Un'Altra Storia Magazine Numero 4

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Buone pratiche

“Il mio laboratorio musicale nella discarica sociale di un Opg” ORAZIO CARNAZZO volontario presso l’Opg di Barcellona Pozzo di Gotto ENTE ANIMO CAPTIS. DAMNATIS LEGIBUS AEQUE. APTA DOMUS, MAGNA HAEC. STUDIOSA CONSULTI ARTE. La scritta in latino posta in alto, nella parete frontale davanti al secondo cancello dell’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Barcellona P. G. separa il cosiddetto mondo normale dalla follia e sembra voglia lanciare un monito: “Quelli che vivono qua dentro sono i dannati, lo scarto, quelli che la società non vuole vedere in circolazione”. Per me quella scritta ha sempre avuto questo significato. I cancelli, spingono i visitatori a non farsi troppe domande, da quel momento è inutile chiedersi se chi li ha oltrepassato come malato di mente o come detenuto, possa avere avuto una vita, degli affetti, delle storie, un passato. “Chi vive qui dentro non esiste”. Qualche anno fa fui invitato a suonare per gli internati dell’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Barcellazzo, conobbi così una realtà fino ad allora per me sconosciuta. Ci ritornai per mia iniziativa qualche giorno dopo. Chiesi le autorizzazioni necessarie e ci ritornai ancora. Entrare non è facile, bisogna superare prima di tutto la diffidenza della guardia: “Avete telefonini? Per piacere metteteli nel cassetto”, una smorfia tradiva i suoi pensieri “chi cazzo glielo fa fare a questi di venire qua?” Si dice che la mente

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umana sia un pelo di capello e questa porta è il pelo di capello oltre il quale finisce la ragione e inizia la follia. Ho fatto il volontario all'interno di questa struttura per quasi dieci anni e ogni volta la sensazione era come la prima volta, entravo verso le ore 18, l’ora della socializzazione, quella che una volta era chiamata ora d’aria e uscivo alle 20. Con la collaborazione di alcuni internati avevamo costituito un laboratorio musicale, la Direzione ci aveva assegnato la stanza destinata alle attività ricreative dell'ARCI e ci incontravamo due volte la settimana. L'entusiasmo era notevole e svolgeva senza volerlo un’attività terapeutica, per tutti, anche per me, era una sensazione di rilassamento. Quando arrivavo mi dovevo sbrigare a recuperare gli altri, non tutti erano a spasso nello spiazzale alberato, alcuni li dovevo cercare nelle celle/stanze

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perché c’era chi stava attraversando particolari momenti di depressione e voleva rimanere da solo. C'era chi era stato imbottito di psicofarmaci e non aveva la forza per stare in piedi. Lo spazio che ci separava dal reparto sembrava la piazza di un piccolo paese in un giorno di festa: la folla, gli alberi di arance, i portici, il chiosco con le bibite, il caffè gestito dagli stessi internati e i sedili di ferro. Lo stato di salute mentale di quelle persone si percepiva d’istinto. Per loro parlava il loro sguardo, si vedeva a prima vista. L’espressione, il modo di vestire, il modo di camminare, il modo di guardarti, il modo di salutarti. Li vedevi dondolare avanti e indietro a piccoli gruppi, alcuni molto velocemente, altri seduti nelle panchine di ferro. Questo posto è l’altra faccia della medaglia, un posto dimenticato, un carcere ma anche un ospedale. Né carne e maggio • 2011 • N.4


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