TEORIE E MODELLI DEL RICONOSCIMENTO DEI VOLTI

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TEORIE E MODELLI DEL RICONOSCIMENTO DEI VOLTI PERFORMAT DESIDERA RINGRAZIARE L'AUTORE MIRKO PAOLINELLI VITALE PER AVER DATO LA DISPONIBILITA' ALLA PUBBLICAZIONE DI QUESTO ARTICOLO Marzo 2007

Mirko Paolinelli Vitale Psicologo e psicoterapeuta in formazione

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Premessa Le facce rappresentano uno degli stimoli più importanti ed interessanti per il genere umano. Il riconoscimento delle facce è un’abilità umana di base con un alto grado di rilevanza sociale e di vitale importanza; basti pensare come in molti primati non umani e negli uomini, sia importante se non vitale il riconoscimento della figura genitoriale, o nel caso degli animali dei membri del proprio gruppo. L’importanza dell’elaborazione dei volti per la sopravvivenza è inoltre resa evidente dalla preferenza per i volti mostrata dai neonati (già a 30 minuti di vita), i quali sono in grado di distinguere già in maniera specifica le facce dagli altri oggetti. E dobbiamo renderci conto di quanto sia estremamente naturale tramite la percezione e il riconoscimento delle facce, l’identificazione di una persona amica, il riconoscimento di una emozione, l’apprezzamento per le caratteristiche di un bel volto. Sorprendente è l’ovvietà di questa azione che svolgiamo in maniera veloce e quasi automatica. E’ una funzione che viene acquisita in epoca precoce durante lo sviluppo e non ha bisogno di essere insegnata, o appresa tramite tecniche particolari. Inoltre non vi sono regole ben precise per percepire e riconoscere facce, ognuno attua queste elaborazioni in maniera autonoma senza nemmeno pensare a quali siano le modalità della sua elaborazione facciale. È vasto inoltre il numero di facce che una persona può riconoscere; infatti basta che qualche personaggio diventi una persona pubblica che sarà sicuramente immagazzinato nella nostra memoria e pronto ad un eventuale riconoscimento. Nella vita quotidiana, ci troviamo spesso in situazioni e ambienti in cui troviamo un elevato numero di facce, sia familiari che sconosciute. Quando cerchiamo un amico in una stazione o in mezzo ad una folla, siamo capaci di riconoscere in maniera accurata e veloce quella persona, non importa quante persone ci siano tra la folla e quanto le facce possano sembrare simili tra loro. Com’è possibile? Quali sono i meccanismi che stanno alla base del processo di riconoscimento che ci permettono di percepire una persona come conosciuta o sconosciuta? Perché non possiamo guardare una faccia conosciuta e decidere di non riconoscerla? Queste sono alcune delle domande che hanno portato a numerosissime ricerche nell’ambito dello studio delle facce. L’elaborazione di facce è formata da un gran numero di processi percettivi e cognitivi inclusa l’estrapolazione di una faccia da altre strutture presenti nella scena visiva, l’identificazione di una particolare faccia presa in visione, l’accesso al nome e all’informazione semantica associata a quella faccia e l’analisi di espressioni facciali per determinarne le intenzioni e gli stati emozionali. Una questione importante riguarda la natura delle rappresentazioni delle facce nella memoria, più specificatamente, quali informazioni descrittive sono tenute in conto per la rappresentazione della faccia, la sua categorizzazione e il suo riconoscimento. Un’altra questione concerne l’influenza del contesto di ricerca visivo nell’elaborazione di una faccia. In particolare la presenza di facce famose o sconosciute con la funzione di distrattori, può influenzare la ricerca di una faccia target all’interno del contesto di presentazione? Questo problema è importante per le implicazioni che può avere riguardo il sistema dell’architettura cognitiva del riconoscimento di facce, in particolare nel dibattito riguardo quanto la percezione sia strettamente collegata con la memoria e la cognizione. Si possono essere distinguere due modalità di elaborazione: bottom-up e top-down. Il focus di interesse per i ricercatori riguardo l’elaborazione delle facce è rivolto verso le seguenti questioni: - capire se la percezione delle facce e degli oggetti siano mediate da differenti regioni cerebrali. 2


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valutare se i sistemi neurali deputati all’elaborazione di questi stimoli, siano indipendenti l’uno dall’altro. valutare se i sistemi elaborino le informazioni in modalità differenti. valutare se e quanto la tipologia del contesto di presentazione di uno stimolo faccia influisca sul suo riconoscimento.

Due decenni fa, Bruce e Young (1986) hanno proposto un modello teorico per il riconoscimento delle facce. Questo modello, prevedeva una organizzazione sequenziale e gerarchica di differenti stadi di elaborazione. Il riconoscimento di una faccia, secondo gli autori, è basata su di una unità astratta contenente diverse informazioni strutturali di ogni faccia presente in memoria; al livello più basso dell’elaborazione, un’analisi percettiva delle caratteristiche facciali è fatta da una componente strutturale di codifica e il risultato dell’analisi è immagazzinato in una Unità di Riconoscimento di Facce - FRU (Face Recognition Unit). Questo modello, diventato ormai classico, ha influenzato e dominato per molti anni la ricerca sulla percezione dei volti. Il modello prevede che da una faccia si possano ricavare diversi tipi di informazione che vengono elaborate in separate componenti cognitive e nei seguenti stadi successivi di elaborazione: - Codifica strutturale (structural encoding): analizza e cattura gli aspetti della configurazione di una faccia, per poterla distinguere dalle altre. Corrisponde alla rappresentazione 3D del volto. È un’elaborazione automatica e non può essere influenzata da processi top-down. Lo stadio dello structural encoding prepara le informazioni, estratte dalla codifica strutturale, per andare a creare nella prossima componente una descrizione della faccia più astratta ed indipendente dalle espressioni. - Unità di riconoscimento dei volti (face recognition units: FRUs): ciascuna unità di riconoscimento facciale contiene le informazioni strutturali su uno dei volti noti all’osservatore; vi sono immagazzinate le descrizioni visive che permettono ad una particolare faccia di essere discriminata da altre facce conosciute o sconosciute. In queste unità sono contenute le descrizioni delle persone che conosciamo. È lo stadio della familiarità delle facce. - Nodi di identità di persona (person-identity nodes: PINs): identificazione della persona, ed informazioni semantiche, ad esempio professione e interessi. Gli autori precisano che i nodi di identità si trovano in un magazzino semantico separato da quello della memoria semantica generale. - Produzione del nome (name retrieval): recupero del nome della persona. che è attivato dopo un appropriato PIN. Il nome di una persona è immagazzinato in maniera separata dalle altre informazioni.

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Fig.: Modello del riconoscimento di facce di Bruce e Young (Bruce & Young, 1986). Una implementazione del modello originale di Bruce e Young (1986) è stata proposta con una attivazione interattiva ed una architettura competitiva, con due modifiche (Burton, Bruce, Johnston, 1990): - la prima riguarda il PIN, al quale venne data la funzione di “accesso all’informazione semantica” piuttosto che di contenerla. Le decisioni sulla familiarità possono quindi essere prese al livello del PIN. - la seconda modifica riguarda la creazione di una “Unità di Informazione Semantica” SIU (Semantic Information Unit), sistema che immagazzina particolari informazioni semantiche che riguardano le persone conosciute. Questa implementazione stabilisce inoltre che una unità di riconoscimento delle facce è generato per ogni faccia che una persona conosce. Le unità di riconoscimento di facce accettano le facce con una gran varietà di pose ed espressioni (Bruce & Young, 1986 ; Hay & Young, 1982). Burton et al. nel 1990 suggerirono che quando questa unità viene attivata, la stessa inibisce altre unità che non riguardano le facce che devono essere riconosciute. In seguito Bruce e Young e Burton (1990), sostennero che la differenza tra l’elaborazione di facce familiari e l’elaborazione di 4


facce non familiari era dovuta al fatto che ci sono codici strutturali memorizzati per le facce conosciute. Questi codici sono elaborati attraverso una frequente esposizione allo stimolo e sono rappresentati entro le FRU. Non ci sono unità di riconoscimento per le facce non familiari in questa implementazione del modello originale di Bruce e Young. La struttura presentata da Bruce e Young, può quindi spiegare il deficit della prosopagnosia in termini di perdita delle FRU o in termini di disconnessione tra le FRU e i PIN. Burton et al. (1991) invece ritenevano che la prosopagnosia interessasse uno specifico problema del riconoscimento di facce piuttosto che ritenerla come un deficit generale dell’elaborazione delle facce e che non fosse necessaria una corrispondenza con la malattia e la familiarità delle persone. L’ipotetico immagazzinamento di una specifica rappresentazione di ciascuna faccia con i suoi possibili orientamenti e le basi anatomiche delle rappresentazioni delle facce, vennero esaminate in uno studio di Kuehn e Jolicoeur (1994), che basandosi sull’idea che una faccia in posizione dritta ha una sua selettiva rappresentazione neurale, condussero una serie di esperimenti per confermare questa rappresentazione. La loro ipotesi sosteneva che se esiste una rappresentazione neurale selettiva per una faccia e se queste strutture neurali operano nella stessa maniera in cui operano per altri tipi di stimoli visivi base diversi dalle facce, allora la presentazione di una faccia versus un oggetto dovrebbe essere notata in maniera preattentiva. Testarono la loro ipotesi utilizzando un compito di ricerca visiva nel quale il target era una faccia e il distrattore pure. Non trovarono evidenze di questa rappresentazione neurale. Comunque conclusero che gli uomini hanno cellule specializzate per le facce che rispondono in maniera specifica allo stimolo faccia, ma che queste cellule non supportano il criterio del pop-out visivo nella stessa maniera in cui avviene con stimoli più semplici delle facce. Importante anche l’appunto che alcuni studiosi hanno fatto, per il modello di Bruce e Young a prescindere dalla versione, riguardante la non chiara definizione della natura delle rappresentazioni immagazzinate (Montoute, 1999). Secondo Poncet e Ferriera (1995), è difficile continuare ad usare l’idea della FRU per capire i deficit della prosopagnosia non avendo avuto riscontri diretti nello studio di pazienti prosopagnosici. Per altri studiosi il modello di Bruce e Young, non dà una chiara definizione della rappresentazione delle facce non conosciute, ma come ha suggerito Burton (1994), non è possibile investigare il processo per imparare ad elaborare una faccia senza una rappresentazione di entrambe le tipologie di facce, conosciute e sconosciute, manovrate dall’unità di registro delle facce. Questi due tipi di facce possono essere viste come rappresentate lungo un continuum, con le facce conosciute ad un estremo e le facce sconosciute all’altro estremo.

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Fig.: Modello IAC di riconoscimento di facce e di nomi. (Burton & Bruce, 1993)

Mentre i modelli tradizionali come quello sopra descritto di Bruce e Young si focalizzano in maniera principale sui processi cognitivi, altri modelli sviluppati in tempi più recenti hanno incluso aspetti di tipo affettivo per quanto riguarda il riconoscimento di facce (Breen, Caine & Coltheart, 2000; Ellis & Lewis, 2001). Secondo questi modelli, una prima via “cognitiva” analizzerebbe l’identità della faccia e provvederebbe all’accesso delle informazioni semantiche e dei nomi delle persone familiari, mentre una seconda via sarebbe implicata nella produzione di risposte affettive di fronte a facce familiari. Tutto ciò per cercare di spiegare i deficit che si riscontrano nel riconoscimento di facce in pazienti 6


affetti da prosopagnosia e in pazienti affetti dalla “sindrome di Capgras”. Per quanto riguarda la via cognitiva poi c’è da tener conto anche dell’idea di sistemi neurali dedicati come si può presumere da diversi studi con soggetti cerebrolesi che mostrano aspetti diversi dell’elaborazione di facce come la discriminazione di genere, l’identità della faccia, e l’analisi di espressioni facciale che possono essere alterate da certe lesioni cerebrali di particolari aree. La prosopagnosia può essere definita come l’incapacità di riconoscere volti familiari e di apprenderne di nuovi. Prevalentemente, la prosopagnosia è causata da un danno cerebrale, più specificatamente da lesioni occipito-temporali destre o bilaterali. I pazienti affetti da questa patologia possono riconoscere persone a loro familiari dalla voce o dal loro portamento. Inoltre sono in grado di conservare una memoria semantica per le persone. Può capitare comunque che certi pazienti prosopagnosici possano essere incapaci di riconoscere totalmente facce di persone anche strettamente familiari. Da notare però che a volte le facce anche se non riconosciute possono fornire alcuni segnali di riconoscimento “implicito” come lo sono le risposte della conduttanza della pelle (SCR). Infatti risultati di alcuni studi con soggetti prosopagnosici hanno messo in evidenza come siano più ampie le risposte alla conduttanza della pelle nel caso di presentazione di volti familiari piuttosto che non familiari in assenza di riconoscimento esplicito in entrambe le situazioni (Tranel & Damasio, 1985). Ciò ci fa pensare che alcuni soggetti prosopagnosici nonostante la via cognitiva sia interrotta o comunque danneggiata per un riconoscimento esplicito, mantengano in un certo modo intatta la via affettiva. A differenza della prosopagnosia, i pazienti affetti dalla “sindrome di Capgras” mostrano deficit opposti (Ellis & Young, 1990). Infatti questo disturbo, che può manifestarsi sia in un contesto di condizioni psichiatriche che come il risultato di un danno cerebrale, rende i pazienti privi del senso di familiarità per le facce, nonostante siano ancora in grado di identificare volti familiari, che porta questi soggetti a credere queste persone come impostori o alieni. A tal proposito Ellis e Young proposero l’ipotesi che in questi pazienti ci fosse la possibilità di un danno alla via affettiva del riconoscimento di facce ed una pressoché intatta via cognitiva. Inoltre avanzarono l’idea che questi pazienti non avrebbero prodotto delle buone risposte della conduttanza della pelle differenziata per i volti familiari riconosciuti in maniera implicita. Idea che fu confermata da ricerche successive (Ellis, Young, Quale & DePauw, 1997; Hirstein & Ramachandran, 1997). Bauer (1984) riteneva che esistessero due vie per il riconoscimento di facce sia in termini neuroanatomici che funzionali: - una via visiva ventrale libica, nella corteccia temporale inferiore, che è implicata nell’identificazione esplicita e per i deficit in prosopagnosia. - una via dorsale, che proietta dalla corteccia visiva primaria alle strutture limbiche attraverso il solco temporale superiore ed il lobo parietale posteriore. Via che sembra sia implicata nella detenzione di significati emotivi e responsabile nella mediazione delle risposte SCR in pazienti prosopagnosici. Sia la teoria di Bauer (1984) che quella di Ellis e Young (1990) si affidano all’idea che ci debba essere un certo grado di identificazione della faccia, affinché questo stimolo produca una rilevante risposta affettiva. Più di recente, Breen et al. (2000) hanno evidenziato come il modello di riconoscimento di Bauer 7


mostrasse anche i possibili meccanismi di riconoscimento di oggetti e non solo per le facce (Ungerleider & Mishkin, 1982). Breen et al. hanno adattato il modello principale di Bruce e Young, ad un’unica via cognitiva, e hanno aggiunto un modulo che includeva le risposte “affettive” per le facce familiari. In questo modello, le FRUs portavano simultaneamente e indipendentemente informazione all’interno dei PINs e del modulo affettivo. Breen et al. consideravano i processi di riconoscimento dei volti distribuito anatomicamente nelle strutture del lobo temporale ventrale, e con l’amigdala che è fortemente implicata nell’analisi dell’espressione facciale, in particolare per l’espressione della paura, (mentre l’insula sembra attivarsi di fronte ad espressioni di disgusto) come sistema di innesco per le risposte affettive per le facce familiari. Basandosi su questa struttura quindi dettero una spiegazione riguardo la differenza tra i pazienti prosopagnosici e quelli affetti dalla sindrome di Capgras, sostenendo che la prosopagnosia può essere causata da un deficit nella connessione tra le unità di riconoscimento di facce (FRUs) e i nodi di identità personale (PINs). Mentre nella sindrome di Capgras il deficit si trova sia all’interno del modulo affettivo, che nella connessione tra le unità di riconoscimento di facce (FRUs) e il modulo affettivo. I punti fondamentali del modello di Breen et al. (2000) riguardano il riconoscimento di facce come risultato di un matching tra la rappresentazione strutturale di un volto presentato e la sua rappresentazione memorizzata al livello delle Unità di riconoscimento di facce (FRUs). Altro punto importante del modello è che le FRUs si attivano in contemporanea ma in maniera indipendente per quanto riguarda la via cognitiva e la via affettiva. La via affettiva è collegata ad un modulo che associa le risposte affettive con gli stimoli familiari. La via cognitiva è collegata ai nodi di identità personale (PINs), attiva l’informazione semantica, e sostiene il recupero del nome. Ecco perché secondo queste teorie una eventuale anomalia nella via cognitiva potrebbe causare un deficit di riconoscimento delle facce esplicito che aiuterebbe a spiegare la prosopagnosia. Mentre una eventuale anomalia nella via affettiva potrebbe causare una perdita di risposte SCR in maniera differenziata per gli stimoli familiari e per quelli non familiari come avviene anche nella sindrome di Capgras.

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Fig.: Adattamento dei modelli a doppia-via di riconoscimento di facce proposti da Breen et al. (2000). Tutti i modelli di riconoscimento di facce che cercano di spiegare sindromi come la prosopagnosia, la sindrome di Capgras e tentano di trovare le differenze tra il riconoscimento esplicito ed implicito delle facce, sono considerati modelli a due vie di riconoscimento, con una via deputata all’elaborazione cognitiva ed una via deputata all’elaborazione affettiva (Bauer, 1984; Breen et al., 2000; Ellis & Lewis, 2001; Ellis & Young, 1990; Ellis et al., 1997). Analizzando l’elaborazione nei soggetti normali, il modello di Breen propone l’esistenza di una relazione tra la familiarità della faccia e la forza della risposta. Ovvero gli studiosi ipotizzavano che la risposta affettiva aumentasse in base al grado di familiarità della faccia mostrata. Già altre ricerche in precedenza avevano messo in evidenza questa relazione nella via affettiva. Infatti, in studi di neuropsicologia con pazienti prosopagnosici, le SCRs risultavano più evidenti se venivano presentate facce di personaggi famosi piuttosto che facce di persone sconosciute (Tranel & Damasio, 1985; Tranel, Fowles & Damasio, 1985) o facce di familiari stretti piuttosto che facce famose (Tranel & Damasio, 1995). Quindi, in base a questi risultati e in base ai modelli a doppia-via sopra esposti, ci sarebbe da aspettarsi un aumento delle SCRs correlato alla familiarità della faccia nel caso di confronto tra presentazione di facce non familiari, facce famose e facce appartenenti a 9


familiari stretti. Allo stesso modo è stato ipotizzato che la familiarità di una faccia migliorasse i processi cognitivi che sottendono il riconoscimento di questo stimolo. Ciò è stato poi confermato studiando alcuni processi di riconoscimento come il priming, l’interferenza, gli effetti di matching e la velocità di associazione del nome alla faccia, in vari confronti tra presentazione di facce di persone famose e di facce sconosciute (Bruce & Young 1986; Ellis, Lewis, Moselhy & Young, 2000; Pfutze, Sommer & Schweinberger, 2002). E’ stato visto come il priming di ripetizione per le facce faciliti il compito di riconoscimento per la faccia elaborata in precedenza, utilizzando misure comportamentali, quali i tempi di reazione, ed elettrofisiologiche (Bruce & Young, 1986). Sembra che la decisione sulla familiarità della faccia presentata, venga elaborata a livello del (PIN) nodo di identità personale (Burton, Bruce & Hancock, 1999). Il priming nell’identificazione di una faccia può indurre facilitazione in diverse stadi della via cognitiva. Un priming a lungo termine sembra che sia prodotto dal consolidamento delle connessioni tra le Unità di Riconoscimento di Facce e i Nodi di Identità Personali. Altri studi hanno evidenziato un effetto di priming più consistente nel caso di presentazione di facce famose piuttosto che di facce sconosciute (Bruce & Valentine, 1985; Ellis et al., 2000; Pfutze et al., 2002), mentre gli effetti di priming per facce strettamente familiari non sono stati studiati. Il ruolo delle frequenze spaziali è stato da sempre oggetto di studio nella ricerca sui meccanismi che consentono la percezione e il riconoscimento dei volti. A questo proposito sono stati impiegati reticoli e scacchiere, in particolare nelle ricerche sui deficit nell’elaborazione primaria dell’informazione visiva dovuti a lesioni cerebrali (Hannay, 1986). I reticoli sono variazioni periodiche della luminanza nello spazio: barre chiare e scure che si alternano in modo regolare. Il numero di barre contenute in un reticolo può variare, consentendo di studiare le proprietà del sistema visivo durante l’analisi della frequenza spaziale (numero di cicli in un grado di angolo visivo). I reticoli possono essere stazionari o presentati facendo variare periodicamente nel tempo la dislocazione spaziale delle barre chiare e scure (la barra chiara diventa scura e viceversa). La frequenza temporale con cui si alternano le barre è anch’essa una dimensione importante dello stimolo visivo. Infine la differenza di luminanza tra le barre è anch’essa un’altra proprietà basilare analizzata dal sistema visivo: propriamente il contrasto è definito come la differenza tra il valore massimo di luminanza di una barra e il valore minimo dell’altra, divisa per la somma delle due luminanze. Da tener presente che Ginsburg (1980) creò la dimensione “fw” (face width) come componente di frequenza spaziale di una faccia, in modo tale che nello studio delle facce con le frequenze spaziali, la frequenza spaziale viene espressa in termini di cicli per “face width” (cycles fw‫־‬¹). La sensibilità al contrasto è il reciproco della soglia di K, cioè il valore minimo di contrasto al quale è percepibile un reticolo di una specifica frequenza. In soggetti adulti normali la relazione della sensibilità al contrasto con la frequenza spaziale assume la forma di una U rovesciata: a frequenze spaziali intermedie (3-5 cicli/grado) la sensibilità è maggiore che per le frequenze più basse o più alte. E i risultati di studi con l’utilizzo di facce filtrate (Fiorentini, Maffei, Sandini, 1983), hanno mostrato che il riconoscimento delle facce è più accurato se l’informazione è contenuta in un range di frequenze spaziali che va da 5 c/fw a 15 c/fw. I reticoli sono molto adatti a valutare l’integrità dei processi visivi di base (Spinelli & Zoccolotti, 1992). Ad esempio le molte ricerche hanno dimostrato che nei casi di lesione cerebrale vi possono 10


essere perdite selettive della sensibilità al contrasto per ristrette bande di frequenza spaziale, sebbene le conseguenze di questi deficit al livello dell’elaborazione di informazione visiva più complessa non siano ancora chiare. Inoltre non è stata finora accertata una relazione tra la sede della lesione cerebrale e la gamma di frequenze spaziali per le quali vi è una perdita selettiva di sensibilità (Bodis -Wollner & Diamond, 1976; Hess et al., 1990; Mecacci, 1993). Le scacchiere, come i reticoli, sono state usate in ricerche elettrofisiologiche per accertare l’integrità dei processi visivi di base in sindromi neuropsicologiche (Vallar, 1991; Viggiano et al., 1995) e in funzione della sede ed estensione della lesione (Halliday, 1993). Alcune ricerche neurofisiologiche, invece, hanno mostrato che ci sono cellule nel nucleo genicolato laterale, nella corteccia visiva del gatto e nella corteccia striata dei macachi, (De Valois, Albrecht & Thorell, 1982) che sono sensibili a specifiche bande di frequenza spaziale. Pollen, Nagler, Daugman, Kronauer e Cavanagh (1984) osservarono che cellule inferotemporali nella scimmia erano selettivamente sensibili ad una ben precisa banda di frequenza spaziale. Negli uomini, Harvey, Roberts, e Gervais (1983) testarono tre modelli di percezione visiva con un compito di identificazione e matching di lettere e scene di montagne. Gli autori trovarono che il compito di identificazione delle scene di montagna era descritto meglio dal modello dell’analisi delle frequenze spaziali. Tutti questi dati supportano l’ipotesi dell’esistenza nell’uomo di in un meccanismo neurale di visione che filtra le informazioni contenute in una scena visiva in separate bande di frequenze spaziali. A questo punto si è reso necessario verificare se alcune bande di frequenze spaziali siano più rilevanti di altre nel riconoscimento di forme e di facce. Diversi studi a riguardo suggeriscono che il riconoscimento di immagini rappresentanti una faccia, dipenda solo da una limitata banda di frequenze spaziali. Interessanti i risultati provenienti da processi di filtraggio di varie categorie di stimoli, ed in particolar modo le facce, che hanno mostrato come le frequenze spaziali basse possano essere sufficienti per il riconoscimento delle stesse mentre le frequenze spaziali alte risultano ridondanti (Fiorentini, Maffei & Sandini, 1983). Evidenze a sostegno di questi dati vengono portate anche dalle ricerche di De Schonen e Mancini (1995) che hanno studiato la precocità del fenomeno del riconoscimento di facce nei neonati, cercando di capire quali siano gli stadi dello sviluppo della specializzazione nel riconoscimento di questo stimolo fondamentali per loro. Secondo questi studi, tenendo presente che nei bambini ci sono diversi ritmi di maturazione in diverse aree della corteccia, una tendenza dei neonati a seguire le facce nel loro ambiente familiare e un graduale incremento nell’acuità visiva a seguito di un normale sviluppo del bambino, i neonati comincerebbero a formare delle rappresentazioni configurali delle facce molto presto basandosi principalmente sull’informazione proveniente dalle basse frequenze spaziali dello stimolo faccia. Molti altri ricercatori hanno studiato il riconoscimento di facce e di altre forme in termini di frequenze spaziali facendo ricerche sull’ipotesi di un’asimmetria emisferica nell’elaborazione di informazioni provenienti da frequenze spaziali basse piuttosto che alte. J. Sergent (1982) ha ipotizzato che l’emisfero destro possa avere un ruolo più importante nell’analisi di forme e facce, basandosi sulle frequenze spaziali basse; al contrario l’emisfero sinistro elaborerebbe in maniera più efficace le frequenze spaziali alte. La questione è venuta fuori dopo che era stato osservato in maniera sperimentale che vi erano differenze a livello funzionale nell’elaborazione dell’informazione da parte dei due emisferi cerebrali. Sergent, in un suo studio sul riconoscimento di facce, constatò che quando veniva ridotto il tempo di presentazione dello 11


stimolo, l’emisfero destro risultava avvantaggiato nel compito. Venne allora ipotizzato che la disparità emisferica fosse connotata al livello di elaborazione: l’asimmetria emisferica risultava solo ai livelli più alti dell’elaborazione (livelli prettamente cognitivi), mentre ai livelli più bassi si mostrava un’equipotenza dei due emisferi (livelli percettivi). In un altro dei suoi studi, Sergent (1985) presentò 16 fotografie di facce familiari, mostrando ciascuna faccia sia nel campo visivo sinistro che nel campo visivo destro. In una condizione, i soggetti dovevano giudicare il sesso delle persone rappresentate (compito di “genere”). Nell’altra condizione, i soggetti dovevano identificare la persona mostrata nella fotografia. I risultati del compito di genere mostrava un vantaggio per il campo visivo sinistro e quella per il compito di identificazione un vantaggio per il campo visivo destro. Per la Sergent questa inversione rifletteva il fatto che l’informazione critica per la performance di ogni compito era contenuta in differenti porzioni dello spettro delle frequenze. Determinare se il genere di una persona potrebbe essere fatto tramite l’informazione proveniente dalle frequenze spaziali basse. Questa ipotesi venne testata in un secondo esperimento, usando le stesse fotografie, ma rimuovendo l’informazione delle frequenze spaziali alte. Questa manipolazione ebbe un piccolo effetto sul compito maschio-femmina ma un effetto deleterio per il compito di identificazione. Questi risultati possono essere interpretati considerando che venivano richiesti due modi diversi di elaborare l’informazione, uno analitico e l’altro olistico. L’ipotesi delle frequenze spaziali asserisce che la modalità di elaborazione sia inalterato.

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