ENERGIA PER LA VITA

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Energia per la Vita



WE SER VE

THE I N TER NATI ONAL ASSOCI ATI ON OF LI ONS CLUBS

L I ONS CLUB RHO

Energia per la Vita PREMIO LETTERARIO INTERNAZIONALE 1 a E dizion e 2014

La cerimonia di Premiazione

Rho - Villa Burba, 19 ottobre 2014

Raccontata con testi e immagini

a cura di Anna Montella


“Energia per la Vita” Premio Letterario Internazionale 1a Edizione 2014 La cerimonia di premiazione Rho – 19 ottobre 2014 Raccontata con testi e immagini ©2014Lions Club Rho www.lionsclubrho.org Curatrice della pubblicazione Anna Montella Grafica e impaginazione Michele Manisi Fotografia Michelangelo Limbiate Mario Mazza Iacomino


Premessa

Rendere cartaceo un evento “live”, ricreandone le atmosfere, sia pure con l’ausilio di materiale fotografico di qualità non è cosa facile. Ci sono elementi che, per loro stessa natura, non possono essere fissati in una istantanea. Di solito questo compito viene affidato al filmato video in cui i suoni e le emozioni risultano assai più tangibili ed immediati rispetto ad una documentazione cartacea benché, c’è da dire, che la forma multimediale per immagini e suoni vada comunque a penalizzare, per ovvi motivi di spazio, i testi che, insieme agli Autori, sono i veri protagonisti di un Premio letterario. Per questi motivi, oltre al materiale multimediale già realizzato, si è voluto procedere anche alla realizzazione di una pubblicazione cartacea che vada a compendiare testi ed immagini a preziosa testimonianza della prima edizione del Premio Letterario Internazionale “Energia per la Vita”, un service Lions Club Rho - 45° Anno Sociale, ideato e curato dalla poetessa Rita Iacomino, socia del Club, negli ambiti delle attività Lions atte al miglioramento civico, culturale, sociale e morale delle comunità, in un percorso di crescita comune. Una pubblicazione il cui scopo primario è quello di documentare, testimoniare, raccontare e condividere i primi passi di un Premio Letterario i cui splendidi risultati di questa prima edizione, in termini di partecipazione e di spessore culturale, hanno superato le aspettative.

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Lions Club Rho – 45° Anno Sociale

Nota introduttiva Con grande entusiasmo il LIONS CLUB RHO ha deciso di promuovere e sostenere per la prima volta un Concorso Letterario Internazionale coerentemente ad uno dei suoi principali scopi istituzionali: valorizzare il territorio in cui opera. Scommettere sulla Cultura non è certo cosa facile ai giorni nostri e nel nostro caso poi poteva addirittura sembrare un’impresa temeraria sia in relazione agli ambiziosi obiettivi che ci eravamo posti e sia perché come Sodalizio, pur contando forti competenze interne, non avevamo ancora maturato un’ analoga esperienza precedentemente. Oggi invece, ad un anno di distanza, da quando iniziammo a discutere sulla fattibilità del progetto, sono felice di introdurvi a questa bella pubblicazione che si propone di raccontare l’emozionante giornata di premiazione dei vincitori, oltre ovviamente a raccogliere i lavori che la nostra autorevole Giuria ha ritenuto essere i migliori. Il successo ottenuto è andato al di là di ogni più rosea aspettativa, trattandosi peraltro della prima edizione del Concorso e siamo stati piacevolmente sorpresi da tutti coloro i quali, ad iniziare dalle Istituzioni ma anche da persone non appartenenti al nostro Club, ci hanno sempre sostenuto ed incoraggiato per la migliore riuscita della manifestazione. Un risultato davvero lusinghiero, quindi, non solo per l’elevato numero di partecipanti ma anche per la qualità degli elaborati che sono stati esaminati dalla nostra prestigiosa giuria. Un risultato, però, non casuale ma che premia la dedizione di chi ha saputo gestire l’evento con professionalità e competenza. Tra le persone che a questo proposito potrei ricordare, mi limito a citare la nostra socia Patrizia Parravicini che ci è stata molto vicino in questo progetto, sempre con discrezione e spirito di servizio secondo i principi del Lionismo. Quanto abbiamo ottenuto ci rende orgogliosi e ci ripaga degli sforzi fatti come per tutti i service piccoli o grandi che il LIONS CLUB RHO in tutti i suoi 45 anni di attività ha portato avanti dal 1970 con un unico filo conduttore: servire la collettività. Personalmente è stato un anno entusiasmante e dove ho potuto cogliere la passione di tutti i tanti partecipanti al concorso, che poi sono stati i veri protagonisti di questa bella manifestazione. Questa antologia è dedicata proprio a tutti i nostri concorrenti, soprattutto a quelli che non sono stati scelti ma che con i loro lavori ci hanno comunque emozionato facendoci capire quanto sia grande ancora il desiderio di poesia, di narrativa e quanto sia importante investire nella Cultura. Alfredo Di Cerbo Presidente LIONS CLUB RHO 6


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Intervento di Alessandro Quasimodo - Presidente onorario del Premio

L’idea di organizzare un concorso letterario internazionale di poesia e narrativa, fortemente voluta e seguita appassionatamente da Rita Iacomino e promossa dall’Associazione Lions Club Rho della quale è socia, mi ha coinvolto sotto vari aspetti, non solo organizzativi, e ho accettato senza esitazione la carica di presidente onorario. Solitamente il presidente onorario, non entra nel merito del concorso per quel che riguarda le valutazioni dei partecipanti, ed è unicamente una prestigiosa presenza alla cerimonia della premiazione. Questa volta non è andata così. Sia per il fatto di essere nato in una casa in cui la poesia era il pane quotidiano, sia per la mia trentennale esperienza acquisita in qualità di presidente o giurato in vari concorsi letterari nazionali, mi sono trovato, mio malgrado, a collaborare strettamente con gli altri membri della giuria condividendo, in gran parte, i loro giudizi, anche per l’amicizia e la frequentazione con alcuni di loro come Hafez Haidar, Antonio Colandrea, Carmelo Consoli e Rodolfo Vettorello. Rita Iacomino mi ha recapitato a domicilio, a più riprese, i volumi di poesia degli autori partecipanti alla sezione poesia edita. Come è mia abitudine, mi sono totalmente immerso nella lettura dei testi per dare un giudizio attento e responsabile. Il giorno della premiazione, data la mia professione di attore, mi è stato chiesto di leggere in pubblico, le poesie vincitrici del concorso. Nonostante sia un “veterano” di lettura poetica, definito anche da alcuni “missionario di poesia”, mi sono trovato ancora una volta, insieme al folto pubblico che gremiva la sala di Villa Burba, a condividere quelle forti emozioni che solo la parola sa evocare. Data l’ottima riuscita del concorso, che ha visto un numero di partecipanti molto al di là di ogni aspettativa, fatto del tutto inusuale per una prima edizione del Premio, mi auguro che non rimanga un episodio isolato ma che abbia una sua degna continuità negli anni a venire, con un sempre maggior numero di adesioni, in modo tale da poter permettere anche ad altri, in futuro, la condivisione di un momento culturale e sociale di alto livello.

Alessandro Quasimodo

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Nota di Rita Iacomino - Presidente esecutivo del Premio

Lo scorso anno, durante una riunione del Lions Club di Rho, di cui sono socia da quasi due anni, è stata ventilata l’ipotesi di organizzare un Service Lions sotto forma di premio letterario internazionale, di cui gli altri soci mi hanno chiesto di occuparmi. Sono andata in panico. Abitualmente sono io che partecipo ai concorsi letterari, stando “dall’altra parte del tavolo”, in quella occasione mi sono trovata in prima linea come presidente esecutivo che doveva essere anche supervisore di un’avventura bella, ma con delle grandi incognite. Con il passare del tempo, l’ansia per la riuscita dell’evento lasciava il posto alla frenesia per i preparativi della bella iniziativa, facendomi vivere istanti di grande emozione, soprattutto al momento di aprire la valanga di buste che ogni giorno ritiravo nella casella postale con gli elaborati degli autori che, sotto le mie mani, sentivo vibrare di speranze. Ho preferito non avere possibilità di voto per motivi di carattere organizzativo e, soprattutto, perché sono stata affiancata dal presidente onorario Alessandro Quasimodo, che non ha bisogno di presentazioni, e da una rosa di Giurati con nomi di altissimo livello, tanto da un punto di vista letterario che per aver seguito per molti anni i migliori concorsi letterari internazionali. Il mio grazie va a tutti loro, per aver accettato di collaborare al premio “Energia per la vita”. Con la loro esperienza hanno permesso a questo “nostro” primo concorso, di raggiungere un alto livello qualitativo che ha visto un grande consenso di partecipazione con centinaia di autori da ogni parte d’Italia e dall’estero. Naturalmente il mio più grande “Grazie” va al Lions Club di Rho che mi ha permesso di realizzare un sogno e farne parte.

Rita Iacomino

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Villa Burba Cornaggia Medici - Rho

Domenica 19 ottobre 2014, con la Cerimonia di Premiazione che ha avuto luogo nelle splendide sale del XVII secolo di Villa Burba Cornaggia Medici (Rho), si è conclusa la prima edizione del Premio Letterario Internazionale “Energia Per la Vita” promosso ed organizzato dal Lions Club Rho con il patrocinio del comune di RHO e della Regione Lombardia. Un evento Service Lions Club Rho 45° Anno Sociale, maturato negli ambiti delle attività Lions atte al miglioramento civico, culturale, sociale e morale delle comunità. A fare gli onori di casa il dott. Alfredo Di Cerbo, Presidente Lions Club Rho e la poetessa Rita Iacomino, socia Lions Club Rho, ideatrice del Premio e presidente esecutivo di questa prima edizione. Ospite d’onore e presidente onorario del Premio Energia per la Vita l’attore e regista Alessandro Quasimodo, testimonial nel mondo della Poesia di Salvatore Quasimodo.

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Prestigiosa la Giuria del Premio con Fabiano Braccini – Poeta e operatore culturale; Antonio Colandrea – Poeta; Carmelo Consoli – Poeta; Deborah Coron - Operatore culturale; Hafez Haidar – Docente universitario; Rodolfo Vettorello – Poeta e operatore culturale. Nel corso della cerimonia è stato consegnato il Premio alla Cultura per la Medicina a Paolo Veronesi, Medico Chirurgo, e il Premio alla Carriera per l’Economia e la Politica a Silvio Beretta, Professore ordinario di politica economica presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Pavia. Riconoscimenti diversi, quali operatori culturali di rilievo, sono stati conferiti ai membri del Comitato d’Onore: Giulio Maggioni: Socio Fondatore Lions Club Rho; Alfredo Di Cerbo: Presidente Lions Club Rho; Maristella Roma: Past President Lions Club Rho; Guaman Allende: Presidente del CEACM del Consolato dell’Ecuador a Milano; Rina Gambini: Operatore culturale; Anna Montella: Scrittore, operatore culturale; Paolo Ruffilli: Scrittore e poeta; Giuseppe Russo: Psicologo psicoterapeuta; Roberto Sarra: Scrittore ed operatore culturale; Narcisa Soria Valencia: Console Generale dell’Ecuador a Milano. Il LEONE simbolo dei Lions, l’Associazione di Servizio più grande al mondo, è stato consegnato all’attore/regista Alessandro Quasimodo per meriti culturali ed artistici; ad Anna Montella, scrittore ed operatore culturale, per l’impegno profuso e la professionalità nelle varie fasi del premio; ad Armando Muti e a Patrizia Parravicini, rispettivamente Direttore Artistico e Segreteria Organizzativa del Premio, nonchè socia Lions Club Rho, per l’impegno e la preziosa collaborazione. Sono intervenuti, a rappresentanza delle Autorità locali, Pietro Romano sindaco di Rho, Giuseppe Scarfone, assessore alla Cultura del Comune di Rho. Il salotto culturale, affidato alla conduzione della giornalista Daniela Salerno in un tripudio di rose gialle e blu, i colori Lions, è stato animato da alcuni intermezzi musicali di grande suggestione con la Prof.ssa Antonella Benatti al Flauto Traverso e Elena Piva all’Arpa. Questa prima edizione del Premio, articolata in più sezioni a tema libero, ha ottenuto un grande riscontro partecipativo con 681 Autori dall’Italia e dall’Estero, per un totale complessivo di 1285 lavori da esaminare tra poesie inedite (944), racconti inediti (217), poesia edita (124 volumi).

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In ordine di posizione in classifica gli autori premiati, cinque per ciascuna sezione. I primi tre classificati di ogni sezione e l’autore premio speciale per la poesia dialettale hanno ricevuto premi in denaro. Per la sezione Poesia inedita: Umberto Vicaretti da Roma, Rita Imperatori da Perugia, Ivan Fedeli da Ornago (MB), Oliviero Angelo Fuina da Oggiono (Lecco), Stefano Baldinu da San Pietro in Casale (BO). Per la Sezione Narrativa Inedita: Fiorella Borin da Milano, Monika Traszik da San Vito Chietino (CH), Maurizio Di Benedetto da Locate di Triulzi (MI), Francesca Bottari da Monfalcone (GO), Rosaria Pepe da Napoli. Per la sezione Poesia Edita: Carla Mussi da Piombino (Livorno), Valentino Ronchi da Melzo (MI), Gianni Vianello da Roma, Franco Casadei da Cesena (FC), Isabella Sordi da Mestre (VE) Premio speciale per la poesia dedicata all’immigrazione: Giuseppe Sergi da Reggio Calabria. Premio speciale per la poesia dialettale, offerto da Ekojournàl: Bruno Castelletti da Verona. Negli ambiti del Premio “Energia per la Vita” in un gemellaggio simbolico con gli organismi culturali ospiti, per un percorso di crescita comune, sono stati assegnati, altresì, i seguenti riconoscimenti: Premio Thesaurus: Giuseppe Vetromile da Madonna dell’Arco (NA). Premio Iplac: Maria Grazia Gori da Pistoia. Premio La Luna e il Drago: Franca Canapini da Arezzo. Sei i giovani autori di età inferiore ai 18 anni che sono stati riconosciuti pari merito. Per la Poesia inedita: Federico Fiorilli, Sofia Franceschetti, Alessandra Mazzarella, Silvia Novelli. Per la Narrativa inedita: Veronica Caramuscio, Martina Carciaghi. Al termine della cerimonia di premiazione si è tenuto il pranzo con gli autori e gli ospiti d’onore presso le sale dell’Hotel Monica Fiera.

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Da dx Alessandro Quasimodo, presidente onorario del Premio – Rita Iacomino, presidente esecutivo del Premio – Alfredo Di Cerbo, presidente Lions Club Rho, promotore del Service

Panoramica della sala

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Prof.ssa Antonella Benatti al Flauto Traverso e Elena Piva all’Arpa.

Tavolo Relatori

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Premio alla Carriera per l’Economia e la Politica a Silvio Beretta Professore ordinario di Politica Economica presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Pavia


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Silvio Beretta, professore ordinario di Politica Economica presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Pavia

Rita Iacomino, Hafez Haidar, Alfredo Di Cerbo, Silvio Beretta, Alessandro Quasimodo, Rodolfo Vettorello

Silvio Beretta, Professore ordinario di Politica Economica nella Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Pavia. Soggiorni di studio e ricerca presso il National Institute of Economic and Social Research di Londra. Membro effettivo dell’Istituto Lombardo - Accademia di scienze e lettere. Foreign Research Fellow del Center for european studies della City University di New York. Honorary Member, Academy for the humanities and sciences, City University of New York. Personal Member della Société universitaire européenne de recherches financières. È stato Preside della Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Pavia dal 1982 al 1990. Pro-Rettore dell’Università di Pavia (incaricato dei rapporti esterni) dal 1989 al 1991. Pro-Rettore Vicario dell’Università di Pavia dal 1991 al 1993. Membro del Comitato scientifico dell’Istituto regionale di ricerca della Lombardia (IReR) fino al 1988. È Presidente del Comitato scientifico del Centro di studi aziendali e amministrativi di Cremona. Membro del Comitato scientifico dell’Istituto per l’enciclopedia della Banca e della Borsa (Roma) dal 1991. Membro del Consiglio di Amministrazione della fondazione “Sandra e Enea Mattei - Collegio Nuovo” di Pavia. Presidente della “Dante Alighieri” di Pavia. Vice-Presidente della Fondazione Banca del Monte di Lombardia dal 1993 al 1997.

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Premio alla Cultura per la Medicina a Paolo Veronesi Medico Chirurgo


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Paolo Veronesi, Medico Chirurgo

Da dx: Paolo Veronesi, Hafez Haidar, Rita Iacomino

ll dottor Paolo Veronesi è nato ad Abbiategrasso il 6/1/1971. Si è laureato in Medicina e Chirurgia presso I’Università degli Studi di Milano nel 1997 e si è specializzato in Chirurgia Generale presso I’Università Vita&Salute Ospedale San Raffaele di Milano nel 2004, Direttore Prof. Valerio Di Carlo, dove ha potuto formarsi nell’area di Chirurgia Generale, Oncologica e d’Urgenza. Ha proseguito la sua attività lavorativa presso il Policlinico di San Donato Milanese, I’Istituto Clinico Humanitas di Rozzano, la Clinica Humanitas Gavazzeni di Bergamo. Ha conseguito attestati di ATLS (Advanced Trauma Life Support), PHTLS (PreHospital Trauma Life Support), BLSD (Basic Life Support Defibrillator), Ecografia-fast. Ha partecipato a corsi ACOI e SIC di chirurgia laparoscopica avanzata. Ha partecipato a corsi di Colo-Proctologia presso Colorectal Eporediensis Centre. È stato tutore di Metodologia Clinica e Propedeutica Chirurgica presso il San Raffaele di Milano. Dal 2012 è Aiuto presso l’Unità Operativa di Chirurgia Generale presso Humanitas Mater Domini. È autore e coautore di 18 pubblicazioni scientifiche. Autore in collaborazione con la Dott.ssa Francesca Scaltrini di un corso di Primo Soccorso verso i bambini da diffondere nelle scuole e agli adulti. I suoi interessi non professionali sono la cucina, i libri, la musica {suona la chitarra} e la corsa. 18


Sezione A Poesia inedita Le Opere premiate


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Il grido della rosa di Umberto Vicaretti

Arreso alle ombre già s’incurva il giorno, questa scommessa che giocammo ai dadi, l’avere e il dare al volgere di lune, un grido e una preghiera a ogni caduta. Più non mi tenta ormai l’irraggiungibile, perfetta geometria del girasole (perla del caos, o forse orma d’Eterno?). Le luci che s’accendono su questo cielo che sovrasta i cosmi hanno perduto il brivido dell’ora che trepida in aprile s’apprestava a incoronare le costellazioni. Sfoglia ancora le bluse della luna l’arco del sole, e ancora seduce amanti il fremito di Sirio. Ma noi sappiamo il grido della rosa, il suo martirio al vento degli autunni. Abbiamo attraversato questa vita alzando vele indomite ai naufragi, noi argonauti che inseguimmo il sogno. Sfaldano ancora il cuore il rosso e il nero (tenace è la memoria dei papaveri), ma il tempo è tutto consumato ed ora dòmano fuochi l’ossido e la neve, spengono soli, accendono silenzi. Fermo il respiro e sento le voci che cantarono il mattino. Se appena tendi il cuore e ascolti, cara, la sera è un’urna viva di memorie, volo accorato d’archi, incantamento.

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Autore 1° classificato Sezione A Poesia Inedita UMBERTO VICARETTI con l’Opera “Il grido della rosa”

L’attore/regista Alessandro Quasimodo premia l’autore Umberto Vicaretti (a dx)

Tra i giochi delle luci e delle ombre, nella meraviglia delle geometrie e dei cosmi e nel naufragio dei sogni si dipana questa esemplare lirica a cui la maestria poetica di Umberto Vicaretti dà corpo. Seduce di questa bellissima composizione l’ottima costruzione della parola, il fascino delle immagini proposte, il senso dell’eterno perdersi e ritrovarsi nella bellezza, nella armonia e nelle illusioni della vita. Il nucleo centrale della lirica assume alta rilevanza, “nel grido della rosa” e in quel suo “martirio al vento degli autunni” che trasmette il senso dell’estrema fragilità dell’avventura umana, del suo dolore e del continuo alternarsi fra le luminosità celesti, le solarità tutte e le amarezze dei silenzi. Resta come sempre, e il poeta lo sa bene, solo l’urna viva delle memorie che può dare ristoro e meraviglia all’esperienza vissuta, con un volo accorato d’archi e l’incantamento con cui chiude la sua opera. Carmelo Consoli

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Di quale pace di Rita Imperatori

Non sa di pane, non profuma d’olio la pace distesa sui discorsi d’occasione; non spezza, da sola, le catene una parola più lieve delle altre. È solo un guscio disseccato di lumaca per chi, dal marciapiede, anche dei canti di chi sventola bandiere raccoglie le briciole minute. Per gli ultimi la pace è latte per i figli, fieno per le capre e tetto per i vecchi; è terra da mettere a coltura e scuola con i banchi e la lavagna. Non è, la pace, il prezzo da pagare per avere gli avanzi di chi ha troppo; non è biennale festa di colori degli onesti in marcia verso Assisi. È, la pace, un altro modo di contenere l’altro: non immagine che irrompe dall’esterno ma un sé diverso che ti abita da sempre. Nell’uomo chino, rotto dagli stenti, ti riconosci come in uno specchio e per la pace combatti la sua guerra. Non c’è bisogno di spargere altro sangue, può bastare un pensiero quotidiano: l’ingiustizia che insudicia la terra non l’ha voluta il Dio di tutte le creature.

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Autore 2° classificato Sezione A Poesia Inedita RITA IMPERATORI con l’Opera “Di quale pace”

Il poeta Antonio Colandrea, membro di Giuria, consegna il premio all’autrice Rita Imperatori

Con grande capacità lirica ed efficacia descrittiva l’autrice canta con tonalità talora alte, decise, perentorie, talora dolci, agresti, colme di intimità commossa e chiarisce il senso più profondo e genuino del concetto della pace. Musicalmente stende i suoi versi toccando al tempo stesso le corde della denuncia e quelle dell’amore e della fratellanza, concludendo la sua poesia con un lapidario e salvifico messaggio. “l’ingiustizia che insudicia la terra/ non l’ha voluta il Dio di tutte le creature/”. È una lirica di ampio respiro umano, metricamente ben impostata con immagini e considerazioni di immediato impatto che fanno riflettere, intenerire, risvegliare la dignità umana mettendo a fuoco le disuguaglianze e i comportamenti da assumere nel riconoscere negli altri la propria somiglianza nella carne e nell’anima. Versi che aprono il cuore, la mente verso l’armonia, il rispetto, la bellezza del vivere tutti insieme e nel modo più fraterno. Carmelo Consoli

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Le anime belle. La Signora Lodi di Ivan Fedeli

La signora Lodi saluta tutti immaginando il vento la mattina e un buongiorno dai figli mentre apre l’Avvenire al bar e sorride piano per non disturbare. Ma ha tanta vita per sé quando scorge il mondo passare e scopre che a maggio il sole è più bello se ci si affaccia e la strada incoraggia a uscire. Invecchia così, senza prendersi sul serio perché a morire c’è tempo, vivere invece è cosa sua. Le basta un giorno pieno e il silenzio degli alberi sotto casa, prima che la città arrivi a mangiare i prati anche lì dove le giacche sfilano e lei pensa a Vivaldi, a primavere possibili. Dicono ami ancora guardare i ragazzi, pettinarsi i capelli perché gli anni donino sempre decoro a chi è libero. Poi va, verso un futuro incontenibile.

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Autore 3° classificato Sezione A Poesia Inedita IVAN FEDELI con l’Opera “Le anime belle. La signora Lodi”

Lo scrittore Hafez Haidar (a sx) membro di Giuria consegna il premio all’autore Ivan Fedeli

L’autore di questa poesia, che non ha certo bisogno di presentazione, grazie alla sua notorietà, ha la rara attitudine di calarsi con una sua particolare purezza di incanto nella piccola quotidianità della vita, facendone terra ideale di gestualità giornaliere che compongono l’esistenza umana tra amori e illusioni, dolori e gioie. Ed il tutto avviene con la massima delicatezza ed il rispetto per le persone coinvolte, abitanti di metropoli in cui il sogno si dilata verso armonie e cromie spesso assenti. Canta appunto sia l’aspirazione alla bellezza che la dura realtà che alita tra le strade e le piazze nel grigiore dei palazzi. Ne viene fuori una poetica di immediata empatia in cui guardarsi e riconoscersi, cittadini tutti, sostanzialmente soli con noi stessi. Così accade che la signora Lodi invecchia nella sua amata routine dei giorni, “senza prendersi sul serio”, come afferma Fedeli, nel mistero e nella gioia “del giorno pieno e degli alberi”. C’è sempre in questo poeta l’apertura alla vita e l’aspettativa della speranza e qua la chiusa finale della poesia mette in chiaro quanto il personaggio descritto assapori, nonostante tutto, l’esistenza e gli amori e vada, come recita l’autore “verso un futuro incontenibile”. Carmelo Consoli 25


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In questa notte da cancelli aperti di Oliviero Angelo Fuina

È una notte d’estate come tante coi silenzi che sanno di vacanza l’aria elettrica muove ancora i passi e il viso beve il cielo in uno sguardo Tutto è possibile nel niente in corso forse sarà l’abbigliamento spoglio quest’aria fuori orario sulle braccia e nulla che ti aspetti al tuo ritorno Ancora mi trattengo fuori casa e musica mi sfiora in lontananza qualcuno balla ancora in compagnia parlando ad alta voce senza ascolto La brace è la mia stella di un istante che solo col respiro si riaccende a volte basta poco ad ingannarmi in questa notte da cancelli aperti Lo so, poi tutto torna in luce fioca di lampadina vecchia a basso costo e queste mie parole più non sanno i voli di un silenzio allo sbaraglio.

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Autore 4° classificato Sezione A Poesia Inedita OLIVIERO ANGELO FUINA con l’Opera “In questa notte da cancelli aperti”

Il poeta Fabiano Braccini (a sx), membro di Giuria, consegna il premio ad Oliviero Angelo Fuina

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Valzer

di Stefano Baldinu

È così triste il nostro addio il cane sulla soglia dorme par che dica: per voi non ci sarà altro incontro solo nella stanza suona un valzer l’unico che abbia il dono di ricordarsi di noi. Presto sarò in un’altra città in un nuovo esilio che si ripeterà per chissà quanto tempo e tu sarai solo un’illusione, inchiostro simpatico tracciato con la penna. Tu già mi leggi nel pensiero parole, ombre dei giorni passati e di quelli che trasfigureranno. Se ci sarà ancora un incontro fra noi quale incontro desideri? Ti restituisco un poco della musica del valzer che non oso interrompere e il mio cuore prosegue la tua danza fra passi, inchini, sguardi e silenzi. Altro di te non attendo.

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Autore 5° classificato Sezione A Poesia Inedita STEFANO BALDINU con l’Opera “Valzer”

Deborah Coron, operatore culturale, membro di Giuria, consegna il premio a Stefano Baldinu

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Il LEONE simbolo dei Lions l’Associazione di Servizio più grande al mondo

consegnato a ALESSANDRO QUASIMODO ANNA MONTELLA ARMANDO MUTI PATRIZIA PARRAVICINI


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Rita Iacomino, presidente esecutivo del Premio consegna il LEONE simbolo Lions all’attore/ regista Alessandro Quasimodo per Meriti Culturali ed Artistici

Alfredo Di Cerbo, presidente Lions Club Rho, consegna il LEONE simbolo Lions ad Anna Montella, scrittore ed operatore culturale, per l’impegno profuso e la professionalità nelle varie fasi del premio

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Rita Iacomino, presidente esecutivo del Premio, consegna il LEONE simbolo Lions ad Armando Muti, direttore artistico del Premio, per l’impegno e la preziosa collaborazione

Rita Iacomino, presidente esecutivo del Premio, consegna il LEONE simbolo Lions a Patrizia Parravicini, socia Lions Club Rho e segreteria organizzativa del Premio, per l’impegno e la preziosa collaborazione

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Sezione B Narrativa inedita Le Opere premiate


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Autore 1° classificato Sezione B Narrativa Inedita FIORELLA BORIN con il racconto “Luana dai capelli rossi”

L’attore/regista Alessandro Quasimodo consegna il premio a Fiorella Borin

Con indiscutibile e avvincente talento narrativo l’autrice affronta il tema della depressione e della solitudine, in cui il protagonista si illude di riuscire a coprire un silenzio insopprimibile con i rumori di una nuova casa: “Il rumore uccide i pensieri… E zittisce i ricordi”. È un racconto che ha per protagonista un giornalista e la sua fuga lontano da tutti, ma soprattutto da se stesso e infine del suo ritorno: risentire la voce della moglie amata nel suo ultimo dono, una poesia che lo scuote all’improvviso, lo riporta a contatto con la realtà e lo costringe ad affrontare la propria deriva, a uscire dal tunnel della depressione e dei sensi di colpa: “Lei non è dal suo mare ancora nata, lei è musica e insieme parola, è il legame che mai si potrà sciogliere fra tutto ciò che vive nel creato”. La raffinata scrittura dell’autrice coinvolge il lettore rendendolo accorato spettatore di eventi descritti con intensa penetrazione psicologica e ritmo sapientemente misurato, lo induce alla riflessione e a sentirsi partecipe delle umanissime sorti del protagonista senza sentimentalismi. Deborah Coron 36


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Luana dai capelli rossi di Fiorella Borin

“Bravo, Paolo, stai lavorando bene”, disse Morgagni, il direttore. “Con la tua firma, quattro o cinque lettori in più li abbiamo guadagnati …” Gli strizzò un occhio; in realtà, a dispetto della crisi, la diffusione del giornale era aumentata di qualche migliaio di copie. Poi, tornando serio: “Ho saputo che non stai più alla pensione Edera. Hai trovato casa?”. Paolo assentì. “Ho affittato un appartamentino sopra il bar Sport, con una splendida vista sulla camionabile”. Morgagni si lasciò scappare una parolaccia. “Il posto più rumoroso del mondo! Qui in redazione abbiamo ricevuto decine di lettere di protesta dagli abitanti della zona …”. “Proprio quello che cercavo. Rumore: tanto, e a qualsiasi ora”. “Il rumore uccide i pensieri”, commentò il direttore. “E zittisce i ricordi”. Paolo annuì. “Saresti stato un bravo psicologo”. Morgagni si picchiò sulla fronte. “Adesso capisco! Sei andato via da Venezia perché non sopportavi più il suo silenzio!”. “Il silenzio e l’acqua, direttore. Qui non passa neanche un fiume. La mia casa di Venezia invece si affacciava sul canale della Giudecca …”. Paolo adesso si stringeva le mani una nell’altra, per contrastarne il tremito. “Vivere è il mestiere più difficile che ci sia. Io sopravvivo, ed è già qualcosa”, mormorò a occhi bassi. “Guarda che la depressione si cura. Farmaci, psicoterapia, tempo, volontà di guarire … Sei andato da quello psicologo di cui ti ho parlato?”. “No”. “E quando pensi di telefonargli per fissare un appuntamento?”. Paolo abbassò lo sguardo. “Domani, dopodomani … non so”. “È la centesima volta che mi rispondi così. Sono già passati due anni, Paolo! Guarda che la vita non è un’ininterrotta catena di domani, perché a un certo punto …” Morgagni si morse le labbra, pentito di avere detto troppo. “Scusami”. “Ti saluto, direttore. Ci vediamo lunedì”. Paolo appese l’impermeabile sull’attaccapanni e accese subito la radio. Dal bar Sport proveniva il solito brusio ammazza-pensieri e dalla camionabile il consueto frastuono; ma Paolo aveva bisogno di ancora più chiasso. Sintonizzò la radio su una stazione straniera, sforzandosi di prestare attenzione al suono di ogni parola e di concentrarsi solo su quello. Era una lingua slava, di cui non conosceva neanche un vocabolo. Si gettò a letto vestito, con la radiolina incollata all’orecchio. Fissò le lampadine 37


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accese fino a che gli occhi gli fecero male e solo allora si decise a chiudere le palpebre. Rivide Mirna, seduta nella sedia a dondolo sotto la finestra. Mirna, la sua sposabambina, diciannove anni, mani piccole e lentiggini sul naso. Era settembre, il sole tingeva di rosso il cielo sopra il canale della Giudecca e Mirna pareva uscita da un quadro antico, con i capelli sciolti sulle spalle e il vestito morbido, che le scopriva appena le gambe. Teneva un libro in mano. “Cosa leggi?”. “Rileggo, vorrai dire”. Aveva riso nel suo modo buffo, arricciando il naso. Gli aveva mostrato la copertina. “Osip Mandel’stam, Cinquanta poesie. Ho voglia di commuovermi un po’, di trattarmi bene… In modo da essere irresistibilmente romantica, stasera, quando ceneremo a lume di candela in quel ristorante in riva al mare. Hai già prenotato?”. Paolo aveva abbassato lo sguardo. “Proprio di questo ti volevo parlare. Ci sarebbe un problema. Lanzilao ha avuto un attacco di sciatalgia e devo sostituirlo a Berlino. Mi pagheranno bene, sai, la trasferta … Il mio aereo parte fra quattro ore”. “E quando torni?”. Paolo aveva allargato le braccia. “Dopodomani, al massimo venerdì … Spero.” “E la nostra cena?”. Gli occhi di Mirna si erano fatti lucidi. Aveva chiuso di scatto il libro e si era alzata in piedi. “Rinviata. Scusami, scusami …”. Paolo aveva fatto il gesto di abbracciarla, ma lei aveva fatto un passo indietro. “Rinviata significa annullata, o mi sbaglio?”. “Ne riparliamo al mio ritorno. Ma cerca di capire … se voglio fare carriera, non posso rifiutare …”. “Giusto. Non puoi”. Mirna si era accarezzata la pancia, ormai tonda. “Tutto questo non ci piace per niente, vero, Lulù? Diglielo, al tuo papà, che è un bruto. Diglielo, che non si può rimandare sempre tutto e ripetere domani, domani, forse dopodomani, la prossima settimana …”. Teneva lo sguardo puntato sul ventre, quasi vedesse davvero il volto della creatura che cresceva dentro di sé. Aveva già deciso i nomi: se maschio, Ludovico; se femmina, Luana. E fino al giorno del parto, Lulù. “Mirna, ne riparliamo al mio ritorno. E ora scusami, ma devo prepararmi la valigia”. “Vuoi che ti aiuti?”, aveva chiesto lei. “Ma no, faccio da solo”. “Allora, quando hai finito, ricordati di prendere il foglietto che ho messo sul tuo

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comodino”. “Una lista di regali da comprarti?”, aveva chiesto lui in tono allarmato. “Ma no!”. Si era messa a ridere. “Sono alcuni versi di Mandel’stam. Li ho ricopiati per sentirli più nostri: miei e di Lulù. Anche tuoi, forse. Perché mentre li leggevo, ho sentito …”. Si era interrotta, aveva scosso la testa. Forse voleva dire dell’altro, qualcosa di importante che però richiedeva una diversa atmosfera, fatta di intimità complice e languida, non lo sguardo nervoso del marito, che rimbalzava dal suo viso all’orologio a muro, come se ogni scatto della lancetta dei secondi segnalasse un’imperdonabile perdita di tempo. Paolo la aveva abbracciata. E naturalmente si era dimenticato di prendere il foglietto. Quando era tornato da Berlino, il foglietto non c’era più. E non c’era neanche il rumore del televisore acceso, benché fossero le dieci di sera e Mirna avesse l’abitudine di seguire i programmi fino a mezzanotte. C’era solo buio e silenzio. Dalle finestre aperte entrava il rumore delle onde che battevano sulla riva, e il suono dei motori dei battelli che scorrazzavano lungo il canale. L’aveva chiamata. “Mirna … Mirna …”, dapprima con dolcezza, poi con ansia crescente, correndo da una stanza all’altra, “Mirna! Mirna!”, spaventato da tutto quel silenzio che silenzio non era, ma la voce scura di una città d’acqua. Mirna non c’era. E il suo cellulare era là, spento, nella borsetta lasciata come sempre sulla cassapanca, in ingresso. Si era messo a gridare, lui che non aveva mai alzato la voce. E aveva smesso di gridare solo quando avevano suonato alla porta. Si era trovato di fronte un’anziana condomina che farfugliava, in dialetto veneziano, una storia inverosimile: Mirna che barcolla, lungo le scale, aggrappata al corrimano, e dice di sentirsi male e chiede di essere portata in ospedale, e allora la signora del primo piano chiama il 118 e le rispondono che manderanno subito la lancia del pronto soccorso, così, piano piano, in tre, una più vecchia dell’altra, accompagnano giù Mirna, in modo che non appena arriva il motoscafo del 118 i barellieri se la portino via, ma a ogni gradino Mirna si fa più pallida, geme, si lamenta, perde sangue, la sua gonna è zuppa di sangue, ci sono voluti tre secchi di acqua e candeggina per lavare le scale da tutto quel sangue, e così telefonano un’altra volta al 118, dicendo di spicciarsi con quel motoscafo della malora, altrimenti la donna muore, e muore anche il bambino che porta nella pancia, e quando il motoscafo finalmente arriva, Mirna è più bianca della neve, più fredda della neve, e dice una cosa sola, una cosa strana, e poi muore. “Che cosa ha detto?”, aveva domandato lui, con la voce rotta. “Mah, non so se gò capìo ben…”.

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“Me lo dica!”, aveva urlato lui, disperato. “Ciao Luana”, aveva bofonchiato la donna. E subito lo aveva abbracciato, facendogli le condoglianze. Poi gli aveva spiegato che lei e tutte le altre prefiche del condominio avrebbero tanto voluto avvisarlo, ma non conoscevano il numero del suo cellulare, e che tutto era successo così in fretta… “Quando?”. La vecchia aveva guardato l’orologio. “Un’ora fa”. E lui si era ricordato di avere perso un sacco di tempo, lì all’aeroporto di Tessera, per raccontare ai colleghi di altre testate aneddoti, facezie, curiosità della vita veneziana, di cui lui si vantava di essere un buon conoscitore … e se non ci fossero stati tutti quei proverbi e quelle battute – ah, quanto li aveva fatti ridere! – lui sarebbe arrivato in tempo, lui avrebbe salvato Mirna, lui non sarebbe qui a pestare pugni nella porta, mentre la vicina si fa il segno della croce e ripete: “O Madona santa, el xe deventà mato!”. Se non ci fosse stata Venezia ad abbindolare lui e tutti gli altri con la sua bellezza così maestosa, con la sua storia così lunga e affascinante, se i canali non avessero avuto così tante luci riflesse dai lampioni, se le pietre non avessero avuto così tante storie che andavano a tutti i costi narrate, se quella città non fosse stata così bella e ricca e incantatrice, lui non avrebbe perso due ore in chiacchiere, ma sarebbe arrivato in tempo. Si era precipitato in ospedale. Un infermiere, grasso e paterno, lo aveva accompagnato in obitorio. Lulù era una lei. Una piccola morticina bianca come la madre. Un feto di sette mesi, così minuscolo che gli sarebbe stato tutto in una mano. Luana. Aveva i capelli rossi di Mirna. “Ciao, Luana”, aveva detto lui, e poi gridato, gridato, gridato … Paolo si mette seduto di scatto sul letto. Alza il volume della radiolina, barcollando si dirige verso il bagno, vomita, si sciacqua il viso e si lava i denti, inghiotte un paio di tranquillanti e si siede accanto alla finestra che dà sulla camionabile. Il fracasso dei Tir lo calma. “Va tutto bene”, ripete sino a che si addormenta, con il braccio sul davanzale e la testa posata nell’incavo del gomito. L’indomani riesce a scrivere una lettera. La prima lettera da quando sono morte la sua sposa-bambina e quella bimba dai capelli rossi che non è mai riuscita a vedere quanto fosse bello (o brutto) il mondo. La lettera è indirizzata a suo fratello. “Per favore, mandami il libro di poesie di Mandel’stam che leggeva Mirna. Ha la copertina bianca. Questo è il mio attuale indirizzo”. Chiude la busta e solo dopo averla chiusa si chiede se per caso ha aggiunto

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almeno un grazie, o un saluto. Non ha voglia di riaprirla per controllare. La imbuca così. Il libro arriva cinque giorni dopo, accompagnato da una lettera che Paolo non legge nemmeno. Ha riconosciuto la calligrafia del fratello e non gli importa nulla di quanto lui possa avergli scritto. Conosce già, una per una, l’elenco delle parole sagge e consolatorie che lui avrà inanellato con la sua calligrafia spigolosa, da notaio. Apre il libro. Sulla prima pagina c’è scritto, con un pennarello azzurro, il nome di Mirna. Sotto, c’è disegnato un fiore. Il bocciolo di una rosa rossa. Il 25 aprile, festa di San Marco, da secoli a Venezia c’è l’abitudine di regalare alla donna amata un bocciolo di rosa rossa dallo stelo lunghissimo. Lui a Mirna ne aveva regalati solo due: il primo, da fidanzati, il secondo, da sposi. E cento boccioli di rose rosse sulla sua bara, il giorno dei funerali. Ma quelli Mirna non li aveva potuti vedere. Sta lì, tra le pagine del libro, la poesia che lui si era dimenticato di portare con sé a Berlino. Un foglio di carta a quadretti. Inchiostro azzurro. Lo spiana, lo legge. Lei non è dal suo mare ancora nata, lei è musica e insieme parola, è il legame che mai si potrà sciogliere fra tutto ciò che vive nel creato… Paolo si passa le mani sugli occhi fradici di pianto e tira su col naso. Lei non è dal suo mare ancora nata … dice a fior di labbra, e si sente meglio. È come se avesse pagato un debito, il debito più grosso che avesse mai contratto. Apre la finestra sulla camionabile. Frastuono, monossido di carbonio, puzza. Lei è musica e insieme parola … Ma fra tutte le note sguaiate e dissonanti della strada, riconosce la voce di Mirna, la sua voce così fresca e giovane, che gli sussurra all’orecchio parole dolci, in veneziano, in quella lingua così morbida e sensuale sulle labbra di una donna. Mirna che ride e arriccia il naso e si accarezza la pancia, dove fa le capriole Luana dai capelli rossi … il legame che mai si potrà sciogliere fra tutto ciò che vive nel creato … Paolo chiude la finestra, spegne la radio. Il bar Sport è chiuso per turno. La stanza è piena di silenzio. E il silenzio adesso non gli fa più paura. Ci sono dei fiori da portare a quel marmo che lo aspetta: sono due anni che lo aspetta, lì, nell’isola dei cipressi e degli angeli di pietra. “Domani torno a Venezia”, dice.

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Autore 2° classificato Sezione B Narrativa Inedita MONIKA TRASZIK con il racconto “La fuga”

Il poeta Fabiano Braccini, membro di Giuria, consegna il premio a Monika Traszik

Con uno stile semplice, quasi informale, ma sorvegliato sul piano della sintassi e caratterizzato dall’accostamento di frasi brevi e sintetiche, scritte in prima persona, la protagonista fissa, attimo dopo attimo (in un tempo presente assoluto), i propri pensieri, mentre si rivolge al suo carceriere: il marito violento che l’ha isolata da tutti, che l’obbliga a sopravvivere convivendo con la paura e l’infelicità, la violenza fisica e psicologica, privandola di ogni sogno, ambizione, speranza. “Una strana condivisione, il letto, la casa, i giorni, il figlio, il niente. La famiglia in apparenza … Nella tua mente contorta viaggi solo tu, io obbedisco e non faccio domande, perché non esistono risposte ragionevoli … La tua mente si muove su strade diverse, percorsi che nessuno conosce, mi rendo conto che non posso camminare in quei luoghi.” Un pretesto banale, botte, grida d’aiuto, poi la fuga in bicicletta fino alla caserma dei carabinieri, al ricovero in ospedale, all’inizio di una nuova vita. Nonostante la forma impersonale, asettica, evidentemente voluta per accentuare la spersonificazione della protagonista svuotata della propria esistenza fino a non riconoscersi allo specchio, l’autrice riesce a coinvolgere il lettore permettendogli, invece, immedesimazione e compassione immediate. Deborah Coron 42


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La fuga di Monika Traszik

Mentre fisso la luce della luna piena che filtra dai buchi delle tapparelle, mi faccio piccola e trattengo il respiro sperando che stanotte non mi tocchi. Sono sul bordo del letto immobile, sdraiata su un fianco e sottile come un filo, al quale è appesa anche la mia vita. Guardo la luce e mi paralizzo come se non fossi presente, come se non esistessi. Vorrei attraversare quei fori, oltre c’è la luce, e anche se è notte non è buia come la mia esistenza. Ho paura, sono terrorizzata e per questo motivo rimango nella mia gabbia dorata. Così la chiamava mia madre quando mi veniva a trovare. Ogni anno arrivava prima di Pasqua e si tratteneva per un breve periodo per godersi il suo nipote preferito, mio figlio. Aveva la capacità di inserirsi nella mia nuova famiglia senza dare fastidio, senza sconvolgere la nostra quotidianità, ma mi osservava in silenzio. Me ne accorgevo mentre lavoravo o nelle faccende domestiche, i suoi occhi scrutavano per capire qualcosa che in cuor suo aveva percepito subito. Ero infelice, tremendamente infelice ma per orgoglio non lo confessavo. Poi una sera mentre eravamo sedute fuori in giardino prese la mia mano tra le sue e cominciò ad accarezzarla. Ad un tratto la aprì e baciò il palmo dicendo: < Sei diventata una donna straordinaria ma chi ti sta accanto è cieco e non sa apprezzare le tue qualità >. Ricordo che piansi in silenzio mentre assorbivo le sue coccole materne come una bimba assetata. L’anno successivo la corriera arrivò senza di lei e poi ancora ed ancora. Per colpa di una grave malattia non ritornò mai più, così rimasi sola con le mie incertezze. I rintocchi della chiesa mi riportano alla realtà. Sono le due, conto i secondi come le pecore ma il sonno non arriva, occhi spalancati e il cuore che batte forte. L’importante è respirare piano e non muoversi, solo un millimetro e potrei cadere dal letto. Una strana condivisione, il letto, la casa, i giorni, il figlio, il niente. La famiglia in apparenza ma dietro il sipario una commedia malriuscita e falsi sorrisi. Siamo bravi come attori, tutto questo è una straordinaria interpretazione di come si può morire lentamente per l’ideale della famiglia. Cinquantotto, cinquantanove, sessanta, un altro minuto passato. Sono lenti questi secondi, interminabili, ma perché dormire tanto sarebbe ancora un sonno pieno di incubi. Arriverebbe quell’uomo che cerca di uccidermi, io scappo, corro 43


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nella notte, mi ferisce, sanguino ed urlo. Salto in piedi fuori dal letto e in quell’istante mi sveglio. Dopo pochi attimi la voce che conosco mi ordina di rimettermi a dormire perché l’indomani avrà una giornata di lavoro, necessita di riposare e non vuole sentire i miei lamenti. Mi infilo sotto il lenzuolo sul bordo estremo del letto e so che l’assassino è accanto a me, lentamente uccide i miei sogni, le mie ambizioni e seppellisce quell’amore che poteva essere importante ma è morto da tanti anni. Dormo con il nemico e sono un codardo. Piango e le lacrime mi scendono in gola per non fare rumore. Finalmente mi addormento. Sogno la gita che facevo da bambina con mio nonno in bicicletta d’estate. Profumi e colori estivi e una lunga strada che attraversa i campi di grano e girasole. Tardo pomeriggio, la leggera brezza spegne il calore del sole estivo. Lui pedala senza tregua, io seduta dietro lo stringo forte per non cadere. < Guarda le ciliegie!> grida e salta giù quasi buttandomi a terra. Prende il suo cappello di paglia e lo riempie di ciliegie croccanti, poi per scherzo me le mette sulle orecchie come fossero orecchini. Gli salto al collo, lo stringo forte e gli sussurro quanto gli voglio bene. Il suono violento della sveglia mi ricorda che sono le sei, è ora di cominciare la giornata. La prima tappa è la cameretta, controllo mio figlio e vedo che dorme tranquillamente. Sono contenta, in fondo ha passato un’altra notte serena senza urla e spinte. Preparo la colazione con la solita routine. Io e te passiamo uno accanto all’altro come persone invisibili, niente da condividere ormai. Con un tono forte e deciso mi ricordi che se faccio tutto come dici tu andrà bene, altrimenti mi togli il figlio e mi distruggi per finire in strada come una puttana. Questo è il solito disco, annuisco senza parlare, tanto so che hai il coltello dalla parte del manico. Io sono la vittima, quella che cerca di scappare ma mi trovi tutte le notti nei miei sogni e uccidi la mia personalità indebolendomi sempre di più. In questo sta la tua forza e questo che urli ogni volta: <Sei sola, nessuno può aiutarti, ti ho isolata da tutti, non puoi scappare o lasciarmi, non ce la farai mai!> Sto zitta e non rispondo, ho imparato a rassegnarmi, ho scelto il silenzio e la sottomissione. So a quale prezzo, la vita di mio figlio per la mia. Lui non ha colpe, io devo pagare per questo errore. Quando lo porto alla fermata della scuolabus siamo fuori finalmente da quella prigione e so che starà bene in un posto sicuro. Torno a casa. Solite faccende, pulizie maniacali, non per scelta mia. Ogni cosa allo stesso posto, sistemo gli asciugamani in fila perfetta, tutto metodico, altrimenti ti arrabbi. Hai delle manie, mi sono resa conto, io faccio parte di questo sistema, anch’io allo stesso modo e allo stesso posto altrimenti il tuo ordine mentale si stravolge e crolla con urla e isterismi inspiegabili. Nella tua mente contorta viaggi solo tu, io obbedisco e non faccio domande, perché non ci sono risposte ragionevoli.

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Dopo che ho sistemato la casa scendo in cantina passando dai garage per portare alcune cose che non servono. Mentre cammino ne vedo uno aperto, è quello del signor Spinelli, un uomo di una certa età che possiede un negozio di antiquariato in centro. Probabilmente la sua donna di servizio si è dimenticata di chiuderlo. Mi avvicino e cerco di abbassare il portone basculante. Il garage contiene mobili d’epoca di diversi periodi e uno specchio con una cornice di legno intagliato, una vera rarità. L’opera d’arte cattura il mio sguardo e non riesco a smettere di ammirarla. Ma chi è quella donna che mi fissa dall’interno dello specchio e com’è finita li? Il colore dei suoi capelli è identico al mio così come il viso e l’abito ma i suoi occhi sono spaventati e spenti. Chi è, cosa vuole da me? Con un colpo secco abbasso la porta. Con passi svelti risalgo al piano superiore, ancora sconvolta da quella visione, cerco di sistemare i miei pensieri. Mi costringo a cancellare quell’immagine ma non vuole scomparire, come un ammonimento aleggia davanti agli occhi. Devo pensare alle cose di casa, alle pulizie, al cibo continuo a ripetermi e con grande sforzo il pranzo è a tavola al solito orario. La cucina è perfetta e non c’è niente fuori posto. Guai a sbagliare, mi ricordo ancora quel giorno che trovasti il piatto non perfettamente asciutto e ci fu una discussione tremenda per questo errore. La tua mente si muove su strade diverse, percorsi che nessuno conosce, mi rendo conto che non posso camminare in quei luoghi. Nel pomeriggio arriva mio figlio e siamo finalmente soli a casa, libertà concessa fino a sera tarda. Ci trasformiamo, siamo umani normali, persone che pensano con la loro testa, giocano e si divertono senza alcun timore. Ci stanchiamo talmente tanto in giardino che il bambino mi chiede di aprire il divano letto in sala per dormire un po’ prima dell’arrivo di suo padre. Lo faccio anche se so che prima che lui arrivi tutto dovrà tornare al suo posto. In un istante è già nel mondo dei sogni. Mi rinfresco con una doccia e vado in camera per cercare un abito leggero, la calura estiva comincia a farsi sentire. Sono tranquilla, posso godermi ancora qualche ora da sola prima del tuo arrivo. In questo pomeriggio di apparente libertà spalanco le ante dell’armadio dimenticando che di solito apro solo una parte e d’improvviso mi vedo nuda nello specchio. Ancora quella donna, quella che ho visto nel garage di Spinelli. Sono terrorizzata, mi sforzo per guardare meglio e non capisco perché mi ha seguita fino a casa, è entrata nel mio appartamento. Scruto i suoi lineamenti, il corpo ancora giovane e sinuoso, capelli lunghi incorniciano il viso triste e gli occhi spenti. Non posso non guardarla, non parla ma i suoi occhi mi implorano di osservarla a lungo. Faccio fatica e quando i nostri sguardi si incontrano il sospetto diventa consapevolezza e fa male, tanto male. Sbatto le ante e piango per quella donna che ho lasciato nell’armadio, segregata in una vita amara. Suonano al citofono, tu alla porta e subito una bufera perché il tuo mondo non è

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perfetto vedendo il bambino che dorme in sala. Litighiamo forte, ho paura che mio figlio si svegli, ho paura di te, di tutto. Poi all’improvviso appare quell’immagine e sento che la donna nell’armadio sbatte i pugni contro le ante ed urla. Ora urlo anch’io, combatto con le parole, tiro fuori quello che ho seppellito anni fa e la donna guerriera lentamente rinasce e mette insieme le sue ossa per alzarsi in piedi. Sei sempre più violento, imprechi, mi trascini per i capelli, schiaffi e botte perché non obbedisco, perché ho dimenticato chi comanda. Grido e chiedo aiuto sempre più insistentemente, alzo le braccia per difendermi, ma sei sempre più violento ed i colpi aumentano con la tua rabbia. Penso di morire, sai che puoi finirmi ed è quello che vuoi. All’improvviso una forza nascosta risale dentro di me mentre sento la voce della donna nell’armadio, alzo il ginocchio e sferro un colpo nel tuo basso ventre. Ho solo un secondo mentre ti pieghi per il dolore, sono già alla porta e scappando in giardino sento le tue imprecazioni: <Puttana, io ti uccido, io ti uccido!> Corro senza scarpe, solo un vestito leggero addosso, prendo la bicicletta e comincio a pedalare forte, scappando per salvare la mia vita. Le strade sono deserte è notte fonda e buio, sono un corpo dolorante pieno di lividi, graffi, un viso martoriato coperto di lacrime. Uno, due, uno, due, mi impongo il ritmo e guardo alle spalle per controllare se mi stai seguendo. Il pensiero di mio figlio rallenta il ritmo, il senso materno mi blocca ma non ho scelta questa volta. Dopo che ho percorso circa tre chilometri esausta mi appoggio al citofono dei carabinieri senza staccare la mano. Vengo subito soccorsa ed accompagnata in ospedale, quasi inutili le mie parole a raccontare quello che è successo, il mio corpo testimonia per me. Medici ed infermieri in uno strano silenzio si prendono cura di me, solo sguardi di tanta compassione e comprensione. Sono immobile, lascio che facciano il loro lavoro e l’ultima frase che mi esce dalla bocca è: <Mio figlio è rimasto a casa, ho paura per lui>. I carabinieri si mobilitano subito e dopo un’ora ritornano per assicurarmi che il bambino sta bene, si trova in un posto protetto dove lo potrò raggiungere a breve appena sarò dimessa. Ancora spaventata ma finalmente sola, sono in una camera di degenza. Lentamente mi avvicino alla finestra. Il sole sta sorgendo, è un nuovo giorno, la luce naturale illumina tutta la città. Il mio volto si riflette nel vetro della finestra e la donna che c’è all’interno sta sorridendo. Finalmente in piedi, sull’orlo della vita guardo l’orizzonte, tu alle spalle dal passato mi stai fissando, occhi che suddividono il corpo. Attraverso le sbarre, coi fili della speranza mi ricompongo e indosso l’abito nuovo.

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PREMIO LETTERARIO INTERNAZIONALE

Energia

per

la Vita

WE S E R V E THE I NTERNATI ONAL ASSOC IATI ON OF L I ONS C LU BS

L I ONS CLUB RHO


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Autore 3° classificato Sezione B Narrativa Inedita MAURIZIO DI BENEDETTO con il racconto “Primi passi”

Il poeta Rodolfo Vettorello, membro di Giuria, legge la motivazione

Perfetta l’immedesimazione nel bambino piccolissimo alle prime ardite esperienze. Abile la narrazione per suscitare l’ emozione e la suspense che nelle ultime righe fa trattenere il fiato. Notazioni avvincenti e affettuose sul sentimento materno, senza cedimenti e sdolcinature e anzi a tratti con una piacevole ironia. Un flash emozionale di grande intensità e rigore. Rodolfo Vettorello

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Primi passi di Maurizio Di Benedetto

Stanno giocando coi cuscini, i miei fratelli. A giudicare dalle loro risate e dalle piume che svolazzano dappertutto, ho idea che si stiano proprio divertendo. Beati loro! Anch’io all’inizio mi divertivo a guardarli, ma adesso questo loro gioco un po’ manesco mi ha stufato. Quasi quasi provo a scendere, così, giusto per fare qualcosa di nuovo. Scavalco la ribaltina del seggiolone e, tenendomi ben stretto ad essa, mi calo giù fino a ritrovarmi col sedere per terra. L’impatto è stato agevole. Ah già, il pannolino... Ancora un piccolo sforzo, mi devo alzare. Mi attacco alla gamba del tavolo e, in men che non si dica, hop-là! Eccomi in perfetta posizione eretta, o quasi, pronto ad affrontare il mio cammino. Devo solo decidere un primo tratto da percorrere, ma è meglio che eviti la sala, lì c’è confusione, ci sono loro a giocare e, non essendosi accorti di niente, potrebbero travolgermi e farmi cadere. Meglio puntare verso il salotto, la strada è sgombra, e la distanza tra il tavolo e il divano mi sembra già più che sufficiente, come inizio. Allora. Coraggio. Non devo emozionarmi. Un piede davanti all’altro cercando di non incrociarli; è così che fanno i grandi, è già da un po’ di tempo che li osservo. Fisso la meta e, abbandonato il mio primo attracco, mi do lo slancio eeeh via, via, via, ... sbadabammm! Ahi-a! Che male! C’era un’infida sporgenza che avevo sottovalutato... Però devo rialzarmi, ci voglio riprovare. E ancora...via, via, via eeed eccomi arrivato! Il bracciolo del divano è stata la mia salvezza. Oddio, salvezza, in fondo, a parte quell’intoppo, non è stato poi così difficile. Mi chiedo come mai non ci ho provato prima. Si, si, è proprio bello camminare, voglio farlo ancora. Provo a sfidare il corridoio, tanto so di potercela fare, ormai, a 18 mesi, sono solide le gambe. Mi lascio alle spalle il divano e ancora, via! Sempre dritto, superando a pieni voti anche il secondo e più impegnativo esame. Stavolta, al mio arrivo, non ho neppure avuto bisogno di attaccarmi, mi sono solo un po’ appoggiato, giusto per darmi un aiutino. 49


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Già, sono stato proprio bravo, chissà lo stupore della mamma, al suo ritorno. Ai miei fratelli però non dico niente; loro dovranno essere proprio gli ultimi a saperlo. Intanto, mi esercito ancora un po’ tornando indietro, anche se... il luccichio di quel ferro che sporge dalla porta, mi incuriosisce. La chiamano “maniglia”. Non l’ho mai vista da così vicino e quindi, già che ci sono, perché non provare a toccarla? Mi allungo appoggiandomi alla porta; è liscia e fredda come i piedini del mio letto. Chissà come funziona. Sono curioso. Adesso mi ci attacco. Oddio, la porta s’è mossa, mi giro per accertarmi che quegli scalmanati dei miei fratelli siano ancora impegnati col loro stupido gioco. Come supponevo, potrei anche spingerla ed uscire, che loro non s’accorgerebbero di nulla. Uscire? E perché no! Sarebbe emozionante. Certo, sono già uscito altre volte, ma questa sarebbe la prima in cui lo faccio da solo. Spingo la porta e, con quattro passi, mi ritrovo direttamente sul ballatoio. La rampa delle scale è all’aperto, per cui posso guardare subito là fuori. Emetto un sospirone, sarà per via del senso di libertà che sto provando, simile a qualcosa che avevo già vissuto tempo addietro. È sufficiente raggiungere il cortile e ognuno è libero d’andare dove vuole. Però ci sono ancora quelle scale che mi si presentano come un grosso ostacolo. In verità, mi fanno anche paura ma, perdio, sono già grande ed è giusto che trovi il coraggio di affrontarle. Mi aggrappo allo scorrimano, non si sa mai, anche se ci arrivo a malapena. Inoltre, procedo come i gamberi, all’indietro. Forse per non guardare in faccia il pericolo ma, di certo, anche per un fatto di comodità e di equilibrio ancora malsicuro. Il primo gradone è andato, il secondo pure, il terzo è diventato quasi semplice; sembra quasi che man mano si rimpiccioliscano. O forse sono io che ci sto facendo l’abitudine. Sto diventando sempre più bravo. Ancora un paio di gradoni, così mi fermo a metà scala e, intanto che riposo, ne approfitto per godermi il panorama. Poi tanto, con calma, riprendo la discesa. Com’è alto da qui. Le persone sembrano piccole come i soldatini di mio fratello. Peccato non riuscire a veder bene tutto il cortile, per colpa del muretto che sorregge lo scorrimano. Magari proprio qui sotto c’è qualcuno che mi conosce.

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Mi arrampico, così, sporgendomi, riesco ad avere una visuale più completa. Arriva la mia mamma! Ora la chiamo, chissà che faccia farà nel vedermi camminare: -Mamma! Mamma, sono qui!-. Niente, non mi vede. Mi sporgo un po’ di più e le faccio ciao con le manine, per farmi notare. Ecco, mi ha visto, sta urlandomi qualcosa che non capisco. E adesso sta correndo, e corre, fino ad arrivare a una distanza sufficiente perché le sue parole, scandite lentamente e pronunciate ad alta voce, possano arrivarmi con chiarezza: -Atta-cca-ti stre-tto e resta lì immo-bile che arrivo-. Non so perché, ma mi sembra un tantino strana, come fosse arrabbiata. Ha il tono apparentemente sereno di quando si avvicinava ad uno dei miei fratelli per poi mollargli un ceffone. Chissà cosa avrò fatto di male. Ed io che pensavo di darle una gioia, iniziando a muovere da solo i miei primi passi, e invece... Mi sa tanto che mi sono guadagnato una bella sculacciata. Eccola, è ormai a pochi scalini e, non appena riesce ad afferrarmi, mi stringe forte tra le braccia e mi sorride; benché abbia incomprensibilmente gli occhi lucidi.

No, non s’arrabbiò quella volta, anzi, era felice. Seppure non sia mai riuscito a capire le ragioni per le quali, da quel giorno, smise di darmi il suo latte. Forse lo perse a causa dello spavento. E forse, gli occhi lucidi volevano suggerirmi qualcosa che solo parecchi anni dopo ho incominciato a capire.

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Autore 4° classificato Sezione B Narrativa Inedita FRANCESCA BOTTARI con il racconto “L’alcolista”

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L’alcolista di Francesca Bottari

Vorrei sapere un solo motivo valido per non andare in Osteria. Ci andava mio padre, mio nonno e mio zio, adesso ci va anche mio fratello. Mia moglie vuole la separazione perché dice che sono alcolista. Lavoro in Cantiere da quindici anni, saldo tutto il giorno infilato in tubi di ferro, respirando i fumi delle saldature e la sera i miei occhi bruciano sempre. Stare lì, ore ed ore, sentire solo il frizzare degli elettrodi ti sfianca. Non parli con qualcuno se non alla mensa, sempre che tu sia fortunato da trovare vicino a te un amico. In effetti ognuno sembra per conto suo a parte qualche gruppetto. Al mio tavolo di solito siede Mario il figlio del meccanico e con lui c’è un po’ di discorso … Oppure vicino a me si mette Dario, appassionato di computer, ne ha sempre una nuova da raccontare, sa un sacco di cose perché viaggia in internet. Così dice lui. Io non ho il computer, non saprei come accenderlo. Della compagnia me ne fa tanta Silvano detto Silva. Lui ama da morire andar per sagre e conosce mille persone, barzellette senza fine, quando con lui attacchi a ridere non la finisci più. Non ti lascia prendere fiato, ne scodella una dietro l’altra e tu dalla mensa esci rimbambito dalle risate! Ma è tutto qui lo svago, nemmeno un’ora e suona la sirena e ti devi imbucare di nuovo a guardare scintille, a sentirle sulla pelle bruciare quando non ti proteggi bene. Da ragazzo avrei voluto diventare ingegnere o geometra. Mi hanno sempre affascinato le costruzioni edilizie, spesso sedevo su qualche muretto di recinzione e guardavo per ore l’andare e il venire degli operai sulle impalcature, mi piacevano anche i suoni metallici che arrivavano quando le gru urtavano le putrelle di ferro appoggiandole a terra. Qualche volta a seconda di come tirava il vento, sentivo anche gli operai parlare tra loro, chiaramente gridavano forte per superare i rumori dei macchinari. Quello a cui tenevo di più glielo avevo chiesto a mio padre una mattina prima di finire le medie inferiori. “Papà, vorrei fare ingegneria quando finisco la scuola, mi lasci?” Mio padre nervoso perché non aveva ancora bevuto il suo bicchiere di vino, mi aveva guardato come si guarda un esattore delle tasse: “Tu devi andare a lavorare! Cosa ti serve di più di saper leggere e scrivere? Non ti basta? In Cantiere ci sono posti liberi come saldatori, farai un corso per saldatori e andrai a lavorare.” Ho fatto così naturalmente, non me la sentivo di contraddirlo, a casa i soldi mancavano sempre e mio fratello era ancora piccolo, da crescere insomma. Mia madre per aiutare faceva le torte per una trattoria e guadagnava 53


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qualcosa, povera donna, già risparmiava su tutto! Così il pomeriggio dopo le cinque di ogni giorno passo in bar. Che male c’è se voglio rilassarmi un po’? Trovo gli amici di tutti i giorni e ci beviamo una bottiglia in compagnia. Subito l’alcol si fa sentire sulla lingua, nel senso che mi fa parlare, e parlo dicendo tutto quello che penso durante le lunghe ore di lavoro. Al banco c’è una bella ragazza, si chiama Tina ed ha una scollatura da paura! Si vede tutto il ben di Dio, non cambierei bar nemmeno se mi offrissero gratis da bere … Credo anche di piacerle perché spesso mi sorride. Sorride anche agli altri ma a me di più, sono sicuro. Noi amici ci facciamo chiacchierate e bicchieri fino all’ora di cena, poi si va a casa. E lì è dura! Mia moglie dice che barcollo e io dico che non è vero, lei insiste che sono ubriaco e io le dico che non è vero fino a quando lei si stanca di gridare e va in soggiorno davanti al televisore. E’ una brava donna, mi lascia la tavola apparecchiata e la minestra tiepida nella pentola, devo solo servirmi. Lei mangia prima perché dice che le faccio schifo così bevuto e attacca la tiritera che non sono un uomo ma un debole con poco cervello. Che ha fatto l’errore più grande della sua vita a sposarmi e che presto se ne andrà, appena avrà trovato lavoro, a costo di andare a grattare legno con la cartavetrata nella fabbrica di sedie. Poi aggiunge: “Meno male che non abbiamo figli!” E questa frase mi colpisce come un pugno sul naso. Io avrei voluto dei figli, li avrei fatti studiare e diventare quello che volevano. Avrei lavorato tutta la vita per loro, non li avrei mai mandati a vivere dentro un tubo di ferro! Mia moglie dice che non vuole figli che al posto del sangue nelle vene gli circoli alcol. Così da anni lei dorme in una stanza ed io nell’altra. Dovrei credere di essere alcolista solo perché bevo vino? O perché qualche volta barcollo? E allora? Tutti quelli che conosco sono come me, perché dovrei essere io il diverso? Sono gli occhi di mia moglie che lo dicono. Sono i suoi sguardi pieni di sdegno e di pietà, sono le distanze che ha messo tra noi, sono le parole che non mi dice più che mi fanno dubitare. Sono le notti insonni e le mattine nervose come quelle di mio padre, forse anche di mio nonno, dell’intera generazione che mi fanno dubitare. Sono i passi molli e tremolanti che faccio per arrivare a casa che mi fanno dubitare. Mi fanno dubitare che mia moglie abbia ragione ed io torto.

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PREMIO LETTERARIO INTERNAZIONALE

Energia

per

la Vita

WE S E R V E THE I NTERNATI ONAL ASSOC IATI ON OF L I ONS C LU BS

L I ONS CLUB RHO


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Autore 5° classificato Sezione B Narrativa Inedita ROSARIA PEPE con il racconto “Schegge di vetro”

Rosaria Pepe

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Schegge di vetro di Rosaria Pepe

Lentamente la mano, sollevandosi leggera dal cuscino, scivola sul comodino per soffocare l’inutile grido della sveglia. Attenta a non far rumore mi alzo scavalcando le cose disseminate intorno, i libri, qualche rivista, i suoi calzini. Il ritmo di un respiro profondo mi accompagna. Evitando l’angolo della cassettiera arrivo alla porta della camera da letto per scivolare fuori, silenziosa, attraverso la ferita aperta sull’oscurità. I movimenti sono pesanti ma con passi sicuri avanzo nel buio ancora denso del corridoio. Mi avvicino alla porta, la apro cercando di non farla cigolare. E’ la stanza delle bambine. Un odore familiare, dolciastro e caldo mi avvolge. La luce soffusa della lampada notturna illumina appena i loro visi ma a sufficienza per i miei occhi. Le osservo dormire tranquille e inconsapevoli. Vorrei rimanere ancora a vegliarle, cacciando i loro mostri. So che non posso mandarli via tutti, né per sempre. Avvicino il viso per scrutarne i lineamenti. Sono così cresciute. Quanto altro tempo mi rimane per poterle prendere ancora in braccio e coccolare? Intanto loro continueranno frettolosamente a crescere. Sollevo il braccio indolenzito per liberare con la mano qualche ricciolo appiccicato alle guance piccole e umide. Inalo il loro respiro, un alito caldo di vita, e lascio un bacio leggero su ognuna. Mi allontano chiudendomi dietro la porta. Continuo nel corridoio dirigendomi quieta verso il soggiorno. Da tempo mi desto all’improvviso da un sonno a singhiozzi, breve e spossato, sempre alla stessa ora, prima ancora della sveglia, quando l’aurora regala la speranza ad altri e la paura di un nuovo giorno a me. Il divano blu di fronte la finestra accoglie il mio corpo gonfio. Lo avevo scelto esattamente per quello che c’era oltre i vetri: blu come il mare, come il cielo, un pezzetto d’immensità sulla quale distendermi. Le sfumature della notte cominciano a perdersi nel dilatare infinito dei colori, la superficie liquida s’increspa, rabbrividisce all’alito del vento. Il braccio mi duole. Osservo la vena, il filo sottile al quale è legata la mia vita, dove un liquido color della passione si era fatto strada per inondarmi, senza amore, il corpo. Perché? Questa inutile domanda mi ferisce. Alzo gli occhi verso l’etere trasparente, avida di seguire l’orizzonte e, forse, trovare una risposta. Gonfia di cortisone m’innalzo come una mongolfiera su nel cielo, leggera come non mai. Sorvolo il ventre della mia città, i vicoli bui ancora narcotizzati dalla notte. Ho sempre amato la loro bellezza intestina, dove si racchiude l’oblio del divenire, il frastuono delle possibilità. 57


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D’improvviso un pensiero sconvolge la mia calma apparente: cosa succederà? Il crepitio di un guscio d’uovo rimbomba ancora una volta nel silenzio della mia testa, nell’apparente immobilità dell’alba, nella mia tentata assenza dal presente, rubandomi l’attenzione. Due concave metà e io al centro, oscillando e traballando incerta fra due realtà. Così vivo da un po’, da quando un piccolo nodulo, un insieme di sgomento, paure, dubbi e indecisioni si è fatto sentire sotto i polpastrelli del mio dito indice e del medio. Incerta mi ero soffermata a palparlo, chiedendomi se fosse vero. Da quel momento sono stata scaraventata senza avviso, un’indicazione, una premessa o un suggerimento in un mondo parallelo. Il corpo, precisamente il mio seno, in un’evoluzione di cellule anarchiche determinate a sovvertire il loro ordine predeterminato, ha intrappolato la mia mente nel limbo dell’attesa dove continuo ad aggrapparmi alle pareti levigate della paura e scivolando ricado nel vortice del dubbio aperto sotto i miei piedi. Sento la realtà allontanarsi da me. O forse sono io ad essere andata via, isolandomi. Non riesco a condividere la concretezza, la tangibilità dell’esistenza, non riesco ad esserne partecipe. Ho paura di aver oltrepassato un confine, di vivere in universo parallelo e oscuro. Un’altra dimensione. Nonostante ciò ricomincio ogni giorno, devo ricominciare, in un modo o nell’altro, capovolgendo l’ordine personale con cui ho guardato me stessa, ho portato avanti la mia vita e quella della mia famiglia. Ogni giorno devo giocare d’anticipo con la paura, prevenendo quello che posso nello spazio concessomi da una maledetta diagnosi. Ogni giorno, prima di tutti, mi sveglio dall’incoscienza del sonno per riordinare i pensieri e potermi ritrovare per affrontare uno stravolto quotidiano. Soprattutto, ogni giorno devo trovare la forza per sorridere alle bambine, per dire loro continuamente “mamma sta bene, tutto passerà”, per condividere come posso l’amore di mio marito. Diligentemente, seguendo una mia personale terapia ho stabilito con impegno cosciente e ragionato di prendere una decisione al giorno per provare a riavere un certo controllo sulla vita. E così questa mattina, senza dirlo a nessuno, taglierò i capelli. Si, voglio recidere l’ultimo filo che mi lega ancora a questa immagine assurda di me, già alterata. Nessuno lo saprà. Una sorpresa per tutti, così come il verdetto che mi porto sulle spalle. Eppure sono innocente! Così come questa partita a scacchi fra me e il futuro. La luce ha ormai riempito la città. Sento i passi avvicinarsi incerti, a mezza voce mi sta cercando. Mi alzo dal divano andandogli incontro. “Da quanto tempo sei sveglia? Perché non mi hai chiamato?” mi chiede perplesso. “Se volessi svegliarti tutte le volte ti ridurrei uno straccio,” rispondo con un

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mezzo sorriso. Lui mi abbraccia affondando il viso nei miei capelli, voluminosi, ricci, indomabili, ne inala l’odore familiare, attratto da quel morbido groviglio, una cascata dove immergere le dita, leggera e luminosa. “Porto io le bambine a scuola. Hai cominciato la chemio e devi riposare” mi dice inanellandosi le dita con quei morbidi ricci. “No Mario, va bene così, le porto io. Ce la faccio,” aggiungo allontanando la testa dalla mano di lui, allontanando il corpo. “Adesso le vado a svegliare”. Indosso a fatica la normalità dei gesti e un buonumore che mi stanno stretti e rifaccio il corridoio al contrario. Fuori il portone l’aria è fresca, primaverile. “Avete preso tutto?” chiedo alle bambine e prendendole per mano gli confido: “Oggi mamma vi farà una sorpresa!” “Cosa? Dai mamma, diccelo!” dicono eccitate. “Non posso, altrimenti che sorpresa sarebbe?” e prendendole per mano ci incamminiamo nel vicolo. Le stringo a me non solo per il traffico caotico, a filo di rasoio ai nostri corpi, giù per i vicoli angusti. Le loro mani leggere mi sollevano dal dolore, dalla paura. Senza accorgermene mi aggrappo alle piccole dita ma loro non sembrano notarlo. Il contatto mi ricorda di essere qui in questo momento e in tutti i momenti che si susseguiranno, infilati come perle preziose nella collana della mia vita. Fuori il portone della scuola un desiderio repentino mi sussurra di portarle via, di prendere il treno e andare verso il mare, via da tutti, dal traffico dentro e fuori la mia testa. Potrei giocare con loro e farmi perdonare le assenze dei gesti quotidiani, dei miei pensieri. Forse potrei ritrovare la serenità di un momento. Forse. Esito prima di lasciarle. Non lo faccio. Lascio che una finta normalità segua il suo corso. Cammino nella luce obliqua degli spicchi di sole, incuranti dell’umido respiro notturno ancora presente nelle ombre del vicolo. Potrei ubriacarmi di luce, ne ho bisogno per fermare il buio che sta avanzando dentro ma non posso. Percepisco tutto al di là di un vetro posto su di un confine immaginario fra me stessa e il resto. Le bambine, il marito, il lavoro, i familiari e gli amici agganciano il mio corpo al presente. Eppure la mia mente è lontana, nel vortice di uno spazio sconosciuto a me e agli altri. E’ accaduto da quando ho sentito il rimbombo dello scricchiolio di quell’uovo nella testa, da quando inerme dinanzi al maledetto verdetto mi sono scissa: ciò che ero da ciò che sarei stata. Io dal resto oltre il vetro. Il mio corpo continua a trasportarmi. Un vuoto nella testa, uno allo stomaco e uno palpabile nel petto. Per strada qualcuno mi saluta da un altro universo. “Luisa buon giorno! Che bella giornata, finalmente un po’ di sole, non se ne poteva più del freddo!” “Buon giorno Maria” rispondo. Non le dico il solito ‘come stai’ perché, in verità, non m’importa niente e, principalmente, non voglio sentirmelo chiedere. Ancora quel maledetto vetro, la lastra trasparente è lì fra noi due. La vedono gli altri?

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Una pioggia di pugni per frantumarla. Mi manca il respiro. La donna continua incurante del mio silenzio: “Ho appena accompagnato Giuseppe a scuola. Oggi me la prendo comoda. Vado finalmente dal parrucchiere, guarda come sono rovinata! Sei fortunata con i tuoi ricci, stanno sempre bene. Li avessi anch’io come i tuoi!” Sento il calore, il peso leggero, lo spazio che ingombrano, riflessi di luce ribelli. Che idiota! Che ne sai tu dei miei capelli? Devo allontanarmi. Con una scusa la saluto. Continuo nel vicolo dove il rumore del quotidiano è assordante ma avanzo senza poterlo percepire. Dove sto vivendo? Non è lo stesso quartiere, la stessa città, lo stesso tempo? Dove sto andando? Andrò da un barbiere, si. Meglio lui che un parrucchiere, niente domande, nessuno intorno a guardarmi, cercare di capirmi. Perché ora, perché non aspettare? La chemio farà il suo lavoro. E Mario, che dirà quando li vedrà a ciuffi sul cuscino? E le bambine? Sarebbe troppo per loro. Come cadranno? L’ho visto in un film, no, forse qualcuno mi ha raccontato di averli persi sotto la doccia. Possibile sotto un getto d’acqua? Corti spaventeranno meno quando non ci saranno più. Mi farà meno schifo toccarli e trovarmeli in mano. Un cappello, ecco. Mi piacciono, ne comprerò tanti. Forse una parrucca color nero corvino, alla Valentina di Crepax. Ma lei è bella, con quei reggiseni e mutande poi. E io che ci metto nel mio? E al mare? Un seno si e uno no. Sono vuota. Che devo dire? Niente. Lo sguardo s’incanta proprio su di un petto a malapena contenuto, offerto dal cartellone pubblicitario all’altro lato della strada. Forse ha ragione Benedetta, sono la sua mamma amazzone! Mi farò una bella plastica anch’io, e poi vedremo! Intanto sono mezzatetta. Si, mamma Mezzatetta! Rido silenziosa. Seguo i miei pensieri illudendomi di distogliere l’attenzione dalla paura del poi. Inganno inutile, sarebbe tornata. Sarò crapapelata o mezzatetta, che fortunata, posso anche scegliere! Un sapore salato all’angolo delle labbra. Lacrime lente, silenziose erano venute giù nascondendosi nel sorriso. Lo sapevo, che cretina! Qui, in mezzo alla strada! Il vuoto nella testa, nel petto, nello stomaco. E poi? Cosa succederà? Arriva dinanzi ad una porta di vetro trasparente. Attraverso il cartellino dell’orario di apertura e dei prezzi intravede delle figure maschili. Ha deciso e spinge. Odore di spuma da barba, di uomini. Il barbiere concentrato armeggia con il rasoio intorno alla testa di un cliente seduto, intento sulla sua mano. Si volta per salutarla. Quel posto, tutto quel quartiere erano la sua sfida. Aveva deciso di vivere in una zona cosiddetta ‘a rischio’. Testarda, voleva far crescere le proprie figlie a contatto con la vita reale che pulsava in quella città, senza nasconderle nel falso perbenismo di quartieri affluenti. La loro storia si mescolava con un quotidiano di rinunce, espedienti, inquietudine e malizia in un amalgama, un intreccio di nuove regole, complesse e affascinanti per lei, nuova in quel territorio.

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Non si era mai sentita sola fra le mura di casa. Aveva un mondo intorno a sé che gridava, si muoveva, palpitava, respirava e sudava con lei. Mario, preoccupato per le bambine non aveva approvato la scelta, tuttavia aveva ceduto alle sue insistenti motivazioni. Osava rischiando la serenità della solitudine per un’anarchia invadente, la tranquillità delle più semplici decisioni con l’essere oggetto dello scrutinio altrui e doverlo accettare, l’ordine di un condominio appartato con un degrado comune. I bocconi di vita fagocitati in tutta fretta, venivano digeriti velocemente nel groviglio dei vicoli, sfrecciando le passavano accanto sfiorandola, sul punto di travolgerla in ogni momento. Ancora una sfida. Gli uomini presenti alzano gli occhi, chi dal Corriere dello Sport, chi dal telefonino. Se li sente addosso quasi come un’accusa: che ci faceva là, a disturbare con la sua femminile presenza? Si, sono qui e non m’intimorite. Ho ben altra battaglia nella testa, me ne frego dei vostri sguardi! Uno di loro, incuriosito e memore di una passata educazione, si alza cedendole il posto di fronte lo specchio. Il silenzio è sospeso dalle parole del barbiere: “Buon giorno. Desidera?” “Vorrei tagliare i capelli.” “Qui da me?” ripete lui. “Si, qui. Voglio tagliarli tutti” Lo specchio mi rimanda sguardi di disappunto, il mio riflesso: un viso gonfio di cortisone e stanco, occhi cerchiati, un’espressione celata di ignota paura. Cosa sto diventando, cosa diventerò. Gli uomini hanno ripreso chi la lettura, chi a chiacchierare di calcio. Nessuno interessato ad indagarla, a sezionarla percependo il suo male, il suo dolore, nessuno le regala sguardi pietosi non richiesti. Certo che non vi interesso, il mio viso gonfio non vi attrae, eh? I capelli scendono dal cranio come un velo da sposa, morbido, lungo a coprirle le spalle, a nasconderla. Una vergine da sacrificare. Come sarò? Come ricresceranno i capelli? Il seno lo posso nascondere, ma i capelli? Che strano, due mammelle, due gemelli simili eppure diversi, uno buono l’altro cattivo, uno forte e l’altro debole. Il barbiere si avvicina e guardandola attraverso lo specchio: “Come vuole lei, siamo qui per questo” e voltandosi verso i presenti aggiunge: “Mica facciamo differenze, vero?” e a lei: “Ha qualche idea?” “Si, me li tagli tutti, li rada a zero” Gli sguardi si posano su di lei curiosi. Il barbiere non risponde e non chiede altro. La fa accomodare al posto di lavaggio. Le mani si muovono sicure e serene sulla sua testa fra spuma profumata e i suoi ricci ribelli. L’acqua scende accarezzandola. Così impiegherò meno tempo per lavarli e non perderò più le ore ad asciugarli. Il tempo: ma ne avrò? E quanto ne avrò? Si alza, i capelli raccolti nell’asciugamano avvolto intorno alla testa. Lui la fa riaccomodare dinanzi allo specchio. Aveva visto la stessa acconciatura in ospedale, sulla testa di alcune donne. Chi non sopportava la parrucca metteva un copricapo

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alla Moira Orfei. Tira via quel telo lasciando liberi i capelli. Rimane a guardarli mentre il barbiere li spazzola. Non fa domande, non vuole sapere nulla di lei. Le forbici s’insinuano nella chioma tagliando. Ad ogni clic come una fucilata cade a terra una manciata di capelli. “Continuo?” chiede per avere la conferma. Lei annuisce. Dopo le forbici il rasoio elettrico. Seguendo la rotondità del cranio comincia a tracciare percorsi sulla testa. Il barbiere, nel suo silenzio, continua inconsapevole ad annientare, devastare, disfare, a radere al suolo quella sconosciuta entrata poco prima nel suo negozio. Lui non sa ma è l’artefice di un nuovo essere. I capelli cascano sul viso, sulle mani, nel grembo. Il ronzio dell’aggeggio metallico non copre il rumore dei pensieri, il suo contatto fa rabbrividire. Nessuno a dirmi che bei ricci, sta così bene, che peccato tagliarli, ma perché. Sono nuda! Sulla testa, nel corpo, ovunque. Non posso tornare indietro, non ora. Sembro una monaca buddista. Mi serve solo una tunica arancione. E cosa posso chiedere al Buddha? Perché a me? Perché alle mie bambine? E Mario? Proprio ora che avevo ricominciato a lavorare. Perché! Sirene spiegate interrompono le letture, le parole, i pensieri dentro e intorno a lei. Qualcosa sta accadendo oppure è accaduta al di là del vetro. La vita in quel posto continua a correre come una pallina nel flipper, sbattendo, accendendo luci colorate, guadagnando punti o sparendo inghiottita. Il grido delle sirene la riporta lì, in quello spazio, intimorendola. Chissà perché le chiamano sirene. Non ammaliano nessuno. Le sirene portavano i seni scoperti, no, forse lo ricoprivano di alghe. Gli uomini parlano fra di loro. Fanno commenti. Ognuno dà la sua spiegazione. Bruscamente la porta di vetro si spalanca. Deve avere poco più di vent’anni, magro, jeans e una felpa scura, il cappuccio tirato sulla testa lascia scoperti gli spigoli pallidi del viso. Si muove a scatti, le mani nelle tasche rigonfie. Si porta in fondo al negozio, come già conoscesse lo spazio. “Guaglió va là, addereta ‘a porta” dice qualcuno. Il barbiere non parla, sa che non deve dire nulla, non può. Immobile, la mantellina nera serra il collo, copre tutto il corpo lasciando fuori il viso tondo come una luna. Gli occhi spalancati, increduli, senza staccarsene seguono il ragazzo. Non ho paura, ne ho sprecata già troppa. Le sirene continuano al di là del vetro. La macchina della polizia sfreccia come può fra i vicoli contorti portandosi dietro grida di donne, braccia alzate e rombi di moto. L’urlo acuto delle sirene è soffocato dai panni stesi fra i balconi, catturato dall’incastro dei palazzi, disperso dalla lontananza. “Guaglió viene fora mo mmo’ e vattenne. Curre!” dice ansioso uno dei presenti. Sbuca dall’oscurità, si guarda intorno. I suoi occhi smaniosi incontrano quelli stupiti di lei, non un gesto né una parola. Avanza veloce verso l’uscita. Sulla porta si ferma incerto, si gira e guardandola con occhi neri, grandi, che hanno visto ben

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altro da lei, con voce roca le accarezza l’anima dicendole: “Si na fata!” e così com’era venuto corre via. Sospesa in un turbinio di stupore, ansia, altre paure, rimango immobile, aggrappata come un naufrago a quelle parole, stordita. Il sale mi brucia gli occhi. Mi guardo finalmente allo specchio. Sulle spalle, a terra, intorno a me un mare di capelli e schegge di vetro.

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Organismi Culturali Ospiti Negli ambiti del Premio “Energia per la Vita” in un gemellaggio simbolico con gli Organismi culturali ospiti dell’evento, per un percorso di crescita comune e di condivisione, sono stati assegnati i seguenti riconoscimenti:

Premio Thesaurus

(Cenacolo Letterario Internazionale AltreVoci)

Premio IPLAC

(I.P.LA.C, Insieme Per La Cultura)

Premio La Luna e il Drago

(Caffè Letterario La Luna e il Drago)


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Assegna il Premio Speciale “THESAURUS” alla Poesia inedita “DI NON CHIUDERE LE PORTE STASERA” di Giuseppe Vetromile

Una poesia discorsiva e dall’ampio respiro lirico: una scrittura sapiente e articolata che sa accogliere ed elaborare tanti sentimenti contrastanti e sa offrire un vasto panorama dell’interiorità travagliata del poeta. Una interiorità che assomma fiducia e sfiducia, speranza e delusione, passione e abbandono in un unico canto accorato. Rodolfo Vettorello Presidente del Cenacolo Letterario Internazionale ALTREVOCI Presidente Esecutivo del Premio Thesaurus www.cenacoloaltrevoci.weebly.com

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Rodolfo Vettorello, presidente Premio Thesaurus, legge la motivazione

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Assegna il Premio Speciale “IPLAC” all’opera edita “CHIEDILO AL CIELO” di Maria Grazia Gori

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Premio IPLAC MARIA GRAZIA GORI con l’opera edita “Chiedilo al Cielo”

Roberto Guerrini, fondatore e vice presidente Circolo Iplac, consegna il premio a Maria Grazia Gori

Uno stile pacato quello di Maria Grazia Gori per dire di emozioni sottili, di sentimenti delicati e impalpabili a volte e a volte invece per rivelare al di là della levità delle parole una insospettabile prepotenza di sentimenti e di passioni. La scrittura è raffinata e ricca di belle cadenze musicali e armoniose. Non c’è l’esasperazione dell’isosillabismo né la soggezione alle prescrizioni della metrica, ma l’abbandono a sonorità coerenti e adeguate ai sentimenti e alle emozioni da rappresentare. Versi liberi diversamente articolati sulla sola spinta del proprio intimo sentire. Rodolfo Vettorello

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Assegna il Premio Speciale “LA LUNA E IL DRAGO”

all’opera edita “VIAGGIO NELLA POESIA” di Franca Canapini

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Premio LA LUNA E IL DRAGO FRANCA CANAPINI con l’opera edita “Viaggio nella Poesia”

Anna Montella, curatrice Caffè Letterario La Luna e il Drago, consegna il premio a Franca Canapini

“Dammi parole, Apollo / l’illuminazione grande..” è l’invocazione che l’autrice, alla stregua degli aedi di un tempo remoto, rivolge all’entità superiore al cui cospetto si presenta “...nuda, pronta al grande volo; tuta spaziale: jeans stivali delle sette leghe e per casco il Mondo”, prima di partire per un viaggio introspettivo, visionario ed intimistico, in cui l’anima dialoga con se stessa, mescolando infanzia del mondo e tempo presente, in un luogo-non luogo dove l’anima non ha età né confini. “...Rivisitai, sull’onda lunga di un amore immaginato, simboli e miti, alchimie e misteri...” Hic et Nunc. Qui e Ora. Passato e presente si fondono in una narrazione che diventa athanor, crogiuolo di magici elementi, da cui scaturisce un poema moderno che, in una suggestione onirica, attualizza un tempo in cui le vicende degli uomini si intrecciavano con quelle degli dei e il senso del magico e del meraviglioso erano parte integrante del vivere quotidiano. Anna Montella

Curatrice Caffè Letterario La Luna e il Drago www.caffeletterariolalunaeildrago.org

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Sezione C Poesia edita Le Opere premiate


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Artigli

da “Il cattivo dono” di Carla Mussi

Brulicano sottoterra i desideri, ne sbocceranno artigli perché nella stagione insensata che taglia e graffia, io cammini da sola, a piedi nudi. Allora salirò sul mio piccolo Golgota senza nessuno stamperò la mia impronta su ogni piccola pietra che non si vede, e sulla sommità sarò il ladrone, morente, quello non ricordato, quello che non si pente.

Carla Mussi è nata nel 1962 e vive a Piombino. Ha pubblicato la raccolta di racconti “La vera morte del pesce viola” (edizioni Gazebo, Firenze 2000). Il suo racconto “Il filo freddo” fa parte della raccolta “Scene da una storia mai scritta” (edizioni Mobydick, Faenza 2003). Vincitrice e finalista di premi letterari, la scrittrice piombinese ha pubblicato su riviste e antologie.

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Autore 1° classificato Sezione C Poesia Edita CARLA MUSSI con l’opera edita “Il cattivo dono”

L’attore/regista Alessandro Quasimodo consegna il premio a Carla Mussi

Una raccolta di poesie compatte e icastiche e a volte con l’incisività di epigrammi. La scrittura è limpida e sicura e le chiuse di una rara forza perdurano a lungo nella memoria per la loro perentorietà. Citerò LA FELICITA’ “L’istante che scintilla e non da scampo/ecco cos’è la luce dei miei occhi/breve gioia di un lampo/ speranza da paese dei balocchi./ Mentre arriva è già andata/ scheggia brillante, abbaglio, coltellata.” Rime ben dosate, asciutte ed efficaci per rendere dei semplici testi degli assiomi memorabili, cioè davvero da trattenere in cuore. Rodolfo Vettorello

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da “Anna e Mélanie” di Valentino Ronchi

Nate entrambe nell’anno di grazia millenovecentosettantasei, Anna bisogna immaginarsela così, ai margini di Milano studiare il pomeriggio e uscire un’ora la sera prima della cena per una passeggiata solitaria rasente ai palazzi, per stradine illuminate appena da grandi lampioni e cortili di fabbrichette con gli uffici e i magazzini annessi. Quanto a Mélanie - avete presente Pauline à la plage l’avete visto per caso in qualche sperduto cineforum? lei guarda il mare rannicchiata al muretto della spiaggia e in Normandia continua a passarci l’estate da sempre alla casa dei nonni che imperterriti invecchiano senza pensarci neanche a morire.

Valentino Ronchi (Milano 18-3-1976) ha all’attivo due libri di poesia, “Canzoni di bella vita” (Lampi di stampa 2006 e 2008, Premio Il Ceppo Opera Prima Pistoia e Poesia giovane Fiume Veneto) e “Anna e Mélanie” (Lampi di stampa 2013. Premio Carducci, Premio Contini Bonaccossi). Nel 2005 ha pubblicato una monografia su Emmanuel Lévinas con Cristina Canzi, nel 2012 per De Agostini un volume sui 130 anni delle Rubinetterie Stella con interviste ai più noti designer italiani. Del 2013 invece è il suo primo romanzo, “Vecchi libri per epoca incerta” (Foschi editore, Premio Città di Forlì per romanzo inedito). Ha vinto il Montale per la poesia inedita e l’Arturo Loria per prosa inedita. Per Lampi di stampa cura la collana di poesia Festival.

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Autore 2° classificato Sezione C Poesia Edita VALENTINO RONCHI con l’opera edita “Anna e Melanie”

Lo scrittore Roberto Sarra (Comitato d’Onore) consegna il premio a Valentino Ronchi (a dx)

Quasi un poema questo di Valentino Ronchi, per un filo conduttore sottile ma resistente e persistente. Due personaggi femminili differenti le cui vite stranamente si intrecciano al di là di qualsiasi logica e senso. Grande la ricchezza delle occasioni e delle circostanze, dei luoghi e degli ambienti e accurata e amorosa la scrittura. Una scrittura solo apparentemente semplice per via dell’ “allure” narrativa ma sottile e raffinata per citazioni e per eleganza semantica. Una cantabilità generale di raro fascino e fascinazione. Rodolfo Vettorello

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Autunno spegne...

da “Non solo Mediterraneo” di Gianni Vianello

Il silenzio incanta queste case di pietra dove crescono sbuffi di malva tenace e il sorbo selvatico ormai s’intreccia al colmo delle gronde. Un vento breve mi spinge in questa terra dove i greti s’accendono ai richiami delle lavandaie e indulgenti tabernacoli si vestono di calle e di papaveri. Oggi l’aria è un umore di radici: autunno spegne il biondo dell’estate, spande intorno girasoli tardivi e gli ultimi fieni di erba medica. Al borgo sale una presenza incerta, porta la cesta gravida di legna, talvolta indugia, bilancia il carico, riprende la strada di muri bassi. Esce dagli alberi una tristezza antica: io rimango tra memoria e sogno e guardo il cielo livido di cumuli. La pioggia mi sorprende sul tratturo – il fischio dei pastori agita i cani – e dopo la schiarita l’aria pura vibra del suo rosa. Impercettibile la lepre appare dal folto delle more.

Gianni Vianello, veneziano, dal 1991 vive a Roma. Ha collaborato con il Teatro di Cà Foscari e con la RAI di Venezia. Si interessa da sempre e con passione della storia dell’alto medioevo. Ha pubblicato saggi di argomento storico-religioso e in campo creativo volumi di narrativa e poesia per i quali ha avuto significativi riconoscimenti.

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Autore 3° classificato Sezione C Poesia Edita GIANNI VIANELLO con l’opera edita “Non solo Mediterraneo”

Vianello rivela con la sua scrittura di essere un grande viaggiatore. Il suo è un viaggio multiforme, in primo luogo entro lo spazio geografico, secondariamente dentro i miti, dentro la nostalgia e la memoria. La sua esperienza umana si arricchisce di tutto ciò che gli deriva dalla sua curiosità e dai suoi approfondimenti culturali. La scrittura aderisce perfettamente alla sua natura con il raffinato rigore formale di un endecasillabo impeccabile e musicale, con un costrutto verbale avvincente ed evocativo. Rodolfo Vettorello

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Bruno e Rosalba *

da “Il bianco delle vele” di Franco Casadei

Quella sera, dopo la fiumana, la riva sfaldata al gioco delle vostre corse ingenue, non siete tornati e io, di tre anni, tre giorni sulle ginocchia di mia madre, abbracciato al suo dolore. Adagiati su legni di porta, dalla bocca un rivolo sottile di bava, di melma, gente dai casali, dai vigneti e donne e vecchie - un mormorio sommesso per l’aia chi si segnava, chi portava acqua, chi lenzuoli e fiori, due uomini in nero dagli sguardi lunghi e io, di tre anni, tre giorni su quel grembo duro di singhiozzi in attesa di un risveglio come quando Rosalba e Bruno si fingevano, per gioco, morti stagioni di silenzio, di respiri grandi come il vuoto, troppo lungo il gioco … non aspetto più i loro scherzi, i salti con la corda, mia sorella che mi spettinava quel ventuno settembre piangevo per venire al fiume, avreste custodito i miei tre anni, vi avrei salvato, forse, forse avete salvato me.

* In memoria di Rosalba e Bruno di 11 e 12 anni, fratelli maggiori dell’autore, annegati insieme nel 1949 nel torrente che attraversa il terreno di proprietà della famiglia sulle colline romagnole

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Autore 4° classificato Sezione C Poesia Edita FRANCO CASADEI con l’opera “Il bianco delle vele”

Franco Casadei, medico, vive e lavora a Cesena. Ha pubblicato le raccolte di liriche “I giorni ruvidi vetri” (Il Ponte Vecchio, Cesena, 2003); “Se non si muore” (Ibiskos Risolo, Empoli, 2008); “Il bianco delle vele” (Raffaelli Editore, Rimini, 2012). - Primo classificato in numerosi premi di poesia - Sue poesie tradotte in spagnolo e in lingua romena (su Steaua, rivista dell’Unione degli Scrittori Romeni). - Fra gli ideatori de “La poesia nelle case”, proposta di modalità di divulgazione della poesia in vari luoghi della città.

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Sospesi

da “Sopra i cieli di Berlino” di Isabella Sordi

Noi sospesi tra l’onda e il mare l’essere e il sembrare in bilico su coltelli d’argento amiamo la pace armati fino ai denti e bombe in bocca pronte a scoppiare. Dacci oggi il nostro scoop quotidiano. Noi arroccati come un paese medievale in attesa del nemico straniero. Abbiamo dimenticato la libertà dei panni stesi al sole e i sandali consunti di Francesco.

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Noi prigionieri spesso coinvolti nella tenzone amorosa spesso vinti dalla passione amorosa stando attenti a non morire di bondage. Noi vittime e complici nel gioco delle parti flagellanti senza cilicio. Noi penitenti in eterno cammino al Monte Sacro. Ah, Roxanne, ancora agiti la tua gonna di fuoco! Selvaggia. Sgualdrina. Non ti accorgi che è tutto inutile. E’ inutile.


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Autore 5° classificato Sezione C Poesia Edita ISABELLA SORDI con l’opera “Sopra i cieli di Berlino”

Isabella Sordi, nata a Udine nel 1954, si è laureata in Lingue e letterature straniere presso l’Università degli Studi di Udine. Dal 1980 risiede a Mestre, dove insegna letteratura inglese al liceo. Si è dedicata alla poesia fin da bambina, ricevendo presto critiche positive. Gratificanti i riconoscimenti in numerosi concorsi nazionali ed internazionali. Nel 2008 ha pubblicato “Un Dio felice”, ed. Vitale, Sanremo, terzo al “Città di New York”. Prima al “San Marco” 2010, è stata insignita della Croce di Merito del Sacro Ordine dei Cavalieri di San Basilio il Grande al “Laudato si’, mi’ Signore” di Universum Marche. Membro di giuria, è inserita in numerose antologie e nella “Letteratura italiana contemporanea (figure e orientamenti), Helicon, Arezzo, 2013. Per la stessa casa editrice nel 2013 ha pubblicato “Sopra i cieli di Berlino”. Il volume ha già ricevuto più riconoscimenti.

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I PREMI SPECIALI Premio Speciale per la poesia dedicata all’immigrazione

GIUSEPPE SERGI Premio Speciale per la poesia dialettale offerto da Ekojournàl

BRUNO CASTELLETTI


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Calabria amara

da “Calabria Terra di Emigranti” di Giuseppe Sergi

Sugnu n’abitanti ri sta terra undi regna la miseria lu sdegnu no manca a suffirenza e lu duluri ‘nti chista terra avara di lauru parru ra Calabria tantu amata terra antica misera e bruciata tutti li jorna esti tormentata pi li so figghi chi l’hannu ‘bandunata a bancunaru cu duluri o cori sta terra di Calabria a nui cara ora pura a delinquenza i menzu si mintiu e u nome ra Calabria nfangau pi chistu nenti poti offriri sta terra di Calabria bella e cara accantu a iddha. C’è sulu di suffriri chista è a realtà purtroppo amara Giuseppe Sergi nasce a Fiumara di Muro, in provincia di Reggio Calabria, nel 1952. Frequenta una scuola professionale e, ultimati gli studi, sente la responsabilità della famiglia ed emigra, prima al nord Italia e poi in Svizzera. Rientrato in Italia, trova lavoro presso una società telefonica, dove lavorerà fino alla pensione. Oggi si dedica con passione alla poesia e ad attività socio-culturali. Nel tempo ha partecipato a diversi concorsi letterari ottenendo riconoscimenti.

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Premio Speciale per la poesia dedicata all’immigrazione GIUSEPPE SERGI con l’opera “Calabria Terra di Emigranti”

Valter Bovati, vice presidente Lions Club Rho, consegna il premio a Giuseppe Sergi (a dx)

Una scrittura pacata quella di Giuseppe Sergi. Emozionante ed emozionata nella sua semplicità disarmante. Una scrittura carica di tensioni emotive contenute e misurate da quella specie di pudore che contraddistingue le persone rassegnate a una sorte spesso nemica e ossessiva. Non c’è ribellione nei versi di Sergi ma una quieta adesione alle dure leggi dell’esistenza, una religiosa accettazione di quanto il destino riserva alle persone più deboli e indifese della nostra società. Rassegnazione ma non sconfitta, orgoglio anzi da manifestare nel silenzio ma dignitosamente. Rodolfo Vettorello

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A me mama

da “Stéle da l’Orsa” di Bruno Castelletti

Te me vardave co i to oci ciari, per dirme tuto el ben che te me dave cavàndote dal sen pensieri amari per lassar posto solo a la speransa che stesse a farte ancora compagnia levàndome de dosso l’impassiensa de verghe l’ocasion de scapar via. Gavea tante robe da pensar: a la me sposa, a i fioi da arlevar e dopo gh’era anca la passion de far politica, la profession… Signor, Ti che volendo Te pol tuto mi Te domando en picolo piaser anca se con ritardo, cossa vuto, de darghe corpo solo a sto pensier.

A mia mamma: Mi guardavi/con i tuoi occhi chiari,/per dirmi tutto il bene/che mi davi/togliendoti dal cuore/pensieri amari/per lasciare posto solo alla speranza/che io stessi a farti ancora compagnia/levandomi di dosso l’impazienza/di avere l’occasione di scappare via//Avevo tante cose cui pensare:/alla mia sposa, ai figli da allevare/e dopo c’era anche la passione/di far politica, la professione…//Signore, tu che volendo puoi tutto/io ti domando un piccolo piacere/anche se in ritardo, cosa vuoi/di dare corpo solo a questo pensiero//Fa che io possa vederla una volta/una volta appena e fa che mi ascolti;/mi bastano due minuti, forse neanche/solo per dirle quanto, quanto mi manca.

Fa che mi poda véderla na olta na olta apena e fa che la me scolta; me basta du minuti, forsi gnanca per dirghe quanto, quanto la me manca.

Bruno da Orsa, pseudonimo di Bruno Castelletti, nasce a Ferrara di Monte Baldo in provincia di Verona. Avvocato, prestato alla politica e alla amministrazione della cosa pubblica fino al 1990, oggi divide il suo tempo tra la professione e la passione per la poesia. Numerosi i concorsi vinti.

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Premio Speciale per la poesia dialettale offerto da Ekojournàl BRUNO CASTELLETTI con l’opera “Stéle da l’Orsa”

L’autore Bruno Castelletti legge una lirica dall’opera premiata

Un viaggio avvincente quello di Bruno Castelletti dentro i luoghi della sua infanzia e della sua vita intera ma anche un viaggio nelle memorie più care e in definitiva un viaggio dentro l’anima. Luoghi e tempi della vita sono visitati con amore, con rimpianto, con nostalgia e con tutta la delicatezza di una sensibilità attenta e rispettosa. L’età mitica dell’infanzia e della giovinezza e poi quella dell’autunno sono rievocate attraverso la dolcezza delle parole della mite parlata veneta. La prima lingua della vita, quella più semplice e primordiale, il dialetto materno; il “petel” che ci portiamo dentro per l’eternità. Rodolfo Vettorello

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IL COMITATO D’ONORE Rappresentanti Lions Club Rho Giulio Maggioni: Socio Fondatore Lions Club Rho Alfredo Di Cerbo: Presidente Lions Club Rho Maristella Roma: Past President Lions Club Rho

Ospiti Guaman Allende: Presidente del CEACM del Consolato dell’Ecuador a Milano Premio alla Cultura Rina Gambini: Operatore culturale - Premio alla Cultura Anna Montella: Scrittore ed operatore culturale Riconoscimento Leone simbolo Lions Paolo Ruffilli: Scrittore e poeta – Premio alla Cultura Giuseppe Russo: Psicologo psicoterapeuta – Premio alla Carriera Roberto Sarra: Scrittore ed operatore culturale - Premio alla Cultura Narcisa Soria Valencia: Console Generale dell’Ecuador a Milano – Premio alla Cultura


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Giulio Maggioni, socio fondatore Lions Club Rho

Alfredo Di Cerbo, presidente Lions Club Rho

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Maristella Roma, past president Lions Club Rho

Guaman Allende, presidente del CEACM del Consolato dell’Ecuador a Milano

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Anna Montella, scrittore operatore culturale

Giuseppe Russo – psicologo psicoterapeuta

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Roberto Sarra, scrittore operatore culturale

Narcisa Soria Valencia, console generale dell’Ecuador a Milano

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Il Comune di Rho A rappresentanza delle AutoritĂ locali sono intervenuti PIETRO ROMANO sindaco di Rho Giuseppe Scarfone assessore alla Cultura del Comune di Rho


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Pietro Romano, sindaco di Rho

Giuseppe Scarfone, assessore alla Cultura del comune di Rho

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PREMIO LETTERARIO INTERNAZIONALE

Energia

per

la Vita

WE S E R V E THE I NTERNATI ONAL ASSOC IATI ON OF L I ONS C LU BS

L I ONS CLUB RHO



SEZIONE GIOVANI minori di 18 anni

(Attestato di partecipazione pari merito)

Poesia inedita Federico Fiorilli Sofia Franceschetti Alessandra Mazzarella Silvia Novelli

Narrativa inedita Veronica Caramuscio Martina Carciaghi


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Quando si spengono le luci di Federico Fiorilli

Finita la cena, le chiacchiere, il rito della sera, lo spazzolino nel bicchiere, la rincorsa del bacio della buonanotte, si spengono le luci e si accendono i pensieri: ognuno i suoi. Il corpo ancora evapora i desideri dell’oggi che già la mente accende il domani per escludere il presente e nasce il bisogno di sentire un suono, di aspirare odori intensi, inattesi, violenti, che cancellano ansia e paura di queste ombre irridenti. E mentre nel mondo ognuno scaccia la sue paure, non si spezza in me il senso tenace del futuro. L’alba riaccenderà il giorno.

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Il valore dell’ascolto di Sofia Franceschetti

Non riesco ad esprimermi, né a parlare allora mi fermo e comincio ad ascoltare. Suoni, rumori a cui non avevo mai fatto caso; sento ronzii, respiri, l’acqua che zampilla nel vaso. Ascolto il silenzio che fa ascoltare mille altri suoni, che molte emozioni fanno provare. Finisce il silenzio, finiscono i suoni, prendo carta e penna e scrivo le mie emozioni.

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La vita

di Alessandra Mazzarella

La vita è una gara di corsa Chi corre più veloce Chi più lento Chi imbroglia Chi si arrende La vita è una farfalla È colorata, è libera Ma vive poco per lasciarne scoprire i pregi La vita è una foto Rammenta emozioni Può essere in bianco e nero Ma anche a colori La vita è un foglio bianco E le opportunità sono la penna La vita è una sigaretta Crea sollievo Ma fa male La vita è uno sguardo Ognuno ci vede ciò che vuole La vita è un libro È fantastico Ma prima o poi finirà La vita è una parola Ognuno capisce ciò che vuole Ma alla fine il significato è lo stesso per tutti La vita è un quadro Dipinto da se stessi La vita è un raggio di sole che penetra nelle case Nel momento più inaspettato Con una luce fioca, che poi si rinforza e Arriva al tramonto. La vita è semplicemente una poesia.

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Il principe azzurro ha il mio stesso cognome di Veronica Caramuscio

Era il pomeriggio del ventidue settembre, eppure pioveva, una pioggia strana, le gocce erano piccole e impalpabili ma, nel complesso, creavano un’atmosfera tipica della stagione invernale: il rumore della pioggia sull’asfalto, il vento che, scuotendo gli alberi, sembrava emettere lamenti e il cielo cupo, rievocavano ricordi e pensieri. Quel pomeriggio Angelica con sua madre Cinzia e i due fratelli, Simone, appena laureato, e Michele, di soli tredici anni, salì in macchina, accese la musica e si diressero verso la stazione di Lecce poiché la ragazza, dopo gli esami di maturità che aveva affrontato fino ai primi di luglio, quel giorno si sarebbe dovuta trasferire a Bari per frequentare l’università. Il treno sarebbe partito alle sei, però, per non fare tutto di fretta, uscirono da casa un’ora prima circa. Appena arrivarono alla stazione vi era tanta gente, i ragazzi si affrettavano a fare i biglietti, seguiti dai genitori che portavano le valigie, nascondendo la propria ansia e preoccupazione dietro sorrisi e pacche di incoraggiamento sulla schiena. Angelica era talmente tesa che non riuscì a pronunciare neppure una parola. Guardava con attenzione ogni movimento o gesto delle persone a lei vicine. Dopo diversi giri attorno alla stazione, finalmente la madre trovò un parcheggio in prossimità di un bar dove andarono per prendere un caffè mentre la ragazza andò a fare i biglietti. Tra chiacchiere, risate e una lunga coda per fare il biglietto, arrivarono le sei meno un quarto, Simone e Michele presero le valigie e iniziarono a camminare seguiti dalla madre e da Angelica. Salirono le scale e nel giro di pochi minuti si ritrovarono di fronte al treno, la ragazza abbracciò la sua famiglia, i fratelli le dissero “Mi raccomando”, Cinzia la abbracciò e con le lacrime agli occhi le disse “Ti voglio bene principessa mia”. Ogni persona si affrettava a salutare i propri famigliari, quando, ad un tratto si sentì il fischio del treno che avvisava tutti quelli che sarebbero dovuti partire di affrettarsi a salire, prima che fosse troppo tardi, perché ormai era giunta l’ora della partenza. Angelica allontanò lentamente le sue mani dalla madre, si dovette svincolare da quell’abbraccio caloroso, prese le sue due valigie, salì sul treno e si sedette in un posto vicino al finestrino che gli permetteva di guardare, seppure da lontano, i suoi famigliari. Così, mentre era appiccicata al finestrino, con gli occhi lucidi e le mani tremanti, pian piano il treno iniziò a partire, le sagome delle persone da lei amate diventavano sempre più piccole, a stento intravedeva le mani che salutavano, poi divennero nitide e iniziarono a sbiadirsi fino a quando scomparvero del tutto. Angelica iniziò a guardarsi attorno e nel treno vide molti

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ragazzi che ripassavano, studiavano o leggevano un libro, poi vi era chi dormiva e chi parlava con l’amica, ognuno aveva un vissuto, un trascorso, ognuno aveva una storia diversa, unica, ma tutti, in quel treno avevano un obiettivo da raggiungere, un traguardo al quale avvicinarsi, una vittoria da raggiungere e tenere ben stretta, per non lasciarla scappar via. Chiamò la sua migliore amica Mariangela, dopo pochi minuti dalla partenza per salutarla e parlare un po’ con lei. Angelica era consapevole che la sua amica fosse il suo farmaco, la sua vitamina quando si sarebbe dovuta ricaricare per ricominciare ad essere forte, il suo calmante nei momenti bui e la sua droga ogni istante, ogni giorno, ogni sera. Appena terminò la chiamata, si mise le cuffie e schiacciò il tasto “play”, come se volesse, così facendo, rifugiarsi nel suo mondo, estraniarsi da qualsiasi tipo di contatto con la gente, per pensare, riflettere e cercare di dimenticare. In quel momento, mentre ascoltava la musica con la testa appoggiata al finestrino, notò che davanti a lei vi era solo il vuoto. Guardava la strada, il percorso che il suo treno stava seguendo, gli alberi che si susseguivano velocemente, la vegetazione incolta. Quel paesaggio così incurato, privo di colori, spoglio, le ricordò come era tre anni fa, una ragazza che aveva in odio la vita per come l’aveva trattata, per quello che le aveva sottratto, però l’unica cosa che rendeva stranamente affascinante quella vegetazione fu il tramonto, i cui colori caldi che variavano dal rosso al giallo all’arancione si amalgamavano con quelli tetri che spaziavano dal verde scuro al marrone, creando una linea sottile, l’orizzonte. L’orizzonte si riscontra nei fenomeni naturali così come è evidente nella vita dell’uomo, solo che in questo caso prende un nome diverso, confine, limite. Orizzonte, confine e limite, sono solo dei termini forse troppo astratti e poco concreti per poterli sentire vicini. Questa è la ragione per cui ogni uomo teme ciò che non conosce, non si pone nelle condizioni tali da poter vincere e abbattere i propri ostacoli varcando così il proprio confine e limite. Angelica riteneva che questi tre termini non fossero uguali, non fossero sinonimi, ma semplicemente pensava che fossero simili. I termini confine e limite le facevano pensare ad una barriera, ad un qualcosa che si potrebbe raggiungere ma mai superare, come se al termine di questi vi fosse un filo spinato che non permette di andare avanti. L’orizzonte, invece, in qualsiasi contesto, dona sicurezza in quanto non rappresenta qualcosa di realmente raggiungibile e pertanto potrebbe essere sempre varcato. Nella vita dell’uomo, all’orizzonte, al confine e al limite la ragazza affiancava dei concetti degni delle sensazioni che le trasmettevano. L’orizzonte è la speranza, “guardare l’orizzonte” infatti sarebbe un po’ come dire “sperare in qualcosa di migliore”. Confine e limite, invece, sono ostacoli, perché se l’uomo basasse la propria esistenza sulla consapevolezza di non essere perfetto e come tale di non poter abbattere ogni ostacolo e superare

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ogni limite, non sarebbe neppure in grado di mettersi in gioco e di andare avanti, non si darebbe mai la possibilità di cadere e vedersi rialzare, perché penserebbe che ogni suo sforzo non verrà mai ricompensato. La ragazza che era in quel treno, però, era diversa da tre anni fa, non aveva perso niente di quello che era, ma aveva imparato a lavorare su se stessa, aveva combattuto per anni con le sue preoccupazioni e ansie che sapeva come conviverci, sapeva come reagire. Era fragile, si rompeva ancora in mille pezzi, ma aveva imparato a non far rumore e ricomporsi, mettendo ogni pezzo al posto giusto. Dopo circa due ore di tragitto, il treno arrivò alla fermata desiderata da Angelica, erano le otto di sera, a Bari, stranamente il tempo era diverso da quello della sua amata città. Il cielo era sereno, l’aria era fresca e non si intravedeva neppure una nuvola, era come se quella condizione atmosferica volesse creare una sorta di equilibrio con lo stato d’animo della ragazza, come se quel cielo trasparente, leggero e tranquillo volesse colmare quel buio interiore. La ragazza scese dal treno e si incamminò verso la fermata della corriera che l’avrebbe portata al campus dell’università. La corriera arrivò in anticipo, Angelica con le sue due valigie salì su di essa ma, appena entrò, notò che non vi era un posto libero per sedersi, c’erano tanti studenti, qualche persona anziana e due ragazzi di colore, così, dovette restare in piedi, si tenne al manico vicino l’autista e lasciò le sue valigie accanto alle gambe. Tutti la guardavano male, la squadravano, si sentiva abbastanza osservata e le dava molto fastidio, era a disagio, era come se avessero capito che non era del posto. Alle nove, finalmente, la corriera arrivò al capolinea, la ragazza fu la prima a scendere, prese le valigie, che erano talmente tanto grandi che gli oscuravano la vista, così scese gli scalini della corriera e poiché non aveva una visuale perfetta, mise il piede in una pozzanghera. La sua giornata a Bari era iniziata benissimo, si prospettava un inizio fantastico, aveva tutto il piede destro bagnato, le scarpe da azzurre erano diventate blu per quanto erano piene d’acqua, e Angelica appena se ne accorse disse a voce bassa “maledizione” e iniziò ad incamminarsi a passo svelto in prossimità del campus che aveva di fronte. Una volta entrata vide tantissimi ragazzi e ragazze che, con la propria chiave andavano verso la stanza che gli era stata assegnata. La ragazza andò verso la sua stanzetta, numero 192, era una stanza piccola, le pareti erano bianche, il pavimento pulito, vi era un letto, il bagno e una scrivania per studiare. Non era una stanza bellissima, ma appena entrò si sentì subito a casa. Chiuse la porta, lasciò le valigie, appoggiò la schiena alla porta e, sospirando, tra sé e sé disse: “Finalmente ce l’ho fatta”. Rimase qualche secondo in piedi a guardarsi attorno, poi iniziò a disfare le valigie. Mise tutti i suoi vestiti in ordine nell’armadio e, infine, prese la foto del padre, la strinse forte al petto, la mise sul comodino vicino al letto e mentre guardava quei

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sorrisi felici e spensierati che erano stati intrappolati in quella foto, in una frazione di secondi la sua mente riaprì una vecchia ferita, facendole ricordare dei lividi che erano diventati parte di lei da quando aveva sedici anni. Il padre di Angelica era un uomo colto e generoso, era l’unico in grado di proteggere la sua piccolina, a lei pareva che niente potesse scalfirlo. Si presentava sempre in giacca e cravatta e, benché la professione di avvocato e il continuo contatto con i clienti occupassero la maggior parte delle ore giornaliere, riusciva sempre a ricavare del tempo da trascorrere in compagnia dei suoi tre adorabili figli Simone, Angelica e Michele. Il legame tra Angelica e suo padre era molto forte, erano la coppia invincibile, il loro amore superava quello delle amicizie migliori e sfiorava quello delle più appassionanti storie d’amore. Tra i due vi era tanta complicità, si completavano. Gli occhi del padre si riflettevano in quelli della figlia, la forza che trasmetteva metteva a disagio ogni essere vivente e il coraggio di affrontare ogni ostacolo e di guardare la morte in faccia lo rendevano immortale. La vita però è un soffio vitale e le cose accadono perché devono accadere. Un male incurabile lo portò via, la malattia del secolo la chiamano perché, nonostante la medicina sia andata avanti con la ricerca, ancora non ha trovato una cura per ogni male. Non vi è alcuna pietà, anche la persona migliore che meriterebbe il meglio si deve scontrare con il peggio e sperare di riuscire a vincerlo. Il problema di fondo era che il peggio aveva un nome ben preciso, tumore. Il tumore era la malattia più spietata e insaziabile che Angelica e la sua famiglia avessero mai conosciuto. Inizia a farsi strada nel tuo organismo, decide su quale organo dimorare e piano piano si nutre di te a tua insaputa. Ti rende schiavo dei farmaci che potrebbero guarirti, anche se ti annientano esteticamente e destrutturano moralmente, dal momento che pian piano porta via con sé tutti quegli elementi che sono soliti dare sicurezza e fiducia in se stessi, come la perdita dei capelli, delle sopracciglia, il non riuscire ad effettuare un’alimentazione corretta e la costante sensazione di nausea. Angelica davanti a quella malattia era impotente e pertanto sapeva che l’unica cosa da fare sarebbe stata restare vicino al padre e affrontare con lui ogni intervento, ogni ricovero e vivere ogni istante che la vita ancora aveva deciso di offrire. La fine, però, arriva per tutti, perché siamo esseri viventi e come tali la nostra vita è sottoposta a un ciclo che inizia senza che tu lo voglia e finisce benché tu non lo voglia. Una sera di novembre, a pochi giorni di distanza dalla festa dei morti e dei santi, si spense il padre di Angelica. La malattia, ormai, aveva preso il sopravvento, da giorni non permetteva all’uomo di muoversi e gli rendeva difficile persino bere, parlare e respirare. I giorni che precedettero i suoi ultimi respiri furono più complessi del solito, in casa della ragazza si respirava tensione, tutti avevano compreso che la situazione stava peggiorando, si era giunti a un punto di non

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ritorno. L’uomo dalla sua stanza cercava di trasmettere tranquillità, mandava messaggi di augurio e speranza, in cuor suo aveva sempre saputo che quest’avventura non avrebbe avuto un lieto fine ma cercava di non far pesare ogni suo attimo di dolore, anche quando Angelica tutte le sere si sedeva su quel morbido letto per parlare con lui, per sfogarsi, per avere un consiglio o anche solo per abbracciare quel corpo già freddo agli arti. Suo padre amava la vita, l’aveva sempre vissuta al meglio cogliendo e apprezzando ogni momento. Il suo desiderio di vivere, però, Angelica l’aveva visto sbiadirsi: era stanco, trascorreva il suo tempo sul letto con il dottore che più volte al giorno gli procurava l’ossigeno. Quella sera, mentre Simone stava ritornando in treno dalla facoltà di ingegneria, Angelica e il piccolo Michele erano increduli sul suo letto, con il dottore che guardava il padre consapevole del fatto che ormai non si sarebbe potuto fare niente. I cani Laica e Pongo si posizionarono in prossimità della porta della stanza e dopo aver emesso lamenti, si pietrificarono, avvolti da un silenzio straziante. Pochi secondi dopo la situazione peggiorò, i pianti e il dolore di Angelica e Michele facevano da sfondo a quelli che erano gli ultimi respiri del padre che, con molta umiltà, salutava la vita, abbracciato dalla moglie Cinzia che gli sussurrava nell’orecchio parole d’amore che avrebbero sigillato per sempre la loro storia. Angelica avrebbe voluto fare tanto e tutto, invece riuscì solo a piangere e ad avere in odio il mondo intero, dimenticando ogni cosa. A soli sedici anni si dimostrò forte, capace di affrontare anche questa difficoltà. Non avrebbe dimenticato mai il suo viaggio a Roma con il padre, le giornate insieme, i sorrisi, l’ansia di andare a scuola, perché rappresentava un distacco dal padre, ma anche i giorni in cui lei con la sua famiglia andavano a trovarlo in ospedale. In quei giorni era stranamente felice, sapeva che il padre si stava curando e sottoponendo a diversi controlli, quel luogo freddo e malinconico, sembrava improvvisamente accogliente e, benché la malattia fosse grave, Angelica aveva una certezza, sapeva di avere un padre e che avrebbe potuto godere della sua presenza. Quella stessa presenza che quella notte le fu strappata di mano, sottratta ingiustamente. Fu come perdere una parte del suo cuore, non un semplice frammento, ma il nucleo, il motore della sua vita. Il pensiero che più la rattristava era prendere consapevolezza del fatto che fosse orfana di padre, che non poteva più passeggiare, scherzare e fare un giro sulla sua moto. Quella malattia, quella fine, negò molte cose anche al padre, il quale non avrebbe avuto la possibilità di assistere alle tappe più importanti della vita di sua figlia, come il diploma, la laurea e non avrebbe potuto provare la gioia di accompagnarla sull’altare, mano nella mano, comminando lungo un tappeto rosso il cui percorso rappresenta una separazione dall’affetto paterno per avvicinarsi a quello del futuro marito. Angelica da quel giorno non fu più una principessa, ma un’adulta.

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Sapeva che le cose brutte succedono. Arrivano quando meno te l’aspetti, non bussano neppure alla porta ma entrano lasciandoti la casa vuota. Lo stesso vuoto che si celava in lei, un vuoto incolmabile che avrebbe custodito nel suo cuore per sempre. Angelica da quel giorno cambiò, divenne una ragazza diversa, più diffidente, meno credulona, più nostalgica e malinconica, ma molto grintosa. Aveva la voglia di vincere ogni problema, di apparire forte, aveva il desiderio di piangere, sfogarsi, ma anche di ridere tanto, forte e fino alle lacrime. Inizialmente era tutto pesante, monotono e fermo, era difficile fare ogni cosa, soprattutto andare al cimitero, la città dei morti la chiamano, e percorrere quel lungo viale alberato, soleggiato, ma ventilato. Il rumore del vento negli alberi creava una danza che accompagnava i suoi passi svelti e pesanti. Le mancava sempre il respiro, non riusciva ad accettare quella condizione, non concepiva il fatto che per avere un contatto con il padre dovesse andare in quel posto tenebroso anche di giorno. Era invidiosa delle altre ragazze che, benché avessero entrambi i genitori, non li apprezzavano, pretendendo sempre di più, quando invece a lei sarebbe bastato un semplice abbraccio. Angelica era stanca, di quella stanchezza che le sapeva dare solo il vuoto. Sapeva che il padre non l’aveva abbandonata, aveva cambiato solo dimensione, eppure era consapevole che ciò non le sarebbe bastato. Sarebbe voluta ritornare indietro nel tempo, fermarlo e cambiare ogni cosa, invertire ogni evento. Le mancava tutto e niente: la gelosia del padre, i litigi, l’essere guardata sempre, anche nei giorni più tristi, con occhi fiduciosi e ricchi d’amore sconfinato. Trascorreva le sue giornate con un sorriso stampato sul volto ma, ogni volta che era sola, fissava il vuoto e nei suoi occhi si celava tanta tristezza che veniva attenuata dal pensiero che la forza del padre fosse riflessa nel sole che illumina e dà vita a tutto ciò che circonda. Questa ipotesi era strana, surreale, insensata per certi versi, ma era l’unica che le avrebbe potuto spiegare il motivo per cui, dopo la perdita dell’amato padre, nel cielo vi fosse un sole abbagliante che nutriva i fiori situati nel terreno dove riposava in pace ma, allo stesso tempo, casualmente, accecava Angelica ogni volta che era amareggiata e delusa da quella vita apparentemente crudele e spietata. Durante il giorno era facile non riuscire a cogliere il lato positivo di ogni situazione, però quando era a letto e giungeva l’alba si sentiva sollevata perché era come se fosse avvolta da una luce di speranza che colorava con sfumature aranciate, rosee e gialle la giornata che stava per iniziare, abbattendo quel muro di oscurità rappresentato dalle tenebre della notte che riflettevano nel loro buio infinito le insicurezze, le paure e la solitudine della ragazza. Le stesse sensazioni che quel giorno di settembre provava mentre era da sola in camera e fissava quella foto, come se volesse ritornare indietro nel tempo e rendere vivo il ricordo del padre però, poiché non voleva demoralizzarsi, decise

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di finire di sistemare la sua stanza. Nel giro di poche ore ogni cosa era al suo posto e così decise di fare una doccia. Appena uscì da quella doccia rinfrescante, si asciugò, si vestì e con l’asciugamano iniziò ad asciugare i lunghi capelli neri quando, ad un tratto, sentì bussare alla porta. Non sapeva chi fosse, non conosceva nessuno. Si legò i capelli, prese le chiavi, aprì la porta e si ritrovò davanti una ragazzo che le disse: “Ciao, io sono Filippo, il tuo vicino di stanza, piacere di conoscerti”. Angelica rimase sbalordita sulla soglia della porta, gli sorrise, lo invitò ad entrare e lo fece accomodare. Filippo si sedette sul letto, notò la foto sul comodino e chiese alla ragazza chi fosse. Angelica si sentì una stretta al cuore, stava per piangere, ma si era ripromessa che non sarebbe ritornata al punto di partenza, che non avrebbe ripercorso i passi già compiuti, così guardò Filippo e gli disse fieramente: “Questa è la foto con il mio principe azzurro, la luce dei miei occhi”. Fu in quegli attimi che comprese che, in realtà, non le sarebbe bastato dare tempo al tempo per risanare quella ferita, per colmare il suo vuoto, per rimpiazzare la mancanza del padre, aveva compreso che il tempo che passava non aveva alcune capacità curatrici, a volte peggiorava altre volte migliorava lo stato d’animo ma, in fondo, sarebbe dipeso tutto solo da lei stessa, dalle sue priorità. A volte il problema è proprio questo. Bisogna prendere delle decisioni: o continuare a piangersi addosso, abbattendosi, o rendersi conto che la vita va avanti e che avrebbe dovuto affrontare ogni esperienza per non deludere se stessa e suo padre. Trasformò la rabbia nel suo punto di forza e seppe ritrovarsi, liberandosi del passato nel modo più semplice, smettendo di credere che ciò che le era successo altre volte fosse destinato a ripetersi. Rivalutò l’importanza della solitudine, iniziò a scegliere con chi stare perché sapeva che l’uomo era fatto per vivere bene con pochi. Comprese che la vita non era nient’altro che un insieme di stanze, ad ogni stanza appartengono persone, incontri, pensieri e ricordi. Ciò che conta è avere la forza necessaria per riuscire a chiudere la porta di ogni stanza per poi aprirne di nuove, d’altronde la vita è bella perché, anche se presenta una fine materiale, in realtà, il suo movimento ciclico, il suo continuo alternarsi di alti e bassi, di vittorie e sconfitte rappresenta il confine non definito, quella linea sottile tra scegliere di continuare vivere o morire ogni volta che si sbaglia e si cade.

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Un biscotto venuto male di Martina Carciaghi

Sono le tre di un martedì pomeriggio. Un pomeriggio di inizio primavera. La natura ha appena cominciato a “stiracchiarsi”, il cielo sta aprendo gli occhi e Margherita è arrivata nell’unico posto in cui il tempo sembra svanire: il maneggio. La sua vita senza i cavalli sarebbe come una cartolina in cui hanno dimenticato di scrivere il destinatario: senza meta. Vuota. Monotona. Banale. I cavalli sono la sua passione. Margherita non sogna la favola di Cenerentola, non vuole il principe azzurro. Vuole un cavallo tutto suo che bruca l’erba nel grande prato che tutte le mattine vede affacciandosi dalla sua finestra. Per questo, forse, non capisce la strana sensazione che in questo momento sta provando: un formicolio, un leggero, soave solletico alle mani, come quando una formica ti cammina sul collo, o un capello ribelle ti accarezza la guancia. Sicuramente la causa è Alessandro: alto, capelli castani scuri, occhi semplicemente marroni, ma così penetranti che in un attimo ti spogliano l’anima. Sorriso raro, forse un po’ pigro, ma quando sboccia è un raggio di sole, come quelli d’agosto in riva al mare. Diciassette anni, come Margherita e come lei anche lui fa equitazione. Ecco, Alessandro ora è lì, davanti a lei, sta finendo di sellare il cavallo. Margherita lo osserva in quei movimenti ormai quotidiani per lui, in quella sicurezza già adulta, ma incastrata in un corpo ancora un po’ adolescente. La saluta: un banalissimo e comune “ciao”, ma sufficiente per lei a far riemergere quella sensazione, con la quale ormai ha smesso di lottare. Non ci vuole un genio per capire che a Margherita quel ragazzo piace. E come biasimarla: Alessandro sembra proprio essere il ragazzo fuori dal comune, così raro oggi giorno che la mediocre società, abituata agli “stampini” senza un minimo di personalità, definirebbe un alieno, un robottino venuto male. Un po’ come quando fai una teglia di biscotti e te ne esce uno di forma diversa. Pensi sia da buttare via, perché stona con il resto del vassoio... poi però lo assaggi: è buonissimo! E allora scopri che non è un biscotto venuto male, ma semplicemente diverso. E, chissà, forse migliore. Alessandro è così: il ragazzo diverso, quello che tutti scanserebbero. Ma non Margherita. Per il semplice fatto che anche lei è un’anomalia. Anche lei un biscotto diverso. Margherita non è la fotocopia di un falso originale, non è uno dei tanti “carcerati” della società. Margherita è un originale nuovo, unico. Non fotocopiabile. Come ogni essere umano dovrebbe essere. Non a caso detesta quando Letizia, sua amica, chiama per uscire tutti i sabato sera, per vedersi un giorno si e uno no, o semplicemente per “attaccare

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bottone” con quelle conversazioni incentrate sul nulla. Odia doversi sempre sforzare di trovare qualcosa da dire per “tappare” quei silenzi angoscianti che, inevitabilmente, affiorano fra loro. Odia quando tenta di far osservare il mondo a Letizia con i suoi stessi occhi, con il fallimentare risultato di un cieco che cammina. C’è poco da fare: Margherita vive di altre cose. Non si nutre dell’aria inquinata della società. Respira attraverso un libro, un pezzo di carta, i pomeriggi a cavallo. Preferisce l’opera a teatro piuttosto che il fast food sotto casa di Letizia. Per lei la solitudine non è un disagio, ma un rifugio, come una casetta sull’ albero. Un momento in compagnia solo di se stessa, lasciando parlare i pensieri, ascoltando mille riflessioni. Adora distendersi sul letto con la testa rivolta verso l’alto, mentre gli occhi disegnano sul soffitto i suoi sogni e i suoi progetti oppure, ascoltando la musica con le cuffie, fa vivere il futuro che fantastica nella mente. Ama stare con sua madre, calpestare le sue stesse orme per imparare la sua grinta, guardare nei suoi occhi per imitare la sua forza. E chi, se non lei, poteva essere affascinata da Alessandro? Margherita ha appena scoperto che oggi a fare lezione con lei c’è anche Alessandro. Ecco perché adesso ha quel sorriso da ebete, come se avesse visto un asino che vola. E magicamente una strana e frizzante euforia si è impossessata di lei. Si sente un po’ stupida a provare tutto ciò perché, in fondo, con Alessandro non sono altro che conoscenti. Niente è mai andato oltre ad un “ciao, come va?”. Eppure lei, con i suoi occhi sognatori, è riuscita a fantasticare pure sul niente, innalzando immensi castelli di sabbia. Sì, è vero, a volte si vergogna, si guarda allo specchio e scuote il capo, sentendosi infinitamente ingenua. Si paragona alle sue coetanee e ride nel vedere il grande abisso che le separa. Ride del giorno e della notte che c’è nel mezzo. Lui è già salito in sella, sta riscaldando il cavallo facendo un po’ di passo. Margherita invece è rimasta un tantino indietro, bloccata dal suo solito fantasticare. È la voce dell’istruttrice che la richiama alla realtà: “Sbrigati! Sei rimasta solo tu”. Sbatte gli occhi, come quando ti svegli da un sogno e hai bisogno di un attimo per riprendere confidenza con la realtà. Ecco, adesso è pronta. Sistema un’ultima volta il cavallo e sale in sella anche lei. Intanto Alessandro ha già iniziato a scaldare il cavallo al trotto. Margherita cerca di scacciare qualsiasi pensiero, dicendo a se stessa che questo non è certo il momento di sognare. Ma niente, non riesce proprio a stare con i piedi per terra. Ogni volta che Alessandro le passa accanto quel formicolio, ormai così amico per lei, torna a farle compagnia. La mente continua ad andare altrove: in un prato, lei e Alessandro a cavallo insieme, ridendo delle cose più insensate, galoppando tra fili d’erba che si nutrono della loro gaiezza... Invano qualsiasi

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tentativo di tenerla intrappolata, anche solo per un’ora. Margherita comincia a trottare, poi un po’ di galoppo. Nel frattempo l’istruttrice prepara qualche esercizio da farle svolgere appena terminato il riscaldamento. Solo la sua passione riesce ad annegare quei pensieri e a cancellare, anche se solo momentaneamente, l’immagine di Alessandro dalla sua testa. Un po’ come quando leggendo un libro ti dimentichi del mondo esterno, ma è sufficiente la fine di un capitolo per ricordarti dove sei. E così è accaduto anche a Margherita: terminata la lezione tutto è ripiombato in lei, forse anche un po’ più amplificato. Si sente come le casse mal funzionanti del suo stereo: un attimo prima la musica è impercettibile, quasi un debole ronzio fastidioso, e l’ attimo dopo ti fischia nelle orecchie, ti pulsa nelle tempie, ti vibra nel cuore. Ha bisogno di stare un po’ da sola, in quel rifugio che tanto ama. Forse per capire, per schiarirsi un po’ le idee o, semplicemente, perché nascondere quelle estranee e sconosciute emozioni, l’infinito tentare di tenerle in un ripostiglio, l’hanno stancata. Sfinita così tanto che sente le lacrime affiorare sul viso. Ecco perché cerca di fare il più veloce possibile: scende da cavallo, un’impercettibile e veloce carezza, tira giù le redini dal collo e si avvia verso le scuderie. Ma Alessandro è già dietro di lei, anche lui con il suo cavallo. E non poteva esistere velocità in grado di fermare, frenare, o anche solo rallentare, quelle parole che uscirono dalla sua bocca: “Ehi, Margherita! Sei stata bravissima”. Lei si volta. Sussurra un silenzioso “grazie”, accenna un debole sorriso. Apparentemente reazione del tutto normale. O quasi. Se non fosse per l’uragano misto a incendio che adesso sta provando, se non fosse per il caos che le pulsa nelle vene. Se non fosse per quel formicolio che adesso le divampa anche nelle braccia, su tutto il viso. Come quando esci dal mare tutta bagnata e la brezza marina ti lascia quei delicati e caldi brividi di freddo su tutta la pelle e, contemporaneamente, il sole ti bacia. Estate e inverno dentro lo stesso instante. Infatti subito si rivolta, lasciando alle spalle il compito di nascondere, o almeno “camuffare”, il suo groviglio di emozioni, perché ormai il volto non è più in grado di nascondere niente. Ma lui la richiama: “No seriamente. Sei davvero brava”. È costretta a voltarsi ancora una volta. Fa un profondo respiro. Aspetta qualche istante che la maschera di finta normalità si rimpossessi di lei. Si volta. Lui sta sorridendo, un sorriso simile all’arcobaleno dopo il temporale. Lei riesce solo a farfugliare: “...Grazie, davvero...”. Ancora pochi passi e sono alle scuderie. Ma Margherita è esausta, non ce la fa più. A poco a poco gli occhi iniziano luccicare, una lacrima comincia a rigarle la guancia destra. E subito un’altra è già pronta per nascere. Sta piangendo.

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Come la pioggia diventa acquazzone. Tutto finisce qui. Dentro l’alba e il tramonto di un solo giorno. Ogni età ha il suo amore e Margherita forse, oggi, ha scoperto come dovrebbe essere quello di una ragazza a diciassette anni. Spensierato, leggero, cullato dal vento d’agosto che a mala pena muove qualche foglia. Senza correre, perché non c’è nessun traguardo da raggiungere, senza bruciare le tappe, che solo una volta incontri nella vita. Anche perché le ferite sono dietro l’angolo e, una volta che ci sbatti contro, puoi solo sperare di nasconderle, perché da quelle certamente non si guarisce. Non pensiate che Margherita sia una bambina che ancora non ha capito come gira il mondo, solo perché è la società che ve lo suggerisce. Non lo è. Anzi forse è l’unica che ha trovato il vero “girotondo” del mondo. Non crediate che sia ingenua solo perché non vede l’amore con gli occhi insanguinati della società. Forse solo lei ha visto il vero volto dell’amore. Anche se oggi questo volto sembra inesistente, soffocato, affogato. Ucciso da un qualcosa che viene “spacciato” per amore, ma che di amore non ha nulla. Quello che trovate a vendere è solo un’utopia, una copia dell’originale che Margherita ha incontrato. Un po’ come quando vai in un negozio a comprare una maglietta. Te la provi, sembra davvero bellissima, poi però inizia a spuntare qualche difetto: troppo corta, un po’ seria, un tantino scomoda... Ecco, come l’apparenza può facilmente ingannare, come può bendarti gli occhi. Come può portarti all’Inferno facendoti credere che invece sia il Paradiso. Ma Margherita è riuscita a trovare la maglietta che faceva al caso suo. Per il semplice fatto che lei ha avuto la forza di non seguire il gregge. Ha scelto di sbriciolare i biscotti tutti uguali. Fra tante strade comuni ha preferito sceglierne una sua, magari più difficile perché non c’è mai passato nessuno. Ma almeno certa che la calpesteranno soltanto le sue orme. E forse anche le mie, perché Margherita ha i miei stessi occhi, il mio stesso volto. Margherita sono io.

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MOMENTI

La giornalista Daniela Salerno moderatrice e presentatrice della Cerimonia di Premiazione

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TRA PRESIDENTI… Alessandro Quasimodo, presidente onorario, con Rita Iacomino, presidente esecutivo del Premio

Il Caffè Letterario La Luna e il Drago dona all’organizzazione del Premio Energia per la Vita un’opera dell’artista Tina Incalza

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L’omaggio floreale

Foto di Gruppo con… Signore

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Momenti...

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Il momento conviviale presso le sale dell’Hotel Monica Fiera

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Rassegna Stampa alcuni articoli


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SOMMARIO Premessa .................................................................................................................5 Nota introduttiva di Alfredo Di Cerbo ...................................................................6 Intervento di Alessandro Quasimodo ..................................................................7 Nota di Rita Iacomino ..........................................................................................8 Comunicato .............................................................................................................9 Premio alla Carriera per l’Economia e la Politica, Silvio Beretta .......................15 Premio alla Cultura per la Medicina, Paolo Veronesi........................................17 Sezione A Poesia Inedita .............................................................................19 Il grido della rosa - di Umberto Vicaretti ..............................................................20 Di quale pace - di Rita Imperatori ........................................................................22 Le anime belle. La signora Lodi - di Ivan Fedeli .................................................24 In questa notte da cancelli aperti - di Oliviero Angelo Fuina ...............................26 Valzer - di Stefano Baldinu ..................................................................................28 Il LEONE simbolo dei Lions ...........................................................................31 Sezione B Narrativa Inedita ............................................................................35 Luana dai capelli rossi - di Fiorella Borin .............................................................37 La Fuga - di Monika Traszik ................................................................................43 Primi passi - di Maurizio Di Benedetto ...............................................................49 L’alcolista - di Francesca Bottari .........................................................................53 Schegge di vetro - di Rosaria Pepe ....................................................................57 Organismi culturali ospiti .............................................................................65 Premio Thesaurus: Giuseppe Vetromile ...........................................................66 Premio Iplac: Maria Grazia Gori ........................................................................68 Premio La Luna e il Drago: Franca Canapini ....................................................70 Sezione C Poesia Edita ...................................................................................73 Il cattivo dono - di Carla Mussi ............................................................................74 Anna e Mélanie - di Valentino Ronchi ................................................................76 Non solo Mediterraneo - di Gianni Vianello ........................................................78 Il bianco delle vele - di Franco Casadei ..............................................................80 Sopra i cieli di Berlino - di Isabella Sordi ............................................................82 Premi Speciali ..................................................................................................85 Calabria amara - di Giuseppe Sergi ....................................................................86 Stéle da l’Orsa - di Bruno Castelletti .....................................................................88 129


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Comitato d’Onore ........................................................................................... 91 Comune di Rho ............................................................................................... 97 Sezione Giovani .............................................................................................. 101 Quando si spengono le luci - di Federico Fiorilli ................................................. 102 Il valore dell’ascolto - di Sofia Franceschetti ....................................................... 103 La vita - di Alessandra Mazzarella.................................................................... 104 Il principe azzurro ha il mio stesso cognome - di Veronica Caramuscio .......... 105 Un biscotto venuto male - di Martina Carciaghi ................................................ 112 Momenti .......................................................................................................... 117 Rassegna Stampa ......................................................................................... 123

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