a difendere una concezione, in ultima analis~ staliniana dell'unità del movimento comunista29. Abbiamo accennato alle posizioni di Umberto Terracini nel 1929-30e in occasione del Patto russo-tedesco del 193930. In un suo documento dell'autunno 1941, Terracini delineava per il periodo che avrebbe seguito la sconfitta del fascismo una prospettiva diversa da quella abbozzata già allora dai partiti comunisti: «E' da 'prevedersi che in un tale quadro (specialmente nei paesi sconfitti, Germania ed Italia, nei quali la disfatta in se stessa prima ancora dell'effettivo affermarsi di una nuova autorità spezzando l'apparato compressore della dittatura darà l'avvio ad un tumultuoso processo di riorganizzazione di vecchi e nuovi raggruppamenti politici), è da prevedersi che la lotta politica si svilupperà con ritmo accelerato, determinando una polarizzazione di forze progressivamente accelerata verso posizioni inconciliabili, quelle stesse forze inizialmente e confusamente riunite su una primordiale piattaforma democratica. E maturerà, forse in pochi mesi, una situazione rivoluzionaria, capace di respingere ancora

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29 Op. cit, p. 429. E' singolare che nello stesso periodo in cui scriveva il passo citato, Secchia facesse riferimento a Cours Nouveau di Trotsky a proposito del «problema di rigenerazioni e di rinnovamento dei partiti cOl)1unisti» (p. 434). In precedenza aveva citato passi da 1905 e da La rivoluzione tradita dello stesso autore (pp. 300-301). 30 Le posizioni di Terracini sono illustrate soprattutto in due suoi libri, La svolta, La Pietra, Milano, 1975, e Al bando del panito, La Pietra, Milano, 1976. A pro.I?0sito del Patto russo- tedesco, Terracini insisteva sul fatto che bisognava dIStinguere tra le legittime esigenze dell'Urss come Stato e gli orientamenti del movimento comunista internazionale. Più tardi sosteneva, contro la tesi ufficiale, che per i paesi capitalistici la guerra restava una guerra imperialista, nonostante l'interesse che l'Urss aveva a stabilire un'alleanza con loro.

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una volta i partiti borghesi all'aperta reazione. Ma allora il risultato della lotta dipenderà dalla capacità delle forze rivoluzionarie, dal modo col quale avranno saputo sfruttare il rapido tempo di libertà, dall'abilità con la quale avraW10 saputo manovrare tatticamente nella fluidità della situazione» .

Nel ricorso contro la sua espulsione (febbraio 1943), ribadiva precisando: «Ritengo che la formazione del primo governo postfascista sfuggirà all'influenza diretta delle forze proletarie, e proprio perciò la lotta politica si svilupperà tosto con ritmo accelerato, determinando una rapida polarizzazione verso posizioni inconciliabili di quelle stesse forze inizialmente riunite su di una primordiale piattaforma democratica borghese Fra l'altro noi dovremo immediatamente con programma a contenuto non solo impostare un'azione politico in senso stretto, ma economico-sociale avanzato - per mquadrare le masse, secondo le esperienze del 1919-21 (consigli di fabbrica) e 1925-26 (comitati contadini di unità), in organismi che possano e servire alla loro mobilitazione per le lotte dirette e funzionare come nuclei primordiali di un governo rivoluzionario. Così, sfruttando al massimo i margini della demq~razia borghese restaurata, noi ci foggeremo le armi per superarla» .

e dello scioglimento del Partito comunista polacco e sosteneva in un articolo che il Pci doveva adoperarsi per eliminare le cause e le conseguenze dello stalinismo. Circa vent'anni più tardi, al XIV Congresso, criticava la definizione che veniva data della Dc, che non era presentata come un partito a egemonia borghese. Ma nessuna di queste prese di posizione lo hanno portato a una contestazione della linea generale del partito, alcune delle cui premesse erano formulate da Terracini in forme addirittura estremizzate34. Neppure si può dire che abbia dato un val!do contributo alla critica dello stalinismo35.

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Qui sono indicati, in sintesi, elementi validi di una linea alternativa su cui torneremo. Sta di fatto, però, che Terracini rinunciò a sviluppare la sua intenzione: meno d'un anno dopo, in una lettera a Togliatti non esitava a esprimere «pieno consenso alla linea del partito» e ribadiva tale atte~amento in un'altra lettera scritta poco prima della liberazione33. Più tardi, Terracini esprimeva in varie occasioni opinioni diverse da quelle del gruppo dirigente. Per esempio, in una intervista del '47, attirava l'attenzione sui pericoli che sarebbero derivati da una divisione del mondo in due blocchi, provocando immediatamente una sconfessione pubblica da parte della segreteria. Subito dopo il XX Congresso, sollevava al Comitato centrale il problema dell'eliminazione di Bela Kun 31 U. Terracini,AI bando del partito, cit., p. 44. 32 Ibid., p. 126. 33 12 aprile 1945: «La linea del partito è la mia linea, senza riserve; e senza riserve ne è la mia disciplina» (p. 185).

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Quali alternative? Alternative possibili sono state, dunque, delineate a quasi tutte le scadenze cruciali della storia del partito. Ma s'è trat34 Per esempio, al VII Congresso (aprile 1951), respingendo la tesi della Costituzione come un compromesso, sosteneva che «se per ipotesi assurda, nel 1946, si fosse dato al Pci il compito di redigere, esso solo, la Costituzione della repubblica..., nella sua linea generale e nei suoi principi fondamentali, essa sarebbe sortita per l'appunto quale oggi l'abbiamo» (VII Congresso del Pci, Edizioni di Cultura sociale, Roma, 1954, p. 298). Altro esempio: al IX Congresso, per giustificare la politica delle alleanze del partito, non si era peritato di tirare per i capelli una citazione del Manifesto dei

. comunisti,

pretendendo

che

l'espressione

«sprofondamento

nel

proletariato» non avrebbe indicato solo un «declassamento, ma anche un avvicinarsi di interessi, un allineamento delle classi» (IX Congresso del Pci, Editori Riuniti, Roma, 1960,voI. I, p. 297). 35 All'VIII Congresso aveva fatto uso anche lui del penoso argomento "non sapevamo", parlando di «estrema limitatezza delle conoscenze che si avevano circa il funzionamento delle istituzioni politiche dei paesi socialisti». Ricordiamo, d'altra parte, gli sforzi di Terracini in una conferenza in un circolo ebraico della capitale per spiegare che il processo Slansky non era stato una manifestazione di antisemitismo e si era svolto secondo «il diritto statuale» cecoslovacco.

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I,-

"1"

tato sempre di alternative parziali, prive d'una dimensione strategica internazionale: di qui la loro intrinseca inconsistenza, il loro carattere effimero, la loro influenza limitata. Non ne discende che un corso diverso fosse inconcepibile. Impostare una strategia e scelte diverse, stimolando una diversa dinamica degli avvenimenti, era perfettamente possibile: la condizione era che sin dall'inizio il progetto alternativo assumesse una dimensione internazionale. Partendo da un'analisi rigorosa dei processi nell'Urss e delle loro ripercussioni nell'Internazionale comunista, si sarebbe dovuto e potuto lottare per contrastare, prima che fosse troppo tardi, l'instaurarsi e il consolidarsi dell'egemonia burocratica staliniana. Sarebbe stata, certo, una battaglia molto dura, il cui esito positivo non era affatto garantito. Comunque sia, oggi tutti possono constatare il disastro finale delle scelte "realistiche", che provoca ora disperati tentativi di scissione da responsabilità, con la rinuncia al nome stesso del partito. Ritorniamo un momento indietro. Nel 1929-30, era possibile respingere le analisi palesemente errate del terzo periodo e del socialfascismo e creare le condizioni di un'azione unitaria del movimento operaio contro la dittatura mussoliniana (e in Germania per opporsi all'avvento di Hitler). Era perfettamente possibile organizzare il lavoro all'interno del paese senza far balenare prospettive irrealistiche, senza ultimatismi e precipitazioni avventuristiche, creando così ben più solidamente le premesse d'un rilancio. Tutte cose, ricordiamolo, che non vengono dette ora col senno di po~ ma sono state dette allora e non da qualche franco tiratore, ma da militant~ quadri e dirigenti dello stesso Pci e della stessa Ic. Anche ad altre scadenze cruciali, quelle delle battaglie della resistenza e dell'immediato dopoguerra, il corso adottato non era l'unico possibile. Critiche e ipotesi diverse sono state avanzate anche in questo caso. Ancor più importante è che esisteva una larga disponibilità in vasti settori di massa,

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tra quadri e militanti delle generazioni più mature e delle generazioni nuove, che si mobilitavano con l'aspirazione a un mutamento radicale dell'esistente, alla costruzione di una società socialista e non solo per il rovesciamento del fascismo e la cacciata dell'esercito nazista36. Riprova: la grande forza di attrazione del Partito comunista, identificato con l'Urss, paese "socialista", e con un progetto rivoluzionario. D'altro lato, fonti diverse e studi storici di diversi autori sono concordi nell'affermare che spesso la linea di unità nazionale era accettata come un'esigenza tatti. ca che al. .momento sarebbe stata superata per imI opportuno 37 I pegnarsl m una otta per a conqwsta deI potere . Conosciamo gli argomenti dei difensori della linea ufficiale. Era assurdo fare la rivoluzione il 25 aprile, in ogni caso gli eserciti di occupazione sarebbero intervenuti a fianco delle forze reazionarie. Senonché non si trattava affatto di cercare di instaurare uno Stato operaio all'indomani del 25 aprile. Si trattava di dare alla lotta una diversa prospettiva, di sviluppare tutti gli elementi di potere e di controllo operaio emersi durante la resistenza, di far sì che il ruolo egemonico della classe operaia e delle sue organi7zazioni non fosse 36 A questo proposito, nel suo libro / comunisti europei e Stalin, Einaudi, Torino, 1983, Spriano scrive: «La guerra civile, o almeno forti disparità e contrapposizioni sociali si accompagnano, in ogni paese europeo, al corso della guerra sui fronti. Vi sono forze schierate a fianco degli occupanti, vi sono gruppi sociali inerti e rassegnati, vi sono sinceri combattenti per la IibeItà che non vogliono però collaborare con i comunisti. Questi ultimi si battono, d'altronde, per una rivoluzione socialista anche se essa non viene posta all'ordine del giorno nei documenti ufficiali. L'interpretazione del 'unità nazionale è soggetta, dunque, a infinite variazioni e sfumature. In alto e in basso, ai vertici dei partiti che operano realmente nella clandestinità e nella loro base operaia e contadina, tra i quadri intermedi che si fanno decisivi per organizzare la lotta armata» (p. 175). 37 I dirigenti del Pci erano ben coscienti di questo fatto e per questo temevano che si potesse formare un altro partito alla loro sinistra attorno agli elementi, gruppi e movimenti critici cui abbiamo accennato (timori in questo senso erano espressi, per esempio, da Scoccimarro alla fine del '44).

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svuotato di contenuto' e annullato da una collaborazione sistematica con i partiti borghesi é dalla rinuncia a un'azione indipendente, di rifiutare l'inserimento, anche ai massimi livelli, in un apparato statale rimasto quello tradizionale, e la collaborazione alla ricostruzione su basi capitalistiche. In altri termini, anziché cercare di soffocare o attutire i conflitti di classe, si sarebbe dovuto fare il possibile perché si sviluppassero secondo una dinamica che esisteva nella realtà, orientandoli in una prospettiva anticapitalistica e favorendo cosi la presa di coscienza di settori di massa sempre più vasti. Nessuno avrebbe potuto sapere a priori se e quando si sarebbe posto il problema del potere. Ma l'essenziale era mantenere questa prospettiva strategica, indipendentemente dalle scadenze e dalle forme di lotta ipotizzabili. Niente di tutto questo è stato fatto. Peggio: se il Pci ha condotto a volte lotte anche molto dure, in funzione essenzialmente difensiva, contro attacchi ai diritti e ai livelli di vita dei lavoratori, è stato estremamente timido, se non assente, sul terreno di importanti rivendicazioni democratiche. Basti pensare all'enorme concessione fatta a proposito dei rapporti tra Stato e Chiesa con il voto del famoso - o famigerato articolo 7 della Costituzione o alla rinuncia, per decenni, a ogni battaglia per il divorzio e per l'aborto, per finir poi con l'accodarsi a iniziative altrui. Considerazioni non diverse da quelle fatte per gli anni 1943-1945valgono per la grandiosa esplosione popolare del 14 luglio 1948 in risposta all'attentato a Togliatti. Si può convenire che non esistessero allora tutte le condizioni necessarie di una lotta rivoluzionaria per il potere. Ma sarebbe arbitrario dedurne che la sola soluzione fosse quella di arrestare il movimento. Tra uno !>cioperodi protesta e un'insurrezione c' è un'ampia gamma di possibilità. Si sarebbe potuto, per esempio, porre allo sciopero obiettivi politici generali (epurazione degli uomini del vecchio regime ritor66

nati alla ribalta, cessazione immediata delle misure ventilate contro militanti della resistenza, installazione di consigli di gestione nelle fabbriche, di consigli di azienda e di cascina con ampi poteri di controllo ecc.). Simili obiettivi si sarebbero potuti collegare con obiettivi economici, partendo dalle lotte sindacali in corso (basta Coni licenziamenti, riassunzione dei lavoratori messi alla porta, revisione generale dei salari ecc.). Il movimento non avrebbe dovuto cessare prima d'aver realizzato concreti risultati e la sua guida si sarebbe dovuta affidare a comitati di sciopero ed agitazione eletti direttamente dai lavoratori e quindi capaci di esprimerne le aspirazioni, di ascoltarne il polso. Un successo in questo senso avrebbe di per sé costituito un valido contrattacco del movimento operaio, creando le premesse per un rilancio delle lotte in una situazione più favorevole per la riacqllistata fiducia delle masse c ill:onseguente smarrimento degli awersari. Con il 1968 si apriva, in Italia più che in altri paesi, una profonda crisi sociale e politica che doveva assumere nel 1969-71 i tratti di una crisi prerivoluzionaria38. Non ritorniamo qui sulle enormi mobilitazioni studentesche, sulle grandi lotte operaie, sulla radicalizzazione di vasti strati di piccola borghesia, sulla crisi dei partiti tradizionali sia borghesi sia operai. Il Pci ha affrontato la situazione, dopo una prima fase di incertezza, con la consueta abilità tattica, sforzandosi di integrare i nuovi movimenti nella sua strategia politica. Ha cercato più concretamente di utilizzare le forze esplose nella crisi per aumentare il suo peso specifico e per rilanciare il suo progetto di rinnovamento "democratico" e di ristrutturazione riformista. La sua operazione ha avuto successo sul ter38 La crisi del 1968-71 è all'origine della formazione e della crescita di organizzazioni di estrema sinistra, che, nei momenti più alti, sono riuscite a esercitare un'influenza considerevole in settori dI massa. Proprio per questo, esiste una responsabilità anche di queste organizzazioni per quanto riguardaVerificadellenimsmo lo sbocco di 9uestoin periodo nostro l/alia, ci!.critico. Cfr., a questo proposito, il

67


Un bilancio di insuccessi

reno per lui fondamentale: nel 1975-76 faceva un balzo elettorale senza precedenti. Ma, per l'appunto, il grande movimento si esaurisce con il conseguimento di una serie di conquiste parziali _ successivamente corrose una dopo l'altra e con un relativo mutamento dei rapporti di forza sul piano elettorale. li sistema può superare la sua crisi tanto più che il Pci investe i suoi successi nella fallimentare politica di unità nazionale (1976-78) - e, poi, dalla rme degli anni '70 e dagli inizi degli anni '80, l'economia capitalistica può sviluppare sistematiche operazioni di ristrutturazione e di restaurazione, con risultati difficilmente contestabili a dieci anni di distanza. Anche in questo caso la politica adottata non era affatto l'unica possibile. Si sarebbe potuto favorire una dinamica di lotte tendente ad approfondire la crisi del sistema, sviluppare e potenziare organismi di democrazia dal basso, invece che cercare di istituzionalizzare quelli che erano sorti, avanzare un progetto di ricostruzione della società italiana su basi anticapitalistiche. Su una simile prospettiva era possibile, allora, realizzare un ampio fronte di forze sociali - e non solo della classe operaia - stimolando una presa di coscienza su scala di massa della necessità di soluzioni rivoluzionarie. In quel contesto, non valeva più, d'altra parte, il vecchio argomento di un possibile intervento militare imperialistic039.

L'applicazione di una strategia e di orientamenti alternativi non avrebbe automaticamente garantito un successo storico della classe operaia e del suo movimento. Non esisteva-

-

-

39 L'argomento dell'inevitabilità di un intervento americano non era così decisivo come supponevano quelli che lo avanzavano neppure nell'immediato dopoguerra (i gruppi dirigenti di Washington avrebbero avuto difficoltà, alla fine della guerra, a convincere il loro popolo che bisognava intraprendere una nuova azione militare). Del resto, un dirigente del Pci niente affatto eterodosso come Emilio Sereni lo aveva egli stesso messo in dubbio, scrivendo nell'aprile del '45 di non essere affatto sicuro che, in caso di presa del potere da parte dei comunisti nell'Italia settentrionale, ci sarebbe stata una reJ;lressione da parte degli angio-americani (cfr. P. Spriano, I comunisti e Stalin, cit., p. 216). Nel momento in cui fervono le polemiche sulla "Gladio" qualcuno potrebbe essere tentato di avanzare sotto nuova forma l'argomento di un'eventuale azione militare. Avremmo voluto proprio vederli gli intrepidi "gladiatori" emergere alla superficie per affrontare i movimenti di massa del 1968-1969!

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no - e ancora meno esistono oggi

- soluzioni

di facilità.

Ma la

constatazione che, comunque, si può fare è che tutte le prospettive strategiche via via avanzate dal Pci si sono rivelate intrinsecamente inconsistenti e sono rimaste sulla carta, nonostante le pretese di realismo. Nel periodo 1944-45, la prospettiva strategica era quella della democrazia progressiva. L'obiettivo della democrazia progressiva era, per riprendere formulazioni di Togliatti, «realizzare la distruzione del fascismo, tagliare tutte le radici da cui esso è sorto e rinnovare il nostro paese in modo tale che un regime analogo a quello fascista non possa rinascere mai più... Democrazia progressiva è quella che organizzerà un governo del popolo e per il popolo e nella quale tutte le forze sane del paese avranno il loro posto, potranno afferma11h e avanzare verso il soddisfacimento

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di tutte le loro aspirazioni»

.

In altri termini, avrebbe dovuto rappresentare la fase più avanzata cui possa ~ungere una democrazia nel quadro della società capitalistica 1.Dal punto di vista più strettamente politico, il successo di questa strategia esigeva il concretizzarsi di due prospettive: per citare ancora Togliatti, quella della «democratizzazione del paese nel suo complesso» e quella della «democratrizzazione degli stessi conservatori italiani»42.Che questo non sia accaduto e che la democrazia pro40 P. Togliatti, Politica comunista, L'Unità, Roma, 1946. 41 La formula della democrazia progressiva è stata avanzata anche nei paesi dell'Europa orientale sotto l'influenza dell'Urss. Ma ben presto è stata presentata come una prima fase della dittatura del proletariato, o meglio dell'istaurazione della dittatura burocratica grazie ai rapporti di forza creati dalla presenza dell'esercito sovietico. 42 Rinascita, agosto '46.

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gressiva non si sia dunque realizzata è la conclusione dello stesso segretario del Pci. La non realizzazione di una prospettiva non ne inficia necessariamente la validità. Rapporti di forza sfavorevoli possono giuocare in senso contrario e si può continuare a lottare per cambiare questi rapporti di forza. Ma, nella fattispecie, si trattava di una formula che non corrispondeva a una dinamica di sviluppo possibile oggettivamente e politicamente feconda. Se il fronte dei conservatori o, per essere più precisi, i gruppi dirigenti della borghesia non hanno avuto l'evoluzione auspicata da Togliatti, non è stato per errore o per miopia politica. Per costoro, l'essenziale era ricostruire il paese nel quadro di un'economia capitalistica e di istituzioni che garantissero la loro egemonia. In questo senso, hanno agito in modo conseguente: sinché la situazione imponeva una collaborazione con i partiti operai per evitare tensioni e conflitti esplosivi, seguivano la via dei Cln e dei governi tripartiti; ma quando ciò non era più strettamente necessario, quando la presenza dei partiti operai al governo appariva ormai come un ostacolo al pieno dispiegarsi della loro ricostruzione e mutava il contesto internazionale, preparavano e operavano la rottura. Lasciando da parte formule politiche elaborate in seguito, come quella generica di "governo democratico delle classi lavoratrici" (VIII Congresso) e quella successiva, ancora più generica, di "democrazia di tipo nuovo", qualche parola va spesa sull'obiettivo del "controllo democratico dei monopoli", presentato soprattutto negli anni '60 come elemento centrale di una "programmazione democratica". Anche in questo caso si tratta di un obiettivo intrinsecamente inconsistente. Infatti, era fissato partendo dall'ipotesi di una fase di sviluppo in cui, pur permanendo il sistema economico-sociale capitalistico, i monopoli fossero posti sotto

tutela, ristabilendo una sorta di capitalismo di libera concorrenza, disposto a operare nell'interesse delle grandi masse popolari. Si dimenticava - o si volevadimenticare _ chela fase monopolistica non è una "degenerazione", ma una fase necessaria, uno sbocco logico del capitalismo e che è semplicemente assurdo un capitalismo dai contorni non ben precisati senza postulare i monopoli. L'impostazione non reggeva neppure dal punto di vista politico, tenuto conto della strategia complessiva del partito: infatti, una rottura del potere monopolistico avrebbe richiesto un tale mutamento dei rapporti di forza, un tale salto qualitativo e avrebbe provocato situazioni cosi conflittuali che, in una simile eventualità, il movimento operaio non potere43. avrebbe evitato uno scontro frontale, in una prospettiva di Data la scarsa consistenza di tutte queste indicazioni, il Pci non poteva non trovarsi in difficoltà di fronte ai governi di centro-sinistra, almeno nella loro prima fase. Da un lato, infatti, doveva contrastare un'operazione che aveva tra i fini dichiarati il suo indebolimento e isolamento, dall'altro, non poteva respingere orientamenti programmatici, politici e ideologici, che, almeno qualitativamente dai suoi.sulla carta, non si differenziavano In realtà, proprio con il centro-sinistra cominciano a maturare ed emergere le sue contraddizioni. La sua prospettiva era ormai da tempo una prospettiva riformista. E nella seconda metà degli anni '60 e nella prima metà degli anni '70, l' emergere di movimenti di massa di diversa natura, ma tutti caratterizzati, nei loro momenti più alti, da un grande dina43 La prospettiva del controllo democratico dei monopoli ha comportato l'uso di altre fonnule, non meno inconsistenti, come quella dell' «equo profitto». Sul piano politico, un caso limite di indetenninatezza è rappresentato dalla fonnula usata da TOgliatti al X Congresso: «Diminuire e POssibilmente spezzare il dominio assoluto dei gruppi dirigenti borghesi».

70 71


mismo e capaci di incidere sui rapporti di forza complessivi, rende possibili reali conquiste sul piano economico, sociale e politico. Settori delle classi dominanti ritengono necessario, per evitare una dinamica per loro pericolosa, fare concessioni. TIPc~ lo abbiamo visto, si inserisce in questi movimenti, ma non riesce a dare a movimenti e lotte una prospettiva strategica d'insieme, né a imporre la propria egemonia e continua a essere escluso dal governo. Qui risiede, in ultima analis~ la sua debolezza, nonostante i successi elettorali. E' per superare questa impasse che Berlinguer prospetta la strategia del compromesso storico. Ma tale strategia - su cui ritorneremo nel capitolo seguente - non raggiungeva il suo obiettivo più di quanto non lo avessero raggiunto le precedenti strategie. L'unica traduzione pratica era il coinvolgimento nell'esperienza di unità nazionale tra il 1976 e il 1978, che aveva il solo risultato di fare apparire il Pci come elemento di copertura della politica di austerita e di ristrutturazioni del governo e delle classi dominanti e si concludeva con una dichiarazione di fallimento. Scoccava l'ora dell'alternativa democratica. Si tratta di vicende ancora recent~ su cui non è necessario insistere: tanto più che la nuova strategia ammesso che cosi si potesse definire - non solo non dava alcun concreto risultato, ma creava sin dall'inizio problemi di definizione, rimasti aperti nonostante tutti i tentativi di equilibrismi terminologici e concettuali44.Contribuiva cosi ad accrescere una crisi la cui manifestazione più vistosa è stata la serie decennale di arretramenti elettorali.

-

44 Basti pensare che, al momento della nuova svolta, Berlinguer si era affrettato a dichiarare che l'alternativa democratica non comportava nessun mutamento delle «basi essenziali» della strategia del partito, mentre più tardi un testo per il Congresso del 1983 spiegava che l'alternativa democratica era, sul piano governativo, alternativa alla DC e al suo sistema di potere.

5. I PROTAGONISTI: DA TOGLIAm A BERLINGUER

La storia del Partito comunista è stata determinata, lo abbiamo visto, da tutta una serie di fattori che hanno agito nell'arco di settant'~ nella società italiana e sul piano internazionale. E' la storia di decine, se non centinaia, di migliaia di quadri e di militanti senza il cui impegno e spirito di sacrificio non avrebbe potuto giuocare un ruolo cosi importante, indipendentemente dal giudizio che se ne può dare. Ma è stata scandita anche dalla parte che hanno avuto nella definizione delle sue concezioni, della sua strategia e dei suoi orientamenti dii direzione. leader che si sono succeduti alla massima responsabilità A proposito del primo segretario, Amadeo Bordiga, ci limitiamo a ricordare un giudizio di Pietro Tresso, al di là di una certa terminologia, ancora pertinente: «Sotto la direzione di Bordiga, il partito, malgrado l'errato orientamento di questa direzione, acquista coscienza di sé, della

. prima

fondamentale

verità

che

"senza

partito

di classe,

senza

una

dottrina rivoluzionaria" il proletariato non può vincere. Verità prime, fondamentali, abbiamo detto. Sotto Bqrdiga non solo il partito prende coscienza di sé, viene formandosi; ma nel fuoco della guerra civile, la più aspra, esso compie la sua "selezione", tempra le sue ossa, acquista una disciplina di ferro, sviluppa la capacità didi sacrificio, quali sono1.tutti meriti inseparabili per la creazione un partito ibolscevico»

Bollettino dell'opposizione comunista italiana, n. 13, 1S2febbraio 1933. 72 73


Non ritorneremo neppure su Antonio Gramsci: abbiamo sintetizzato la nostra valutazione sulla sua opera teorica e politica di marxista rivoluzionario in un saggio compat:so in occasione del cinquantenario della morte2. Del resto, mentre era in vita, Gramsci non ha avuto un'influenza determinante che per un periodo relativamente breve, cioè dal delinearsi di un nuovo gruppo dirigente sino alla fine del 1926. Solo vent'anni dopo la sua morte si è cominciato a studiare e ad apprezzare il suo apporto politico e culturale. Ma per oltre quattro decenni, dirigenti e intemettuali del Pci sono sembrati preoccuparsi soprattutto di presentare Gramsci come precursore o ispiratore delle loro concezioni e strategie. E poiché erano ben diverse da quelle formulate da Gramsci - non solo nella prima metà degli anni '20, ma anche nei Quaderni e hanno per di più conosciuto tutte le evoluzioni che sappiamo - abbiamo assistito e assistiamo a un allucinante spettacolo di equilibrismi concettuali e terminologici, per dirla in termini più crudi, a ininterrotte operazioni mistificatorie. C'è ora da aspettarsi che qualcuno si incarichi di compulsareun'altra volta Gramsci per scoprirvi elementi anticipatori dell'ultima incarnazione del partit03. Non ci dilungheremo neppure su due dirigenti che hanno svolto essi pure le loro funzioni per un periodo di tempo limitato. Basti ricordare che il primo di essi, Luigi Longo, che aveva condiviso tutte le responsabilità del gruppo dirigente 2 Il marxismo rivoluzionario di Antonio Gramsci, Nuove edizioni internazionali, Milano, 1987. 3 Giuseppe Vacca, sempre impegnato a dare le spiegazioni più sofisticate al succedersi delle concezioni e impostazioni del Pci, ha annunciato un nuovo libro che dovrebbe dimostrare che Grarnsci e TogIiatti erano «diversi, ma inscindibili». II libro non uscirà che nella primavera del 1991. A giudicare da un'intervista dell'autore a l'UnillI (6 settembre), la sua fantasia sarà ancora una volta inesauribile.

dalla fine degli anni '20, ha contribuito durante la sua segreteria ad approfondire la presa di distanze nei confronti della direzione sovietica con la condanna dell'invasione della Cecoslovacchia. Proprio per il suo curricu/urnha potuto assicurare la convergenza su questa decisione tra vecchi dirigenti e quadri ancora sulla breccia e rappresentanti delle più giovani generazioni. Il secondo, Alessandro Natta, ha presieduto alla fase conclusiva del processo di socialdemocratizzazione, senza dare un suo personale contributo. Le segreterie di Longo e Natta hanno occupato, complessivamente, dodici dei settant'arini di vita del partito. Per periodi ben più lunghi hanno esercitato la loro funzione, determinando in larga misura concezioni e orientamenti, Palmiro Togliatti ed Enrico Berlinguer.

Togliatti: dal Comintem a lalta

La valutazione della figura di Togliatti ha conosciuto negli ultimi venticinque anni, fatte le debite proporzioni, una vicenda analoga a quella della valutazione di Gramsci: è cambiata in funzione dei mutamenti delle concezioni e degli orientamenti ze contingenti.del partito, se non addirittura delle sue esigenTogliatti è stato presentato a lungo come il collaboratore più stretto e il più fedele continuatore di Gramsc~ poi come colui che aveva reso esplicito, sviluppandolo e traducendolo nella nuova strategia politica, ciò che nello stesso Gramsci era implicito ed embrionale, infine come l'uomo che aveva saputo, dopo il XX Congresso, introdurre i necessari elementi di rottura rispetto al passato.

74 75


Più di recente, e a maggior ragione dopo il lancio dell'operazione di Occhetto, pur nella continuità delle valutazioni positive e spesso tuttora apologetiche, si è posto di preferenza l'accento sulla necessità di distinguere il p'artito togliattiano da quello attuale (o del prosssimo futuro Su di un punto i giudizi positivi si basano su argomenti solidi: se si valuta il personaggio confrontandolo con altri personaggi dell'Italia del dopoguerra, il paragone è senz'altro a suo favore. . La classe dominante, mentre Togliatti era in vita, ha avuto un solo uomo capace di imporsi per la sua statura, Alcide De Gasperi. Ma anche De Gasperi aveva limiti evidenti ed era prevalso più per un convergere di circostanze che per una effettiva genialità e originalità. Quanto al Partito socialista, non è stato capace di esprimere un solo leader paragonabile a Togliatti in un giudizio complessivo. Una considerazione analoga vale per i dirigenti del movimento comunista internazionale: specie dopo la scomparsa di Dimitrov, è difficile trovare un personaggio che possa essere messo sullo stesso piano del leader del Pci. Per la sua lucida intelligenza, per la sua abilità e duttilità, Togliatti ha potuto rappresentare meglio di qualsiasi altro il movimento cui ha apppartenuto ed esprimerne le esigenze, specie in determinati momenti (fronti popolari, unità antifascista, fasi successive al XX Congresso). Agli occhi del suo partito, dei suoi dirigenti e dei suoi quadri, le sue contraddizioni e il suo stesso passato non apparivano come tratti negativi, ma come una garanzia che, pur mutando quello che bisognava mutare, non si sarebbe andati

l

4 Non di. rado sono state le stesse persone ad avallare diverse interpretazioni: conferma che le preoccupazioni politiche sono prevalse sulle esigenze di analisi storica. Un esempIo significativo di interpretazioni .a~omate. è il numero di Critica marxista su «TogIiatti e la storia d'Italia» USCItonel ventesimo anniversario della sua morte.

oltre certi limiti: in buona sostanza non sarebbe stata messa in forse l'egemonia delle direzioni e degli apparati burocratici (ciò che egli ha cercato di far dimenticare con improntitudine nei mesi cruciali del 1956, troppi altri avevano iriteresse a far dimenticare...). Così, specie negli ultimi anni, Togliatti ha potuto formulare con sufficiente chiarezza e far valere con sufficiente autorità il corso parzialmente nuovo di cui la grande maggioranmza del partito avvertiva l'esigenza. Per questo, anche dopo avvenimenti che avrebbero dovuto scuotere fortemente il suo prestigio, è apparso come un punto di riferimento, un'autorità anche alle tendenze più "innovatrici" sul piano nazionale e internazionale. In particolare in occasione della sua morte, si è posto l'accento, da un lato, sul Togliatti dell'Ordine nuovo e della collaborazione con Gramsci, della politica dei fronti popolari e della coalizione antifascista, dall'altro su quello posteriore al XX Congresso. Si è cercato di scoprire nella sua azione una linea coerente di sviluppo, rimasta largamente immune dalle degenerazioni dello stalinismo, sorvolando sul fatto che, dei suoi quarantacinque anni di attività politica, circa venticinque _ e non dei meno significativi

- sono

stati sotto il segno staliniano.

Proprio all'epoca di Stalin si è affermato come dirigente, assumendo responsabilità di primo piano nel Comintern ormai burocratizzato: cosa ovviamente impossibile senza un completo ossequio alla linea, alle concezioni e ai metodi del signore del Cremlino. E' un dato di fatto che nessuno storico può seriamente contestare, al di là delle spiegazioni e delle giustificazioni che si possano eventualmente escogitare: non c'è aspetto della politica di Stalin che Togliatti non abbia accettato, con maggiore o minore entusiasmo, e comunque celebrato secondo i canoni dell'epoca. Sono universalmente noti episodi partico-

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r

larmente tragici di cui il numero due del Comintern è stato direttamente o indirettamente responsabile5. Si è insistito da parte dei suoi elogiatori sul contributo di Togliatti all'analisi del fascismo, all'elaborazione di una linea di unità con i socialisti, come pure sul suo spirito democratico e persino sulla sua tolleranza. Si è dimenticato o si è voluto dimenticare che, come si è visto nel capitolo precedente, al pari degli altri dirigenti del partito in grado di esercitare le loro funzioni, ha fatto sua la linea del cosiddetto terzo periodo e del socialfascismo, non esitando a decretare l'espulsione di coloro che l'avevano contestata; che è stato in prima linea nell'esaltazione dei tragici processi moscoviti e nell'esigere una caccia al dissidente; che, soprattutto dopo il ritorno in Italia, ha fatto introdurre la pratica del "culto del capo" e che tutti coloro che hanno criticato la linea del partito o i suoi modi di funzionamento hanno conosciuto un Togliatti nel migliore dei casi partenalistico e più spesso spietato e intollerante verso gli oppostori o i presunti tali6. C'è bisogno di ricordare che, per esempio, nel momento stesso in cui si compiaceva di scrivere una prefazione al trattato di Voltaire sulla tolleranza, partecipava senza battere ci5 Per esempio, l'eliminazione di Bela Kun e lo scioglimento del Pc polacco, che sarebbe non solo ben poco internazionalistico, ma più semplicemente cinico cercar di giustificare spiegando che l'approvazione di simili decisioni avrebbe permesso di salvaguardare gli interessi del Pci. Va aggiunto che, anche dopo la morte di Stalin, Togliatti ha continuato ad avallare, anche se non pubblicamente, le accuse lanciate contro Bela Kun e a dare giudizi stronca tori nei confronti di Tito (cfr. Archivio Secchia, cit., p. 490). 6 Di particolare interesse appaiono a questo proposito le testimonianze di Pietro Secchia. Questi parla, per esempio, del «solito sistema di Togliatti» che era <<lanegazione non solo dell'elaborazione collettiv,!, ma anche della direzione collettiva» (Archivio, cit., p. 244.) e pubblica una lettera di TogIiatti successiva al XX Congresso da cui emerge chiaramente la concezione paternalistica e verticistica di quest'ultimo «<le critiche generali all'attività del partito, quando si ritiene necessario che awengano, si preparano, si impostano, si guidano, si dirigono» (ivi, p. 679).

glio alla campagna denigratoria contro i comunisti jugoslavi e si associava al plauso della riedizione postbellica dei processi staliniani, in paesi come la Cecoslovacchia o l'Ungheria? O che, colui che è stato presentato, in ispecie dopo la sua morte, come un illuminato fautore dell'autonomia della cultura, si era ben guardato dall'esprimere la benché minima riserva sui fasti deldirealismo socialista o sulle devastratrici campagne "culturali" Andrej Zdanov? Abbiamo visto, d'altra parte, come quelli che sono stati sempre giudicati gli aspetti più positivi della sua azione _ la politica dei fronti popolari e quella di coalizione antifascista - non rappresentassero affatto un suo contributo originale, ma fossero dettati dall'impostazione strategica di Stalin, della burocrazia sovietica e di una direzione del Comintern priva di ogni reale autonomia. Una relativa originalità va ricercata, casomai, in forme specifiche di applicazione o in orientamenti tattici particolari. Su questo terreno, Togliatti si è spinto a volte più avanti di altri, per esempio per quanto riguarda i modi della svolta di Salerno e la votazione dell'articolo 7 della Costituzione7. Venendo al Togliatti della fase della crisi dello stalinismo, non depongono certo a suo favore le posizioni di completa chiusura e di condanna degli "eretici" assunte di fronte alla rottura tra Stalin e la Jugoslavia. Ma anche dopo il XX Congresso Togliatti cerca di delimitarne la portata, circoscrivendo la condanna dello stalinismo e ponendo sullo stesso piano - nella fin troppo celebrata intervista a Nuovi Argomenti

-

gli autori delle spaventose re-

pressioni e le loro vittime. E quando i dirigenti sovietici manifestano il loro disappunto per le critiche tutt'altro che radicali di cui erano stati oggetto, opera un rapido ripiegamento, 7 Secondo una testimonianza di Emilio Lussu, Togliatti gli avrebbe detto venticinque che grazie aanni! quel voto il Pci sarebbe rimasto al governo con la Dc per

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I

mettendo per ~ualche tempo la sordina ai temi prudentemente sollevati . Nello stesso 1956, non solo approva l'intervento contro la rivoluzione in Ungheria, ma si associa alla campagna contro gli insorti. TI suo articolo di stroncatura di una raccolta di scritti di intellettuali ungheresi, comparso su Rinascita, è tipico del suo modo di polemizzare, della sua concezione-burocratica nel senso più pregnante del termine della natura della sua azione "destalini'natrice". Non esita neppure a criticare in termini sprezzanti i grandiosi funerali di Léisz16Rajk, cerimonia riparatrice di un odioso crimine dello stalinismo, e una delle manifestazioni

E un anno dopo, in una annotazione tesa a spiegare i suoi giudizi elogiativi di Stalin, riprende il vecchio motivo:

I

diminuiscono

-

I

più struggenti di cui ~ia stato protagonista il movimento di

massa antiburocratico

. Non

va neppure

dimenticata

la fred-

dezza inziale di Togliatti nei confronti di Gomu1ka, nel momento in cui qurst'ultimo era espressione dell'opposizione polacca, e la sua interpretazione di classico stampo staliniano delle lotte operaie e popolari a Poznan, quando l'Unità non esitava a scrivere:

e la genialita del suo autore»

.

La stessa analisi delle cause e del significato della degenerazione staliniana - nella misura in cui viene abbozzata, nella già menzionata intervista a Nuovi Argomenti o nel numero speciale di Rinascita per il quarantesimo anniversario della Rivoluzione d'ottobre è un'indicazione trasparente della sua concezione della "destalinizzazione" e della sua volontà di coprire le sue corresponsabilità passate12. Meriterebbe, in particolare, di essere inclusa in un'antologia dell'autogiustificazionismo l'affermazione:

-

condanneillegalie ingiuste»

.

Come tutti coloro che hanno fatto, e magari fanno tutttora, ricorso ad argomenti simili, non si accorge che, se la sua versione fosse vera, comporterebbe un giudizio non meno negativo: pur essendo vissuto per lunghi anni nell'Urss, non si era reso conto assolutamente di nulla e non aveva capito affatto il corso degli avvenimenti, la loro dinamica devastratrice: per un dirigente e intellettuale "marxista", davvero non c'è male!

Di più: anche dopo il XXII Congresso del Pcus (1961), Togliatti si oppone a coloro che vogliono spingere più avanti la critica dello stalinismo e arriva al punto di minacciare la costituzione per sua iniziativa di una tendenza fùosovieticalO.

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la grandezza

«Dei fatti che oggi vengono denunciati noi non avevamo e non potevamo avere nozione alcuna... Ci dicono ora che nell'Unione Sovietica vi furono al tempo Ai Stalin processi che si conclusero con

«Il nemico è stato presente a Poznan nel modo che sempre più chiaramente [sic.1ci risulta».

8 Solo al IX Congresso, nel 1959, Togliatti farà sapere di non aver rinunciato a certi suoi punti di vista. 9 L'antologia era stata pubblicata anche in Italia (Laterza, Bari, 1957) con il titolo di Iridalmi Ujstig ("Gazzetta letteraria"). La maggior parte degli autori, contrariamente a quanto vuoI fare credere Togliatti, erano favorevoli a una trasformazione democratica dell'Ungheria in senso socialista. A proposito dei funerali di Rajk, parla di «macabra, assurda, esasperante parata». lO Cfr. Giuseppe Fiori, Vita di Enrico Berlinguer, Laterza, Bari, 1989, p. 118.

«Le rivelazioni e le critiche all'opera di Stalin che vennero fatte al XX Congresso del Pcus e in se~ito rese pubbliche, non

11 «Momenti

,l

della storia d'Italia»,

ci!. in Critica marxista, numero

speciale

ci!., p. 206. 12 Secondo Secchia, Togliatti «una discussione sul passato non la voleva perché egli ne sarebbe uscito come il più grande responsabile, quanto meno per quanto riguardava le posizioni assunte da noi italiani e la politica svolta IO Italia... Desiderava temporeggiare per vedere di lascl8re le cose, soprattutto per quanto riguardava i metodi di direzione, come stavano» (Archivio Secchia, cit., p. 303). 13 Dall'intervista citata.

81


L'atteggiamento più generale di Togliatti a proposito della desta1inizzazione fornisce, in ultima analisi, una chiave interpretativa della sua personalità. Egli aveva capito che i metodi e le concezioni di Stalin avevano fatto il loro tempo dal punto di vista stesso delle esigenze di conservazione dei regimi esistenti e che bisognava mutare rotta. Ma mutare rotta significava per lui innovare nella misura necessaria per mantenere una sostanziale continuità. I suoi interventi dal 1956 alla morte (nel 1964) lo dimostrano inequivocabilmente. Ma c'è un altro aspetto niente affatto secondario. Se si considerano in astratto le sue propensioni culturali, la sua formazione, la sua mentalità, il suo stile, si può affermare con qualche fondamento che lo stalinismo non gli era congeniale. Questo spiega sia certe riluttanze iniziali, sia l'atteggiamento degli ultimi anni della sua vita, sia certi suoi modi di tradurre in pratica lo sta1in.ismomentre era ancora in auge. Come temperamento e come tendenza, Togliatti si collocava piuttosto nella corrente di destra del movimento comunista: di qui la sua affinità con Bucharin in un certo periodo della storia del Pcus e della Terza internazionale. In questo senso, era l'uomo più dei fronti popolari che del terzo periodo, più della coalizione antifascista che della guerra fredda, più di una concezione e prassi paternalistica che di una concezione e prassi repressiva e terroristica. Dimenticando questo aspetto, ci si preclude la possibiltà di giungere a un giudizio complessivo; ma, d'altra parte, sarebbe arbitrario passare sotto silenzio il fatto che non ha mai osato oppporsi allo stalinismo - anche quando, forse, nel suo foro interiore, giudicava Qefasta la linea che veniva imposta - e che, in pratica, ne è stato per decenni lo strumento, anche al prezzo di una distorsione della sua personalità. In ultima analisi, per esprimerci in questi termini, le sue particolarità, lungi dal dimuinuirle, accrescono le sue responsabilità.

Si è attribuita un'importanza eccezionale al suo ultimo scritto, il Memoriale di falta, che rispecchia indubbiamente, più di qualsiasi altro, le sue conclusioni su problemi centrali del movimento comunista. Se si giudica questo testo dal punto di vista del valore intrinseco, è difficile sopravvalutarne la portata. Le osservazioni più importanti

-

e meno contestabili

per esempio, su diversi piani, le critiche alle strutture burocratiche dell'Urss, le enunciazioni sulla specifIcità della dialettica propria dell'arte e della cultura, la constatazione della necessità di un coordinamento europeo delle lotte sindacali nell' epoca del Mercato

comune

- non

fanno che riprendere,

con ritardo evidente e con timidità estrema, quello che marxisti rivoluzionari avevano sostenuto sin dagli anni '30, altre correnti del movimento operaio egualmente da lunga data, i comunisti jugoslavi dagli anni '50, per non parlare, per certi aspetti, dei riformisti socialdemocratici e, per quanto riguarda le lotte in Europa, di gruppi e tendenze sindacali di vari paesi. Sarebbe, dunque, per lo meno esagerato parlare di originalità, come invece si è fatto e si fa ancora. Ma era importante che certe cose fossero dette, sia pure, ripetiamolo, con ritardo e non senza reticenze, da parte di un uomo come Togliatti e da un partito comunista con grande influenza di massa e prestigio mondiale. Era importante che ci si pronunciasse contro ogni nuova irreggimentazione del cosiddetto movimento comunista internazionale; che si den~ciasse la debolezza strategica di fondo di certi partiti comunisti dell'Europa occidentale e l'inefficienza di certi organismi (come la Federazione sindacale mondiale); che si segnalasse, sia pure più implicitamente ch esplicitamente, la carenza di elaborazione teorica e politica sui problemi della lotta dei popoli coloniali e neocoloniali. Il Memoriale ritorna, d'altra parte, su temi già acquisiti dal Pci, dando una maggore coerenza.alle sue concezioni ed ai suoi orientamenti neoriformistici e rimettendo in discus-

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sione tra l'altro, ancor più apertamente, la concezione leniniana dello Stato. Ma anche a questo proposito l'originalità è più che discutibile: all'elaborazione su questo piano altri dirigenti e intellettuali del partito hanno dato contributi più validi e più concreti, con analisi particolari, effettivi approfondimenti, tentativi meno sommari di interpretazione della realtà del capitalismo degli anni '50 e '60: tutte cose che cercheremmo invano nelle quasi sempre generiche e allusive formulazioni togliattiane (caratterizzate, tra l'altro, da una singolare carenza di analisi dei fenomeni economici). Ed è significativo, per di più, che Togliatti non dicesse nulla degno di attenzione su avvenimenti come gli sviluppi rivoluzionari allora in corso a Cuba e in Algeria. In un articolo sull'opera del dirigente democristiano Alcide De Gasperi14, Togliatti ha indicato nei termini seguenti quale dovesse essere "la pietra di paragone" delle capacità di un personaggio politico: «In che misura i suoi orientamenti ideali e la sua personale perspicacia gli consentono di comprendere il corso delle cose, di decifrare, fra la confusione degli accadimenti singoli, ciò che è essenziale e soprattutto ciò che è nuovo e in cui, quindi, è contenuto il germe dell'awenire? in che misura riesce egli a ricavare dai suoi princìpi una linea di condotta tale che lo renda padrone degli eventi, tanto che questi prendano e conservino l'impronta che egli ha voluto dare?»

Se applichiamoquesti criteri - a prescindere da una certa

-

intonazione illuministica a un giudizio su chi li ha enunciati, non possiamo ricavarne una valutazione complessivamente favorevole. Sarebbe, infatti, difficile sostenere che Togliatti avesse previsto «il corso delle cose» e ancor meno «decifrato» il «germe dell'avvenire» negli anni '30 e nell'immediato dopoguerra, per non riferirci che a questi due momenti. Ha 14 Rinascita,

84

ottobre

1955.

accettato, fatto proprio e "teorizzato" lo stalinismo, e formulato nel 1944-45 un progetto strategico rivelatosi intrinsecamente inconsistente. Nel periodo successivo si è via via adattato agli avvenimenti, spesso con abilità e con perspicacia, ma, per parafrasare la sua espressione, non se ne è minimamente «reso padrone». In particolare, proprio nella misura in cui il suo sforzo maggiore è stato quello di spiegare a posteriori ciò che era accaduto e con un metodo ispirato alla variante giustificazionistica dello storicismo, non poteva essere originale come teorico15. Uomini che lo hanno visto all'opera da vicino, in epoche diverse, hanno espresso giudizi più o meno drasticamente negativi. Così, secondo Pietro Tresso, Togliatti «non crede in nessuna politica, ma è un awocato pronto sempre a difendere tutte le cause, a sostenere tutte le linee politiche e cioè tutte quelle che sono le dominanti in un dato momento. Quando nell'le dominava Bucharin, era con Bucharin; adesso che c'è state la svolta, s'è messo dalla parte del vincitore, dalla parte di Stalin» .

Non meno duro, nella sostanza, il giudizio di Pietro Secchia che, a proposito di dichiarazioni di Togliatti sullo scioglimento del Cominform, annota: «Queste ed altre sa~e considerazioni di Togliatti arrivano sempre con molti anni di ntardo, giungono cioè quando non occorre più nessun coraggio per manifestarle, giungono nel momento in cui la"svolta" si è realizzata, la "decisione" è stata presa e sarebbe anzi imprudente opporvisi e resistere. Ed allora, in luogo di limitarsi a fare quello che fanno gli altri, e cioè a riconoscere che è giusto cambiare, egli assume il tono del primo della classe, l'atteggiamento di chi wol dare a intendere "lo 15 Secondo Spriano, gli aspetti originali dell'apporto teorico-politico di Togliatti sarebbero stati il giudizio sulla religione e sulla coscienza religiosa e sul problema della guerra nucleare (Critica marxista, numero speciale, cit.). Sarebbe eccessivo dire che si tratta di elaborazioni organiche e originali. Ma è vero che Togliattiè stato tra i primi a sollevare questi problemi nei partiti comunisti. 16 Citato inArchivio Secchia, citop. 158.

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avevo sempre detto", di chi prima aveva accetttato soltanto per disciplina e che finalmente può esclamare "ecco, avevo ragione io". In realtà, egli quasi sempre ha accettato tutti gli indirizzi che nei diversi periodi l'Internazionale comunista e poi l'Informbureau avevano avuto, li ha accettati, sostenuti e difesi sempre con energia, dimostrando la più profond'fonvinzione, battendosi contro coloro che esprimevano dei dubbi» .

Si può tener conto, nel primo caso, di una certa estremizzazione polemica in una dura lotta di frazione, nel secondo di un risentimento per torti subìti. Ciò non toglie che Tresso e Secchia colgano entrambi un aspetto incontestabile, niente affatto secondario, della personalità di Togliatti. Dopo tutto, va nello stesso senso la considerazione che faceva Gramsci, reagendo alla critica di Togliatti alla famosa lettera al Comitato centrale del Pcus: «Saremmo dei rivoluzionari ben pietosi e irresponsabili se lasciassimo passivamente compiersi i fatti compiuti giustificandone a priori la necessità... Quest~ .tuo l!Podo di pensare mi ha fatto una impressione penosIssima» .

Ma, in una valutazione complessiva, può essere giudicato con fondamento come suo apporto specifico anche se, c'è appena bisogno di 0010, non esclusivamente personale -l'azione condotta nell'arco di vent'anni per trasformare un partito staliniano in partito neoriformistico, socialdemocratico, mantenendone, se non accrescendone, l'influenza di massa e la forza di attrazione a livello culturale. Questo disegno non era stato concepito in modo organico sin dall'inizio, perché Togliatti era lungi dal prevedere tutti i fattori interni e internazionali che ne avrebbero permessa l'attuazione e, di fatto, in momenti diversi e con diverse argo-

-

17 Ibid, pp. 298-299. AI momento della morte di Togliatti, Secchia esprimeva un giudizio più favorevole, che tuttavia non annulla le considerazioni suaccennate (ibid., p. 546). 18 Cfr. La costruzione del Partito comunista 1923-1926, Einaudi, Torino, 1971, p. 135.

mentazioni, si era preoccupato di tracciare una linea divisoria tra il suo partito e il riformismo tradizionale. Ma che sin dal 1944-45 avesse cominciato a pensare in termini di progetto neoriformista, lo si può dedurre, più ancora che dalla strategia elaborata allora, da qualche presa di posizione significativa, anche se particolare. Per esempio, nella sua relazione al V Congresso, il primo tenuto dopo quindici anni, si riferiva positivamente a un "famoso" discorso di Turati del giugno 1920, che i vecchi riformisti dovevano citare come uno dei suoi capolavori (e massimalisti e comunisti, invece, duramente criticare). In questo discorso, Turati aveva avanzato proposte per la ricostruzione economica postbellica non senza analogie con quelle che avrebbe avanzato quarantacinque anni dopo il Partito comunista. Secondo esempio: in un discorso del maggio 1950, Togliatti rettificava largamente, se non addirittura capovolgeva, il tradizionale giudizio gramsciano e comunista e non solo comunista su Giolitti, presentando il vecchio leader borghese come un liberale progressista, comprensivo delle esigenze popolari19. Ancora: secondo Lelio Basso, gli avrebbe detto un giorno:

-

-

«Non devi pensare che il Partito comunista resterà sempre così. Prima o poi, dovrà cambiar~anche nome, diventare un grande partito unico dei lavoratori...» .

Ecco un Togliatti... prercursore di Occhetto!

19 Salvemini polemizzava con il giudizio di Togliatti su n ponte del febbraio 1952. Anche Secchia è critico nei confronti di questo ~udizio (Archivio, cit., p. 453). Per parte nostra, abbiamo analizzato il si~lficato del discorso di Togliatti nel nostro AttUalità di Gramsci e polittca comunista, Schwarz, Milano, 1955, pp. 32 e sgg. 20 Corrieredel[asera, 21 agosto 1985.

87 86


Berlinguer:

compromesso storico ed eurocomunismo

Enrico Berlinguer aderisce al partito nel 1944,in una Sardegna allora isolata dal continente. Quindi, non solo non ha accumulato, per ragioni di età, l'esperienza dei militanti degli anni '20 e '30, ma neppure partecipa alla resistenza. Assume rapidamente incarichi di direzione, per cooptazione, e compie la sua esperienza già inserito ai livelli più alti dell'apparat021.Saranno le esigenze e i meccanismi dell'apparato e del suo gruppo dirigente a determinare le tappe della sua ascesa Cedi qualche temporanea battuta d'arresto). La stessa designazione a segretario non sarà dovuta a un riconoscimento di qualità superiori a quelle di altri membri della direzione e ancora meno a una maggiore popolarita nelle file del partito e tra le masse. In realtà, sulla sua persona si realizzerà un accordo tra "correnti" o sensibilità diverse, presenti negli anni '60 e al momento della sua elezione, nessuna delle quali avrebbe accettato una scelta che sembrasse determinare un'opzione più chiaramente definita. Se si considera che Togliatti aveva assunto, nella topografia del partito, un ruolo di centro, in questo senso Berlinguer ha voluto essere ed è stato il suo continuatore. Ma è diventato segretario in un periodo in cui il partito aveva ormai concezioni e orientamenti e una collocazione internazionale ben diversi non solo da quelli dell'immediato dopoguerra, ma anche da quelli della fine degli anni '50. Più in particolare, Berlinguer, che era stato staliniano, quando tutti gli altri lo erano, ma non si era formato nella fase di maggiore auge dello stalinismo e aveva matrici culturali diverse da quelle dei suoi predecessor~ era maggiormente in grado di accompagnare, 21 E' nota la battuta di Pajetta secondo cui Berlinguer avebbre aderito da giovane alla direzione del partito.

stimolare e accentuare progressivamente l'evoluzione ulteriore del partito verso la rottura completa del cordone ombelicale con l'Urss e il tradizionale "movimento comunista" e la sua trasformazione in partito neoriformista. L'opera di Berlinguer nei dodici anni tracorsi alla testa del Pci sarà ricordata soprattutto per l'adozione della strategia del compromesso storico e, complementarmente, per il progetto eurocomunista. Come è noto, la strategia del compromesso storico è stata formulata in un saggio comparso su Rinascita subito dopo il colpo di Stato militare in Cile. Lo scopo che ci si prefiggeva non era solo di tenere conto di una drammatica esperienza nell'elaborazione di una prospettiva di governo per la sinistra, ma anche, contemporaneamente, di indicare uno sbocco alla situazione di ormai cronica instabilità dei governi di centro-sinistra e alla crisi sociale e politica ancora aperta dal 1968. Berlinguer continua a richiamarsi, nelle linee generali, all'impostazione togliattiana di graduali trasformazioni riformistiche da Togliatti mutua la stessa formula "compromesso storico"). L'idea di "democrazia progressiva" è sostituita dall'idea di "risanamento e rinnovamento democratico" dell'intera società e dello Stato, unico modo di «creare fm d'ora le condizioni per costruire una società e uno Stato socialista». In realtà, dato e non concesso che fosse strettamente pertinente un paragone tra un paese, nonostante tutto, sottosvilupp.ato e necoloniale come il Cile, e un paese capitalistico industrializzato e imperialistico come l'Italia, l'esperienza cilena avrebbe dovuto permettere di capire, più di prima, quali siano i termini dell'alternativa qualora si intraprenda un progetto di graduali trasformazioni riformistiche, verso il socialismo. Delle due l'una: o il progetto resta sostanzialmete sulla carta, non si registrano che mutamenti parziali, marginali, C

-

-

88 89


che comunque non rimettono in discussione rapporti economici e sociali fondamentali, e in questo caso si evita lo scontro diretto tra le classi antagonistiche per la semplice ragione che il regime esistente non si sente minacciato; o si cominciano ad attuare effettive riforme di struttura, in un contesto di crescente mobilitazione della classe operaia e di altri strati popolari, e allora, prima o poi, lo scontro risulta inevitable. Proprio questo è accaduto in Cile e l'esito è stato quello che sappiamo, perché alla prova di forza le classi dominanti e i loro apparati sono giunti preparati, mentre Allende, socialisti, comunisti, organizzaioni sindacali, movimenti contadini ecc. non lo erano affatto e non avevano preso, se non tardivamente e in misura irrisoria, le misure di autodifesa necessarIe. Berlinguer elude semplicemente questa problematica e centra il suo discorso sulle alleanze e sul blocco-politico-sociale, necessario, a suo avviso, per realizzare il progetto enunciato. Non basta, spiega, puntare elettoralmente su una maggioranza del 51%, su un blocco delle forze di sinistra, ma bisogna perseguire «una collaborazione e intesa di forze popolari di ispirazione socialista e comunista con le forze popolan dI ispirazione cattolica, oltre che con formazioni di altro onentamento democratico».

Più in concreto, è la stessa Dc che dovrebbe essere parte in causa di questa operazione. Anticipando le obiezioni, Berlinguer respinge ogni defInizione della Dc come «categoria astorica, quasi metafIsica» - e sin qui non fa che sfondare, dal punto di vista del metodo, porte aperte. Aggiunge, però, che la Dc subisce, in realtà, un condizionamento duplice: da una parte, quello di «gruppi dominanti della borghesia» e, dall'altra, quello di «altri ceti»; e il secondo condizionamento potrebbe, in prospettiva, prevalere. Dunque, la concezione gradualistica è ormai applicata anche alla defInizione della Democrazia cristiana! 90

Che questa ipotesi avesse ben poco fondamento lo avevano già dimostrato trent'anni di storia italiana: la Dc era stata lo strumento politico fondamentale della borghesia e aveva svolto la funzione di assicurare, tramite la sua ideologia composita e flessibile, l'egemonia della borghesia stessa su vasti strati della società. Che tale ruolo sia mutato nel ventennio successivo, è arduo sostenerlo; casomai, è divenuta ancor più conservatrice e meno democratica. Il compromesso storico si basava, quindi, su un presupposto inconsistente. Lo stesso Berlinguer doveva riconoscere nove anni più tardi di essersi sbagliato puntando sull'ipotesi che ,<laDc p2!esse dawero rinnovarsi e modificarsi, cambiare metodi e politica» .

Saremmo ingiusti verso Berlinguer se non accennassimo allo sforzo che ha compiuto al XIV Congresso (1975) per definire meglio la sua strategia inserendola più organicamente in un quadro storico-teorico. In quell'occasione, annunciava una nuova variante della "democrazia progressiva" (o della "trasformazione democratica e socialista", secondo la formula del Congresso del '56): «una seconda tappa della rivoluzione democratica e antifascista» (la prima essendo stata interrotta nel 1947), il cui sbocco finale avrebbe dovuto portare «ad uscire fuori dalla logica dei meccanismi del sistema capitalistico» . E per avallare tale impostazione, si lanciava in un excursos storico che vale la pena di richiamare, nonostante la lunghezza della citazione, non fosse che perché si tratta di una delle poche volte in cui Berlinguer non sente il bisogno di 22 Intervista a La repubblica, 28 luglio 1981. Va aggiunto, però, che la portata dell'autocritica è limitata, da un lato, dalla precisazione: «o meglio i mezzi usati non conseguivano lo scopo», dall'altro, dall'affermazione: «L'alternativa democratica è per noi uno strumento che può servire anche a rinnovare

i partiti, compresa

la Dc». Dunque,

la prospettiva

"rinnovare la Dc" non era neppure allora abbandonata.

- iIIusoria - di 91


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suffragare le sue affermazioni con riferimenti a elaborazioni passate del partito e di Togliatti in particolare: «Se si guarda alla storia del nostro paese, troviamo che le forze progressiste rivoluzionarie che hanno awto, a seconda dei periodi, natura di classe e orientamenti ideali diversi, sono riuscite a fare avanzare il corso reale degli awenimenti solo quando hanno saputo tener conto di due fattori: quello internazionale e quello interno; e quando, con iniziativa rinnovatrice e stimolatrice, accompagnata da un vi~le senso realistico, esse hanno saputo trascinare verso obiettivi di mutamento positivo dell'assetto sociale e politico altre forze non rivoluzionarie, ma anch'esse in qualche misura interessate o sensibili a obiettivi di progresso ttenerale della nazione italiana. Ma troviamo nella storia italIana anche il contrario e cioè momenti in cui le forze rivoluzionarie e progressiste non hanno saputo esercitare questa loro funzione stimolatrice e rinnovatrice... Questa è la lezione di strategia di oltre mezzo secolo di storia nazionale. Questa lezione è che le forze rivoluzionarie cambiano evitando gli errori dawero il corso degli awenimenti quando opposti, ma che le rendono egualmente subalterne, del codismo e del settarismo estremista e radicaleggiante esse sanno stare nel filo della corrente che avanza e sanno associare alla loro lotta le forze più varie. Ogni avanzata, ogni reale progresso sociale, politico e ideale è stato sempre il frutto di un'alleanza di forze diverse non omogenee, ma eterogenee sia materialmente che idealmente. Ma questa non è solo l'enunciazione di una strategia unicamente politica e unicamente nostra. E' per noi, e pensiamo debba divenire per tutti, una visione generale dei modi secondo cui può svilupparsi la società italiana, possono svilupparsi i rapporti politici, quelli tra le singole persone e quindi la stessa vita morale. Uno dei caratteri d'marxismo italiano è sempre questo».

-

L'interpretazione del Risorgimento come un processo storico contraddistinto da compromessi non è di per sé una novità e Berlinguer avrebbe potuto richiamarsi tranquillamente a Gramsci. Ma quella che in passato era stata una interpretazione degli avvenimenti, diventa una indicazione di strategia politica, quasi una concezione del mondo. Su questo terreno viene individuata la specificità più profonda della "viaitaliana al socialismo"! C'è bisogno di ricordare che la lettura del Risorgimento come compromesso, in Gramsci e, mutatis mutandis in stu92

diosi come Salvemini o come Dorso, non era disgiunta dalla denuncia del prezzo pagato per tale compromesso? Le stesse Tesi di Lione erano ritornate esplicitamente sulla portata conservatrice e sulle conseguenze negative del compromesso risorgimentale. Berlinguer sembra dimenticare tutto questo e all'astrazione determinata preferisce l'astrazione metastorica. In altri termini, i vecchi mali dell'Italia

- tutte

le "arretratezze"

e tutte

le "distorsioni", tutte le strozzature nello sviluppo della rivoluzione democratica - potrebbero essere superati con una nuova prassi di "compromesso", mentre proprio nei compromessi storici precedenti dovrebbe esserne individuata la radi ce., E' nel momento della sua maggiore influenza, soprattutto a livello elettorale e parlamentare, alla metà degli anni '70, che il Pci partecipava con un ruolo di primo piano all'elaborazione del progetto eurocomunista. Era un tentativo, con ambizioni di sistematizzazione teorica e strategica, di affrontare i problemi che la dinamica del Mercato comune poneva al movimento operaio; di dare una risposta agli interrogativi posti dalla crisi dello stalinismo e dei "paesi socialisti"; di ridefInire un'identità dei partiti comunisti di fronte alle socialdemocrazie; di accrescere il peso di quelli che erano allora i grandi partiti comunisti del mondo capitalista con una prospettiva di azione comune. Di rado progetto tanto ambizioso si è concluso così rapidamente e con un così clamoroso fallimçnto. Vi hanno contribuito gli insuccessi del Pcf e le sue marce indietro sullo stesso terreno su cui l'accordo era stato raggiunto, il rapido declino e la crisi lacerante del Pce, oltre che l'indebolimento delle posizioni dello stesso Pci già a partire dal '79. Tutti questi avvenimenti non potevano non intaccare la credibilità e la forza di attrazione di un polo eurocomunista, 93


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distinto da quello dei pariti socialdemocratici. Ma, al di là, di queste vicende, l'eurocomunismo entrava in crisi e spariva dalla scena per le contraddizioni che lo avevano segnato sin dall'inizio. In primo luogo, l'autonomia nei confronti dell'Urss e la critica alla sua direzione potevano offrire vantaggi tattici congiunturali, ma provocavano inevitabilmente una diluizione di identità. Parallelamente, l'abbandono del modello "storico" di socialismo permetteva di non continuare a condividere pesanti responsabilità, ma comportava un appannamento di prospettiva strategica in quanto veniva meno il riferimento a un'esperienza storica concreta e, in cambio, non si andava al di là di ipotesi generiche che, nella misura in cui si precisavano, erano sempre più simili a quelle tradizionali della socialdemocrazia. L'inserimento sempre più profondo nelle istituzioni e nei meccanismi della società esistente aumentava l'influenza in vari campi e consentiva di pesare di più nel giuoco politico "normale", ma impediva di apparire come una vera alternativa, in particolare agli occhi degli strati più colpiti dall'onda lunga di ristagno. D'altra parte, il tentativo di far emergere un'alternativa a livello europeo era ostacolato sin dall'inizio dal fatto che gli stessi partiti eurocomunisti tendevano a differenziarsi su questioni non secondarie - come l'atteggiamento verso la Nato, l'allargamento del Mercato comune e la politica nei confronti dei socialisti - in rapporto, in ultima analisi, alle loro esigenze "nazionali" e alle differenziazioni esistenti negli stessi gruppi dirigenti borghesi dei loro rispettivi paesi. Infme, l'eurocomunismo non poteva evitare un'altra, fondamentale contraddizione: nella misura in cui una strategia riformista in un contesto dato poteva disporre di margini di concretizzazione ed era accettabile da parte di larghi settori di massa, i partiti socialdemocratici apparivano neccssaria-

94

mente come strumenti più credibili, sia per le loro tradizioni, sia per il loro più sistematico inserimento nelle istituzioni democratico-borghesi. E' quanto avveniva in Portogallo, Spagna, Francia e nella stessa Grecia. In Italia, il divario dei rapporti di forza a partire dalla fine degli anni '40 ha costituito un serio elemento di freno, ma neppure questo ha potuto alla lunga scongiurare l'ormai prolungato declino del Pci23. Due altri apporti di Berlinguer all'evoluzione ideologica e politica del suo partito continuano a essere messi in risalto: l'affermazione del "valore universale della democrazia" e l'idea-forza dell"'austerità". Per quanto riguarda la concezione della democrazia, da adepti impenitenti del materialismo storico contestiamo il concetto stesso di "valore universale". La democrazia è una categoria storica che non può essere correttamente definita facendo astrazione dai suoi concreti contenuti, dal contesto socio-economico in cui si realizza: altrimenti, si usa un concetto metastorico, assolutamente astratto, in ultima analisi di ben scarso valore operativo. Comunque sia, non si tratta affatto di un apporto originale di Berlinguer o di altri dirigenti o teorici del Pci, che su questo terreno - dovrebbe essere arcinoto - sono stati preceduti sia da teorici liberai democratici, sia, per attenersi al movimento operaio, dalla socialdemocrazia da circa un secolo a questa parte. .Quanto all'austerità, alla lettura delle defmizioni più pubblicizzate - per esempio, quella del discorso di Berlinguer all'Eliseo o quella delle tesi del XV Congresso - c' è da chiedersi se non si tratti di un abuso concettuale o terminologico. 23 Per un'analisi più ampia dell'eurocomunismo e delle sue varianti (in particolare, quella ingraiana) si veda il nostro Destino di Trockij, cito e soprattutto il capitolo «Teorizzazioni e mistificazioni dell'eurocomunismo». Si veda anche un nostro articolo comparso sulla rivista canadese Critiques socialistes, autunno 1986.

95


l Qtie1la che si ipotizza è una trasformazione radicale delle scelte economiche, della gerarchia dei consumi, dei modi di vita e delle aspirazioni culturali, tutte cose che con l'austerità comunemente intesa hanno ben poco a che(vedere e che, nel contesto e nella prospettiva politica in cui venivano enunciate, non potevano che apparire illusorie, una musica di un futuro indefinito24. Formulazioni che si riducevano a ideologia mistificatoria, dato che il Pci appoggiava in quel periodo governi cosiddetti di unità nazionale, che dell'austerità davano una interpretazione molto più prosaica2S,invitando i lavoratori a stringere la cintola! A varie riprese, specie negli ultimi anni della sua vita, Berlinguer ha sottolineato con accenti volutamente drammatici i pericoli che incombono sulla società umana e, parafrasando Marx, ha prospettato l'eventualità che, in assenza di trasformazioni rivoluzionarie,

più dure lotte: non potrà certo essere quella la via prendere

24 Cfr., tra l'altro, a questo proposito, la scelta di scritti di Berlinguer in Rinascita, n. 25 (22 giugno 1984). Significativa la seguente citazione: «Lungi dall'essere una concessione ai gruppi dominanti o alle esigenze del capitalismo, l'austerità può diventare una scelta consapevole contro di essi, e perciò con un alto e avanzato contenuto di classe; può e deve essere uno dei modi attraverso cui il movimento operaio si fa portatore di un modo diverso del vivere sociale, conduce la lotta (nelle condizioni di oggi) per i suoi antichi e sempre validi ideali. Nelle condizioni odierne, infatti, è impensabile impostare una lotta reale ed efficace per una società superiore senza muovere dalla prima imprescindibile necessità dell'austerità». 25 Nelle tesi congressuali già citate si parla della necessità di frenare i salari. 26 Per esempio, nel discorso dell'Eliseo già richiamato.

96

- di

- per ri-

«superare progressivamente la logica deU'imperialismoe del capitalismo».

E' vero che Berlinguer ha avanzato la prospettiva di "un governo mondiale"

I

li ,

«si vada incontro alla rovina delle classi sociali in lotta» 26.

Sono preoccupazioni angosciose, che condividiamo. Ma le soluzioni prospettate sono senza comune misura con i problemi sollevati. Non dimentichiamo che proprio durante la segreteria di Berlinguer il Pci ha accettato quel Patto atlantico, contro la cui stipulazione aveva condotto una delle sue

una sua espressione

I

- e questa

sarebbe, secondo i suoi sosteni-

tori, un'altra delle sue idee più valide e originali. Senonché, prospettare un governo mondiale senza legare questa ipotesi a un progetto di trasformazione rivoluzionaria radicale, a un rovesciamento del sistema esistente, è una pura e semplice utopia. Né le cose vanno meglio quando, per essere più concreti, si presenta l'Onu scudo dei loro interessi

- dominata - come una

delle grandi potenze e prima approssimazione

dell'auspicato governo mondiale. Quanto poi all'originalità, commentatori di buone letture hanno ricordato che il governo mondiale era stato prospettato niente meno che da Immanuel Kant, non più nostro contemporaneo di Karl Marx o di Rosa Luxemburg, per non parlare, si parva licet componere magnis, dei dirigenti della socialdemocrazia, che hanno inserito da tempo la formula suaccennata in loro testi ufficiali27. Anche su questo piano le contraddizioni del berlinguerismo appaiono in piena luce.

27

Per esempio, in occasione

del Consiglio generale

di Oslo del 1962.

97

I


6. L'ULTIMA SVOLTA?

«La democrazia economica rappresenta una nuova frontiera della democrazia politica e la sua espansione nella sfera dei poteri sociali. Essa deve investire diversi campi: riforma dello Stato sociale; democratizzazione dell'impresa; redistribuzione dei redditi, della ricchezza e della proprietà; creazione di nuove forme di imprenditorialità. La lotta per la democrazia economica deve qualificarsi come crescita delle possibilità di accesso dei lavoratori alla conoscenza e al ~overno delle trasform~ioni dell'impresaa e delle loro implicaziom

Si potrebbe affermare, un po' paradossalmente, che, se Occhetto avesse proposto per il XIX e per il XX Congresso più o meno gli stessi testi che ha redatto da un anno a questa parte senza collegarli alla proposta di cambio del nome del partito, avrebbe riportato, grosso modo, il successo del congresso precedente, senza provocare troppe lacerazioni ed evitando pericoli di scissione. Una simile affermazione racchiuderebbe un grano di verità. Infatti, l'iniziativa di Occhetto non è stata affatto un fulmine a ciel sereno, e da due punti di vista: perché è stata lo sbocco di un processo di decenni e perché era stata aticipata al XVIII Congresso, celebrato, come si ricorderà, all'insegna del "nuovo corso" e del "riformismo forte". Già allora la "novità" era consistita, in buona sostanza, nell'abbandono d'ogni impostazione classista, sul piano delle analisi e degli orientamenti: il Pci non era più presentato come il partito della classe operaia o dei lavoratori e non si usava più neppure l'espressione "movimento operaio"l. Cossutta l'aveva fatto notare nel suo intervento affermando, tra l'altro, che il partito si dirigeva verso rive libcraldemocratiche. Tra gli obiettivi centrali era stato, del resto, fissato quello di una democrazia economica abbozzata nei termini seguenti: 1 Stando ai resoconti de l'Unità, l'espressione «movimento operaio» non sarebbe comparsa che nel messaggio di Gorbaciov.

98

sociali sociali e umane»

.

Si tratta, come si vede, di concetti e propositi perfettamente accettabili da liberaldemocratici e anche da imprenditori vagamente progressisti: tanto più che sono inseriti in un orientamento «il cui primo obiettivo deve essere quello dell'allargamento della base produttiva~ di un raffozamento della produttività

generale del sistema»

.

Un altro aspetto della problematica attualmente in discussione era stato anticipato nel documento sul partito:

-

-

r

«C'è bisogno, oggi in Italia, a sinistra vi si leggeva di un moderno partito di massa e di opinione capace di rappresentare e unire domande e bisogni di ceti deboli con aspiraziom ed esigenze di ceti forti, in un progetto che, saldando chi è "nello" sviluppo con chi rischia di rcstarne "fuori", dia alla modernità una diversa qualità sociale».

t

A proposito del nuovo statuto, va dato atto a Piero Fassino di aver fornito su l'Unità, nel corso del Congresso, una giustificazione "teorica" innovativa, al di là di tutte le formulazioni usate anche da partiti socialdemocratici inseriti da più. lunga data nelle istituzionisecolo. Secondo Fassino, il nuovo statuto corrisponde a «un modello che si ispira a quello dello Stato democratico di diritto» e, più precisamente, introduce «una nuova costituzione di poteri ispirata al modello parlamentare». Il Comitato centrale è concepito «come una camera, la direzione come un governo, la segreteria come 2 3

Documento politico, II parte, punto lO. Ibid., punto 12.

99


riformisti di tipo socialdemocratico e di sostituire alla contrapposizione tra partiti del movimento operaio e partiti borghesi, la contrapposizione tra "progressisti" e "conservatori". I riferimenti, del resto annacquati e in larga misura tatticamente strumentali, al ruolo che la nuova formazione attribuirà ai lavoratori, non alterano la sostanza delle cose. Occhetto sa benissimo che senza l'appoggio (in primo luogo elettorale) delle grandi masse, composte nella stragrande maggioranza - e ciò non dispiaccia ai troppo disinvolti "modernisti" - da lavoratori salariati, nessuna forza "progressista" può sperare di imporsi. Ma questo non significa che egli accetti l'idea dell'indipendenza politica dei lavoratori come classe e della necessità della loro lotta per l'egemonia. Il concetto stesso di egemonia sembra, del resto, sparire dalla problematica occhettiana, con tanti saluti ad Antonio

l'ufficio del presidente del consiglio e viene introdotta la fi-

gura del presidente del Comitatocentrale».

.

.

Se si tien conto che il Pci si dichiara favorevole a un'accentuazione del ruolo del primo ministro, se ne può dedurre che al segretario viene assegnata una funzione nettamente preminente rispetto agli altri dirigenti4. Alla fine del congresso, l'Unità non si peritava di usare il titolo: «Il PCI di Occhetto».

Si sarebbe tentati di rievocare il famigerato culto della personalità. In realtà, non si tratta tanto di un impossibile ritorno al capo carismatico dell'era staliniana, quanto dell'intento di costruire, con un uso "moderno" dei mass media, un leader alla maniera dei partiti parlamentari più tradizionali (e da contrapporre, in primo luogo, al "decisionista" Craxi)5.

Gramsci!

.

Il "nuovo" progetto comporta, a livello ideologico, il completamento della rottura con le concezioni marxiste o più semplicemente materialistiche. Ciò si traduce, in primo luogo, in un privilegiamento sistematico dei temi politico-ideologici rispetto a quelli socio-economici. In secondo luogo, è diluita al massimo la critica alla società capitalistica e persino la contrapposizione tra le varie forze politiche. Occhetto, tra l'altro, afferma che

Lo "strappo" del 12 novembre Richiamare le anticipazioni del XVllI Congresso non significa sottovalutare lo "strappo" del 12 novembre 1989, sintetizzato simbolicamente nella proposta di cambiare il nome del partito. Il nocciolo del progetto è di superare ormai esplicitamente anche l'impostazione tradizionale dei partiti

«non si tratta di contrapporsi tra antidemocristiani e anticomunisti, come non ha senso essere antisocialisti... L'alternativa implica che una ricollocazione strategica di tutte le forze di progresso e le differenziazioni tra conservatori, moderati e riformisti sono destinate ad attraversare gli attuali schieramenti e a dar vita a inedite aggregazioni di maggioranza e a nuove aggregazioni di opposizione e, noi pensiamo, nuove forze politiche».

4 Di fatto, con il suo "colpo" del 12 novembre e con altre sue iniziative personali, Occhetto non ha fatto altro che tradurre in pratica questa concezione. 5 Va in questo senso anche il lancio del "governo ombra", sbiadita scimmiottatura della tradizionale prassi britannica. A questo proposito, è strano che non si sia notato che la scelta di Occhetto come presidente di questo governo reca il messaggio che, se potesse formare un governo vero, i! Pci sarebbe pronto a identificare capo del governo e segretario del partito, incurante di tutte le esperienze negative fatte sia nelle democrazie parlamentari sia nelle società di transizione burocratizzate.

Sempre a suo avviso, si tratterebbe di «unire, per la prima volta nella storia dell'umanità, due grandi ideali che, nel nostro secolo, sono rimasti divisi e contrapposti: l'ideale di libertà e quello di giustizia».

I 100

101


Infine, per completare il quadro, il disegno di integrazione nella sinistra europea si concretizza nel proposito di aderire formalmente all'Internazionale socialista6. La "dichiarazione di intenti" che Occhetto ha presentato nell' ottobre scorso, rilancia, con ambizioni di sistematicità, temi vecchi e nuovi, quasi tutti già presenti in relazioni, articoli e interviste, oltre che nei testi del XIX Congresso: - l'analisi della situazione mondiale nell'interpretazione gorbacioviana dell'interdipendenza e l'idea del governo mondiale, di cui l'Onu sarebbe l'anticipazione; - la riaffermazione della insostituibilità dell'economia di mercato e l'obiettivo della democrazia economica, sia sul piano nazionale sia su quello internazionale (<<lanuova sinistra non combatte l'internazionalizzazione - avrebbe dovuto dire più francamente alle multinazionali - ma si pone il problema della sua regolazione democratica» ); una «posizione nuova» sulla «questione del potere», «non già e non più come presa del potere statale, ma come diversa organizzazione del potere stesso»; «il socialismo come processo di democratizzazione integrale della società»; un programma di governo «in grado di dare risposta ai bisogni essenziali di tutti i cittadini» e la centralità del tema della «riforma della politica» (riforme istituzionali, ecc.); - il «superamento del centralismo democratico» che rappresenti «la più netta discontinuità non solo con la tradizione del comunismo internazionale, ma anche con quella del comunismo italiano»; - «l'idea di una sinistra rinnovata; di una sinistra che, in Italia, si impegna a lavorare per condurre, senza disperderle, a una sintesi più alta le idealità e le esperienze del comuni-

-

6 Si potrebbe pensare a una certa incoerenza, data la trasformazione che si vuole operare nella natura del partito. Non è così, perché all'Internazionale socialista aderiscono partiti e formazioni che non appartengono né sono mai appartenute al movimento operaio.

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g

smo italiano, del riformismo liberale e socialista, del cattolicesimo sociale e democratico; di una sinistra che si apre al confronto con tutte le correnti e le forze di rinnovamento mondiali e che intende così concorrere alla realizzazione del grande progetto della liberazione umana». L'adozione del nuovo nome, Partito democratico della sinistra, è, secondo i proponenti, l'espressione coerente del nuovo progetto politico e organizzativo e non è solo dettata dal desiderio di scindere le proprie responsabilità da quelle del movimento comunista tradizionale e dei "paesi del socialismo reale". Non disponiamo, mentre scriviamo, della relazione sulla concezione del partito tenuta alla conferenza programmatica dell'ottobre scorso. E' toccato, comunque, un'altra volta a Piero Fassino sintetizzare la portata della nuova evoluzione: «da partito dell'emancipazione a partito della cittadinanza». Di per sé, la formula non dice molto, ma, nella misura in cui ha un senso, costituisce un'ulteriore accentuazione delle impostazioni prevalse negli ultimi anni e in particolare del documento già menzionato del XVIII Congresso. Già allora si era detto «Addio al centralismo

democratico»

(con questo titolo l'Unità presentava il proprio resoconto), naturalmente

persistendo

nella vecchia mistificazione

-

oggi più diffusa che mai, nell'orgia di denigrazione di tutto qU6110 che può riferirsi al comunismo

- che

confonde,

per

ignoranza o in perfetta malafede, centralismo democratico dell'epoca di Lenin e dei primi anni dell'Internazionale comunista e centralismo "democratico", in pratica brutalmente burocratico, dell'era staliniana, attribuendo al primo i tratti ripugnanti del secondo. E già allora, c'è appena bisogno di dirlo, il partito era cosa ben diversa da quello che era stato non solo negli anni '20

103


o nel periodo della lotta clandestina, ma anche negli anni '40 e '50, cioè non più un partito concepito come lo strumento di una lotta anticapitalistica nella prospettiva di una società socialista, ma un partito sempre più modellato sulle istituzioni, in cui i "rivoluzionari di professione" erano divenuti parlamentari, IImmini!:tratori locali, burocrati sindacali, o manager di cooperative e, ai livelli inferiori, funzionari dalla carriera predeterminata secondo criteri abbastanza rigidi e regole non scritte. Ora, il superamento dell'impostazione classista esige il passaggio al «partito della cittadinanza», capace di adattarsi alla società nel suo complesso, come è stato detto, a tutte le sue pieghe. Abbiamo accennato all'analogia di Fassino con le istituzioni dello Stato. Anche dal punto di vista puramente teorico, si tratta di una concezione erronea: perché il partito dato elementare è un'organizzazione volontaria, cui si aderisce per conseguire det~rminati fini e non per rispecchiare la società qual è (e neppure con il proposito idealistico-settario di fare del partito una specie di nucleo embrionale di una società futura); perché implica un appiattimento su istituzioni che, anche a prescindere dalle loro distorsioni, hanno finalità qualitativamente diverse da quelle di un partito; perché, in ultima analisi, costituisce una rinuncia ad assumere il ruolo di una forza che esprima e contribuisca a realizzare una proposta strategica unificatrice degli interessi, dei bisogni e delle aspirazioni di determinate classi e di determinati strati sociali, inevitabilmente contro quelli di altre classi e di altri strati. n testo della maggioranza per il XX Congresso si ricollega a tutte le impostazioni suaccennate, proclamando la ne-

-

cessità di creare una nuova forza politica, accettando

-

- con

correttivi che contesterebbero ormai solo oltranzisti filothatcheriani Ofiloreaganiani - l'economia di mercato (in particolare per risolvere il problema del Mezzogiorno), delineando 104

':1

I

I

una prospettiva di cogestione delle imprese, ribadendo l'asse politico della «riforma del sistama politico»7 e riaffermando l'obiettivo di una federazione europea come sviluppo della Cee. Allo scopo, tuttavia, di mettersi al riparo dall'accusa di rinunciare all'obiettivo socialista per spostarsi «nel campo del radicalismo e della liberaldemocrazia», spiega in qualche paragrafo introduttivo che il nuovo partito manterrà «il grande obiettivo del socialismo» e «l'idea della democrazia come via del socialismo». Niente di troppo impegnativo, ma traspare qui la difficoltà di rompere completamente con la tradizione, compiendo un vero e proprio salto di qualità nella natura di classe del partit08. Quando questo saggio sarà sotto gli occhi dellettor~ uno dei nodi della crisi del Pci sarà probabilmente sciolto: si saprà se ci sarà una scissione ed eventualmente quale ne sarà l'ampiezza. Il corso degli avvenimenti chiarirà orientamenti e prospettive di una eventuale nuova formazione comunista, che non potrà in ogni caso evitare un'ampia riflessione critica e autocritica per definire la propria identità e ripartire su basi nuove, ricollegandosi alle tradizioni rivoluzionarie più genuine, in Italia e internazionalmente. Limitiamoci qui a dire che, a nostro avviso, il valore delle critiche alle impostazioni della maggioranza è stato in larga 7 Cfr. l'Unità, 19 novembre 1990, supplemento. Il carattere democratico di certe riforme prospettate è più che discutibile. Per esempio, la scelta della coalizione di governo da parte degli elettori che apre la strada al premio di maggioranza

-può

tradursi

in un attacco

-

al diritto

delle

minoranze

a essere

rappresentate secondo la loro forza. Quanto alla soppressione del voto di preferenza, la concorrenza tra candidati a suon di una propa~nda corruttrice è senza dubbio scandalosa, ma la pura e semplice abolIZione delle preferenze rischierebbe di accrescere il potere delle direzioni e degli apparati dei partiti. 8 La «mOZIone Bassolino», nella misura in cui non corrisponde a una operazione puramente tattica, esprime una sensibilità del partito che, pur non essendo contraria all'operazione del 12 novembre, vuole mantenere alcuni motivi dell'impostazione berlingueriana.

105


misura sminuito dal fatto che i firmatari della "mozione Ingrao-Natta" hanno continuato a difendere, essenzialmente, le concezioni che ispiravano il partito all'epoca di Togliatti e di Berlinguer e hanno espresso a loro volta un giudizio senza riserve positivo sul gorbaciovismo. Non hanno neppure contestato - salvo qualche osservazione critica marginale in alcuni interventi - la proposta di adesione all'Internazionale socialista, senza neppure abbozzare - come non aveva fatto Occhetto - un bilancio critico del passato di questa organizzazione e un'analisi complessiva della sua realtà presente. Senza ignorare le diversità, considerazioni analoghe valgono per la minoranza rappresentata da Cossutta. I suoi giudizi negativi sugli orientamenti maggioritari sono stati più drastici e, in particolare, le sue critiche alle direzioni sindacali più nette e in larga misura condivisibili. Ma, come in congressi precedenti, Cossutta ha continuato a presentare sotto luce favorevole l'epoca togliattiana, con la sua strategia riformista gradualistica, e si è espresso anche lui senza riserve a favore di Gorbaciov, non rivolgendo, d'altra parte, che qualche critica minore all'Internazionale socialista. La mozione unificata delle due opposizioni per il XX Congresso mantiene, in sostanza, le caratteristiche delle due mozioni precedenti. Pur proclamando la necessità della «rifondazione», non solo non sviluppa una riflessione critica sull'esperienza storica del Pci, ma non esita a rivendicare i meriti di Berlinguer e dello stesso XVII Congresso (<<piena appartenenza alla sinistra europea») come pure del «partito nuovo» di Togliatti9. In altri termini, riafferma i criteri ispiratori di una strategia riformista gradualistica, sia sul piano interno sia su quello internazionale (per esempio, rivendicando la centralità del 9 E' vero che il testo allude a «difetti» dell'analisi e della strategia del partito negli anni '60 e '70, ma si tratta di critiche del tutto paniali.

106

parlamento europeo e la «sovranità» dell'assemblea delle Nazioni Unite, un controllo delle multinazionali ecc.). Riecheggiando temi che la tendenza del Manifesto aveva abbozzato al momento della sua costituzione come organizzazione indipendente, delinea una concezione che elude il problema del potere (elusione più facile nelle formulazioni che nella realtà!) e che è gradualistica nella stessa impostazione del problema del comunismo lO. Ha, d'altra parte, tonalità berlingueriane quando prospetta «un nuovo ciclo democratico», che rischia di ridursi a una I

variante della formula degli anni '70

- già

ricordata

- della

«seconda tappa della rivoluzione democratica e antifascista». Per quanto riguarda, poi, il problema del partito, ci si toglie d'impaccio con la ben poco impegnativa metafora della «rete», guscio vuoto di cui non ci si sforza molto di precisare il contenuto.

Le nuove contraddizioni

Al di là delle vicende congiunturali di un processo ancora aperto, quale potrà essere il futuro della nuova formazione (o del partito ribattezzato)? Innanzi tutto, nella individuazione dei possibili sviluppi non bisogna confondere intenzioni di un gruppo dirigente e lO «Per noi oggi la parola "comunismo" indica la costruzione nel presente di un un punto di vista e di una pratica autonoma, in grado di realizzare, qui e ora, fonne di liberazione da tratti di oppressione e di dominio propri dei rapporti sociali capitalistici. Questo modo di intendere il comunismo non è stato travolto dal crollo dei regimi dell'Est europeo secondo il modello sovietico. Quella che è fallita all'Est è una società derivata da una concezione del socialismo che ha posto come centrali la presa del potere statale e la statizzazione dei mezzi di produzione».

107


pratica effettivamente possibile. E' ormai difficile infatti, se non escluso, che sorga una formazione politica completamente nuova secondo l'idea originaria della Costituente. Il "nuovo" partito sarà essenzialmente una reincarnazione del Pci con tratti ideologici liberalsocialisti o democratico-radicali, con un profIlo ancor meno defmito e più eclettico dell'attuale. Di fatto, continuerà a svolgere un ruolo simile a quello delle socialdemocrazie di altri paesi dell'Europa occidentale, accentuando la logica di partito "progressista", radicale, ma con una base sociale, che, al di là di possibili variazioni quantitative, resterà prevalentemente operaia e popolare. Politicamente, sarà caratterizzato sin dal suo nascere dalla coesistenza di posizioni e tendenze diverse. Ci saranno militanti o raggruppamenti tendenti ad affermare una prospettiva di "antagonismo" nei confronti della so- . cietà capitalistica, sia pure in forme moderate (rilanciando, per esempio, il discorso berlingueriano sulla terza via o sulla terza fase). All'estremo opposto sussisterà la tendenza, per usare il gergo alla moda, "migliorista", la cui logica è quella di stimolare una politica sempre più sistematicamente - e moderatamente - riformista, nella prospettiva di una convergenza, se non unificazione, con il Partito socialista. Una formazione politica di questo tipo subirà inevitabilmente la contraddizione propria dei partiti socialdemocratici in questa fase, i quali - come abbiamo visto - da un lato si assumono sempre di più, anche quando sono all'opposizione, responsabilità primarie nella gestione del sistema (e in una fase in cui conquiste parziali economiche, sociali e anche politiche sono state intaccate seriamente e subiscono una costante usura); dall'altro, devono preoccuparsi di non perdere l'appoggio delle masse proletarie e popolari che costituiscono pur sempre la fonte della loro forza. Vada sé che tale contraddizione si acutizzerebbe al massimo qualora il nuovo partito diventasse effettivamente parti108

to di governo. Non ci vuole molta fantasia per immaginare ,che cosa farebbe in questa eventualità. Non si tratta di scruare l'avvenire, ma semplicemente di tirare le somme di quel.o che hanno fatto e fanno partiti riformisti come il Psoe e il sf, le cui strategie, i cui programmi economici e politici e le cui ideologie sono da tempo condivisi, nella sostanza, dal Pci e che il Pds condividerà ancora di più. E' un riflesso della debolezza intrinseca delle impostazioni del partito il fatto che non abbia mai cercata di delineare un vera bilancia di esperienze come quelle dei governi di Gonzalez e di Mitterrand e, ancor mena, chiarita in cosa una sua azione di governa si distinguerebbe eventualmente da quello dell'uno e dell'altra. Anche se riuscisse ad arrestare la tendenza al declino il che è tutt'altra che sicura e a evitare tendenze centrifughe a lacerazioni, il partito trasfarmato si scontrerà con ostacoli difficilmente sormontabili, sullo stessa piano su cui si intende porsi. Il rulla dei tamburi propagandistico-ideolagici e il clamare dei mass media nan permetteranna ad Occhetta di trasfarmare in aro quel che luce nei testi di un cangresso.

-

-

Tratti specifici e tipicità Una delle chiavi interpretative della vicenda del Pci su cui hanna constantemente messo l'accento i suoi dirigenti, i supi intellettuali e studiosi, italiani e nan italiani, è quella della sua specificità, se non addirittura della sua eccezianalità. Che tutto l'arco della staria del partita sia stata contraddistinto da forti elementi peculiari, è fuari discussiane. Sin dalle .origini ha avuta due leader come Amadea Bordiga e Antanio Gramsci, difficilmente paraganabili, anche se per ragioni diverse, a quelli di altri partiti comunisti. 109


In secondo luogo, il fatto di aver agito come un partito! clandestino negli anni '30 e di aver conosciuto la sua massim crescita nella seconda metà degli anni '40, ha fatto sì che l sua stalinizzazione fosse meno profonda e meno sistemati di quella subìta, per esempio, dal Pcf. Soprattutto dal Co gresso del '56 ha condotto analisi della società in cui operava e delle sue tendenze di sviluppo che, pur non sottraendosi a condizionamenti internazionali, si distinguevano per una ben maggiore aderenza alla realtà da quelle dei partiti fratelli della stessa Europa occidentale. E più profondamente e con maggiore continuità di questi ultimi ha potuto inserirsi, a quasi tutti i livelli, nelle istituzioni. Nonostante reticenze, esitazioni e ripiegamenti, ha affrontato con maggiore impegno la problematica posta dalla crisi dello stalinismo a partire dal cruciale anno 1956. Certe poleimche di quell'epoca - attorno al suo VIII Congresso - hanno rivelato, per esempio, un suo modo particolare di concepire il rapporto tra obiettivi immediati e obiettivi più generali, il che doveva attirargli già allora aspre critiche da dirigenti del pcfll. Alle sue specificità ha contribuito, d'altra parte, l'influenza delle concezioni politiche e teoriche di Gramsci, che, pur nelle mistificazioni interpretative di cui sono state oggetto, hanno agito da contrappeso, almeno parziale, allo stalinismo e alle sue schematizzazioni e aberrazioni metodologiche. Altro elemento importante: l'esistenza in Italia di un Partito socialista, a sua volta peculiare, che, prima come alleato, poi come concorrente, lo ha spesso costretto ad affrontare problemi interni e internazionali da un angolo di visuale non esattamente coincidente con quello della direzione sovietica e del movimento comunista, staliniano e post -staliniano. Tra il 1968 e il 1975 ha dovuto, d'altra parte, fare i conti con mo-

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11 Cfr. in particolare la polemica con Roger Garaudy, allora uno dei principali dirigenti del Pcf (a proposito di questa polemica si veda il nostro Teoria epolitica comunista nel dopoguerra, ci!., pp. 91-95).

vimenti di massa e organizzazioni sorti da una crisi politica e ociale prolungata: per rispondere alla sfida e recuperare il erreno perduto, ha dovuto non solo fare appello a tutta la ua duttilità tattica, ma anche procedere a revisioni abbaanza radicali e rompere, almeno in parte, con vecchie pratie organizzative (per esempio, adeguando alle situazioni nuove il rapporto con le organizzazioni sindacali). Nel suo stesso funzionamento interno ha dato prova di una maggiore apertura e di una maggiore tolleranza, nonostante il permanere di metodi di direzione verticistici e il divieto di formare tendenze o correnti critiche. I dibattiti protrattisi per vari mesi dopo il XX Congresso del Pcus, con ampia partecipazione di quadri e militanti, erano stati, d'altra parte, una prima significativa indicazione dei mutamenti che si delinevano. E non c'è bisogno di ricordare, infme, il ruolo di primo piano che il Pci ha assunto per far evolvere i rapporti tra direzione sovietica e direzioni dei partiti comunisti e, quindi, per mutare strutture e articolazioni del cosiddetto movimento comunista già prima del suo dissolvimento. Tutto questo non va sottovalutato. Tuttavia, se ci si limita a questi o analoghi rilievi, non si va al fondo del problema, rappresentato invece dal fatto che le tensioni e le contraddizioni che hanno segnato l'evoluzione del Pci e, in ultima analisi, la sua trasformazione in partito neoriformista, qualitativamente non dissimile dai partiti socialdemocratic~ classici e moderni, erano inerenti a tutti i partiti comunisti staliniani. Era comune la contraddizione tra la subordinazione al sistemà staliniano, cioè agli interessi dell'V rss e della sua casta dirigente, e l'esigenza di esprimere interessi ed esigenze delle classi sfruttate delle rispettive società nazionali. Era comune la contraddizione tra la loro collocazione internazionale e il loro inserimento nei casi di maggiore crescita - sempre più effettivo nei meccanismi e nelle istituzioni della società democratico-borghese.ln altri termini, tensioni e contraddi-

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zioni di fondo erano e continuano a essere, nella misura in cui il problema esiste ancora - non specifiche, ma tipiche. TIPci ha potuto svolgereun ruolo d'avanguardia d'avan guardia dal suo punto di vista e da quello dei partiti comuni sti che si sono via via allineati sulle sue posizioni non perch avesse una natura qualitativamente diversa, o grazie a un maggiore lungimiranza dei suoi dirigenti, ma per tutti i fattori specifici che abbiamo an:tlin~ti. La conclusione è, dunque, che proprio questi fattori specifici hanno fatto si che esso esprimesse, meglio di qualsiasi altro, la tipicità della natura e della dinamica, nel contesto storico dato, di partiti comunisti che, sorti come partiti rivoluzionari, erano divenuti successivameqte partiti staliniani. Un discorso analogo va fatto anche per l'evoluzione attuale. Una volta che si abbandoni l'analisi materialistica della società, interpretandone. conflitti e tendenze non più in termini di lotta di classe, ma secondo i moduli d'una "moderna" sociologia, unilateralmente empirici e, nonostante le pretese di concretezza, fondamentalmente astratti; una volta che si prospetti una strategia non solo di coesistenza,ma addirittura di collaborazione tra partner sociali qualitativamente diversi, sia scala macroeconomica (con un'adesione a comuni modelli di sviluppo), sia nell'organizzzione e gestione delle aziende; una volta che si rinunci a ogni prospettiva rivoluzionaria, è logico che si tenda a "superare" la stessa concezione classista del partito e la nozione stessa di movimento operaio. Questa tendenza, a trasformare i vecchi operai tradizionali in partiti democratico-radicali o progressisti, opera dunque - nella pratica, va da sé, ancor prima che a livello di ideologia in tutti i partiti riformisti o neoriformisti, quali si sono venuti configurando negli ultimi due decenni. Che il Pci sia stato il primo a porsi più esplicitamente su questa via con la svolta del 12 novembre, è il risultato, ancora una volta, di una serie di fattori specifici: la forma particolare

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~Ila cm; di un part;to che ha am...a una Wga mfIueoza di Ipassa ed è, quindi, più stimolato a cercare una via di uscita; 1\convergere dell'acutizzarsi del suo declino per ragioni intèrne e dei contraccolpi devastatori del crollo delle società di tiansizione burocratizzate; l'accentuarsi del pericolo rappresentato dalla concorrenza del Partito socialista; l'esistenza, nel corso degli anni '30, di una tradizione liberalsocialista, più significativa di quanto non si creda generalmente, rappresentata durante la resistenza da una formazione di durata effimera, ma con notevole incidenza sul dibattito politicoculturale di quegli anni, e mantenuta viva per decenni da intellettuali di incontestabile prestigio12. Anche su questo piano, in conclusione, la tipicità emerge grazie al combinarsi di tutta una serie di tratti peculiari.

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Punto d' amvo di un processo Non ritorniamo sul contesto internazionale in cui si è venuto deterntinando l'attuale processo del Pci. Non è forse inutile, invece, richiamare il contesto nazionale. Nel corso del decennio che si è chiuso, i maggiori gruppi capitalistici e le forze conservatrici in generale sono riusciti a realizzare, con successo dal loro punto di vista, ristrutturazioni e concentrazioni di largo respiro, a consolidarsi socialmente e a ottenere una relativa ristabilizzazione politica. I lavoratori e le loro org;min,azioni sono stati costantemente sulla difensiva, hanno registrato seri arretramenti e lo stesso peso specifico della classe operaia è diminuito a causa della contrazione

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12 Ci riferiamo in particolare a Norberto Bobbio, una delle rarissime persone che possano vantare una coerenza di pensiero e una onestà mtellettuale irreprensibile dall'inizio degli anni'40 a questa parte.

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di vari settori industriali e di processi molteplici di frammentazione. Contemporaneamente, settori piccolo-borghesi, la cui radicalizzazione aveva avuto una parte così importanty nella crisi della fine degli anni '60 e dell'inizio degli anni '70, hanno subìto un'involuzione ideologica e politica, con conseguente declino della forza d'attrazione su di essi del movimento operaio e in particolare dal Partito comunista. Ha continuato ad agire il fattore inserimento nei meccanismi istituzionali, ma con conseguenze ancor più negative nel contesto dato, e con una pressione ulteriore sul Partito comunista perché questo inserimento piuridecennale avesse 13 rmalmente un suo sbocco con l'accesso al governo del paese . Per altro verso, la composizione sociale del partito ha via via subìto rilevanti mutamenti: questo, non tanto nelle percentuali delle diverse componenti sul totale degli iscritti - che

pure ha segnato una evoluzione sfavorevole agli operai

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quanto, soprattutto, nel grado di partecipazione all'attività e alla vita interna del partito, in cui elementi di estrazione piccolo-borghese, professionisti, insegnanti e intellettuali hanno acquistato un peso crescente e, in ultima istanza, preponderante. Una trasformazione si è prodotta, inevitabilmente, anche a livello di quadri e di dirigenti, a cominciare, per la verità, già dagli anni '60. Se nell'immediato dopoguerra, la maggioranza dei quadri decisivi proveniva dalla lotta antifascista e dalla resistenza, con netta prevalenza di elementi di estrazione proletaria o popolare, via via si imponevano quadri la cui esperienza politica tendeva a identificarsi con una presenza a diversi livelli delle istituzioni, con la conseguenza che i vecchi funzionari che avevano interiorizzato il ruolo di rivoluzionari di profes13 Un caso-limite di inserimento nei meccanismi, nella fattispecie economici, del sistema, è costituito dall'evoluzione delle cooperative, sempre più governate da criteri puramente capitalistici, a livello ormai non solo nazionale.

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I

sione erano sostituitida carrieristiche perdevano progressivamente ogni legame vivo con gli strati della società che costituivano ancora elettoralmente il punto di forza del partito. Mutava, più in generale, il rapporto tra questi strati, e soprattutto i loro settori più politicizzati, e il partito in quanto tale. Alla rme della guerra e per il periodo successivo, si era trattato di un rapporto di fiducia, con aspetti fideistici: il partito era considerato una forza politica decisa, al di là degli atteggiamenti tattici, a lottare contro la società esistente per un'Italia socialista, e i suoi dirigenti godevano di una indiscussa autorità. Poi le cose cominciavano a cambiare e, soprattutto a partire dalla crisi della fine degli anni '60, il Pci continuava a contare sul suffragio popolare, ma non più perché si nutrisse veramente fiducia nella sua strategia e ancor meno nella sua volontà di contestare il sistema, ma perché appariva come la sola forZa di oppsizione e come il solo strumento utile per conseguire obiettivi parziali e arginare lo strapotere delle classi dominanti e del loro partito egemone. Questo atteggiamento si traduceva specialmente sul piano elettorale ed era all'origine dello stesso rafforzamento del partito alla metà degli '70 e del suo mantenimento successivo. Solo più tardi, la crisi di fiducia assumeva forme più vistose e un numero crescente di elettori non dava neppure più il voto a un partito che appariva privo di prospettive sullo stesso terreno della strategia e dell' azione che privilegiava. C'è stato, infine, un mutamento radicale del ruolo degli intellettuali. Per evitare fraintendimenti, ripetiamo che un numero rilevante di intellettuali, aderendo al Pci o associandosi alla sua azione, hanno assunto una funzione progressiva e non pochi di loro, con validi apporti a livello delle loro specifiche competenze, hanno contribuito alla diffusione delle concezioni e degli strumenti metodologici del materialismo storico e, più in generale, del marxismo. Ma qui ci preme sottolineare l'evoluzione - o involuzione - che s'è prodotta. Nel115


l'immediato dopoguerra, la maggior parte di questi intellettuali si consideravano gramscianamente "intellettuali organici", la cui opera e la cui azione erano legate intrinsecamente alle lotte e al destino della classe operaia e del partito che la rappresentava. Un tale atteggiamento comportava, nell'epoca staIiniana, pericoli gravissimi. Ciònonostante, non pochi intellettuali hanno arricchito il patrimonio del movimento operaio, influendo positivamente sulla cultura italiana nel suo complesso. Facendo un balzo di alcuni decenni ed esaminando la situazione attuale, vediamo che lo scenario è mutato profondamente: gli intellettuali membri del partito o simpatizzanti agiscono come una forza che si presume indipendente, arrogandosi la parte di giudici su tutte le questioni e occupando spazi sempre maggiori nei media come creatori di opinione. Sono soprattutto loro, assieme a elementi di piccola borghesia di varia provenienza, che cercano di plasmare e in larga misura plasmano effettivamente l'ideologia del partito, se non ne definiscono addirittura la prospettiva strategica, gli atteggiamenti tattici e le forme organizzative. E agiscono in questo modo subendo, più ancora del corpo medio del partito, tutti i condizionamenti negativi del contesto internazionale e delle tendenze involutive sul piano nazionale. Ecco, dunque, tutti gli elementi che spiegano la profonda crisi di un partito che, per mantenere le sue forze e, a maggior ragione, per rilanciars~ non può più sfruttare la pésanteur sociologique, cioè un'inerzia del contesto sociale, né sperare in un protrarsi a tempo indefmito di fedeltà tradizionali o della rassegnata accettazione di una logica del minor male. In questo senso, all'origine dell'iniziativa di Occhetto sono innegabilmente problemi di vita o di morte per il partito. II guaio è che le risposte delineate sono mistificatorie, se non puramente fantasiose: vanno in direzione esattamente opposta a quella che il movimento operaio dovrebbe imboccare per uscire dal vicolo cieco in cui si trova imprigionato. 116

7. ELOGIO DELLA RIVOLUZIONE

L'impresa di ricostruzione del movimento operaio dovrà partire, innanzitutto, da un'analisi della società attuale. Siamo convinti che chiunque si dia la briga di studiare o ristudiare Il capitale, e non pretenda di parlarne per sentito dire o ricorrendo a vaghi ricordi giovaniIi, non può che constatare non solo la validità del metodo marxiano, ma anche la.pertinenza, l'attualità, di certe descrizioni dei meccanismi e della dinamica del capitalismo. Ma lasciamo pure da parte 1\.1arxe Il capitale. Osserviamo semplicemente la realtà quale appare a chi si sforzi di coglierla per quale essa è, senza lenti deformanti, senza pregiudizi e senza intenti apologetici. Per cominciare, tutte le divagazioni di economisti e di sociologi, scesi in campo baldanzosamente per cancell~e anche il ricordo delle idee socialiste e rivoluzionarie, liODservono ad annullare un dato di fatto incontestabile: la tendenza di fondo alla concentrazione e alla centraIizzazione del capitale - industriale,

fmanziario

e commerciale

- agisce

oggi as-

sai più potentemente che in qualsiasi epoca passata. Le grandi. multinazionali rappresentano la forma estrema di una concentrazione che comporta l'estorsione di profitti su scala planetaria, la spoliazione dei paesi sottosviluppati e l'imposizione a questi paesi di opzioni economiche dalle conseguenze letteralmente catastrofiche. Ed è proprio nelle multinazionali che si concretizza l'interdipendenza crescente della economia, la cui individuazione, sia detto tra parentesi, era un motivo condutt.ore già del Manifesto dei comunisti del 1848. 117


Si potrebbe discutere all'infinito sul fatto che le piccole e medie aziende non sono scomparse e che pOssono conoscere, in certi periodi e in certi settori, una nuova crescita. Resta il fatto - tuttavia,e lo ripetiamo - che l'economia mondiale è più che mai dominata da colossi, che alternano e combinano fusioni e guerre di concorrenza all'ultimo sangue. E resta egualmente il fatto che, nonostante il declino di alcuni rami tradizionali, l'industria è pur sempre strategicamente decisiva e che l'industrializzazione dell'economia nel suo complesso prosegue e si accresce senza tregua. D'altra parte, piccole e medie aziende sono spesso dipendenti dalle grandi, oppure sfruttano interstizi che i maggiori gruppi non hanno interesse ad occupare. Senza contare che molte piccole e medie aziende, se sono tali dal punto di vista del numero dei dipendenti, sono caratterizzate, comunque, da un'alta intensità di capitale. Su piano sociale, lasciando da parte le discussioni, pur non prive di interesse, sulla validità o meno del pronostico di Marx riguardo alla polarizzazione crescente, ecco le constatazioni che si impongono: 1) una piccola minoranza delle stesse classi dominanti, legata ai grandi gruppi industriali, commerciali e fmanziari, dispone di un potere economico crescente e può mobilitare, in difesa dei propri interessi, gli apparati politici e militari dei paesi imperialistici; 2) se, nel corso degli ultimi anni, si è prodotta nei paesi più industrializzati una contrazione quantitativa della classe operaia, in seguito alle ristrutturazioni e alle innovazioni tecnologiche, il numero dei lavoratori salariati è continuato a crescere. E la distinzione essenziale dal punto di vista di un'analisi marxista, ricordiamolo, non è affatto quella tra operai e impiegati o tra lavoratori dell'industria e lavoratori del terziario, ma quella tra salariati e non-salariati. Anche accettando l'ipotesi di un'introduzione massiccia di nuove tecnologie e a ritmi crescenti (ma nessuno può essere sicuro

al cento per cento che sarà così), nulla autorizza una seconda ipotesi, quella d'un deperimento decisivo del lavoro salariato nel corso dei prossimi dieci o venti anni; 3) nonostante le tendenze suaccennate, sia su scala mondiale sia nella quasi totalità dei singoli paesi, la classe operaia è numericamente più rilevante - in termini assoluti e in percentuale sulla popolazione attiva - non solo che all'epoca di Marx o di Lenin, ma anche che negli anni '50 e '60. Sarebbe, dunque, arbitrario arrivare alla conclusione che viene meno la base materiale del suo ruolo come forza motrice anticapitalistica; 4) la frammentazione e la diluizione sociale, descritte da molti autori, sono un fenomeno reale, ma sarebbe errato interpretarlo come una tendenza generale e irreversibile. In larga misura, si tratta di un fenomeno tipico di fasi di ristagno prolungato e di ristrutturazioni e innovazioni tecnologiche su vasta scala, in un contesto di arretramento politico. Prima o poi, come è accaduto in altre epoche, ci sarà una ricomposizione unitaria della classe operaia e dei lavoratori più in generale. Il problema centrale è quello di delineare una politica che la favorisca stimolando una nuova presa di coscienza a livello di massa. Possiamo trarre una conclusione: lo scoppio inevitabile di nuove crisi cicliche, la ricomparsa anche nei paesi più industrializzati di una disoccupazione massiccia e di un impoverimento di larghi strati della popolazione, la distruzione sempFe più catastrofica di risorse naturali, il ricorso a fonti di energia poco o niente affatto sotto controllo e di cui nessuno può prevedere con certezza gli effetti a medio e lungo termine, tutto ciò, lungi dal porre problemi di fronte ai quali i marxisti e il movimento rivoluzionario debbano sentirsi teoricamente disarmati, costitusce, in ultima analisi, una conferma della drammatica attualità della teoria dell'alienazione. E' partendo dai dati che abbiamo sintetizzato chesipuò

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formulare credibilmente l'ipotesi di una persistente vitalità e di un rilancio, al di là delle scadenze e delle forme specifiche, di movimenti di massa antimperialistici e anticapitalistici, come pure, l'ipotesi di nuove crisi globali cioè non solo economiche, ma anche sociali e politiche delle società capitalistiche, nel corso delle quali fondamenti stessi di tali società saranno rimessi in discussione. E, ne possiamo essere certi, la critica sociologica e la riflessione teorica ricominceranno a suonare una musica diversa da quella con cui ora ci allietano. Per coloro che, senza perdere la bussola dinnanzi alle vicende più recenti, cercano di leggere la realtà e le sue tendenze dinamiche per quelle che effettivamente sono, compito ineludibile è rilanciare l'idea stessa di rivoluzione, contrastando l'orgia di gradualismo dalle tonalità positivistiche, di piatto istituzionalismo e di timorato e inconsistente riformismo o pseudoriformismo, incapace persino di difendere le acquisizioni del passato. In fondo, è uno straordinario paradosso che, proprio quando le società capitalistiche sono contraddistìnte da una dilagante irrazionalità e - nella logica infernale dei loro intrinseci meccanismi - condannano alla miseria e alla fame gran parte della popolazione del mondo, con conseguenze imprevedibili, a media o a lunga scadenza, per le stesse isole felici del consumismo, e quando potrebbero in seguito a una guerra nucleare o a un concatenarsi di catastrofi ecologiche - provocare la distruzione della vita sul pianeta, che proprio in tale contesto il sistema esistente sia riabilitato nelle stesse me del movimento operaio, o almeno accettato come la sola forma possibile di organizzazione sociale, cui non esiste alternativa per un futuro prevedibile. Supporre che una società regolata da secoli da una implacabile logica interna e da una dinamica, tutto sommato, inarrestabile, in cui il potere decisionale non solo sul piano politico in senso stretto, ma, più in generale, su strutture e

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tessuti che determinano, in ultima analisi, le sorti dei popoli e la vita quotidiana e l'avvvenire dei singoli individui sin negli angoli più remoti possa essere trasformata senza rotture rivoluzionarie e con processi graduali, significa rifiutarsi di prendere atto della realtà e cullarsi nelle illusioni (anche se si pretende di essere realisti). Riflettiamo un momento sul problema, appena richiamato, della distruzione dell'ambiente, che non si poneva come si pone oggi non solo un secolo, ma neppure trenta o quaranta anni fa, e che gli scienziati più competenti presentano con toni sempre più allarmati. Non abbiamo la competenza per giudicare le varie tesi dibattute. Ma l'ipotesi più plausibile ci sembra questa: se le tendenze già operanti, e che non sono contrastate se non da misure ridicoImente insufficienti, non sono capovolte: si può discutere sui ritmi, ma le sorti del pianeta saranno, comunque, segnate. E per realizzare questo capovolgimento è necessaria una vera e propria rivoluzione. Poniamoci un'altra domanda: se è vero che il corso dell'economia mondiale è determinato sempre di più da un gruppo di potenti multinazionali che i processi di concentrazione e centralizzazione restringono costantemente, è forse realistico sperare che le cose cambino votando qualche legge, inefficace in partenza o comunque destinata a restare sulla carta, favoleggiando sull'imprenditoria "diffusa" o sulla "democratizzazione" dell'economia e magari cercando di convincere industriali, banchieri e grossi commercianti a mutare rotta nel loro stesso interesse? Si tratta di una speranza vana e non servono a dimostrare il contrario le acrobazie concettuali e terminologiche cui abbiamo assistito da decenni e che appaiono oggi, sulla base di dure e ripetute esperienze, ancor più risibili. II realismo ci deve insegnare che solo una rivoluzione può mutare radicalmente l'ordine esistente delle cose. Terzo problema terzo nell'elencazione e non certo per importanza quello della liberazione della donna. Come il

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movimento femminista sostiene giustamente, si tratta di fare i conti con strutture, rapporti, concezioni e comportamenti non solo secolari, ma addirittura millenari: su questo piano, ancor più che su tutti gli altri, non si impone forse una rottura rivoluzionaria nel senso più rigoroso della parola? Infine: è possibile che le innovazioni e i mutamenti qualitativi necessari a tutti i livelli si realizzino nel quadro delle strutture statali e delle istituzioni politiche esistenti? Una simile tesi è semplicemente improponibile per la grande maggioranza dei paesi del pianeta, in cui esistono Stati e "istituzioni"che privano la quasi totalità della popolazione della benché minima possibilità di far valere i propri interessi e le proprie aspirazioni (le cose non sono qualitativamente mutate neppure dove ci sono stati o ci sono interludi parzialmente e precariamente democratici). Ma non è difendibile neppure nel caso delle democrazie parlamentari o presidenziali dell'Europa occidentale o dell'America del Nord. A questo proposito, dopo tanti discorsi sul "socialismo reale" e sulle sue mistificazioni, sarebbe ora di discorrere un po' sulle "democrazie reali", di discorrerne anche facendo astrazione dai contenuti socioeconomici, cioè dalle condizioni concrete che rendono intrinsecamente diseguale l'esercizio dei più elementari diritti democratici (un "abc" che si tende oggi a dimenticare con troppa disinvoltura, pur di fronte al quotidiano spettacolo dell'uso e abuso dei mass media da parte di gruppi oligarchici o di singoli magnati che sfuggono anche al più remoto controllo dei cittadini). Per fare qualche esempio, che dire dei processi decisionali nella più potente delle democrazie capitalistiche, gli Stati Uniti, dove gli apparati dei due partiti gemelli operano coscientemente per ridurre il numero degli elettori allo scopo di controllarli meglio, con il risultato che solo un terzo dei cittadini va a votare, e dopo campagne elettorali miserande, in cui i problemi reali non vengono neppur sfiorati; dove solo 122

chi abbia grandi mezzi finanziari ha possibilità di essere eletto; dove il presidente dispone di notevoli poteri ed è a sua volta condizionato, quando non aggirato, da poteri di fatto, da apparati economici, politici e militari che agiscono dietro le quinte e non rispondono a nessuno? Che dire della Gran Bretagna, dove un vetusto sistema elettorale consente, da un lato, di eliminare praticamente dalla scena non solo piccole organizzazioni, ma anche partiti con il 20-25% dei voti, e dove, dall'altro lato, un partito di minoranza relativa (nella fattispecie quello della signora Thatcher) ha potuto governare inconstrastato per lunghi anni, conducendo, tra l'altro, una guerra nell'emisfero opposto senza nessuna forma di consul-tazione popolare, o scatenando un'altra guerra (interna) contro i sindacati, quello dei minatori in primo luogo? E che dire della Francia, dove un presidente eletto ogni sette anni concentra nelle proprie mani una grande somma di poteri, il parlamento ha un ruolo assolutamente secondario e può essere aggirato dal governo grazie a un articolo della Costituzione che permette l'adozione di una legge anche quando la maggioranza degli eletti vi si opponga, e dove il sistema elettorale può ridurre ai minimi termini o addirittura escludere formazioni con il 10% dei suffragi? Non va dimenticato, d'altra parte, che di questi neccanismi si sono avvalsi e si avvalgono, senza farsi troppi scrupoli, dirigenti di quei partiti socialisti che non perdono occasione per ergersi a paladini della democrazia. Il caso-limite è quello di Mitterrand che, dopo aver denunciato per oltre vent'anni le istituzioni del 1958 e il paternalismo bonapartistico di De Gaulle, una volta al potere ha fatto impallidire il ricordo del suo predecessore sfruttando a pieno i meccanismi autoritari della Quinta repubblica. La cosa è tanto più grave in quanto nei sullodati partiti dominano incontrastati sovrani di diritto carismatico come lo 123


stesso Mitterrand o come Gonzalez, imponendo una gestione interna paternalistico-clientelare dove non resta quasi nessuno spazio alle minoranze critiche. Il laburista Kinnock è ancora alle prime armi rispetto ai colleghi di altri paesi. Ma ha già fatto capire quale sarà la sua musica all'ultimo congresso del partito: dopo che la maggioranza dei delegati lo aveva messo in minoranza su alcune questioni - tra le quali la riduzione delle spese militari, da lui osteggiata - dichiarava spudoratamente che di quei voti non avrebbe tenuto conto! C'è appena bisogno di dire che le cose vanno ancora peggio nei partiti conservatori, per esempio, nel partito gollista francese, dove i notabili fanno il buono e il cattivo tempo e non esistono norme democratiche neppure sulla carta. Concludendo, al di là di tutte le valutazioni specifiche o congiunturali, poniamoci la domanda: è concepibile che apparati statali e istituzioni, finalizzati ad assicurare il funzionamento di un'economia basata sul profitto e l'egemonia d'una classe sociale storicamente deftnita, siano il quadro entro cui raggiungere fini qualitativamente diversi, infrangere la logica del profttto, quindi dello sfruttamento capitalistico, e garantire un' organizzazione e gestione sociale veramente democratica, cioè l'universale partecipazione attiva alla vita della società in tutti i suoi aspetti? Solo chi accetti un'ideologia mistificatoria o automistificatoria, o abbia una concezione metastorica della democrazia, la concepisca cioè come una forma astratta, prescindendo dai contenuti storici concreti, potrebbe azzardare una risposta positiva, illudendo se stesso e gli altri. Chi parta, invece, dall'esperienza storica reale e non voglia ignorare ciò che la "nostra" società fa constatare tutti i giorni, non potrà dare che una risposta negativa. La necessità della rottura rivoluzionaria delle strutture dello Stato - quale esiste, anche nelle sue forme più "moderne"

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rottura rivoluzionaria nella sua totalità. 124

l'esigenza

della


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