Tesi savoldi andrea

LABA

Libera Accademia di Belle Arti Diploma di Secondo Livello in Interior and urban design.

I VUOTI URBANI DELLE BOLLE IMMOBILIARI. Restituirli alla città partendo dai margini.

Relatore

Chiar.mo Prof. Andrea Busi Correlatore

Chiar.mo Prof. Vincenzo Denti Docente d’indirizzo

Chiar.mo Prof. Corrado Borsoni

Diplomando Andrea savoldi

Matricola n° 2361

Anno accademico 2012/2013

SOMMARIO: PRMESSA PARTE PRIMA 1. STATO DI FATTO 1.1. Lo scoppio della bolla immobiliare.

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1.2. Le cause della dismissione.

7

1.3. Aree dismesse in Italia.

9

1.4. Le problematiche legate al riuso in Italia.

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1.5. Esperienze di riqualificazione divenute storia.

La Ruhr.

18

La Bicocca.

22

Il lingotto.

26

Parco Dora.

30

L’area Bagnoli.

33

Il progetto Ostiense – Marconi.

35

Altri progetti.

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2. ANALISI DEL LUOGO 2.1. Brescia: la nascita dello stabilimento.

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2.2. Brescia: la crescita delle fabbriche.

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2.3. I numeri che hanno contraddistinto Brescia.

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2.4. Brescia: la nascita dei quartieri operai.

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2.5. Un esempio eclatante: il Villaggio Crespi d’Adda, oggi patrimonio dell’Unesco.

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2.6. Caratteri edilizi ed architettonici delle fabbriche lombarde.

2.7. Brescia: i Magazzini Generali.

50 59

2.8. I Magazzini Generali si trasformano: un nuovo volto per Brescia.

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2.9. Il Comparto Milano.

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Cheschina &Busi.

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Società Nazionale dei Radiatori.

65

Società Litopone.

67

Società Elettrotecnica Caffaro.

67

Fabbrica d’Armi Lorenzotti.

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Metallurgica Tempini.

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Officine Togni.

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2.10.

Il comparto Milano si trasforma: nasce la

IIIIIIIISmart Town.

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3. IL RAPPORTO CON L’ARTE 3.1. L’immagine dell’industria nell’arte tra Ottocento e Novecento.

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3.2. La street art.

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PARTE SECONDA 4. SCELTE PROGETTUALI 4.1. Ipotesi

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5. IL PERCORSO LUDICO SENSORIALE 5.1. Che cos’è e cosa trovo al suo interno?

100

6. IL PROGETTO 6.1. Scelte distributive.

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6.2. L’intervento architettonico.

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6.3. I materiali impiegati.

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Fibra di carbonio

118

Clear - Pep

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7. L’INTERVENTO GRAFICO – DECORATIVO 7.1. Descrizione della pavimentazione.

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7.2. Descrizione del nastro protettivo.

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PARTE TERZA CONCLUSIONI

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RINGRAZIAMENTI

134

BIBLIOGRAFIA

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SITOGRAFIA

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Savoldi Andrea I vuoti urbani delle bolle immobiliari. Restituirli alla Città partendo dai margini.

PREMESSA La scelta di svolgere questo tipo di tesi, nasce dalla volontà di ipotizzare un progetto temporaneo realizzabile, che possa restituire ai cittadini fette importanti di territorio.

In questi due anni di esperienza, sviluppata nei corsi CAD 1-2 tenuto dal Professor Andrea Busi e Design d’Interni 1-2 tenuto dal Professor Corrado Borsoni, abbiamo avuto modo di realizzare assieme due diversi progetti di riqualificazione: un vecchio fienile, sito

nel parco “Il Pescheto” e una lingua di terreno, sita lungo Viale Venezia, dove da anni si pone una decadente pensilina (entrambi a Brescia).

Queste esperienze ci hanno spronato a riflettere ulteriormente sul tema della riqualifica:

entrambi pensiamo che, in un’era in cui la nascita di nuovi fabbricati si sta sviluppando a dismisura con totale noncuranza della natura e della terra che ci ospitano, sia meglio prendersi cura dell’esistente.

Il nostro progetto di tesi tratta la riqualifica di aree abbandonate e chiuse al pubblico, che nel nostro caso sono dismesse da circa oltre un ventennio. L’obiettivo principale dei nostri progetti consiste nell’individuare un accordo tra azienda pubblica e privato, al fine di

riutilizzare temporaneamente aree site a ridosso di contenitori architettonici esistenti abbandonati, quali principalmente ex industrie.

L’iter progettuale ha avuto inizio con lo sviluppo di numerose ricerche tramite il sistema bibliotecario bresciano e la rete internet per avere una panoramica più ampia sull’argomento data la nostra totale sconoscenza. A questo primo passaggio abbiamo dedicato diversi mesi, poiché i documenti inerenti l’argomento erano davvero numerosi: questo ci ha fatto rendere conto di quanto sia enorme il problema “aree dismesse” e ci ha invogliato ulteriormente a portare avanti il tema che ci eravamo prefissati. Messa a fuoco dunque, l’esistenza anche a Brescia di numerose aree dismesse, abbiamo scelto di

concentrarci sull’area dell’ex Comparto Milano. La maestosa presenza di fabbricati (in Via

Carlo Quinto Stefana) appartenuti alla Metallurgica Tempini, nonostante la loro bellezza architettonica e l’importanza storica che trasmettono, versano oggi in uno stato di totale degrado che rende insicura l’intera zona, sfavorendone l’accesso in particolare ai pedoni.

Infine il Professor Vincenzo Denti, con il quale ci siamo approcciati all’urbanistica tramite la decorazione (Design per la Decorazione), ci ha spronato nella realizzazione di un progetto che non fosse puramente architettonico, ma anche grafico - decorativo.

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Savoldi Andrea I vuoti urbani delle bolle immobiliari. Restituirli alla CittĂ partendo dai margini.

PARTE PRIMA.

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Savoldi Andrea I vuoti urbani delle bolle immobiliari. Restituirli alla Città partendo dai margini.

1. STATO DI FATTO 1.1

Lo scoppio della “bolla immobiliare”.

Negli ultimi decenni, la dismissione di aree industriali ha innescato in molte città un processo di degrado progressivo: partendo dalla scomparsa di attività produttive in aree abbastanza limitate e circoscritte, ha travolto rapidamente il contesto economico e sociale raggiungendo un degrado fisico e ambientale ampiamente esteso a livello urbano.

Lo scoppio della crisi finanziaria del 2007 negli Stati Uniti ha portato problemi economici in tutto il mondo, giungendo all’apice in Europa nel 2010 e causando la recessione attuale. La mancata crescita della domanda ha portato al fallimento di decine di grandi banche e società immobiliari, causando così il crollo del mercato. Lo scoppio della “bolla immobiliare” statunitense ha inevitabilmente prodotto un crollo finanziario che ha cambiato l’economia reale: sono caduti redditi e la domanda, sono crollati esportazioni ed investimenti, assottigliando prima e bloccando poi il mercato immobiliare a livello mondiale. Con la crisi del 2008 e la recessione del 2009, si è fatto ricorso alla spesa pubblica per tentare di salvare le banche e soccorrere le imprese in gravi difficoltà: operazione che non è bastata ha recuperare la caduta precedente, ottenendo come risultato un balzo dei deficit pubblici in tutti i Paesi europei.

Oggi più che mai il fenomeno è evidente in tutta la sua gravità, anche se i dati raccolti non rendono ancora chiara l’ampiezza definitiva poiché poco precisi e non aggiornati.

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Nel 2004 fu riportata sommariamente la sua dimensione: in Germania 146.000 ettari, in Gran Bretagna le aree dismesse occupano 128.000, in Repubblica Ceca 30.000, Francia 26.400, in Belgio 14.500, in Olanda 11.000, in Italia sono 9.000, in Svizzera 1.700 (una dimensione pari alla superficie occupata dalla città Ginevra).

Il numero indicato per il nostro paese è destinato a crescere: basti pensare che in un decennio (1994-2004), sono stati dismessi 131 siti, di dimensione varia, dai 5 ai 330 ettari.

La notevole dimensione del fenomeno e le ricadute sociali, urbanistiche ed economiche che il riutilizzo delle aree dismesse comporta, attribuiscono ad esse un ruolo strategico per la riqualificazione delle città, che possono cogliere l’occasione offerta dalla defunzionalizzazione delle aree per un assetto urbano nuovo e più consono alle rinnovate esigenze.

In Italia, nonostante negli ultimi anni le recenti opportunità economiche e normativo procedurali introdotte per facilitare l’attuazione degli interventi abbiano determinato un forte aumento delle aree dismesse riqualificate o prossime a riqualificarsi, rimangono ancora molte quelle che attendono un nuovo uso. La trasformazione delle aree, soprattutto se in passato occupate da attività industriali, comporta la risoluzione di numerose problematiche

che

possono

ostacolarne

profondamente il nuovo uso.

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la

riqualificazione

e

condizionarne

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1. STATO DI FATTO 1.2

Le cause della dismissione.

Con il termine “area dismessa” si indicano aree in disuso del tutto diverse tra loro, in origine occupate da ogni genere di attività, ed oggi libere e disponibili ad accogliere nuove funzioni rispetto a quelle svolte in precedenza.

Sono quindi aree dismesse: le aree in origine occupate da attività industriali (generalmente di proprietà privata), le aree in precedenza occupate da attrezzature di uso pubblico (aree ferroviarie, scali e depositi, inefficaci all’adeguamento alle nuove tecnologie introdotte), gli edifici che nel passato hanno ospitato le funzioni introdotte dalla città ottocentesca (attrezzature carcerarie, mercati, macelli comunali, edifici militari), le aree produttive e gli edifici legati all’agricoltura, divenuti dismessi per l’introduzione di nuove tecnologie in campo agricolo. Le cause della dismissione degli impianti, dagli anni ‘70 ad oggi, pur

derivando da motivazioni diverse, si possono ricondurre a due fattori: una crisi produttiva dello stabilimento o una crisi dipendente dalla localizzazione dell’impianto. La crisi produttiva deriva dall’esaurirsi da parte del mercato, della domanda di quel determinato bene e dall’incapacità o impossibilità dell’impianto di rispondere in tempi brevi alla nuova domanda con una nuova offerta, più compatibile alle nuove richieste. Ancora più frequente è la dismissione delle aree causata da una crisi dell’attività produttiva dovuta alla scarsa resa all’impianto per diversi motivi: per un particolare clima sociale che si è venuto a creare al suo interno, nell’ipotesi di una possibile chiusura dell’impianto; per il mancato avanzamento tecnologico dell’impianto, che ha reso l’azienda poco competitiva, causando incidenti anche di una certa rilevanza dati della mancata sicurezza.

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Molti sono stati i proprietari che hanno deciso di riconvertire le proprie attività produttive, soprattutto a partire dagli anni ’80: in tutta Europa, ma in modo particolare in Italia molte aree industriali sono state riconvertite a terziario. Questo perché spesso i costi che l’aggiornamento tecnologico degli impianti comporta sono notevolmente superiori a quelli di realizzazioni ex novo, che possono far propendere per l’abbandono dei vecchi impianti e la realizzazione dei nuovi.

Non solo: la dismissione delle aree è avvenuta anche per una crisi di localizzazione derivante dal basso costo del lavoro in paesi meno emergenti; ciò ha fatto propendere gli imprenditori ad un trasferimento degli impianti in altri siti dato che, negli ultimi quarant’anni, le innovazioni tecnologiche e l’evoluzione dei mezzi di trasporto hanno svincolato le industrie dalla necessità di doversi collocare in prossimità delle fonti di energia e delle materie prime. Infine, la previsione di un piano di ampliamento della viabilità esistente interessava gli imprenditori, che insediandosi nel nuovo impianto, speravano di ottenere una sede con collegamenti viabilistici più idonei, volti a consolidare l’azienda, ma spesso la mancata realizzazione delle previsioni decretava lo spostamento ulteriore delle attività.

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1. STATO DI FATTO 1.3

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Aree dismesse in Italia.

Savoldi Andrea I vuoti urbani delle bolle immobiliari. Restituirli alla CittĂ partendo dai margini.

Tabelle riassuntive dei dati riportati dal censimento svolto nel 2011 dalla Regione Lombardia: la prima indica il numero di edifici abbandonati nelle varie province, la seconda la quantitĂ di terreno occupato in ettari.

160 140 120

100 80

Numero degli edifici abbandonati

60 40 20 0 MI

BS

CO

VA

PV

BG

CR

MB

SO

LC

MN

LO

700 600 500 400 Superfice occupata

300 200 100 0

MI

BS

CO

VA

PV

BG

CR

MB

8

SO

LC

MN

LO

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1. STATO DI FATTO 1.3

Aree dismesse in Italia.

Sono diversi gli studi condotti sul tema nell’ultimo ventennio con svariati approcci e metodi che ci permettono oggi di avere un’idea sulla rilevanza di questo problema, della sua oggettiva portata e di come viene trattato nelle città.

Dagli anni ‘90 si è avviato un censimento regionale del fenomeno, che ha prodotto nelle diverse realtà la disattivazione di attività industriali e delle modalità con cui si stanno muovendo gli interventi di riuso. Ad oggi sono poche le regioni che si sono impegnate nella raccolta dei dati, inoltre questo censimento non è mai avvenuto su basi comuni, ma ogni regione ha utilizzato metodi propri che hanno reso difficoltoso fare stime a livello nazionale.

Sono collocate al Nord Italia le regioni che maggiormente si sono distinte per la qualità e la quantità dei dati raccolti: già nel 1985, nel pieno del drammatico manifestarsi del declino delle aree industriali di maggiore dimensione e antiche origini, si era avviato il lavoro, in particolar modo in Lombardia, dove si contano innumerevoli casi tanto da rendere il problema molto sentito.

Recentemente l’ARPA (Agenzia Regionale per la Protezione Ambientale) in collaborazione con l’APAT (Agenzia per la protezione dell’Ambiente e per i servizi Tecnici) ha inoltrato questionari (in formato Excel) di facile compilazione a tutte le loro sedi competenti in ogni area metropolitana regionale.

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A fronte di questa ricerca è risultato che in Italia vi sono 29 milioni circa di abitazioni e 5

milioni di edifici industriali sfitti o abbandonati, ovvero una città grande come due volte Roma, tutta vuota. Le aree dismesse sono 701.978 per un totale di 2.000 km quadrati, pari a 17 volte l’estensione di Napoli, soprattutto in Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna.

A Milano risultano 3,5 milioni di metri cubi di edifici pubblici o privati non più in uso (ex fabbriche e scali ferroviari, cascine abbandonate, cabine elettriche), di cui 880.000 metri cubi sono uffici vuoti. Per quanto riguarda le ferrovie e il demanio in Italia ci sono 6.977 chilometri di ferrovia chiusi (compresi caselli, stazioni, parcheggi, depositi), come pure immense aree militari: solo in Sardegna 144.230 ettari di aree e edifici demaniali, per una superficie costruita di 467.000 mq e un volume di circa 4,5 milioni di metri cubi.

Inoltre, i risultati ci dimostrano che molte città, che si sono sviluppate durante il periodo di crescita nel dopoguerra, hanno cominciato, a partire dagli anni ’90, ad avvertire la necessità di trasformarsi ulteriormente per adattarsi alle nuove esigenze. A questa trasformazione si è contrapposta la dismissione industriale che coinvolge i maggiori studiosi del territorio in quanto rappresenta il futuro delle grandi città.

L’aspetto più stimolante generato da queste trasformazioni è la possibilità di rapportarsi con il passato dando spazio a nuove configurazioni in quelle zone dove è possibile eliminare decenni di successive intensificazioni d’uso e crescenti effetti degradanti.

In molti casi questi luoghi sono collocati in zone centrali della città, non recuperabili con rilevanti trasformazioni, soprattutto in un paese come l’Italia dove è difficile sostituire, sovrapporre o affiancare nuovi progetti a causa di aspetti storico artistici spesso sottoposti a vincoli urbanistici.

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Oggi le aree dismesse vengono anche definite “vuoti urbani” perché non svolgono più le funzioni per cui erano state create, ma in realtà nei casi in cui si sono preservate le condizioni originarie rappresentano dei pieni. Su di esse si trovano manufatti di notevole interesse per la storia dell’industria e della tecnologia, memorie individuali e collettive legate alla cultura del lavoro, valori simbolici e quant’altro abbia contribuito allo sviluppo della storia locale.

Dopo un lungo periodo di difficoltà e interrogativi sul destino da riservare a queste “fette” di territorio espropriate alle città e ai cittadini, oggi si prospettano opportunità di innovazione e trasformazione interessanti grazie all’intervento pubblico che ha permesso lo sviluppo di un percorso politico, tecnico e gestionale generando programmi di riqualificazione sostenibile.

Il Piano di Riqualificazione Urbana avviato nel 1995 su scala nazionale, propone il riuso del 63% delle aree industriali dismesse, in particolare al Nord Italia dove i progetti previsti coprono il’70% della superficie totale, progetti che porteranno nuove risorse sul territorio.

Per garantire il successo dell’operazione è necessario un forte sostegno da parte dell’azione pubblica, viste le problematiche legate a modalità, tempi e costi elevati.

Per sfruttare efficacemente l’occasione di rinnovamento è fondamentale disporre di informazioni, descrizioni e interpretazioni che permettano di conoscere cosa, come e dove queste trasformazioni avvengono o stanno per avvenire in un momento in cui il processo di dismissione sta interessando impianti piccoli e edifici utilizzati per servizi e terziario come scuole, cinema e supermercati.

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In molti casi i progetti di riuso o recupero di alcuni dei tanti edifici abbandonati, si trovano oggi a metà del percorso che dovrebbe portarli dalla crisi della dismissione alla riconquista di una funzionalità perduta. È questa la fase più delicata dell’iter di recupero, poiché istituzioni e privati si trovano ad affrontare ostacoli e resistenze che spesso portano ad elaborare cambiamenti che possono deviare il corso degli eventi in direzioni diverse da quelle previste o addirittura impedirne la conclusione.

Inoltre non è da escludere, in un periodo di crisi come quello che stiamo vivendo, la difficile ricerca di strumenti economici idonei a rendere l’operazione fattibile: ciò comporta la presenza di innumerevoli situazioni in cui non vi sono soluzioni alternative che possono portare dal totale recupero dell’area al suo graduale abbandono fino ad un destino di degrado irreversibile.

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1. STATO DI FATTO 1.4

Le problematiche legate al riuso in Italia.

In Italia, il termine riuso si coniuga strettamente a conservazione ed è necessario partire da questo principio per capire il processo che ha condotto agli atteggiamenti attuali.

Ma, mentre da una parte gli addetti ai lavori intervenivano disinvoltamente sul patrimonio edilizio esistente attraverso diradamenti e bonifiche in piena tradizione moderna, dall’altra un vasto pubblico di operatori, sotto la spinta di meccanismi speculativi, interveniva selvaggiamente sul corpo della città producendo guasti irreversibili, senza rispetto per alcuni unici e irripetibili episodi edilizi.

Questi, isolati nella loro eccezionalità architettonica dal contesto ambientale e storico in cui erano stati prodotti ed in cui si trovavano, assumevano il ruolo di testimonianza non tanto di un processo storico quanto di un periodo, di una fase, di uno stile architettonico.

Sulla base dello stesso principio sono giunti a noi chiese, ville, palazzi nobiliari e tutte quelle architetture che vennero definite monumenti intoccabili.

Soltanto alla fine degli anni cinquanta si attuò una prima, parziale, inversione di tendenza che significativamente coincise con gli anni di maggiore espansione economica, di rapida crescita e trasformazione della città: questo nuovo approccio conservativo del patrimonio storico viene inteso non solo in termini culturali, ma anche economici. Conservare il patrimonio edilizio storico è ritenuto più vantaggioso che costruire ex novo.

Dopo aver dato dimostrazione con calcoli che evidenziano come, sui costi d’intervento nei tessuti edilizi esistenti, non gravino le spese di urbanizzazione, tutte le città storiche saranno interessate da una politica di tipo conservatorio, in favore della memoria collettiva degli abitanti che le popolano.

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Così, intorno alla metà degli anni ’70, vennero pubblicati i primi Piani Regolatori, grazie ai quali si programmava la tutela e la conservazione delle aree a tessuti misti e funzioni integrate, di rilevanza storico-sociale. Anche in questo caso la cultura italiana era meno avanzata rispetto ai paesi esteri, dove, già negli anni ’50, presero il via lo studio e la politica di conservazione del patrimonio edilizio esistente con caratteristiche non monumentali e/o non necessariamente legato alla funzione residenziale.

L’avvio dell’archeologia industriale in Italia, si fonda inizialmente su valori d’uso, su potenzialità funzionali e strategie urbane degli edifici più che sul loro valore monumentale o sulle loro qualità architettoniche. Sarà a cavallo tra gli anni ‘70 e ’80, che anche in Italia si è manifesterà un maggiore interesse verso gli aspetti monumentali di degli edifici storico-industriali e delle ipotesi di riuso per la collettività.

Nonostante questo, i primi interventi di riuso, destinati alla collettività, si rivelarono molto onerosi sia nell’attuazione del progetto prima, che nella gestione poi, che portarono le politiche delle città verso un atteggiamento di maggiore apertura verso l’iniziativa privata.

Così, si decise di lasciare ai proprietari dell’area, l’onere di riconvertire il proprio patrimonio storico industriale, senza particolari obblighi di contenuto, tanto che spesso vennero semplicemente ridefinite le funzioni dei singoli contenitori edilizi all’interno di una continuità d’uso nel settore produttivo. In pratica si ripercorse il cammino dei paesi esteri che cercavano soluzioni che variassero dalla sede di rappresentanza alla residenza.

Questo portò a trasformazioni edilizie che davano particolare spazio alle residenze, negando completamente l’originario ruolo produttivo, dimenticando anche lo spirito di conservazione dell’involucro da cui si era partiti.: i progetti ridefinivano completamente il disegno degli esterni, dettato da suggestioni del momento e precarie mode culturali.

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Il patrimonio edilizio antico attualmente esistente è parzialmente usato per residenza, magazzini e piccole officine, mentre le attività industriali originarie rimaste si sono trasferite fuori città. Come si nota dagli avvicendamenti descritti, gli edifici sono sopravvissuti non per misure di tutela, bensì per la loro duttilità e per la loro adattabilità a nuove condizioni d’uso.

L’insieme, anche se sorto caoticamente e al di fuori di qualsiasi pianificazione urbana, presenta un carattere omogeneo rispetto al resto del tessuto urbano: architetture prevalentemente della stessa epoca, costituiscono oggi un tessuto minuto, delimitato da strette vie che rendono l’impianto planimetrico e lo skyline estremamente articolati, laddove non si siano attuati interventi snaturati quali quelli di demolizione e ricostruzione.

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1. STATO DI FATTO 1.5

Esperienze di riqualificazione divenute storia.

La Ruhr settentrionale nella zona dell’Ems (Germania).

Nel secolo scorso, e per diversi decenni, il distretto minerario e siderurgico della Ruhr ha costituito il cuore dell’industria europea. Entrato in crisi negli anni ’70 a causa di un mancato aggiornamento tecnologico, negli anni ’90 viene così descritto: “nuove tecnologie rendono obsoleti i vecchi gasometri, le torri dell’acqua, gli impianti di depurazione; nuove politiche dei trasporti svuotano i vecchi porti, i silos, i magazzini, le stazioni merci e di manovra; nuove esigenze sociali (la struttura demografica e la piramide delle età) impongono il riuso di piscine e asili nido e la riorganizzazione dei servizi sanitari; nuove congiunture politiche chiedono il ripensamento e la rilocalizzazione di apparati amministrativi, religiosi e militari”. Il paesaggio della Ruhr appariva allora come un tessuto intreccio di più città una nell’altra, ma mai divenute vere città. Un paesaggio deturpato dallo sfruttamento agricolo, con i segni della lavorazione a maggese, dell’abbandono dei detriti e delle superfici residue; un sistema infrastrutturale realizzato per soddisfare le esigenze dell’industria estrattiva senza più importanza economica, canali

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navigabili per il trasporto di beni di consumo, più di 50 porti, serbatoi di gas sospesi, condutture, centrali elettriche paralizzate, depositi dei tram vuoti e resti di vecchie rotaie.

Nella Ruhr, come nelle regioni di vecchia industria, sono state esasperate o anticipate tendenze che altrove, nel mondo, erano ancora latenti. Come queste regioni, in passato hanno imposto o diffuso il modello di urbanizzazione della città industriale, così successivamente sono divenute campo di sperimentazione di nuove crisi di crescita e di nuove forme di sviluppo.

La riqualificazione della Ruhr costituisce quindi un’esperienza fondamentale per le aree dismesse che successivamente ad essa sono state riqualificate. Un’esperienza dalla quale non è possibile prescindere, perché essa rappresenta la crisi di un modello urbano articolato e complesso, legato ad una era tecnologica ormai trascorsa, divenuto poi terreno di sperimentazione per lo sviluppo urbano. La riqualificazione dell’area si è avviata nel 1989, con l’approvazione da parte della Giunta regionale della North RhineWestphalia, in linea con le precedenti esposizioni internazionali di architettura a Berlino, del programma decennale dell’IBA Emscher Park, una società consociata a responsabilità limitata di proprietà della regione, che doveva porsi obiettivi ben precisi, quali sviluppo urbano, misure sociali, culturali ed ecologiche, per la trasformazione economica del territorio. La trasformazione urbanistica dell’IBA si è posta come finalità la rigenerazione del paesaggio industriale, con l’affidamento a Peter Laz del progetto di creazione di un grande parco lungo il bacino del fiume Emscher, che attraversa in diagonale tutta la regione da Sud Ovest a Nord Est. Le condizioni ambientali del fiume erano disastrose, essendo utilizzato come canale di drenaggio degli scarichi delle industrie siderurgiche della zona e l’ambizioso progetto di farne il segno direttore naturale di un grande parco 17

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fatto di terre contaminate e abbandonate, comportava problematiche di non facile soluzione. Il problema iniziale fu il possibile riutilizzo dei resti delle numerose strutture degli impianti industriali come: edifici ed officine, depositi, ciminiere, fornaci, ponti, gru, rotaie etc. L'area si presentava fortemente frammentata e spazialmente discontinua quindi l'atteggiamento progettuale fu quello di ricercare nuove interpretazioni delle strutture esistenti, cambiando la loro funzione ed il contesto, attraverso la sovrapposizione di una serie di livelli caratterizzati da differenti conformazioni spaziali e funzionali.

I diversi livelli che compongono il parco, anche se mantengono una certa indipendenza sono saldamenti connessi l'uno con l'altro a volte attraverso elementi fisici quali rampe, scale e terrazze oppure attraverso un legame funzionale o puramente simbolico.

Complessivamente, in un decennio, sono stati realizzati circa 120 interventi, con obbiettivi diversi tra cui il principale era ridare significato al paesaggio industriale riconvertendo i monumenti presenti a usi nuovi. L’investimento complessivo è stato pari a 5 miliardi di marchi, dei quali 2/3 ottenuti da fonti di finanziamento pubblico e 1/3 da fonti di finanziamento privato.

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La Bicocca (quartiere di Milano).

La Bicocca, attualmente quartiere della periferia settentrionale milanese è nota per la presenza di una dimora di campagna appartenuta alla nobile famiglia Arcimboldi, costruita intorno al 1450 e tuttora esistente. È alla presenza di questa dimora patrizia che si deve, probabilmente, il nome della località (il termine bicocca indica propriamente una roccaforte o castello di modeste proporzioni posto in un luogo elevato).

La località fu resa celebre da una sanguinosa battaglia svoltasi nei suoi pressi nel 1522 tra gli Spagnoli di Carlo V e i Francesi di Francesco I. Col tempo, e con la progressiva espansione edilizia di Milano, le campagne a nord della città sono state un po' alla volta integrate nel tessuto urbano, venendo ad ospitare per lo più una serie di stabilimenti industriali, che hanno per lungo tempo caratterizzato il territorio compreso tra il comune di Milano e quelli di Sesto San Giovanni, Cinisello Balsamo e Monza. La villa, dalla famiglia Arcimboldi era poi passata ad altre famiglie e col tempo aveva conosciuto un certo degrado.

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Venne restaurata ai primi del Novecento e nel 1918 fu acquisita dalla Pirelli che già dal 1906 possedeva, nei pressi, i suoi stabilimenti. Il complesso venne chiuso nel 1984 in seguito allo spostamento della produzione in un altro stabilimento. L’area della Pirelli, insieme a quelle vicine della Breda, della Falk e della Magneti Marelli che avevano rappresentato per anni la storia dell’industria italiana, era definitivamente dismessa.

Tra i progetti per la trasformazione delle aree industriali, o dismesse, quello della Bicocca è il caso più conosciuto in Italia.

La riqualificazione della Bicocca ha contribuito a scrivere la “storia” delle aree dismesse per diversi motivi: non costituisce forse la prima area ad essere riqualificata in Italia o in Europa, ma certamente rappresenta il primo caso in cui, stipulato nel 1985 un protocollo di intesa con l’Amministrazione comunale (per il risanamento e la ristrutturazione dell’area con la realizzazione di un polo tecnologico), si è utilizzato un Concorso internazionale per raccogliere proposte sul nuovo assetto dell’area e conseguentemente sulla città che la contiene. Al Concorso della Bicocca (indetto dalla società proprietaria dell’area, la Pirelli), seguirà subito dopo, quello del Lingotto. Inoltre, la Bicocca costituisce una situazione del tutto nuova, rispetto ad altre aree già trasformate, poiché è una delle poche “fette” di città del nostro territorio che è frutto di un’unica progettazione e realizzazione, avendo affidato allo stesso progettista, Vittorio Gregotti, sia il progetto urbanistico sia la progettazione e realizzazione di tutti gli interventi, comprese le sistemazioni degli spazi pubblici (eccezione fatta per la sede della Deutsche Bank, opera di Gino Valle).

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Il progetto di Gregotti per la Bicocca richiese circa un ventennio per la realizzazione, soprattutto a causa del profondo inquinamento del luogo, il grado di contaminazione e la presenza di amianto, per il quale sono state necessarie numerose operazioni di bonifica. Al termine di queste operazione sono sorti centri di ricerca di enti come CNR e l’istituto neurologico Besta e aziende, come la stessa Pirelli e l’Aem e uffici di importanti imprese.

Nel 1994 è stata inaugurata la nuova sede dell’Università degli studi di Milano e successivamente il teatro degli Arcimboldi. Nel corso della riqualificazione lo spazio destinato alle attività terziarie venne ridotto per far spazio alle residenze, essendo il settore immobiliare più remunerativo.

Tra il 2001 e 2002 è stato realizzato il progetto Bicocca Esplanade Spa, un’area residenziale di circa 300 mila mq destinati al verde, a servizi pubblici e parcheggi e sono stati ultimati gli spazi espositivi, il cinema multisala e il polo universitario. L’immagine urbana, ottenuta con il ricorso ad un solido reticolo di strade e decise regole di impianto (allineamento stradale degli edifici, uniformità delle altezze, coronamento conforme, parcheggi sotterranei), che contrasta con l’eterogeneità della città periferica, per la complessità degli spazi interni, la frequente intersecazione dei volumi delle attività e dei livelli di percorrenza, contribuisce ad arricchire di sorprese spaziali e percorrenze pedonali interne, per la frammentazione delle funzioni poiché la residenza è circondata dalla ricerca, dall’università e dal centro congressi e così avviene per ogni altra funzione.

Il progetto di notevole portata, sia per le dimensioni sia per l’impatto sia ha avuto sul contesto urbano e territoriale, ha anche aggiunto dei limiti.

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Il primo è rappresentato dal fatto che sono stati occupati troppi spazi che invece dovevano essere aperti e questo ha comportato l’interramento dei parcheggi per ottenere la quota di verde minimo degli standard urbanistici. Il secondo dovuto dal fatto che gli spazi verdi all’interno dell’area, svolgono una funzione di connessione, mentre se rapportati con l’esterno rappresentano una cesura. Un’altra pecca è il collegamento con i servizi pubblici che sono poco efficienti.

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Il Lingotto (Torino).

L’area dello stabilimento automobilistico del Lingotto si trova nell’omonimo quartiere della periferia sud di Torino. Il Consiglio di Amministrazione della Fiat nel 1912 decise di costruire un nuovo impianto per la produzione di automobili nella periferia di Torino e nel 1922 l’attività era già avviata. Per molto tempo ha rappresentato un importante tassello dell’industria italiana fino a quando non è sopraggiunta la crisi del settore industriale. Nel 1982 l’attività venne chiusa e trasferita in un luogo più adatto alle nuove esigenze produttive. La trasformazione del Lingotto fu lunga e complessa: avviata nel 1983 si è conclusa nel 2003.

La riqualifica si è verificata in un momento particolare per la nostra pianificazione, nel quale si confrontavano due modi diversi di procedere: il tradizionale piano regolatore e le nuove possibilità offerte dalla pianificazione contrattata e strategica, definita in base alle convenienze pubbliche e private.

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Non solo: erano anni particolari anche per la nostra economia, che vide il definitivo tramonto di un’epoca basata sull’organizzazione fordista dell’impresa, dopo decenni in cui la città era stata la capitale della produzione industriale. Ancora, l’elevato valore storico dell’edificio, vincolato dal Ministero dei Beni culturali, nel 1986, nelle sue parti più famose (pista, rampa elicoidale, tetto, maglia strutturale) e di conseguenza il valore simbolico della struttura, hanno determinato ulteriori problematiche, in relazione alla necessità di attribuire all’edificio destinazioni d’uso consone e compatibili con le sue caratteristiche anche dimensionali. Le Corbusier, nel suo libro “Vers une architecture”, lo definisce uno degli spettacoli più imponenti forniti dall’industria, essendo lungo 500 metri e alto 5 piani.

Il progetto è stato scomposto in varie fasi senza aver stabilito un quadro strategico generale. Nel 1983 è stato indetto un Concorso internazionale di progettazione che ha visto vincitore l’architetto italiano Renzo Piano, che ne previde un uso polifunzionale includendo nell’intervento anche una parte dell’area confinante, dove passava la ferrovia.

La struttura, così come si presenta oggi, ha mantenuto all’esterno le parti che erano state vincolate in precedenza dal Ministero dei Beni Culturali, mentre all’interno la conformazione è totalmente cambiata in base alle esigenze del centro polifunzionale. In seguito a più riprese furono realizzati residenze, uffici, spazi a verde, un centro congressi, l’auditorium, alcuni parcheggi e la fondazione Agnelli. Il valore storico, simbolico e sociale della struttura e di contrasto, il basso prezzo stimato di mercato, nella terza fase della sua riqualificazione, hanno costretto ad optare per funzioni commerciali, inizialmente non prese molto in considerazione.

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Agli albori del 2000 si decise dunque di realizzare una foresteria comunale, un cinema, una galleria commerciale, un albergo, una sala riunioni, la Facoltà di Ingegneria dell’auto, ristoranti, parcheggi sotterranei e a raso e una pinacoteca dedicata a G. Agnelli. Nel progetto venne coinvolta l’azienda proprietaria dell’area, la Fiat, che collaborò con l’Amministrazione Comunale. La Fiat in questo processo di riqualificazione ebbe una grande influenza sia per quanto riguarda la progettazione che la gestione dell’intervento che doveva essere una possibilità di riscatto economico e di popolarità. L’Amministrazione comunale in questo caso si è vista costretta a costituire una società mista, la Lingotto Spa con la Fiat per non perdere totalmente il controllo dell’intervento.

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Parco Dora (Torino).

Il parco Dora sorge nell’area Spina 3, a nord di Torino, ed occupa una vasta area.

Rappresenta il cuore della grande trasformazione e uno dei polmoni verdi più estesi della città. In precedenza la zona era stata occupata da impianti industriali come quelli della Michelin, le Ferriere Fiat, la Savigliano e la Paracchi, poiché si trovava in una posizione strategica, vicino al fiume Dora e alla linea ferroviaria. Questi stabilimenti hanno caratterizzato l’area fino a tre decenni fa.

Nel 2000 l’architetto Jean Pierre Buffi è stato individuato, attraverso un concorso pubblico, come l’esperto in progettazione urbana e architettonica cui affidare il coordinamento degli interventi nelle aree della Spina Centrale. Si sono realizzate residenze, spazi commerciali, uffici, laboratori, centri di ricerca e produzione e spazi per attività ricreative oltre che sono stati recuperati e riconvertiti a spazi che ospitano attività produttive avanzate, edifici di pregio un tempo occupati dalle Officine Savigliano e dalla Società Paracchi.

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L’architetto, cui affidare l’incarico della realizzazione del parco, è stato individuato attraverso una competizione internazionale avviata nel 2004, dalla quale è uscito vincitore Peter Latz. Nel parco si sono mantenuti alcuni elementi significativi, come la torre di raffreddamento della Michelin, la grande struttura dello strippaggio e la centrale termica delle acciaierie Fiat in memoria del passato industriale, che oggi affiancano ambienti strettamente naturalistici caratterizzati da spazi alberati e grandi prati. Anche l’acqua ha un ruolo fondamentale in quanto il fiume Dora è stato valorizzato e reso accessibile. Questo progetto si è inserito tra le opere realizzatesi per la celebrazione dei 150 anni dell’Unità d’Italia.

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L’area di Bagnoli (Napoli).

Prima di diventare un polo industriale era famosa per diversi luoghi termali. Dalla metà dell’Ottocento la sua vocazione cambiò quando la costa da Pozzuoli a Castellammare fu individuata per la crescita di un tessuto industriale moderno. Rapidamente in prossimità della spiaggia di Bagnoli sorsero le industrie di Bournique, una vetreria e Lefevre, uno stabilimento chimico. Quest’ultimo dalla fine dell’Ottocento, quando è sorto, fino alla sua dismissione ha cambiato diversi proprietari passando da una società all’altra fino 1975, quando divenne di proprietà della Federconsorzi. In seguito l’attività diminuì sempre più fino alla completa cessazione negli anni ’90, con la chiusura dello stabilimento.

La superficie della Federconsorzi è solo una parte della più grande area industriale dismessa che si trova nella parte occidentale della città di Napoli e che comprende anche gli stabilimenti dell’Ilva, dell’Eternit e della Cementir.

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Per gli aspetti ambientali, paesaggistici e di tutela del territorio, una parte dell’area compresa nel Piano Territoriale Paesistico di Posillipo fu sottoposta al Piano Urbanistico Esecutivo approvato nel 1995. Il verde e la natura rappresentano gli elementi più importanti dell’intervento, infatti, sorgerà un parco rafforzato dalla vocazione turisticoculturale dell’area.

Sono previste attrezzature per il turismo, il tempo libero e lo svago, attività industriali ad alto contenuto tecnologico e residenze; la spiaggia sarà recuperata alla balneazione. In questo caso si è delineato anche un progetto per quanto riguarda i collegamenti dell’area sia con il mare che con la terraferma. La trasformazione urbana dell'area di Bagnoli è stata avviata nel 2005 con l'apertura dei primi tre cantieri, la Porta del Parco, il Parco dello Sport e l'Acquario tematico, terminati nel 2010 e ora in stato di abbandono.

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Il progetto Ostiense – Marconi (Roma).

L’area comprende una serie di stabilimenti industriali ormai in disuso da diverso tempo.

L’obiettivo del programma urbanistico di riqualificazione

è

la creazione

di

una

centralità urbana dei due quartieri, oggi non più periferici ma sprovvisti di servizi idonei, ripristinando al tempo stesso gli elementi strategici esistenti. Nell’area industriale Italgas sorgeranno la Città della Scienza, che in parte si inserirà nel Gazometro, in parte in nuovi edifici, la Biblioteca dell’Università Roma Tre, mentre tutt’intorno sorgerà un parco e un nuovo sistema di viabilità locale. Un ponte pedonale per la cui realizzazione è stato svolto un concorso di progettazione, collegherà questo complesso di servizi a quello previsto sulla sponda verde del Tevere, nell’area dell’ex saponificio Mira Lanza e dell’ex deposito Esso, all’interno del quale è attivo il teatro India. L’intervento di recupero doterà il teatro di tre sale di cui due da 300 posti, e un teatro all’aperto di circa 500. Sulla medesima area sono previsti: un parco pubblico, una casa dello studente per 600 universitari e un sistema di servizi privati, prevalentemente di tipo alberghiero, complementari a quelli pubblici. Inoltre la localizzazione delle strutture dell’Università Roma Tre, lungo la via Ostiense e nell’area di Valco S. Paolo prevede il recupero di edifici dimessi e delle circostanti aree degradate.

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A garanzia di un inserimento di nuovi servizi, per non appesantire ulteriormente il traffico, il Progetto Urbano propone interventi di grande viabilità come la realizzazione dei due tratti di lungotevere in sotterranea sulle due rive del fiume e la costruzione di due ponti veicolari sul fiume e sulla linea Ostia Lido – Roma per il proseguimento della circonvallazione Ostiense fino al quartiere Marconi.

Nell’ex mattatoio sarà realizzato uno spazio urbano caratterizzato da un’alta fruibilità e orientato allo sviluppo della cultura e dell’arte, dove si integreranno attività pubbliche e private, istituzionali e associative. I vecchi Mercati Generali saranno recuperati e riutilizzati, con finalità culturali e ricreative dedicate alla cultura giovanile, nonché alla diffusione della cultura dell’alimentazione.

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Oltre a questi progetti, ne abbiamo consultati altri meno strutturati e meno conosciuti, ma che ci hanno fornito spunti interessanti per lo sviluppo dei nostri progetti personali.

Questi, abbiamo deciso di mostrarli tramite una carrellata d’immagini didascaliche.

Riqualificazione di aree urbane dismesse: orti urbani, acqua e verde.

1. Parco urbano, Zaragoza (Spagna).

2. Intervento di riqualificazione “Real living a Santo Domingo”, Granada (Spagna).

3. “Orto in Campania”, Marcianise (Italia).

4. “K0 Place”, Leivi (Genova).

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Riqualificazione di aree urbane dismesse: skatepark.

1. “Land of marble”, Pietrasanta (Lucca).

2. “Hafen Park” Francoforte (Germania).

3. Riqualificazione di uno spazio pubblico, Zaragoza (Spagna).

4. “Les berges du Rhône”, Lione (Francia).

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Riqualificazione di aree urbane dismesse: parchi pubblici.

1. “Urban lounge” Saint Etienne (Francia).

2. “Superkilen”, Copenhagen (Danimarca).

3. “Sliced Porosity Block”, Chengdu (Cina).

4. “Scholars' Green Park”, Mississauga (Canada).

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2. ANALISI DEL LUOGO 2.1

Brescia: la nascita dello stabilimento.

Il catasto voluto dal governo napoleonico per il Regno d’Italia, steso, per quanto riguarda il Dipartimento del Mella, negli anni 1809-1810, descrive i terreni compresi fra Porta San Giovanni (l’odierno piazzale Garibaldi) e Fiumicello. Acqua e capitali di famiglia costituivano le fondamenta per le imprese di questa parte della città.

Le rilevazioni catastali, in particolare quelle dovute al Regno Lombardo Veneto nel 1851 e, le successive, confermano la rapidità delle trasformazioni avvenute in quest’area: in pochi anni nascono case bottega, magazzini per legnami e la macina si trasforma in fonderia.

Stessa sorte per il mulino ad acqua che diventa uno stabilimento metallurgico, mentre poco più a nord, nascono le prime concerie e un fabbricato per la lavorazione di ossa e la produzione di fertilizzanti: in pochi anni, alle vecchie attività connesse alla lavorazione dei prodotti della terra, alle macine e ai mulini, si sostituiscono le industrie. È la prima fase dell’industrializzazione bresciana, che vedrà la sua completezza con l’insediamento di grandi complessi metallurgici, che da una parte cancelleranno il paesaggio e dall’altra permetteranno la nascita di relazioni e rapporti con il territorio che segneranno anche il futuro.

Attorno al 1850, gli insediamenti industriali della città si compongono di piccoli laboratori e opifici di medie dimensioni: Giuseppe Antonio Serini e il figlio Girolamo fondano un piccolo laboratorio per la fabbricazione di zolfanelli e cerini che diventerà l’emblema della modernità. L’impresa si contraddistinguerà a livello italiano per due brevetti: i mortaretti a salve e un cannone contro la grandine.

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Non meno importante sarà la presenza dello Stabilimento in campo Fiera, della Società Anonima Bresciana per il Commercio di fertilizzanti: Luigi Cottinelli, Giovanni Ghirardi e Francesco Rovetta svilupparono depositi e laboratori di trasformazione a lato del mercato di Campo Fiera e un’agenzia agraria in piazza del Vescovado.

Infine, lungo via Milano nel 1870 prende avvio la ditta di Giovanni Dall’Era, per decenni l’unica fabbrica di terraglia bianca dolce a Brescia, trasformandosi nella sola impresa di commercializzazione esistente tutt’oggi nello stesso sito.

Negli stessi anni il comparto siderurgico subirà profonde modifiche strutturali: nel 1887 il territorio bresciano conta 113 stabilimenti sui 220 censiti a livello nazionale, opifici che contribuiranno per il 10% alla produzione italiana di ferro e acciaio.

Furono queste le basi per lo sviluppo dell’industria moderna, la cui produzione subì in poco tempo un’impennata, con un’espansione delle fabbriche e del numero degli addetti senza precedenti: le imprese conquistarono molti campi coltivati e coprirono le rogge.

Nel 1897 si rese necessaria la stesura di un Piano Regolatore Cittadino, che impedisse lo sviluppo disomogeneo degli opifici. Da quel momento sarà possibile espandersi solo nei tratti compresi fra l’antica cinta muraria della città e Viale Italia, lasciando all’industria tutti i terreni a ovest fino al limitare del Cimitero: ciò porterà l’industria a occupare oltre l’area destinata a uso residenziale.

In pochi anni e con il continuo sorgere di nuovi stabilimenti, si delineerà un nuovo skyline simbolo della modernità, grazie anche al grandioso contributo di Tempini e Togni, che ritagliarono il paesaggio con tre rette verticali: i due fumaioli della metallurgica e un faro nel Camposanto.

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Un elenco di aziende che potrebbe essere lunghissimo, molte scomparse o mutate nella ragione sociale, i cui prodotti che qui venivano fabbricati per i consumi dell’età ottocentesca sono ormai svaniti, per dare spazio alla modernità del Novecento e alla produzione in serie odierna.

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2. ANALISI DEL LUOGO 2.2

Brescia: la crescita delle fabbriche.

Brescia e la sua provincia furono, sin dalla seconda metà dell’Ottocento, una delle più importanti realtà industriali in Italia. Il modello di sviluppo e le forme organizzative e territoriali della sua economia presentavano caratteristiche peculiari e, per alcuni tratti, del tutto originali rispetto al restante panorama economico-industriale italiano: una diffusa polisettorialità, la compresenza di imprese dalle diverse dimensioni con variegati livelli occupazionali ed ampiezze di mercati, la dinamica diffusione nelle valli come in città e nella vasta pianura di un tessuto denso di imprese. Tutti caratteri evidenziatisi nel corso del Novecento e legati, nel passaggio da provincia agricola a territorio industrialmente avanzato, ad un complesso intreccio di fattori originari: vasta disponibilità di forza motrice idraulica, elevata presenza di manodopera, notevole sforzo lavorativo ed economico, forte senso civico ed una radica etica del lavoro. Una vicenda industriale che ha superato crisi e alimentato accelerate crescite, vivendo l’euforia di stagioni forse irripetibili e soffrendo cicliche congiunture: un itinerario denso di date, eventi, nomi, che costituiscono uno fra i più rilevanti fili conduttori che hanno accompagnato Brescia dalla rivoluzione industriale alla globalizzazione dei mercati.

Il comparto metallurgico e meccanico assunse i connotati di portabandiera dell’orgoglio industriale bresciano: nell’incrocio fra storie di lungo periodo, innovazioni tecnologiche e antichi saperi medievali, qualche record nazionale e tanta fatica, i numeri rimandano a un settore essenziale e diffuso. La potenzialità delle risorse idriche delle montagne bresciane è del resto conosciuta e sfruttata da secoli nelle valli.

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La costellazione di magli e fucine, che ha fatto la storia economica e non solo delle comunità locali, si è disseminata lungo i salti d’acqua degli affluenti dei tre corsi maggiori: da est a ovest, il Chiese in Valle Sabbia, il Mella in Valle Trompia e l’Oglio in Valle Canonica. Sono zone dove era possibile recuperare il minerale e il legname per rifornire i forni e, nello stesso tempo, dove era disponibile la forza per far funzionare gli insufflatori e i magli, mentre un’elite professionale, garantiva efficienza e funzionalità dei siti produttivi.

Il grande boom demografico, avvenuto nel 1901, e il successivo arrivo di fonti di energia, come la corrente elettrica, fece esplodere nuovamente l’industria che in pochi anni si raddoppiò espandendosi in innumerevoli terreni portando Brescia a diventare il simbolo dell’industrializzazione italiana.

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2. ANALISI DEL LUOGO 2.3

Terreno municipale industriale 1902 +3.39% 1911 +8.49%

popolazione totale 610.000 8 Brescia vs 5.7 Italia addetti per opificio

I numeri che hanno contraddistinto Brescia.

+ 50% opifici +33% addetti

Numeri Opifici: - 1890: 1.300 - 1898: 2.071 - 1903: 3.103 - 1911: 4.270

4.270 7 aziende ogni 1.000 abitanti

91 aziende + 100 addetti

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4.189 impiegati

51.700 addetti

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Comparto alimentari

Comparto Serico -80%

Comparto Laniero 12 opifici 600 addetti

2 nuove industrie +28% produzione

Comparto Cotoniero

Comparto armiero

15 opifici 3.500 addetti

8 nuove aziende

1890 - 1910 Produzione motori a scoppio

Calzificio 2 nuove aziende

3 nuove aziende

Comparto chimico 4 nuovi stabilimenti

Produzione ventagli e carrozze 18 imprese 200 addetti

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Comparto Conciario 28 concerie 367 addetti

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2. ANALISI DEL LUOGO 2.4

Brescia: la nascita dei quartieri operai

Nelle aree attorno a via Milano sorgono nel 1907 i primi edifici destinati al quartiere operaio “Campo Fiera” e, lo stesso anno, l’isolato popolare “Congrega”. La politica edilizia pubblica di inizio secolo tendette a liberare il centro storico per procedere ad un suo risanamento,

mentre

le

ristrettezze

di

bilancio

obbligarono ad approfittare dei terreni già disponibili: i quartieri nacquero circondati dalle grandi fabbriche, ad eccezione della zona est dove vennero realizzati viali alberati sui terrapieni delle distrutte mura, che divisero la zona industriale dal centro storico, il cui skyline era già ampiamente disegnato da alti campanili ed antichi palazzi nobiliari di alto pregio. L’area rimanente fra il cimitero comunale e il quartiere venne occupata, oltre che dalle fabbriche metallurgiche in espansione, dalla rimessa per i tram elettrici, mentre sulla contigua porzione vi era la caserma dei Vigili del fuoco. Il nome, quartiere operaio-popolare, gli venne attribuito per la composizione sociale dei suoi abitanti: le case erano destinate esclusivamente agli operai, quindi sarà questa categoria di lavoratori a contraddistinguere la popolazione dei quartieri bresciani. La zona lungo via Milano risultava, nelle statistiche comunali dei primi anni Venti, come l’area più grande su cui un’Amministrazione abbia costruito case popolari, con un numero di alloggi pari a un quarto dell’intera proprietà di edilizia residenziale comunale (15.000 mq), anche se i terreni avevano un indice di copertura pari al 38% circa, tanto che rendeva il quartiere, un lotto ancora poco sfruttato.

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2. ANALISI DEL LUOGO 2.5

Un esempio eclatante: il Villaggio Crespi d’Adda, oggi patrimonio dell’Unesco.

L'Unesco ha accolto Crespi d'Adda nella Lista del Patrimonio Mondiale Protetto nel 1995 in quanto esempio eccezionale del fenomeno dei villaggi operai, il più completo e meglio conservato del Sud Europa.

Crespi è il nome della famiglia d’industriali cotonieri lombardi che a

fine Ottocento realizzò il moderno “Villaggio ideale del lavoro”, interamente in stile Liberty, accanto al proprio opificio tessile, lungo la riva bergamasca del fiume Adda.

Il Villaggio Crespi d'Adda è una vera e propria cittadina completa costruita dal nulla dal padrone della fabbrica per i suoi dipendenti e le loro famiglie. Ai lavoratori venivano messi a disposizione una casa con orto e giardino e tutti i servizi necessari.

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L'insediamento fu fondato nel 1878 da Cristoforo Benigno Crespi, imprenditore tessile di Busto Arsizio. I lavori di costruzione vennero affidati all'architetto Ernesto Pirovano e all'ingegnere Pietro Brunati.

Situato sulla sponda sinistra del fiume Adda, Crespi si trasformò rapidamente in una piccola città moderna, in un centro residenziale dotato di servizi d'avanguardia come l'ospedale, il centro sportivo, i bagni pubblici, l'illuminazione elettrica, il teatro e il cimitero. La configurazione urbanistica del villaggio si fonda su principi geometrici. La strada principale lo divide, infatti, in due parti funzionali: da un lato il quartiere residenziale e dall'altro la fabbrica.

Il villaggio operaio, portato a termine alla fine degli anni Venti, si è mantenuto praticamente inalterato nel corso del tempo ed è tra i più importanti esempi di villaggi operai in Italia e nel mondo.

Oggi è ancora un paese abitato.

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2. ANALISI DEL LUOGO 2.6

Caratteri edilizi e architettonici delle fabbriche lombarde.

Anzitutto è da notare come i primi sviluppi industriali avvennero all’interno di edifici sacri sconsacrati: il caso più eclatante fu quello della fabbrica di acido solforico Francesco Bossi e Luigi Diotti, che nel 1809 occupava i locali dell’ex Chiesa San Francesco in Prato. L’antica Basilica, imponente per i suoi caratteri tipicamente preromanici e per le sue remote origini, divenne nella seconda metà dell’Ottocento

irriconoscibile,

decadente,

rovinata da sterpi e siepaglie, ingombra di storte e lambicchi, di botti e d’immensi fiaschi impagliati pieni di acidi. Da una parte un fornello; nel coro gli apparecchi per separare ed estrarre le varie materie chimiche; fuori i comignoli dei camini industriali e del campanile divenutolo anch’esso.

Al di là delle suggestive immagini che accomunano due realtà distanti, esse introducono molto bene un aspetto costante dell’edilizia produttiva ottocentesca: il riuso di strutture esistenti, con totale indifferenza per le caratteristiche originarie dell’involucro.

In tutto il territorio lombardo, le filande, le gualchiere e le piccole officine si insediarono in ex mulini, magazzini, corti o sotto vecchie tettoie di case coloniche, testimoniando una mancata tendenza della classe imprenditoriale a investire capitali in nuove costruzioni.

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Ciò ci impedisce di individuare una vera e propria Architettura definibile con il termine industria, anche perché, i costi derivati dall’introduzione di nuovi mezzi di produzione e innovazioni tecnologiche, lasciavano poco spazio ad altri investimenti.

I primi progetti di architettura industriale tendevano a rifarsi comunque ai più eleganti modelli della tradizionale edilizia civile.

Ne è un esempio la Manifattura Tabacchi di Milano risalente al 1800 e primo progetto documentato in Lombardia di costruzione ex-novo. Progettata dall’Architetto Luigi Canonica, era caratterizzata da una composizione simmetrica all’interno di un lungo fronte scandito da file di aperture alternate ed estremità laterali con nicchie e lesene. Una texture compositiva con chiari riferimenti all’architettura rinascimentale, nonostante la scelta di mettere in secondo piano la disposizione e la qualità degli elementi all’interno della gerarchia architettonica. D’altra parte, non esistevano localmente modelli di riferimento e il ricorso alle caratteristiche neoclassiche sembrava integrarsi bene in città, per le semplici caratteristiche tipologiche e costruttive, grazie alla ripetibilità delle parti.

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Da questo momento la fabbrica entrava a far parte della schiera di edifici più rappresentativi

della

città

e

diventava

collocabile

nella

storia

architettonica

contemporanea. Al contempo questa soluzione portò alla realizzazione d’impianti produttivi dai tratti economici, realizzati da anonimi costruttori. In particolare gli artigiani cercavano soluzioni semplici ed economiche che nel tempo si avvicinassero all’architettura rurale: muri di pietra nelle aree montane, di mattoni in pianura, coperture sorrette da massicce travi in legno, erano le caratteristiche più frequenti per un contenitore dentro al quale potevano svolgersi diverse attività, facilmente ristrutturabile, ampliabile per seguire di pari passo i ritmi delle necessarie trasformazioni aziendali.

In questo modo anche un impianto industriale di grandi dimensioni e importanza come la filanda Turina di Casalbuttano, rifletteva gli aspetti tipici di una cascina lombarda, sviluppandosi sui quattro lati di una corte interna dove l’aia era sostituita dalla vasca per la stesura dei bozzoli, mentre i porticati antistanti alle stalle fungevano da magazzini. Anche le chiodere annesse ai lanifici di Gandino in Valle Seriana si presentavano con strutture a due piani, dotate

di

grandi

terrazze

aperte

e

sovrapposte, utilizzate per l’asciugatura dei panni di lana, richiamando l’edilizia rurale a ballatoio tipica della zona.

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Lo stretto legame con una realtà di tipo agricolo era determinato dalla geografia lombarda: vincolate, prima dell’uso generalizzato del vapore, poi dallo sfruttamento delle forme naturali di energia, le fabbriche si localizzavano lungo i corsi d’acqua, spesso in vallate, dove la loro dimensione riusciva a essere minimizzata dalla maestosità della natura circostante e creava, apparentemente senza contrasti violenti, nuovi poli di aggregazione ambientale.

Esempio significativo è l’officina dei Fratelli Glisenti, a Carcina, per la produzione di oggetti in acciaio: situata allo sbocco della valle, a dieci km da Brescia, che si ingrandiva “quasi per incanto”. Mentre fino allora l’industria si era basata su villaggi timidamente rannicchiati attorno ai castelli del padrone, ora gli edifici erano liberi di espandersi, aprirsi su tutti i lati, tanto da apparire falsamente trasparenti, di notte.

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Una tipologia edilizia che, ancora una volta, continuava a risparmiare cifre considerevoli sull’involucro per favorire lo sviluppo tecnologico della produzione.

Poco dopo, l’invenzione del motore unico che azionava le macchine, presupponeva una serie di collegamenti per comunicare il movimento di ogni punto della fabbrica, trasformandola così in un volume uniformemente animato e generato dall’incrocio ortogonale delle trasmissioni.

Il nuovo stabilimento, che in Lombardia incominciò a diffondersi con regolarità attorno a metà dell’ottocento, ma che all’estero aveva alle spalle una storia centenaria, presentava un disegno estremamente semplice: a pianta rettangolare lunga e stretta, si sviluppava in altezza disponendo un piano sull’altro in modo da impiegare un solo albero motore verticale, che si collegava ai macchinari mediante trasmissioni orizzontali.

A quel punto, le dimensioni degli edifici erano strettamente legate alla potenza e alle dimensioni del motore e delle macchine, e il lato lungo garantiva un’illuminazione e una ventilazione adeguata grazie a file fronteggianti di finestre. Questo permetteva di ottenere il massimo rendimento degli operai, che disposti per file parallele separate da un corridoio centrale, erano maggiormente sorvegliati durante la produzione.

L’operaio era dunque spersonalizzato e obbligato a seguire i ritmi della macchina, dimenticando il vecchio rapporto amichevole tra operaio artigiano e datore di lavoro, il quale per controllare al meglio le fasi delle lavorazioni industriali, fece aggiungere all’edilizia gallerie coperte da cui osservare i dipendenti senza fare due volte il giro tra le macchine.

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Queste piccole modifiche portarono a una decadenza degli ambienti di lavoro, che divennero sempre più chiusi e dove la pulizia, l’ordine e l’atmosfera di dinamica allegria derivavano non tanto dall’attenzione verso le condizioni umane, quanto dall’investimento nell’innovazione tecnologica, in cui, per coincidenza d’ interessi, rientrava anche il miglioramento ambientale.

La fabbrica ottenne così una tipologia specifica, che poteva variare di poco secondo le funzioni svolte al suo interno, annullando le caratteristiche che contrassegnavano i primi edifici industriali e l’impiego di aggiornate tecnologie richiese ufficialmente l’intervento di progettisti accuratamente preparati. Da questo momento verrà riconosciuta l’importanza delle scuole che preparavano ingegneri e architetti e verranno fondate riviste e manuali che faciliteranno la divulgazione di consigli pratici e metodi didattici di lavoro.

Un esempio significativo era rappresentato dal cotonificio Cuorgnè di Napoli, considerato l’eccellenza della fabbrica tessile multipiano: realizzato tra il 1872 il 1875 comprendeva due filature a tre piani, un reparto di battitura a quattro piani, turbine idrauliche e officine del gas. Apparentemente si presentava come un impianto semplice, composto da due scatole rettangolari; in realtà si basava su una fitta trama di sostegni verticali

e

proiettate

in

alzato

secondo una maglia ortogonale di connessioni, le quali nascondevano numerosi componenti da coordinare attraverso un programma complesso.

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Le colonne cave di ghisa divennero tubi per il riscaldamento e base per i vari condotti e gli alberi orizzontali

di

trasmissione,

mentre

le

finestre,

suddivise da un telaio a maglia rettangolare, erano dotate

di

sportelli

spostabili

o

apribili

con

un’inclinazione tale che aerassero solo il soffitto, per evitare il contatto con le macchine da filatura e evitarne il danno. Per la prima volta travi e pilastri venivano realizzati in ferro e ghisa: vantaggio notevole in termini di costo e di pericolo in caso d’incendio.

Sul finire dell’ottocento questa nuova tipologia venne applicata anche in Lombardia, dove la totale assenza di elementi decorativi rese finalmente giustizia al vero carattere dell’industria. Successivamente i piccoli cambiamenti evolutivi nella distribuzione interna degli spazi portarono ad un cambiamento radicale della configurazione edilizia: il capannone con tetto a shed. Questo consentiva alla fabbrica di estendersi in orizzontale secondo una planimetria compatta e di grande profondità che avvolgeva le linee

continue

dei

macchinari,

segnalandosi sulle mappe territoriali, come una larga e lunga fascia di costruito dai contorni netti con assenza di spazi vuoti al suo interno.

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A

queste

corrispondeva stabilimento localizzandosi

caratteristiche in della in

parte Pirelli città

lo che,

doveva

sfruttare tutto lo spazio disponibile per

acquisire

una

posizione

rilevante, in quanto la produzione di oggetti in gomma era un’assoluta novità per il paese e costituiva un passo in più per colmare il divario tecnologico che separava l’Italia dalle nazioni estere. Lungo la via Ponte Seveso, la struttura si presentava in tutta la sua eleganza con una palazzina ad un piano per uffici e un muro di cinta da cui sporgevano il corpo edilizio principale a tre navate, traforato da finestre ad archetti ribassati disposte in gruppi simmetrici e due ciminiere in mattoni, mentre il resto dell’impianto si sviluppava sul retro in un’area rettangolare lunga e stretta per aggregazione lineare dei diversi settori produttivi. Da evidenziare era inoltre il centro di ricerca, un piccolo laboratorio situato in un angolo appartato dove il direttore sperimentava le diverse composizioni chimiche, secondo un ricettario segreto.

Questo spazio fu subito applicato anche ad altre industrie con conseguenze non trascurabili sullo studio delle forme edilizie della fabbrica.

Nel 1902 l’apertura di un nuovo reparto nei cotonifici, ovvero la tintoria costrinse ingegneri e architetti ad inventare una nuova tipologia di edificio: nacquero così una serie di capannoni a capriate in ferro o in cemento armato, con tetti a shed muniti di una doppia chiusura in vetro per formare una camera d’aria e scanditi da aperture opportunamente collocate per immettere aria calda o fredda nei locali di lavoro.

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Si trattava di un dispositivo applicabile a tutte le fabbriche tessili; nel caso specifico, serviva soprattutto a eliminare l’inconveniente della nebbia generata dall’ebollizione dei bagni di tintura, dal vapore che usciva dai rubinetti, dalle tubazioni e dall’evaporazione dell’acqua presente ovunque.

La nuova tipologia edilizia fu successivamente impiegata anche nelle fonderie, nei nuovi reparti caldaia, forgia, piegatura tubi e modellisti. Opificio esemplare è l’officina meccanica Franco Tosi di Legnano, dove per la prima volta si resero indipendenti gli spazi grazie a corridoi di separazione dotati di porte tagliafuoco.

Qui l’impiego di tettoie a shed in ferro e vetro negli ambienti ad un solo piano, fungevano da base per gli impianti, le gru a ponte funzionanti a mano o per trasmissione elettrica, mentre le colonne di sostegno reggevano contemporaneamente i trapani radiali.

Ora che si era definita una giusta forma architettonica non rimaneva altro da fare che ingentilirla con piccoli tocchi decorativi che fungessero da mediazione con le prime costruzioni industriali. Un esempio è dato dal cotonificio di Crespi d’Adda nel villaggio omonimo, una presenza architettonica valorizzata da profili in mattoni disposti a rosone attorno alle finestre dei capannoni e di motivi decorativi in cotto accentuati ad arte verso il fronte di ingresso, nelle palazzine degli uffici e nello stacco della ciminiera.

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2. ANALISI DEL LUOGO 2.7

Brescia: i Magazzini Generali.

I Magazzini Generali sono stati aperti nel 1932. Da tempo a Brescia si lamentava la mancanza di una struttura in cui conservare soprattutto il formaggio. La Camera di Commercio aveva sollevato il problema più volte, sin dagli anni Venti: le tradizionali e sparse casere non erano più sufficienti e molti grossisti dovevano immagazzinare i loro prodotti a Cremona.

Dapprima erano sorti alcuni magazzini lungo via Leonardo Da Vinci, creati dall’ente camerale con coscienza che sarebbe stata una soluzione di ripiego. In seguito, fu quindi costituita l’azienda speciale “Ente Magazzini Generali”. Il Presidente del Consiglio Provinciale dell’Economia, il Prefetto Carlo Salvi, invitò nell’estate del 1931 la società Borghetto a realizzare i Magazzini Generali. Per il progetto fu scelta l’area a fianco di via Dalmazia, l’antico Borgo San Nazzaro. La prima struttura realizzata era su un’area di circa 32.000 mq, progettata dagli ingegneri Angelo Buizza e Federico Peroni. Con la realizzazione di questa struttura venne creato anche un collegamento ferroviario con scalo merci.

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Negli anni Cinquanta entrò in funzione un reparto frigorifero con la capacità di circa 40.000m3 , cosicché i Magazzini Generali a Brescia divennero il maggior complesso esistente in Lombardia ed uno dei più importanti e moderni a livello nazionale.

I Magazzini Generali furono non soltanto il polo centrale per la produzione agricola e casearia: infatti, negli anni Cinquanta Brescia potenziò le sue aziende siderurgiche le quali produssero grandi quantitativi di rotaie, materiali metallici e metalli da rifusione che sostarono nella struttura in attesa di raggiungere le aziende cittadine.

Nei Magazzini Generali rimasero anche i prodotti finiti come trattori, macchine di ogni genere, cucine economiche, elettrodomestici pronti per essere venduti.

Si decise di aggiungere un altro fabbricato, che svettava sopra tutti gli altri: è il silo a celle, un imponente costruzione in cemento armato totalmente meccanizzata. Il silo era alto più di 30 metri, lungo 50 e largo 20 ed aveva una capacità di oltre 120.000 q suddivisi in celle cilindriche da 1.000 q ciascuna rifornite meccanicamente.

Significativa fu la costruzione successiva delle casere, magazzini per il deposito del formaggio grana. Due corpi di fabbricato a piani sovrapposti, lungi 70 metri e larghi 20 che potevano ospitare fino a 150.000 forme di formaggio. È alla fine degli anni Novanta che i Magazzini Borghetto chiudono definitivamente. Lo sviluppo dell’economia bresciana guarda altrove: c’è bisogno di strutture più moderne.

Presto l’intera area tornerà a vivere grazie all’intervento dei due architetti Daniel Libeskind e Dante Benini e dell’ingegnere Lamberto Cremonesi.

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2. ANALISI DEL LUOGO 2.8

I Magazzini Generali si trasformano: un nuovo volto per Brescia.

Oggi l’area dei Magazzini Generali, in disuso dal 1998, rappresenta un enorme spazio chiuso non utilizzabile da parte dei cittadini, ma che si riaprirà alla città tramite la realizzazione di un importante progetto, paragonabile per dimensioni solo al primo San Polo, a Brescia2 o ai quartieri della prima urbanizzazione.

Il progetto prevede la ricostruzione in chiave moderna dell’ex Borgo che nel lontano 1800 sorgeva in quell’area. Il nuovo borgo che nascerà sarà identificato col vecchio toponimo San Nazzaro, derivante dal periferico comune, amministrazione autonoma aggregata al Comune di Brescia nel 1874.

L’intera area sarà accessibile grazie ad una porta (Porta San Nazzaro) che si aprirà sull’immenso parco, fulcro centrale dell’intero progetto che collegherà tra di loro le diverse aree dell’intervento.

Sono oltre 113.000 i metri quadrati totali: 40.000 mq destinati a parco pubblico, 36.000 mq a edilizia residenziale, 9.000 mq a edilizia convenzionata, 15.000 a terziario e uffici, 4.000 a superfici commerciali e 4.000 per un parcheggio in struttura.

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Su via Dalmazia continueranno ad affacciarsi le vecchie casere, che saranno ristrutturate e conservate come spazi comunali. Esse rimarranno come importantissima testimonianza della storia territoriale, casearia e architettonica di Brescia.

Un immenso parco, caratterizzerà l’area per la presenza di due grandi viali che lo renderanno prestigioso e di elevata qualità: il Viale dei Ciliegi e il Viale delle Magnolie che prendono il nome dai filari di piante che li costeggiano. Al centro sarà costruito un laghetto artificiale, che in inverno sarà teleraffreddato per essere trasformato in una pista di pattinaggio comunale all’aperto. A fianco del parco e al centro dell’intera area ci sarà una piazza circolare che s’inserirà perfettamente nel paesaggio grazie ad una particolare pavimentazione che richiama il manto erboso. A fare da sfondo al parco cinque edifici destinati a edilizia residenziale, si distingueranno per la loro struttura a banana. Ognuna di queste strutture avrà al massimo sette piani per non contrastare con gli edifici residenziali circostanti.

Un’attenzione particolare è stata rivolta al contenimento del consumo energetico: ogni edificio sarà teleriscaldato e teleraffreddato, grazie al termoutilizzatore attivo a Brescia da quattordici anni. Si affacceranno su via San Giovanni Bosco le abitazioni dell’edilizia convenzionata e le strutture dedicate alle attività terziarie. L’edilizia convenzionata sarà distribuita in tre condomini, che richiameranno le casere con alcune fasce di decorazione in mattoni rossi sulle facciate. Le attività terziarie saranno, invece, contenute in tre torri collegate tra di loro e in due edifici con un prospetto circolare e una copertura in vetro.

Infine, sarà realizzata una viabilità interna principalmente pedonale e sarà modificata la viabilità esterna sia con due nuove rotonde all’incrocio di via San Giovanni Bosco con via Dalmazia e con via Piemonte, sia con la costruzione di una nuova strada.

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2. ANALISI DEL LUOGO 2.9

Il comparto Milano.

Il sito si pone lungo gli ormai coperti tratti delle rogge dette Fiume Grande e Canale Bova, a ovest del centro cittadino, fino al confine con l’area occupata dal cimitero monumentale di Brescia. Un luogo in cui le acque muovevano macine e mulini e dove si teneva la Fiera annuale del bestiame, ma che alla metà del secolo scorso conobbe importanti cambiamenti, in favore dell’industrializzazione. Un panorama produttivo che sarà dominato inizialmente dalla Fonderia “Ceschina & Busi”, seguita dalle Società: Nazionale dei radiatori, Litopone, Elettrotecnica Caffaro e Fabbrica d’Armi Lorenzotti. In seguito furono la Metallurgica Tempini e l’Officina Togni, a stravolgere l’identità dell’area, portandola, così come la vediamo, fino alla metà degli anni ‘80.

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Cheschina & Busi.

L’ingegnere comasco Francesco Ceschina e l’imprenditore bresciano Giuseppe Busi, dopo essersi dedicati dal 1863 alla fabbricazione di macine in pietra, allargarono la propria attività alla costruzione di accessori in metallo per mulini e macchine usate da pastifici e frantoi. Lo stabilimento, grazie ad un considerevole sviluppo rifonderà la società nel 1884 divenendo un’officina meccanica, fonderia per ghisa e costruttrice di macchine agricole, olearie, vinicole e industriali. La razionalizzazione della produzione passa in questi anni attraverso la suddivisione nei nuovi reparti fonderia di ghisa e bronzo e officina meccanica accanto alla fabbrica delle pietre da macina per mulino.

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Società nazionale dei Radiatori.

“Il solo sistema di riscaldamento pratico, economico, alla portata di tutte le borse”. Con questo slogan l’American Radiator Company di Pittsburg contò di conquistare l’inesplorato mercato italiano, costituendo a Milano, nel 1909, la Società Nazionale dei Radiatori.

Una sede commerciale cui si affiancò un paio di anni dopo la prima sede produttiva, presso Borgo San Giovanni di Brescia: inaugurato nel 1911 con la prima fusione di radiatori, il nuovo stabilimento di 19.000 mq, su un’area di quasi 50.000 mq complessivi. Con lo scoppio della prima guerra si mutò il prodotto: il direttore ing. Andrei fu costretto a mettere in produzione le granate.

La ripresa del primo dopoguerra appare complessa. Durante il biennio rosso lo stabilimento fu occupato dalle maestranze, dove poi nacque il prodotto simbolo aziendale. È la caldaia “Ideal Classic”, adottata in tutta Italia, che permette al sito bresciano di aumentare gli addetti nel 1938, e di aprire un nuovo stabilimento a Livorno.

A Brescia, dal 1929, si razionalizza la produzione: accanto alla sezione metallurgica viene aperta, la parte adibita alla fabbricazione di apparecchi sanitari tramite la sezione ceramica. Si tratta della vitreus china, la porcellana vetrificata utilizzata per la prima volta in Italia per sanitari di lusso: dal 1935 usciranno dallo stabilimento bresciano i sanitari col nuovo marchio “Standard”. Prodotti che non diminuiscono neanche negli anni dell’autarchia: l’azienda si estende su 55.000 mq, nelle due divisioni fonderia e ceramica.

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Allo scoppio della guerra la produzione subisce un vero e proprio arresto, mentre nel gennaio 1942 le autorità statali pongono sotto sequestro l’impianto, considerato “proprietà nemica”, senza salvarlo dai bombardamenti che avvenivano in città. Danni anche allo stabilimento di Livorno nel 1944, il quale poi non verrà più ricostruito.

Quel che resta a Brescia è l’America, che nel settembre 1947 impone alle consociate europee il nuovo nome di “Ideal Standard” e, nel 1952, l’ampliamento dello stabilimento a oltre 60.000 mq. È la prima tappa di una nuova espansione: nel 1957 le due sezioni “Ideal” e “Standard” passano a 27.000 mq la prima e 40.000 mq la seconda.

Alla fine degli anni Cinquanta l’organizzazione logistica dell’impresa vede le due sezioni ben distinte. In particolare la fonderia radiatori occupa 2.300 mq e completamente automatizzata, mentre la fonderia caldaie si stende per 3.600 mq, con reparti di formatura e colatura manuali. Ricerca di nuovi materiali, il design di Giò Ponti, la diversificazione delle gamme e del target. La società cresce, dal nuovo stabilimento di Firenze del 1962 a quello di Salerno l’anno dopo, all’apertura in città nel 1965 di un deposito per vendita all’ingrosso e al dettaglio. Nel 1978 c’è la creazione di una nuova società, la “Ideal Clima”, che acquisisce la produzione di apparecchi per riscaldamento, lasciando all’Ideal Standard il comparto dei sanitari. Nel 1983 c’è una nuova ristrutturazione societaria del settore caldaie, mentre a Brescia resta la produzione dei soli radiatori.

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Società Litopone.

Era il 1922 quando venne inaugurato il nuovo stabilimento della Società Litopone, tra via Vantini e viale Italia, edificato su progetto dell’arch. Castiglioni e altri tre industriali.

Qui, grazie ad un complesso ciclo produttivo, minerali di zinco e solfato di Bario venivano macinati sino a ottenere una polvere bianca finissima, che unita a oli sottoposti a cottura costituivano la materia necessaria per ottenere vernici colorate e biacche. Un’attività insalubre di cui si persero le tracce già dalla metà degli anni Trenta.

Società elettrotecnica Caffaro.

Nel 1901 la Ditta Erba, Culetti & Zironi procede all’acquisto della concessione per la produzione di energia elettrica ottenibile dallo sfruttamento del torrente Caffaro: l’obiettivo è rifornire energia al nuovo stabilimento di via Milano. Trasformatasi in Società elettrica ed elettrochimica del Caffaro nel 1906, offrì al Comune di Brescia l’energia in surplus prodotta dalla centrale e ottenne i permessi per avviare l’Azienda. Dopo alcune difficoltà iniziali, la produzione di soda caustica, cloruro di calcio e ipoclorito di sodio conobbe costanti aumenti soprattutto durante la Grande Guerra. La produzione di innumerevoli nuove sostanze fece si che nel 1957 potesse ampliarsi con l’apertura di altri reparti. Divenuta poi Caffaro s.p.a., negli anni ’70, vide l’avvio di un lento declino, tanto che nel 1995 dovette dividere la società in: Industrie Chimiche Caffaro s.p.a. e Caffaro Energia, per poi tornare, nei primi anni 2000, la stessa azienda di prima, nelle mani di finanzieri bresciani.

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Fabbrica d’Armi Lorenzotti.

L’impresa nasce nel 1917 dalla precedente ditta “Colturi & Lorenzotti”, che aveva riunito i nomi di Achille Colturi e Pietro Lorenzotti per continuare l’attività di una precedente azienda, la Fabbrica Bresciana d’Armi, nata nel 1899 con sede produttiva in via Guzzetta, oggi via Saffi, nei pressi della linea ferroviaria. L’articolazione del sito produttivo, che si espandeva su 6.000 mq, vide al termine del primo conflitto mondiale, anche una fucina per lo stampaggio dei metalli, una sala destinata alla lavorazione del legno, oltre al reparto verniciatura e i locali per il collaudo delle armi.

Nel 1925 l’impresa muta di nuovo ragione sociale, trasformandosi in Fabbrica Bresciana d’Armi Lorenzotti, e producendo anche fucili da caccia revolves, sciabole e baionette per l’esercito. Oltre all’apertura di un negozio in Corso Magenta, l’impresa espande la propria attività anche a Padova e Venezia, ma la crisi del 1929 porta l’azienda a successive trasformazioni, rilanciandosi nel 1933 grazie al brevetto di un caricatore da applicare al moschetto tipo Balilla, perfezionato poi nel 1935.

Infine, la nuova violenta crisi del 1937 porta la fabbrica sulla strada di un lento declino, fino a giungere, dopo diverse riconversioni, alla chiusura definitiva del 1958.

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Metallurgica Tempini.

La Metallurgica Tempini nasce a Lumezzane sotto il nome di Maglificio Tempini & Polotti.

Verso la fine degli anni ’80, la stipulazione di svariati contratti con altre aziende, conduce Giovanni Tempini a trasformare il suo maglificio in un’azienda metallurgica produttrice di proiettili, su commessa della marina militare e bossoli metallici mediante filamento e compressione a freddo, divenendone l’unica concessionaria in l’Italia.

Il successivo scioglimento della società, porterà alla costituzione della nuova Metallurgica Tempini: nonostante un percorso molto difficile, a causa anche di rapporti interni non facili, l’azienda giunse così fino agli albori del novecento, quando nel 1903 trasferì la sede a Roma aprendo poco dopo un centro produttivo anche a Torino, rilanciando la produzione bellica, grazie all’installazione di nuovi macchinari.

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Data significativa per Brescia è il 1905, anno in cui la società venne nuovamente trasformata mutando la propria ragione sociale in Metallurgica Bresciana già Tempini, divenendo in pochi anni la più importante fabbrica d’armi nazionale, a Brescia, dove si ricostituì il centro del comparto. Nel corso della seconda metà degli anni Trenta, dopo la scomparsa di Giovanni Tempini, l’azienda si dedicherà principalmente alla costruzione di tubazioni non ferrose, utilizzando le nuove leghe di zinco e alluminio, rame e ottone.

Una produzione che continuerà durante tutta la Seconda Guerra Mondiale: fino a raggiungere la fine degli anni ‘70 quando, dopo qualche anno di declino, si trasformerà in Tubi Italia, fino all’inevitabile chiusura dei reparti nel corso degli anni ’80.

Da questo momento seguirà un parziale riuso degli immobili, con la creazione dell’isolato commerciale “Bresca1” e della nuova sede del quotidiano Bresciaoggi, mentre gran parte del fabbricato, sarà demolito.

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Officine Togni.

Nel 1903 l’impresa di Giulio Togni realizza condotte forzate per cinque impianti idroelettrici. Essa si sviluppava all’interno di eleganti fabbricati progettati in stile liberty su un’area di circa 4.000 mq. In pochi anni, le Officine Togni ampliarono la produzione e costituirono la sede a Brescia con un nuovo nome: Officine Metallurgiche Togni.

Nel 1907 la Società, grazie alle innovazioni tecnologiche introdotte nella produzione di tubi saldati e chiodati, riceve il Premio Fondazione Brambilla e la medaglia d’oro dal Regio Istituto Lombardo, come prima azienda italiana, fornendo condotte forzate a 154 impianti per circa 77.500 metri.

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Nel periodo antecedente alla Grande Guerra le officine conobbero un decennio difficile che culminerà nel 1916, con la nascita di un nuovo reparto che prenderà il nome di Siderurgica Togni, cui, dopo il suicidio di Giulio Togni, si associarono molte altre aziende tra cui l’Ilva, per creare nel 1934 all’Acciaieria e Tubificio di Brescia, ATB. In un decennio la produzione di condotte forzate s’impennò notevolmente, fino ad arrivare, negli anni del boom economico italiano, a produrre commesse per circa 130 impianti: 120.000 metri di condotte vengono realizzati per i mercati esteri, avviando nel frattempo la diversificazione dei propri prodotti, incrementando i settori a più alta tecnologia per società petrolifere. Il settore siderurgico dell’ATB (500 addetti, 60.000 mq), nel 1979 verrà ceduto a una società appositamente costituita nell’ambito del Gruppo Lucchini, la Bisider, per poi cessare le attività alla fine degli anni ’80, primi anni ’90.

In questa porzione della città hanno lavorato decine di migliaia di operai bresciani, generazioni di tecnici, impiegati, capireparto, guidati da direttori, consiglieri di amministrazione, industriali, in grado di sviluppare una vicenda durata oltre un secolo.

La percezione di questa parte di Brescia come zona industriale rimane ancora molto evidente e centrale negli strumenti urbanistici dei primi tre decenni del secondo dopoguerra. Il permettere non solo il mantenimento ma, se necessario, anche l’ampliamento o la risistemazione ai fini industriali dell’area, è criterio presente anche nelle diverse varianti successive al P.R.G, fino agli anni Ottanta.

La crescita e la dinamicità della città appaiono strettamente legate a queste industrie, tanto che le modifiche intervenute negli anni di attività di queste imprese si configurano unicamente come una vera e propria “densificazione” dei siti produttivi.

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Solo alla fine del XX secolo Brescia traccia nuovi indirizzi per quest’area, sgombra dai fumi delle ciminiere e dal suono delle sirene di un tempo.

“Si può ora pensare di mantenere entro la città”, si scriveva licenziando il nuovo P.R.G. urbano, “attività produttive più qualificate, tecnologicamente più avanzate, meno rumorose e inquinanti di quelle tradizionali?”. Una domanda che lascia intendere le volontà conservative dell’area, almeno per quanto riguarda le aree all’interno delle recinzioni in muratura che delimitano gli edifici realizzati prima del 1899 e le alberature dei viali con gli storici tigli. Oggi la zona Comparto Milano ha cambiato definitivamente fisionomia disegnando la nuova città contemporanea: centri commerciali e multisala nel complesso Freccia Rossa, dove sorgevano le officine Togni, nuove piazze pedonali, il parco delle luci in corten, che alludono all’antica vocazione dell’area, parcheggi multipiano e altri progetti ancora in fase di realizzazione.

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2. ANALISI DEL LUOGO 2.10

Il Comparto Milano si trasforma: nasce la Smart Town.

“Dove c’è pericolo cresce anche ciò che salva” diceva Holderlin. Dove c’era una fabbrica abbandonata da anni, oggi sorge un “comparto umano”. È questo lo slogan posto alla base del progetto di riqualifica previsto per il Comparto Milano, avviatosi nel 2006 con la realizzazione del centro Commerciale Freccia Rossa inaugurato nel 2008 e dello Skiline 18 inaugurato proprio quest’anno.

In funzione del progetto è stata rivista anche la viabilità: importante la realizzazione del sottopassaggio di Via Dalmazia, al di sopra del quale è stato realizzato il cosiddetto parco delle luci in corten, chiaro riferimento alla passata vocazione dell’area.

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Dell’area, quindici ettari diverranno riqualificati in zona residenziale, direzionale, commerciale, produttiva e culturale, in un contesto di verde pubblico e attrezzato per attività sportive: un villaggio eco-green, in pieno centro a Brescia, in prossimità della stazione ferroviaria, del centro commerciale “Freccia Rossa” e del Musil, Museo dell’Industria e del Lavoro, che sarà realizzato in Via Industriale.

Due grandi torri per abitare il futuro. In una avrà sede il primo vero Condohotel d’Italia: tutto il comfort di un albergo a cinque stelle condiviso con gli inquilini della “micro città”, ampi spazi come hall, bar, ristoranti, sale meeting, SPA e palestra. A fianco, sorgeranno cinque edifici decostruiti per uffici e retail.

Gli ex magazzini verranno ricostruiti per ospitare outlet, laboratori e le officine del futuro. Il progetto del Comparto Milano è il secondo a livello italiano a classificarsi con la certificazione americana LEDD (Leadership in Energy and Environmental Design).

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3. IL RAPPORTO CON L’ARTE 3.1

L’immagine dell’industria nell’arte, tra Ottocento e Novecento.

Durante il primo convegno organizzato dal FAI (Fondo Ambiente Italiano), promosso dalla Lombardia, dal titolo “La fabbrica tra memoria e progetto”, si è deciso per la prima volta di dare importanza anche alla presenza del ruolo di uno storico dell’arte. Nonostante la sua influenza possa risultare superflua (visti i temi prettamente architettonici, urbanistici e ambientali), lo storico dell’arte ha la possibilità di portare un contributo attivo, grazie alla sua capacità filologica, esprimendo i suoi punti di vista non vincolati all’ambito progettuale, restaurativo e strutturale degli insediamenti industriali.

Lo storico Valerio Terraroli ha così deciso di descrivere l’archeologia industriale percorrendo un itinerario visivo, relativo al modo con il quale l’espressione artistica ha visto e interpretato il rapporto della società con la proliferazione industriale, ovvero come l’arte

sia

stata

in

grado

di

metabolizzare

l’impatto

sempre

più

radicale

dell’industrializzazione rispetto a una nuova visione del mondo. Ovviamente si tratta di un legame con la cultura artistica compresa tra il 1890 e il 1920, periodo di massimo attrito, anche a livello culturale, tra la società rurale e la moderna società industriale.

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Filippo Carcano (pittore naturalista, 1840-1914), in “L’ora del riposo”, propone l’immagine del lavoratore in una cornice che enfatizza la caratteristica di tranche de vie nella quale una serenità sommessa e una spontanea adesione alla realtà contemporanea si esprime attraverso un’immagine nella quale manca totalmente il senso della conflittualità tra le classi sociali, tra la vita rurale e quella industriale, tra il bozzetto e la vita reale.

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Pino Nomellini (pittore divisionista, 1866-1943), in “Mattino in officina”, risponde in modo più esplicito all’idea della fabbrica, dell’opificio, quale luogo nudo, privo di raffinatezze decorative o invitanti ambientazioni, essenziale e tetro, nel quale gli operai perdono la connotazione di “persone” per assumere un’apparenza sconosciuta, appena evidenziati dalla gelida luce di un lampione. È proprio sul finire dell’Ottocento che la contraddizione tra una visione positiva che vede nell’industrializzazione e nel rapporto tra individuo e macchina le sorti progressive, e i nuovi conflitti di classe, ma soprattutto una visione negativa della reale funzione del meccanismo industriale rispetto alla società, si rivela pienamente nella raffigurazione.

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Giuseppe Pellizza da Volpedo (pittore divisionista, esponente della corrente sociale, 18681907), in “Quarto Stato”, opera divenuta nel corso del nostro secolo il manifesto delle rivolte contadine e delle manifestazioni operaie, proprio per la particolare natura della sua composizione, caratterizzata da un sostanziale estraniamento della folla dei braccianti da un preciso luogo e periodo.

Guido Balsamo Stella (pittore e incisore, 1882-1941), in “Fabbrica a Magdeburgo”, lo skyline di un’acciaieria s’inserisce nel paesaggio con le gigantesche ciminiere, i comignoli fumanti e la vertiginosa verticalità di una torre-antenna, quale moderna alternativa al tradizionale campanile e come trionfante, esteticamente attraente, modello di modernità.

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Gaetano Previati (pittore simbolista, 1852-1920), in “Ferrovia sul Pacifico” e “Canale di

Suez” la macchina in movimento, i pennacchi di fumo che si stagliano su cieli azzurri, la proporzione tra una natura grandiosa e desertica e gli interventi dell’uomo, sono l’evidente testimonianza di una vittoria raggiunta e di una promessa per un futuro radioso e inarrestabile.

La visione positiva del rapporto tra individuo e industrializzazione assume anche i connotati estremamente particolari quali il cosiddetto paternalismo industriale ben esplicitato dal villaggio operaio di Crespi d’Adda, nel quale il padrone (“padre”) organizza attraverso interventi urbanistico - architettonici la vita della propria comunità di operai (“figli”): dall’asilo per l’infanzia, alla chiesa, al cimitero.

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Ernesto Pirovano (architetto modernista lombardo, 1866-1934) è il progettista del villaggio operaio di Crespi.

A lui si devono le affascinanti invenzioni della residenza della famiglia Crespi, realizzata nel 1895, pensata come uno “zibaldone” di architettura neo-medioevale caratterizzata da torrette, polifore, cuspidi e merlature con l’evidente intenzione di enfatizzare il ruolo di moderno “signore e feudatario” di Crespi; la chiesa al centro del villaggio operaio, che ripropone il modello bramantesco della chiesa di Santa Maria di Piazza, a Busto Arsizio; il mausoleo, in uno stile a metà tra l’architettura egizia e quella assiro-babilonese, in posizione dominante sulle sepolture, rigorosamente uguali e simmetriche, delle famiglie operaie.

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L’utilizzo di elementi decorativi e stilistici, come rivestimento per le architetture industriali, trova giustificazione e radicamento nelle civiltà del passato e nell’architettura storica ed è un fenomeno che si diffonde ampiamente tra la fine del secolo e il primo decennio del Novecento, in sintonia con un gusto eclettico e di ritorno, che conoscerà un ulteriore rilancio nel corso degli anni Venti e Trenta in ambito Art Déco, com’è

testimoniato

dalla

Stazione

Centrale di Milano di Ulisse Stacchini e dal Garage Fiat a Verona di Ettore Fagiuoli. Ambedue sono edifici realizzati con tecnologie e materiali industriali ma, piegati a forme e modelli che spaziano

dall’archeologia

medio

-

orientale ai ricordi dell’architettura

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romanica.

Accanto a questo filone decisamente poliedrico vive e si fortifica sempre più, specie nei primi anni Dieci, un filone coerentemente Art Noveau, dunque legato a tipologie di gusto floreale o a forme più rigorosamente secessioniste, che ha posto le basi dell’architettura funzionalista.

Alla fine degli anni Dieci, con la crisi della Belle Epoque e della sua espressione artistica, l’esplodere del fenomeno delle avanguardie, l’aggravarsi degli scontri sociali e infine lo scoppio del primo conflitto mondiale, si assiste a un radicale mutamento dell’immagine e della visione artistica del rapporto individuo-macchina e società-industria. Se da un lato la politica si dichiara in forme incisive sul tessuto sociale, dall’altro l’oggetto macchina, il concetto di riproducibilità meccanica tipico dell’industria, la crisi dell’identità individuale rispetto alla massificazione ritenuta il prodotto della società industriale e infine il crollo del mito positivista che vedeva nell’industrializzazione la soluzione a tutti i problemi dell’umanità, divengono temi e soggetti di alcune sperimentazioni artistiche d’avanguardia.

Essi assumono un duplice significato: da una parte il movimento futurista che identifica nell’oggetto meccanico, nella macchina in senso proprio e nell’industria, quindi nella città e nella società moderna, i valori della contemporaneità, dall’altra la ribellione e la conseguente distruzione dell’industria.

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Umberto Boccioni (pittore futurista 1982-1916) in “Le officine a porta Romana” e “La

Città che sale” testimonia il senso di validità e di energia attribuito all’industria e alla città moderna.

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Duilio Cambellotti (artista italiano di arti grafiche e di arti visive, 1876-1960) in quattro disegni rappresenta la schiavitù del lavoro, il desiderio di libertà della classe operaia, la ribellione e la conseguente distruzione dell’industria che si esplicitano ulteriormente in

“Altare”, una composizione nella quale un piccione e un maglio tagliano, sopra un’incudine, una matassa inestricabile di catene.

Nell’ambito delle avanguardie spetta al movimento Dada l’opzione in chiave ironica e straniante della macchina industriale come oggetto estetico.

Hannah Hoch (artista dadaista, 1889-1978) in “Taglio con coltello da cucina”, gli ingranaggi, i cuscinetti a sfera, le carrucole sono decontestualizzati rispetto al loro ambiente abituale e innestati in una realtà onirica e altamente simbolica.

In questo senso si muove poi il movimento surrealista,

creando

abbinamenti

impossibili tra oggetti meccanici e naturali i quali subendo metamorfosi inventano un mondo

nuovo

con

esistenziali e psicologici.

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inediti

itinerari

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Marcel Duchamp (artista dadaista, 1887-1968) cui si deve l’idea che l’oggetto-macchina, del prodotto industriale in serie, che diviene senza modifiche un’altra cosa rispetto alla prima sua ragion d’essere.

In “Scolabottiglie” e “Con rumore segreto” raffigura oggetti seriali e comunemente utilizzati nella quotidianità che con il solo gesto dell’artista vengono estrapolati dal loro contesto e divengono “totem”, “oggetti di culto” ovvero opera d’arte, in quanto dopo un percorso compiuto siamo passati dal puro impiego industriale, si è raggiunto un valore estetico.

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Con “La macinatrice di cioccolato” e “Il grande vetro”, l’artista giunge a trasferire un complesso d’ingranaggi industriali e di oggetti meccanici nella sfera della simbologia pura, con significati alchemico - religiosi assai complessi.

Ora

la nostra

cultura

deriva

dalle

esperienze delle avanguardie, ma allo stesso

tempo

contraddizioni capitalistica

porta storiche

e

delle

con

sé

le

della

società

sperimentazioni

rivoluzionarie. Dunque il nostro rapporto con l’oggetto industriale, sia esso una macchina o un complesso architettonico sul quale si sia sedimentato il tempo, avviene attraverso una visione estetica, pronta ad attribuire agli oggetti valori simbolici diversi, posizione che si nota quando si passa dalla fase puramente conoscitiva a quella d’intervento. È il caso dei macchinari industriali o delle turbine tolti dall’edificio originario, i quali, con un’operazione inconsciamente duchampiana, sono collocati su piedistalli e trasformati in monumenti simbolicamente inquietanti. Quindi è corretto l’approccio conoscitivo e documentato nei confronti di tutto ciò che è pertinenza dell’archeologia industriale, la quale è parte integrante della storia e della storia delle forme, dunque anche della storia dell’arte, ma è altrettanto corretto e necessario, lasciare spazio alla contemporaneità.

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3. IL RAPPORTO CON L’ARTE 3.2

La Street art.

La Street art è quel gesto estremo che rappresenta un idea e una filosofia di vita che a volte lascia libera interpretazione a chi la osserva e a volte lancia segnali in modo molto diretto. Ogni street artist segue un proprio pensiero, ha una propria etica personale e intraprende determinati percorsi. Tra questi c’è uno street artist, che alla strada preferisce spazi ed aree abbandonate o dismesse in città, il quale ha come metodo quello di essere chiaro e conciso: Carne. ” Da qui nasce la decisione di utilizzare i plottaggi nei miei lavori, in un contesto in cui

tutti si nascondono con l’obiettivo di farsi notare, io mi espongo direttamente sulle pareti attraverso il mezzo che meglio replica la realtà, ovvero la fotografia, ancora una volta senza filtri, una maniera rischiosa per dimostrare fin dove può portare a spingersi l’ego…”

Oltre ai plottaggi utilizza anche stencil, spray, markers e altri strumenti che gli danno modo di essere più chiaro possibile. Nelle sue opere, il rapporto con l’osservatore è ridotto al minimo: generalmente chi disegna in questi spazi lo fa per se stesso in totale contrasto con la maggior parte degli street artist che cercano di far arrivare i loro messaggi al più vasto pubblico possibile. Quando disegna Carne viene a trovarsi in un’ atmosfera di intimità con lo spazio unica nel suo genere e ciò che lo ispira oltre ad essere l’apparenza dell’edificio a livello sensoriale è anche la storia del luogo.

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Altro esempio è Blu, uno tra i migliori street artist italiani. Denominato il Banksy italiano, ha iniziato a farsi conoscere proprio tra le strade di Bologna attraverso opere illegali realizzate tramite l’uso di bombolette spray che in seguito sostituirà con altri materiali; oggi è conosciuto in tutto il mondo grazie alla ricchezza di significati trasmessi con ogni sua rappresentazione. Col tempo le dimensioni dei suoi capolavori sono diventate sempre più grandi e la realizzazione delle opere è passata dallo scrivere con gli spray, all’usare bracci meccanici e rulli su muri di grandi palazzi, abbandonando quindi l’illegalità.

Con il progetto Crono, il cui obiettivo è quello di migliorare l’immagine delle città (con il consenso del comune), Blu ha ridato vita al cemento di un vecchio palazzo di Lisbona in collaborazione con altri street artist italiani e non. Il progetto, iniziato a maggio 2010, è stato scandito in quattro fasi (stagioni) nel corso delle quali artisti urbani internazionali sono stati chiamati a realizzare opere temporanee su facciate di palazzi in disuso, dislocati in diversi quartieri della città, su cui l’amministrazione cittadina sta lavorando a un processo di modernizzazione.

Gli Os Gemeos, gemelli brasiliani, hanno raffigurato un NoGlobal che lancia un oggetto attraverso una “fionda umana” personificata da un uomo d’affari, contro un potente (disegnato da Blu), che succhia da una cannuccia il polmone della terra. Sul suo capo è ben visibile un’imponente corona che s’inserisce perfettamente nell’architettura del palazzo in cui si pone; sulla corona sono raffigurate famosissime marche di compagnie petrolifere.

Lo spagnolo Sam3, i cui punti forti sono le creazioni monocromatiche di piccole e grandi dimensioni, ha raffigurato un immenso uomo che tenta di evadere dalle mura, come se volesse ridare vita alla struttura.

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Nella parte seconda del progetto hanno partecipato: Ericailcane con i suoi tipici animali e Lucy Mclauchlan. Ora il palazzo è interamente circondato da stupende rappresentazioni gradevoli all’occhio e alla mente.

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Troppo spesso ci capita di vedere nel nostro Paese, città, infrastrutture, palazzi, edifici in disuso in condizioni decadenti ai quali mancano alcuni “pezzi”.

In risposta a questo nasce una nuova forma di denuncia: la LEGO BOMBING, ovvero opere di Street art che puntano a denunciare la non curanza verso gli edifici decadenti ed abbandonati delle città. L’inserimento di mattoncini Lego tra le intercapedini delle pareti esterne delle abitazioni ha lo scopo di puntare all’illusione che una parte di esse sia stata ”ristrutturata“, proprio con l’utilizzo di questi mattoncini con i quali tutti siamo cresciuti.

Allo stesso tempo i mattoncini colorati contribuiscono a rendere evidente la situazione di degrado degli edifici urbani e la monotonia di colori, problematiche che vengono notate sempre meno per abitudine.

Un “bombardamento” di protesta con oggetti giocattolo che riescono a creare a qualsiasi forma, persino insinuandosi in geometrie che nulla hanno a che fare con architetture di vita urbana. Eppure, ricostruire con plastica e il colore può essere più bello e intelligente che lasciare morire ciò a cui nessuno presta più attenzione. Una forma nuova e originale di protesta che fa prestare maggiore attenzione ai passanti e li fa mette a confronto con le reali condizioni delle abitazioni e dei palazzi dismessi.

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Interventi simili sono stati realizzati a Parigi, sulle facciate di torri abitative degradate.

Questi progetti sono stati curati da un centinaio di artisti.

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In alcuni casi, si è proceduto ripensando quello che rimaneva degli spazi interni.

Titolo del progetto: Galleria Itinerante.

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PARTE SECONDA.

4. SCELTE PROGETTUALI 4.1

Ipotesi.

Dopo aver effettuato l’analisi del luogo e dello stato di fatto facendo tutte le considerazioni precedentemente esposte, sulla dismissione industriale, ho iniziato a

ragionare sulle

molteplici possibilità di progetto che potevano essere sviluppate. Inizialmente non ho escluso la possibilità di riqualificare ciò che rimane dell’originaria struttura industriale; in seguito ho pensato potesse essere maggiormente interessante proporre un intervento di riqualifica temporanea dello spazio adiacente, data l’esistenza di un progetto di riqualificazione più ampio già approvato e depositato in comune.

Il mio progetto mirera a perseguire un dialogo tra azienda pubblica e privato al fine di trovare un accordo comune che permetta di spostare il confine di entrambi in modo da ottenere un’area sufficientemente ampia sulla quale intervenire. Partendo da questo dialogo si potrà realizzare un progetto volto a recuperare temporaneamente aree industriali degradate a causa di progetti iniziati e non ancora portati a termine, restituendo ai cittadini una “fetta” di territorio perduta da tempo.

Visti i presupposti iniziali, sono passato a identificare lo spazio che potevo avere a disposizione sommando la porzione di terreno adiacente ai fabbricati e il marciapiede. In questo modo ho iniziato a capire di dovermi rapportare con un’area imponente per la sua lunghezza, oltre che per la presenza di architetture industriali, che ne costituiscono il vero motivo d’interesse, che mi ha spinto a occuparmi di questo tema.

In un secondo momento mi sono posto delle domande per capire cosa potesse rendere quell’area sicura e usufruibile dai cittadini bresciani del quartiere fino a farla tornare il cuore pulsante della città, così com’era quando l’industria raggiunse i suoi massimi livelli.

L’ostacolo iniziale che mi sono trovato ad affrontare durante questa prima fase, è stato il tema dell’inquinamento: l’area si trova a ridosso del sito Caffaro e dunque è altamente inquinata dal PCB. Questo mi ha obbligato a cercare soluzioni che non comportassero scavi nel terreno, ma che, in quanto temporanee, si appoggino su esso divenendo facilmente removibili, qual ora il cantiere dovesse riprendere, lasciando intatta la pavimentazione sottostante del marciapiede.

La riflessione sul tema dell’inquinamento, che da anni sta portando Brescia a essere classificata al primo posto tra le città europee maggiormente inquinate, mi ha dato uno spunto ulteriore: pensando che oggi sul territorio bresciano sono numerose le aree di svago in cui viene vietato l’accesso alla cittadinanza, impedendo, in modo particolare ai bambini, di vivere a pieno la propria città, creando grandi vuoti inutilizzati all’interno dei nostri quartieri. Ho scelto così di realizzare un percorso ludico che possa restituire proprio ai più piccoli la gioia di poter rianimare le zone più represse della città.

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5 IL PERCORSO LUDICO SENSORIALE 5.1

Cos’è e cosa trovo al suo interno?

Il percorso ludico nasce come spazio all’aperto, all’interno del quale i bambini di età superiore ai tre anni possono, grazie all’ausilio delle attrezzature messe a disposizione, compiere attività ludico motorie che mirano a portare il bambino a conoscenza di determinati temi.

Un percorso ludico sensoriale stimola il bambino a percepire sensazioni ed emozioni grazie ai cinque sensi: vista, olfatto, udito, tatto e gusto lo guidano alla scoperta del mondo che ci circonda trovando benessere e armonia nel rapporto con la natura, l’ambiente esterno, se stessi ma soprattutto con gli altri.

Anzitutto in un percorso sensoriale è necessario tenere conto della notevole importanza del colore: i benefici dati della cromoterapia sono oggi molto noti e per questo sono sfruttati in diversi contesti della vita quotidiana. Dunque in un percorso sensoriale le basi per la stimolazione dei sensi si fondano sull’utilizzo coerente dei colori, che possono essere impiegati nella realizzazione di pavimentazioni e strutture ludiche, senza escludere l’inserimento di fiori e piante che possono anch’esse arricchire la varietà di sfumature messe in gioco.

Ogni colore è stimolante per un bambino, ma in particolare si deve tenere conto dei seguenti: -

Il rosso, l’arancio e il giallo in quanto rappresentano vivacità e allegria;

-

Il bianco, l’azzurro e il lilla in quanto sono rilassanti;

-

Il verde per donare equilibrio.

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Con il colore si può anche creare una particolare atmosfera e percezione dello spazio, sfruttando al meglio uno di questi possibili accostamenti: -

Contrasto cromatico, ovvero colori opposti tra loro;

-

Armonia cromatica, ovvero colori che sono vicini sulla ruota cromatica;

-

Temperatura cromatica, ovvero distinzione tra colori caldi e colori freddi;

-

Intensità cromatica.

Come già detto, anche le piante e i fiori contribuiscono alla cromia del percorso. Tra le piante più indicate, quelle che si contraddistinguono per il colore delle loro foglie ci sono: -

Cordyline di coloro rosso;

-

Erbe come la Poa, la Stipa e la Festuca glauca;

-

Eriche e Bromeliacee, piante fiorite con una vasta gamma di colori.

Oltre al colore, il percorso sensoriale si caratterizza anche per le sue forme. Gli spazi, infatti, giocano un ruolo molto importante per far sì che il bambino sia coinvolto e percepisca lo spazio attorno a sé. Per contribuire a dar forma sono generalmente realizzati dei sentieri con confini delineati da elementi strutturali e decorativi, sedute e altri elementi d’arredo, piante e aiuole. Non ci sono preferenze per quanto concerne la forma che si desidera conferire allo spazio: può essere geometrico, lineare, morbido e dolce, spigoloso e squadrato.

Per stimolare il senso del tatto, è molto importante scegliere di inserire materiali di diversa natura e consistenza (duro o morbido, liscio o ruvido …) con cui i bambini possono imparare a toccare, accarezzare, afferrare e ascoltarne il rumore prodotto.

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I materiali maggiormente usati in spazi aperti sono: -

Erba e muschio;

-

Piante e fiori;

-

Corteccia e sughero;

-

Sassi e ghiaia;

-

Sabbia e riso;

-

Spugna e gomma;

-

Acqua e sfere d’acqua.

Durante le belle stagioni, i bambini, stimolati dalla presenza del sole, possono provare a sviluppare

il

tatto,

camminando

scalzi

all’interno di vasche disposte per contenere i diversi materiali sopracitati e svolgere attività come la semina di piante e fiori, entrando così in contatto con la terra e la natura, mentre nei restanti periodi dell’anno possono comunque fare esperienza utilizzando le mani.

La possibilità di rapportarsi con la natura grazie alla presenza di piccole piante e fiori, stimola nel bambino la curiosità di capire il processo evolutivo di esseri viventi tanto importanti, esattamente come mamma e papà fanno ogni giorno con loro.

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Inoltre possono odorare i profumi generati da piante come: -

Menta;

-

Timo;

-

Maggiorana;

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Salvia;

-

Rosmarino;

-

Lavanda;

-

Nasturzio.

Non solo, alcune delle piante citate sono anche commestibili e di conseguenza possono essere prelevate e consumate a casa dopo un accurato lavaggio.

Infine non sono da dimenticare le piante che generano fiori profumatissimi.

I piĂš stimolanti sono: -

Gelsomino;

-

Viola odorata;

-

Gardenia;

-

Prostanthera;

-

Eriostemon myoporoides;

-

Darwinia citriodora;

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Helioptrope arborescens;

-

Murraya paniculata;

-

Tulbaghia.

Si tratta principalmente di cespugli o piccole piante rampicanti che posso essere collocate anche all’interno di vasche di terra e non devono essere necessariamente interrate.

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6 IL PROGETTO 6.1

Scelte distributive.

Dopo aver preso in considerazione quanto detto nei capitoli precedenti, ho cominciato ad approcciarmi allo spazio a mia disposizione per effettuare le prime ipotesi distributive.

Elemento determinante per la definizione delle soluzioni del progetto, è la ricerca da me impostata sui tracciati degli edificati in pianta.

Partendo dal caseggiato posto a Sud dell’area (Quartiere Primo Maggio), ho iniziato a tracciare all’interno delle aree di progetto le prime linee guida che in seguito ho intrecciato con altre, derivanti dalle proporzioni dei fabbricati industriali dismessi.

Lavorando tramite l’utilizzo dell’aereo fotogrammetrico di Brescia, ho sin da subito notato come il diverso orientamento degli edificati del Quartiere Primo Maggio si contrapponesse al resto del contesto urbano circostante. Sin da subito ho pensato che potesse essere interessante e stimolante trovare un modo per rapportare l’ex Comparto Milano, centro storico industriale ricco di passato cultura ed atmosfere, ad un edificato frutto di un intervento edile anonimo e poco interessante.

Infatti, mentre nelle aree di progetto si possono riscontrare aspetti molto interessanti di un’edilizia industriale che ha segnato il passato della nostra città e più a Nord lo storico cimitero monumentale vantiniano, a sud sono sorti quartieri che mostrano i caratteri tipici dell’espansione edilizia nata al di fuori della città storica, con la quale non vi è alcuna relazione, così da divenire un piccolo frammento di contemporaneità.

Avendo deciso di mettere in relazione i due edificati, ho incrociato i tracciati appena citati, con altri derivanti dai fabbricati industriali rimasti.

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L’immagine qui sopra vuole rappresentare un estratto dell’aereo fotogrammetrico di Brescia, su cui ho lavorato per dedurre i tracciati dell’edilizia del Quartiere Primo Maggio.

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Tracciati dedotti dalle proporzioni dei fabbricati esistenti sul lato Sud.

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Tracciati dedotti dalle proporzioni dei fabbricati esistenti sul lato Nord.

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6. IL PROGETTO 6.2

L’intervento architettonico.

Il contesto progettuale che ho scelto mi ha offerto l’opportunità di confrontarmi con limiti e confini. Per la realizzazione dell’intervento è stato inevitabile tenere conto di due importantissimi limiti: da un lato i fabbricati industriali pericolanti e dall’altro una carreggiata aperta al traffico automobilistico.

Ciò mi ha spronato a utilizzare, nell’area più a Sud, un segno che generasse, da una parte una sorta d’inquadramento visivo per tutta la lunghezza dell’area, mentre dall’atra dei punti di passaggio visivamente legati al Quartiere Primo Maggio: una porta, un varco, un nuovo vuoto tra i pieni.

La porta da sempre è un elemento ricco di storia all’interno delle città: essa segnava la dimensione territoriale, culturale ed economica della città cui apparteneva; era un manufatto architettonico dal potente valore simbolico, nato con funzione difensiva prima e divenuto poi, nell’architettura della città moderna, un decoro per gli ingressi urbani. Si potevano trovare porte che divenivano il simbolo del passaggio (l’arco di trionfo, i propilei, le porte difensive), altre erano la soluzione alla barriera daziaria. Ad esempio, a Brescia nel 1400 le porte erano un elemento architettonico di alto pregio e furono realizzate per consentire l’accesso ai cittadini data la presenza delle mura venete, che fortificavano l’intera città. Porta Trento, Porta Cremona, Porta Venezia e Porta Milano, erano questi i nomi dati agli accessi principali alla città, che oggi rimangono tali, nonostante si siano perse le tracce di quei maestosi segni architettonici. L’unico ancora visibile, allora Porta Milano, è divenuto durante il 1800, per volere dell’architetto Vantini, il maestoso ingresso del cimitero monumentale, un tempo utilizzato come porta daziaria.

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Dunque il concetto antico di passaggio, di difesa e di chiusura, viene riproposto nel mio progetto in chiave simbolica come apertura di uno spazio rimasto chiuso per troppo tempo e che oggi sente la necessità di aprirsi ai cittadini, tornando ad integrarsi con il restante tessuto urbano. Le porte vogliono inoltre rappresentare l’ingresso a un’area protetta e sicura pur non essendo chiusa ne separata dal contesto circostante.

La scelta di riqualificare questo spazio, come già accennato in precedenza, nasce dall’idea di restituire uno spazio di aggregazione alla comunità cittadina, facendolo sentire proprio e vivendolo quotidianamente. Quindi il secondo elemento che ho preso in considerazione è il fruitore dello spazio: anzitutto le persone del luogo, in particolare i bambini, poi i visitatori. La porta pur nella sua semplice struttura, nelle sue diverse dimensioni, ha una funzione caratterizzante, ma non sufficiente a spingere le persone frequentare la via. Per questo ho integrato la mia proposta architettonica, con altri elementi volti a caratterizzare questo spazio: guardando la bozza della pianta ho notato come le porte scandissero un ritmo nello spazio, osservazione che dopo diversi tentativi, mi ha portato a sviluppare un altro tema, ovvero il rapporto tra musica ed architettura.

Musica e architettura sono due forme di comunicazione che hanno molto in comune.

In musica si parla di armonia, di equilibrio, di proporzione, di ritmo; tutte espressioni che ritroviamo anche in campo architettonico.

Il ritmo della musica dettato dalle note prodotte dagli strumenti musicali, diventa così, la parte più divertente e giocosa del progetto: alla rigidità imposta dalle porte, si contrappone un pavimento che, come si può percepire dalla pianta, è uno spartito musicale.

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Non uno spartito qualunque, ma uno spartito animato, fatto di note “stonate”, che dopo essere state sul proprio rigo, si disperdono nello spazio, diventando mini architetture o arredi.

Le note come detto assumono diverse dimensioni: le più piccole e proporzionate al rigo su cui si trovano, restano un intervento decorativo a pavimento che accompagna le note “stonate” a diventare altro. Ecco allora che in alcuni spazi la rotondità delle note più grandi prende forma divenendo un’area chiusa, cilindrica, all’interno della quale i bambini svolgeranno piccole attività che talvolta potranno essere organizzate dal comune, talvolta dagli oratori, talvolta dalle scuole. In altri spazi, al contrario, sono le code o le aste delle note a prendere forma, divenendo sedute o fioriere mentre, quando la nota è decisamente “troppo stonata”, rimane a terra e diventa una vasca contenitiva, all’interno della quale disporre i materiali con cui i bambini possono interagire di volta in volta.

Mentre le porte sono elementi caratteristici solo della porzione Sud, le note contaminano anche la porzione Nord del progetto. Inizialmente si distribuiscono lungo il percorso con un determinato ordine per divenire elementi morbidi con cui il bambino può nuovamente interagire, il tutto all’insegna di un semplice percorso, che possa permettere anche ai 109

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“nonni” di usufruire dell’area per una passeggiata all’aperto in un ambiente tranquillo; infatti, a ridosso del nastro vi è un passaggio pedonale lineare.

Al termine dei fabbricati, le note invadono un’ampia fetta di terreno, disponendosi su tre pentagrammi per divenire: un’installazione d’acqua al termine del percorso, dove sia grandi sia piccoli possono giocare in estate, mentre in inverno funge da semplice fontana, e piccoli elementi estrusi utilizzabili dai ragazzi che praticano sport con lo skate o con i pattini.

La scelta di realizzare questo tipo d’intervento, nasce come già accennato, dalla voglia di trovare qualcosa di diverso e movimentato che possa incuriosire soprattutto il bambino, ma non solo, inoltre la rotondità degli elementi estrusi vuole essere un piccolo omaggio alle industrie che hanno contribuito alla gloria di Brescia durante oltre un secolo.

Infine importantissima è la presenza di due “nastri” che fungono da elemento protettivo dalla pericolosità dei fabbricati esistenti.

A Nord l’idea nasce dalla scomposizione, secondo l’asse centrale, della chiave di sol, che ribaltata e ripetuta modularmente genera un motivo a curve, alle cui spalle si trovano dei pannelli, che riprendendo la forma dal prospetto dei fabbricati retrostanti, fungendo da elementi di chiusura per le aperture esistenti. Vista la presenza di questi elementi, per completare il prospetto, ho riportato sul rigo il semplice contorno dei fabbricati esistenti, sul quale ho scelto di far arrampicare del verde, il quale si ripropone anche su una porzione del nastro.

Dettaglio del nastro “Chiave di Sol”.

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A Sud, invece, un vero e proprio nastro si srotola dall’alto, nell’area compresa tra i fabbricati e l’hotel AC, per poi percorrere il prospetto in tutta la sua lunghezza, alzandosi sempre più in direzione della cattedrale e dei rimanenti “scheletri” industriali al termine della via. La parte di nastro che si srotola dall’alto vuole essere un “totem” di grande importanza visiva, che possa fungere da attrattiva principale per i fruitori dell’area che incuriositi da questa presenza saranno maggiormente stimolati a scoprire cosa succede all’interno dell’ex industria. Esso fungerà da elemento su cui proiettare opere di video art o, in alcuni momenti, pubblicità, al fine di rendere realizzabile il progetto con bassi costi, grazie agli introiti derivanti da quest’ultima.

1.

2.

Prospetto Sud.

1. Ingrandimento del prospetto Sud in zona “Totem”.

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2. Ingrandimento del prospetto Sud in zona cattedrale.

1.

Prospetto Nord.

1. Ingrandimento del prospetto Nord all’angolo tra via Industriale e via Carlo Quinto Stefana.

Nelle pagine seguenti ho inserito due piante: nella prima con i numeri da uno a sette ho voluto indicare le macro aree del progetto, mentre nella seconda, con i numeri da uno a undici ho voluto indicare le micro aree del percorso sensoriale.

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1. Quartiere Primo Maggio 2. Fabbricati esistenti.

3. Percorso ludico.

4. “Totem”.

3.

5. Parco delle skaters.

6. Giochi d’acqua.

7. Fotovoltaico.

7.

4.

6.

5.

2.

2.

3.

1.

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1. Colori.

2. Arte.

3. Sassi e ghiaia.

4. Sabbia e riso.

5. Spugna e gomma.

6. Acqua e sfere d’acqua.

7. Muschio.

1.

8. Erba.

9. Aromi.

10. Corteccia

2.

11. Sughero.

3.

4.

5.

6.

7.

8.

9.

10.

11.

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Render schematici.

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Render schematici.

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6. IL PROGETTO 6.3

I materiali impiegati.

Le porte precedentemente descritte, avranno dimensioni, sia in altezza che in larghezza, variabili. Per la progettazione di questi elementi ho pensato a quattro moduli di D C B

dimensioni diverse, che si ripetono lungo il percorso alternandosi secondo il semplice

A

calcolo combinatorio A – B – C – D. Esse saranno realizzate con un materiale

A

B

C

D

innovativo, già utilizzato in tempi antichi come rinforzo delle opere murarie, che oggi è

A

B D

C

applicato

anche

al

design:

FRP

Fiber

Reinforced Polymer, ovvero un materiale composito a base di Fibra di Carbonio.

I materiali compositi rappresentano una grande evoluzione in architettura e nel design grazie alle nuove tecnologie che permettono di fondere assieme le migliori caratteristiche di materiali diversi.

Dal punto di vista storico il concetto di materiale composito con fibre di rinforzo è molto antico: nella Bibbia sono presenti espliciti riferimenti al rinforzo di laterizi con l’impiego della paglia nell’antico Egitto; barrette di ferro erano usate per rinforzare le murature del 1800 che divennero le basi per lo studio del cemento armato; resine fenoliche rinforzate con amianto furono introdotte nel primo ventennio del 1900.

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Nel 1942 fu realizzata la prima barca in vetroresina e nello stesso periodo si svilupparono le plastiche rinforzate per l’aeronautica e per i componenti delle apparecchiature elettriche; elementi avvolti furono inventati nel 1946, usati a partire dagli anni ’50 in campo missilistico; durante gli anni ’70 le applicazioni dei compositi si espansero fortemente in campo automobilistico, sportivo e biomedico; infine gli anni ’80 portarono ad un significativo sviluppo nell’utilizzo di fibre ad elevata elasticità. Oggi sono realizzati compositi più moderni con matrici a base di malte e matrici ibride con malta e resina epossidica per le applicazioni ad alta temperatura. Si hanno innumerevoli applicazioni: tubi interrati, container, barche, veicoli di terra, strutture aeronautiche e spaziali, applicazioni nell’edilizia civile, componenti per automobili, attrezzi sportivi, prodotti biomedici e moltissimi altri prodotti progettati per avere alte prestazioni meccaniche e/o stabilità dimensionale. L’inserimento di fibre di piccole dimensioni porta a ottenere prestazioni strutturali elevate: questa caratteristica, unita alle proprietà degli altri

materiali

costitutivi,

assicura

un’alta resistenza meccanica, molta elasticità, peso specifico molto basso e comportamento elastico lineare.

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Le fibre più importanti utilizzabili in materiali compositi possono essere di vetro, carbonio, organiche e minerali: esse si trovano in compositi o sotto forma di fibre disposte parallelamente lungo un piano, sottoforma di fibre tagliate e disposte casualmente in un piano oppure possono essere tessute secondo una configurazione trama-ordito.

Per lungo tempo le fibre più usate in applicazioni di compositi strutturali sono state quelle di vetro. Sebbene abbiano buone caratteristiche di resistenza e bassa densità, presentano un modulo di elasticità relativamente basso; per questo motivo, circa venticinque anni fa, s’iniziò a sperimentare e convertire compositi organici in fibre di carbonio e grafite grazie alla loro particolare struttura cristallina. Rispetto alle fibre di vetro, quelle di carbonio presentano tre vantaggi sostanziali: un modulo elastico molto alto, una massa volumetrica bassa e un coefficiente di dilatazione termica molto basso. Grazie alle numerose tecnologie avanzate utilizzate per la lavorazione di questi materiali, oggi è possibile ottenere oggetti e superfici lavorate con un’attenzione elevata verso i dettagli del prodotto finale.

Ho applicato lo stesso materiale anche ad altri elementi del progetto, ovvero i profili estrusi dei fabbricati e il nastro protettivo a Nord, parte del nastro a Sud e gli arredi.

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Alla base delle porte di dimensione maggiore, ho realizzato dei tagli nella pavimentazione in Clearpep retroilluminato: Questo tipo di materiale nasce dalla combinazione di due fogli di Policarbonato con spessore variabile (da due millimetri) intervallate da una struttura alveolare realizzata con il medesimo materiale, che gli garantisce un’elevata rigidità e resistenza. I primi studi su questo tipo di polimero risalgono al 1928, ma l'inizio del suo sfruttamento commerciale avviene solo a partire dagli anni ’60: il policarbonato ha visto crescere in misura sorprendente il suo utilizzo, grazie alle particolari proprietà di trasparenza, resistenza termica e meccanica, oltre che per la durezza.

Il Clear-pep può essere realizzato in diverse colorazioni, in particolare oggi si trovano in commercio policarbonati trasparenti, arancio, verdi, azzurri e blu; la trasparenza del policarbonato, unita alle proprietà meccaniche, fa di esso il sostituto naturale del vetro, con il vantaggio di essere curvabile a freddo. I principali campi di applicazione sono: ottico per la realizzazione di lenti per gli occhiali e obiettivi per macchine fotografiche; digitale per la registrazione ottica di informazioni su CD, DVD e Blu-ray; elettronico per isolare e creare involucri esterni; trasporti per i caschi e per le coperture dei fanali; militare per giubbotti antiproiettile e scudi antisommossa; aeronautica per i tettucci e gli oblò dei moderni aeroplani ed infine illuminazione elettrica per la realizzazione di plafoniere ed altri componenti.

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In particolare oggi, in edilizia civile ed industriale, i pannelli in policarbonato vengono utilizzati per realizzare coperture e finestrature grazie alla loro leggerezza, luminosità, resistenza e versatilità: la notevole resistenza termoplastica ne permette l’applicazione anche in interventi esterni, con una garanzia di durata elevata. Infine, il Clear-pep è un materiale riciclabile al 100%.

Nel progetto sono stati inseriti anche altri materiali più comuni quali: corten e cemento, per lo skatepark, mentre il resto della pavimentazione si compone di gomma riciclata antitrauma, approfondita nel capitolo seguente “L’intervento grafico decorativo”.

In questo capitolo ho pensato di dare maggiore spazio alla pavimentazione e ai nastri (in particolare il “totem”) che sono il frutto di un’idea grafico-decorativa fondamentale in questo progetto e pertanto meritano una descrizione a parte.

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7. INTERVENTO GRAFICO DECORATIVO 7.1

Descrizione della pavimentazione.

Come già anticipato nel sottocapitolo 6.2, alla rigidità imposta dalle porte, si contrappone un pavimento morbido disegnato da uno spartito musicale.

La pavimentazione inizia poco prima del “totem”, con la rielaborazione di un disegno vettoriale, che vede protagonista una Chiave di Sol; da qui si snoda poi il pentagramma su cui si dispongono le note. Il disegno è riportato sul pavimento tramite intagli di colore diverso nel materiale che lo compone, ovvero piccoli pezzi di gomma riciclata, compattati per ottenere un pavimento antitrauma.

Le pavimentazioni antishock di gomma riciclata, sono un efficace strumento per la prevenzione d’incidenti, perché attutiscono in modo determinate l’impatto al suolo di caduta e annullano completamente il rischio di scivolamento.

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Non a caso la loro installazione è ideale nei parchi gioco, negli asili nido, nelle scuole materne, nelle aree pedonali e nelle palestre: ambienti, dove il rischio di caduta è maggiore o per l’attività che si sta svolgendo, o per l’età degli utenti che ne usufruiscono.

Questo tipo di pavimento, a seconda dell’impiego, può essere realizzato sia in lastre quadrate o rettangolari (piastrelle) che in rotoli, a seconda della dimensione superficiale da coprire. Il materiale si compone di granuli di gomma che sono compattati mediante l’utilizzo di resine poliuretaniche, ottenute dallo smaltimento e dal reimpiego degli pneumatici usati: per questo rientra nei materiali riciclati e 100% riciclabili al termine del loro utilizzo. Questo tipo di pavimentazione è facilmente posabile e removibile, purché al di sotto vi sia una base costituita da materiale drenante, come sabbia o ghiaia, cui è consigliabile dare una pendenza minima per permettere il facile deflusso dell’acqua in spazi aperti. All’interno del mio progetto la ghiaia, oltre a fare da base per il pavimento funge anche da elemento riempitivo per pareggiare i dislivelli presenti soprattutto lungo il marciapiede; per quanto riguarda la pendenza, il problema non sussiste poiché l’area d’intervento è già dotata di una pendenza di circa trentacinque centimetri, calcolata dal punto più basso al confine con l’Hotel AC, al punto più alto al termine degli edificati industriali.

1.

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7. L’INTERVENTO GRAFICO DECORATIVO 7.2

Descrizione del nastro protettivo.

Per proteggere gli utenti del mio progetto dal

rischio

presenza

dei

d’incidenti fabbricati

dovuti

alla

industriali

degradati, ho ideato degli elementi protettivi che ho denominato nastri. Il nome nasce dall’elaborazione di un segno grafico stretto e lungo, che si stende lungo entrambi i prospetti delle ex fabbriche; importante è la presenza a Sud di un “totem” alto venti metri, che s’impone come un enorme scultura a nastro, che srotolandosi dall’alto scorre fino alla fine dell’edificato esistente. Esso si compone di una tenda ledwall sulla quale video artist potranno proiettare le loro opere, che ad intervalli regolari saranno interrotte dalla proiezione di pubblicità. Le tende ledwall possono essere realizzate di diverse dimensioni, in quanto si compongono di moduli ultrasottili e leggeri che vengono successivamente assemblati attraverso un sistema di calamite. Esse si caratterizzano per la loro elevata trasparenza, resistenza e leggerezza e sono utilizzabili sia in ambienti interni sia esterni.

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L’elevata leggerezza e stabilità garantiscono la realizzazione di grandi strutture e l’eccellente qualità di trasmissione delle immagini e del loro colore da ampio spazio alla creatività, nella realizzazione delle proiezioni; ciò è possibile anche grazie all’ausilio di un software direttamente collegato sul retro dei pannelli. Fondamentale è anche la possibilità di regolare la luminosità di ogni singolo pezzo in modo autonomo.

Le tende ledwall sono sostenute da una struttura metallica in tubolari, che ne garantisce una facile e stabile applicazione anche in contesti esterni; infatti oggi vengono impiegate nella realizzazione di pannelli pubblicitari, maxi schermi per concerti e altri eventi.

Esempio di tenda a led.

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In lunghezza, lungo il prospetto, il nastro si compone di fasce in fibra di carbonio nere e lucide intervallate da fasce di led bianchi, che scorrendo creano giochi di luce divertenti.

Nelle immagini qui sopra, un esempio di un’installazione realizzata alla National Gallery of Art di Washington DC, nel 2008, intitolata Multiverse.

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Com’è noto i led sono la tecnologia più avanzata in campo elettronico, in quanto mantengono intatte le loro caratteristiche per lungo tempo per poi affievolirsi, ma senza spegnersi mai; inoltre consumano quantità bassissime di energia elettrica, tanto che oggi è divenuto di primaria importanza pensare di investire in led anche nelle abitazioni private.

Pertanto alle spalle del nastro appena descritto, dato che lo spazio lo consente, ho posto un piccolo impianto fotovoltaico, che possa garantire l’assoluta autonomia dei led inseriti.

Come precedentemente accennato, a Nord il nastro nasce dalla scomposizione (secondo l’asse centrale) della Chiave di Sol l’elemento più elegante e sinuoso di uno spartito.

Essendo composto da forme curve e bucate (in fibra di carbonio) ho dovuto chiudere i fabbricati esistenti con pannelli (che riprendono la forma dello spazio in facciata adibito alla presenza di aperture) a ridosso del prospetto. Questi saranno realizzati a specchio, in modo da riflettere le luci led poste sul fronte opposto.

Multiverse, National Gallery of Art di Washington DC, 2008.

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1.

A. PROSPETTO sud.

1. Ingrandimento del prospetto Sud in zona “Totem”.

“Totem” in prospetto.

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Render schematici.

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Render schematici.

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PARTE TERZA.

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CONCLUSIONI L’idea di realizzare questo tipo d’intervento nasce dall’impatto che la vastità del fenomeno “aree dismesse” genera su me stesso, che lo vivo quotidianamente: ciò mi ha permesso di arricchire il mio bagaglio culturale personale, su un tema per me sconosciuto nella sua globalità e complessità. Il tema della dismissione industriale mi ha colpito sin da subito, tanto che durante la scrittura della prima parte di questa tesi, sono rimasto coinvolto nella lettura di molti documenti in merito (libri, riviste, articoli di giornale), che mi hanno invogliato a capirne sempre di più. Attraverso la lettura di questi testi, ho approfondito i concetti di: crisi (iniziata dagli anni Settanta, fino ai giorni nostri); il concetto di aree dismesse e l’incidenza di queste sul territorio italiano (in particolare a Brescia); il legame indissolubile con la storia e il passato, che caratterizza questi luoghi e la pienezza di vuoti, che oggi si sono generati nelle nostre città.

Mi sembra davvero incredibile pensare che le gloriose fabbriche di un tempo, dopo aver portato la rivoluzione industriale in Italia per decenni, oggi si staglino, con le loro imponenti architetture, negli skyline delle nostre città come fantasmi paurosi.

Esse inevitabilmente generano una pienezza di vuoti all’interno dei quartieri, divenendo aree fini a se stesse non più usufruibili, parzialmente svuotate architettonicamente, che rendono malsane e insicure le vie circostanti ma dense di un passato che consapevolmente non si ripeterà. Attraverso la mia proposta di progetto ho cercato di creare una forma di architettura temporanea che possa offrire una valida soluzione alternativa alla riqualifica strutturale dei fabbricati esistenti, proponendo un intervento temporaneo che coinvolga i cittadini, rendendo più sicure queste zone.

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RINGRAZIAMENTI Al termine di questo percorso di studi, vorrei ringraziare tutti coloro che in questi cinque anni mi hanno permesso di raggiungere l’importante traguardo rappresentato da questo lavoro.

In modo particolare ringrazio il Docente Andrea Busi, relatore di questa tesi, per essersi reso sempre disponibile e avermi seguito con pazienza, cura e dedizione professionale.

Ringrazio il Docente Vincenzo Denti, correlatore di questa tesi, per la disponibilità.

Infine un importante ringraziamento va ai miei genitori che mi hanno sostenuto moralmente e soprattutto economicamente, permettendomi di svolgere un percorso di studi completo all’interno di questa accademia.

Grazie!

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