Ottavine montanare (seconda edizione)

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A cura di

Benedetto Valdesalici

OTTAVINE MONTANARE Le radici cantate della poesia montanara del ‘900



RADICE TOSCA ed ESTRO EMILIANO Storia della nostra ottavina. Da qualche tempo mi scopro ogni tanto rincorrere un desiderio che a prima vista appare poco sensato, ma siccome mi rincorre lui, come un astratto furore di Vittoriniana memoria, non c’è verso di evitarlo. Vuole ch’io rifletta sulle radici cantate della poesia montanara del primo novecento: del canto lirico monostrofico, dell’ottava narrativa, dello stornello, dello strambotto, del mottetto, della villotta o del mutu come dir si voglia, di quella struttura poetica che ci dice che siamo nel quadro della poesia popolare neolatina, medioevale ( trovatori e trovieri, cantastorie e saltinpanca) e qui da noi in montagna, si sa, il medioevo é finito solo col sorgere del secolo breve, il 900. Ma partiamo dall'inizio e l'inizio è la nascita della lingua italiana dal coltivo dei dialetti (si pensi alla poesia siciliana della corte Federico II) ed in particolare del volgare. Primo tra tutti, almeno in quanto a documenti scritti, il volgare Umbro di Francesco d'Assisi (la Lauda creaturarum o Cantico delle creature è la prima ottava scritta in italiano a cui segue il Laudario di Jacopo da Todi detto Jacopone). Poi l'esplosione dei Misteri e delle Sacre Rappresentazioni nel toscano di Dante ed infine il nostro Maggio cantato nell'italiano del Petrarca mentre l’ottava entrava nella poesia colta con Boccaccio. Siamo intorno al 1500 e a quel tempo alla corte del Portogallo (potenza marinara di primordine: detiene le Indie, buona parte dell'Africa ed ora anche le Americhe) entra attraverso la Chanson de Gestes, il mito del re dalla barba fiorita ch'era già in Spagna, e con lui gli Autos1. Regionalismo, pluralità di linguaggi, intenso scambio culturale: le chiavi di volta dell'Europa moderna erano già presenti nel Medioevo. 1

auto (spagnolo, atto, azione teatrale in un atto), dramma, quasi sempre di argomento religioso,tipico delle letterature spagnola e portoghese, fiorito nel XVI sec. Sono detti autos viejos i primi, ben distinti dai successivi autos sacramentales, la cui rappresentazione avveniva in piazza, a mezzogiorno, alla presenza del re e di tutto il popolo. Pedro Calderón de la Barca Autos sacramentales, ed. by P. Pando Mier, 6 vols., Madrid, 1717;


L’ottava umbra (laudi, cantari, misteri e sacre rappresentazioni) l’ottava sicula (ABABCCDD) l’ottava tosca (ABABABCD) o narrativa o poetica (aurea o Ariostea). VILLOTTA friulana MUTU sardo COPLA o VILLANCICO iberico DOIMA rumena MANI turco DAINA baltica SCHNADERHUPFL tedesco KAR_JAT arabo CONTRASTO duello verbale cantato AMBASCIATA RISPETTO forma di saluto CIMENTO

Tommaseo che ci fornisce anche una testimonianza preziosa su come questi montanari arrivano alla conoscenza dei grandi poemi, come il “contadino del Melo che sa pure a mente le ottave del Tasso e i versi contro i francesi, e altre cosucciacce stampate”. Il riferimento è ai fogli volanti di cui ci parlerà un giornalista pistoiese, Giuseppe Arcangeli, che si trovano presso tutti i venditori ambulanti, “i panieri dei merciai, che vanno pei castelli e per le borgate… a vendere le indiane e le mussoline e i fisciù di tutti i colori… in quei panieri accanto alle stringhe, ai bottoni da camicia… trova un posto onorato la letteratura del basso popolo…” della quale i poveri montanari fanno tesoro. Biblio D’Ancona in Poesia popolare Italiana (1878) Lo strambotto siculo diventa l’ottava Tosca Paolo Toschi Guida allo studio delle tradizioni popolari 1962 G.Micheli in La Valle dei cavalieri “Saggio di poesie contadinesche”


INDICE Le radici tosche: i poeti bernescanti 

Contrasto tra l’aristocratico e la plebea sulla guerra di Tripoli  Dialogo tra contadino e fiorentino  Contrasto tra un povero e un ricco borghese  Contrasto tra Damiano e il prete  Contrasto dei prezzi

Pascolar versi I POETI PASTORI TRANSUMANTI APPENNINICI La poetessa pastora Beatrice (Bugelli) di Pian degli Ontani Abetone (PS) (1802-1885)  

Silvio Leoncelli (pastore) 

Rispetto Cimento

Nismozza di Busana (RE) (1900-1980)

Viaggio da qui alla Maremma toscana degli antichi pastori  Alle mie pecorelle  Rime di nostalgia  Frammento

Umberto Raffaelli (pastore) Vaglie di Ligonchio (RE)  Viaggio in Toscana  Guerra mondiale

Zelante Tronconi Cerreto Alpi 

Contrasto tra un pastore cerretano e un boscaiolo Sassalbino Andrea Briselli 

Succiso di Ramiseto

Brevi appunti di un soldato

Ottave e caccia Remigio Fontana (falegname) Cervarolo di Villa Minozzo (RE) 1873 - 1944 Giacomo Alberghi (contadino) Cervarolo di Villa Minozzo (RE) 1875 – 1944


Il Vate di Le Vaglie Amilcare Veggetti (Merciaio ambulante) Vaglie di Ligonchio (RE) 1889-1986 

Vera Storia ovvero le atrocità compiute dai nazifascisti

Flaminio Bonicelli (Contadino) Costabona 1874 – 1965 

Viaggio a Roma

Ottave e mailart Domenico Notari (Muratore) Marmoreto di Busana (RE) 1895 – 1983 

Ottave per la festa di Maria Maddalena 1949 e 1950

Ultimio Fontana (falegname) Cervarolo di Villa Minozzo 1908 – 1996 

A Domenico Notari Marmoreto  Varie ottave

Ottave di migranti Marco Torri

Succiso di Ramiseto 1891-1978 

Mia cara moglie 1932 Parigi

Lino Casanova  Nello Felici

Cinquecerri di Ligonchio (RE)

La nostra montagna non canta più Gazzano di Villa minozzo 1909 – 1979 

Costantino Zambonini

Di qua e di là

Asta di Villa Minozzo (RE) 1919 – 2011

Miscellanea di ricordi

Berto Bernardini 

Pavana (Pt)

La guerra di Berto


Le radici tosche: i poeti bernescanti


Contrasto tra l'aristocratica e la plebea sulla guerra di Tripoli Plebea: Da piccola bambina io ave' 'mparato che c'era un solo Dio che ci comanda, ora si vede il mondo s'è cambiato perché si trova un Dio per ogni landa. Così rimane il popolo ingannato dalla vostra fallace propaganda: mentre Dio ci descriveva: «Non ammazzare», oggi vediam le gente macellare. Aristocratica: È sempre costumato guerreggiare e in oggi ce lo impone più che mai, chi per voler le terre conquistare e chi per dar lavoro agli operai. Intanto quei malvagi, piano piano, un po' di educazione la impareranno, tralasceranno i rei costumi suoi, diverranno educati come noi. Plebea: Dici che civilizzare tu li vòi, pagherei a sapere come farai: fammi i' piacere e dimmi come fai agli altri regala ciò che non hai. Prima di tutto civilizza i tuoi, perché se una statistica tu fai troverai tra gli italici abitanti il settanta per cento d'ignoranti. Aristocratica: Questo tu l'avrai letto sull'Avanti giornale socialista e temerario; essere nun ci poi che lui fra tanti all'impresa di Tripoli contrario. Mentre gli altri giornali, tutti quanti, rammentano d'un caso straordinario: giornali fatti da' nazionalisti, e l'Avanti lo fanno i socialisti. Plebea: Chi ama la guerra sono òmini tristi, privi di scienza e di cuore cattivo; fossero stati invece i socialisti, il mio figlio sarebbe ancora vivo. La guerra è bella pe' capitalisti, perché ritrovan sempre il loro attivo: dalle imposte che tengono impiegate dicono sempre: Armiamoci ed andate.

Informazioni: Contrasto raccolto da C. Bueno a Stia, in Casentino, nel 1965, inf. Maria Ringressi.


Contrasto dei prezzi Operaio Se non lo riterrete fuori posto faremo adesso uso delle ottave quelle stesse del Tasso e dell'Ariosto per occuparci di un problema grave di un problema del quale ad ogni costo occorre che noi si trovi la chiave perché alla fine ci si raccapezzi sul perché della crescita dei prezzi. Padrone Lasciate parlar me che me ne intendo lasciate che vi spieghi a modo mio son io che produco e che poi vendo quindi sui prezzi io ne so un fottio se i prezzi ora registrano un crescendo chi lo decide non son mica io è un aumento che avviene pari pari man mano che s'aumentano i salari. Operaio Ma noi vogliamo conquistare aumenti dei soldi che stan nella busta paga proprio perché essi sono insufficienti per l'aumento dei prezzi che dilaga lottiamo per salari più decenti ogni volta l'aumento non ci appaga perché ogni volta tu te ne approfitti aumenti i prezzi e salvi i tuoi profitti. Padrone Il profitto non può venir proibito esso è la giusta remunerazione del capitale che è stato investito per creare lavoro e produzione alla fine dovreste aver capito dall'aumento dei prezzi una lezione che a pretendere troppo prima o poi danneggiate voi stessi più che noi. Operaio Si sa che voi padroni ci portate sempre e soltanto su questo terreno e non succede mai che ci spieghiate perché i salari crescon molto meno di quanto cresca il prezzo alle derrate bruciando i nostri aumenti come il fieno per cui i prezzi alla fine ce l'han vinta e a noi ci tocca stringere la cinta.


Padrone Ma io vi so spiegare pure questo la crescita dei prezzi s'arroventa perché mentre il salario cresce presto la produttività cresce più lenta l'aumento dell'offerta è allor modesta mentre di colpo la domanda aumenta la crescita dei prezzi è quindi certa se cresce la domanda e non l'offerta. Operaio Ma negli anni cinquanta lo si ammetta mentre i salari non crescevan niente la produttività cresceva in fretta e i prezzi crescevano ugualmente quella che crebbe allora fu la fetta riservata al padrone e al possidente fu allora che il profitto prese il vizio di voler aumentare a precipizio. Padrone Ti dirò che i profitti di cui parli son necessari all'accumulazione per poter investirli ed impegnarli in attrezzi di nuova concezione che promettono a chi sa utilizzarli costi più bassi nella produzione son queste nuove macchine ed attrezzi che possono ridurre proprio i prezzi. Operaio Però quando noi ci siam fatti avanti per conquistar salari più decenti per quel famoso vizio tutti quanti non avete più fatto investimenti ed invece di rimodernar gli impianti perché la produttività s'aumenti tutti quei soldi fatti in tal maniera voi li avete esportati oltre frontiera. Padrone Tu credi che noialtri siam contenti che i prezzi stian crescendo come fanno ma tutto questo non è vero un accidenti quando aumentano i prezzi è un grosso danno anche per noi che ai nostri dipendenti dobbiam crescere la paga che ora hanno e se non possiam crescerla abbastanza allora sono scioperi ad oltranza.


Operaio Non tentare col solito giochetto di passare per vittima innocente tu che sei responsabile diretto dell'aumento dei prezzi ricorrente so io che questo aumento ci ha l'effetto di crear qualche guaio contingente anche ai padroni che l'han provocato ma è sempre l'operaio ad esser fregato. Padrone Se voi non foste sempre ciechi e sordi risolver tutto diverrebbe un gioco se non chiedeste aumenti troppo ingordi e poi non scioperaste per un poco noi si potrebbe stipulare accordi con dei garanti scelti in alto loco che appena lo sviluppo ci dia i mezzi allora noi si calerebbe i prezzi. Operaio Ma noi sappiamo che il più elementare il più modesto dei miglioramenti ce lo siamo dovuti conquistare lottando con le unghie e con i denti se noi ci si lasciasse abbindolare da codeste promesse inconcludenti si lascerebbe a te tutto il potere di decider tu solo a tuo piacere. Coro operai E invece quando noi scendiamo in lotta per obbligarti a far quel che non vuoi la nostra vera linea di condotta non serve solo a migliorare noi bensì anche a far fare bancarotta al sistema che rende ricchi voi non ci bastan padroni un po' più buoni vogliam che non ci sian più padroni. Non ci bastan padroni un po' più buoni vogliam che non ci sian più padroni.

Fonte: Canzoniere delle Lame, Il prezzo del mondo, Edizioni dello Zodiaco, 1975


Contrasto tra Damiano e il prete Prete: O mio caritatevole Damiano, tu che sei stato sempre un uomo onesto, io ti conobbi un tempo lontano, sei sempre stato savio e modesto; ora ti vedo «L'unità» in mano ed io nessun parere te l'ho chiesto, però me l'hanno detto che sei in lista in testa del partito comunista. Damiano: Sì, lei l'ha indovinata a prima vista sor reverendo, lei non si è sbagliato; per me questa dottrina è umanista, mi pento prima 'unn'essermi segnato; il benessere che ognun di noi acquista il cancro della guerra sarà stirpato; così la vita è una soddisfazione , porta la pace in tutte le persone. Prete: Ma allora tu sei contro la religione, eppure della chiesa eri un devoto, ancora tu vuoi fare il mascalzone, al buio vuoi pescare nell'ignoto; ma io che te la insegno l'educazione voglio salvarti di cascar nel vuoto e se ti preme salvar la tua partita preparatelo il ben per la tua vita. Damiano: Sor reverendo, facciamola finita, non venga fuori con queste ragioni perché la società è costituita, si compone di servi e padroni; non me lo dica a me, che l'ho capita: i furbi sfruttan sempre i più minchioni e voi legate il ricco al poveretto perché succeda quanto abbiamo detto. Prete: Tu non conosci il nobile concetto della Lega cattolica, ed è strano; non vedi che cerchiam Dio benedetto che stenda il ricco al povero la mano, legarli insieme a un vincolo d'affetto ma santa cosa non c'è; suvvia Damiano, se tu parli così, mi fai sapere che la guerra fraterna è il tuo volere.


Damiano: Pievano, sono vecchie sicutere, pace giustizia affetto non saranno dove vi son delle sottane nere, dei ricchi e della gente che non l'hanno; come farebbe me lo fa sapere a due che interessi avversi fanno, fare del bene e che sia giocondo senza pregiudicarlo un po' il secondo. Prete: A una domanda io ti rispondo: il bene va fatto per bontà del cuore, il prenderlo per forza è un atto immondo ed è un violar la legge del Signore; voi pensate solo a questo mondo e non pensate mai che il corpo muore, l'anima nostra è sempre un varco aperto e per chi in vita gli ha tanto sofferto. Damiano: Ma se del ben dell'altro mondo è certo che si guadagna con le privazioni, perché non dorme lei a cielo aperto e non sta tutto il giorno in ginocchioni? Ma perché veste bene e sta coperto, tiene la serva e mangia dei capponi? Se in ciel si sale dopo gran soffrire lei che non soffre non ci può salire. Prete: Damiano, tu ti prendi troppo ardire, tu non devi guardar quel che fo io, al prete non si deve contraddire, che sulla terra simboleggia Dio; ma guarda un po', ti sembra un bell'agire passare avanti al mistero mio e farmi della critica allo staccio di tutto quel ch'io dico e quel che faccio? Damiano: Fino a che i preti tenderanno il laccio della superstizione agli incoscienti io dirò: come il sarto, un tanto al braccio, vendete voi le messe e i sacramenti; Gesù ve lo vestite da pagliaccio per dar nell'occhio ai poveri credenti e della chiesa sua fate bottega; io me ne infischio della vostra Lega.


Prete: Damiano, ti scomunico e rinnego, tu che rinnegasti il bene supremo esci dal quadro mio, tartara strega, ti maledico al vituperio eterno, vai domani con gli altri a far congrega giù nell'ultima gorgia dell'inferno, la mia maledizione sia feroce e forte, ti tenga male in vita e peggio in morte. Damiano: Per ora vado dalla mia consorte, dai cari figli e dai compagni miei; se a bussar Lucifero alle porte, se c'è giustizia, tocca prima a lei; se un giorno cambierà l'umana sorte finiranno gli anni santi e Giubilei, così ancora i preti, se vorranno mangiare, come noi lavoreranno. Morale: Colmo di ira e di infernale affanno, il pievan grasso come belva umana lasciò Damiano, che chiarì l'inganno di questa grave Democrazia Cristiana; e convinto che compreso avranno gli operai di tutta Italia e di Toscana, io penso che in un giorno non lontano tutti si debba far come Damiano.

Fonte: Settimelli Leoncarlo, Falavolti Laura, Canti satirici anticlericali, Roma, Savelli, 1976


Dialogo tra contadino e fiorentino

Poeta Mi trovai a Firenze per combinazione in una trattoria a desinare dove là c'erano molte persone e un po' ristretti ci convenne stare. Poi c'era due che nacque 'na quistione che più d'un'ora la fecer durare, erano due che mi stavano vicino, un di Firenze e un del Casentino. Fiorentino Come tu puzzi, disse i' Fiorentino Al campagnolo, e poi la testa china, Mi fai risortì fori i' pane e i' vino, i' lesso, la braciola e la tacchina. O porco sudicion d'un contadino tu se' più lordo te d'una latrina, Eppure l'acqua a casa ce l'avrai, villan fottuto non ti lavi mai! Contadino E te co' i' tu' stropicci cosa fai, con quell'acqua di crusca e saponetta e tutti quegli odori che ti dai dai fondamenti per infino in vetta? Presto la vita tua terminerai, non se' più bon di regger la giannetta, ti resta solo il fiato per parlare, dimmi cosa ti conta i' tu' lavare.


Fiorentino Se fossi la Giustizia vorre' fare de' contadini tutta 'na funata e po' a Livorno gli vorrei portare a i' porto dove giunge ogni fregata. Poi gli vorrei buttar dentro ni' mare pe' levar questa setta tribolata e buttar giù finché il mar non è pieno senza rimorso di coscienza al seno. Contadino Per pietà Fiorentino parla meno, lo vedo bene ch' ha' perso i' cervello, i' contadin che lavora i' terreno custodisce la pecora 'e l'agnello. Poi raccoglie frumento, paglia e fieno, costudisce la pecora e i' vitello, l'arte di' contàdin l'ha del talento, l'è bona a provvederti i' nutrimento. Fiorentino Coi contadini, io poi non mi cimento, i' contadino quando parla e becca, guarda che sudicione sotto al mento, in quei tre pel di barba cià una zecca. dà più fastidio che l'inverno i' vento, guardalo, con la lingua i' piatto lecca: a quella mensa ove mangiate voi ci mangiano maiali, vacche e buoi. Contadino Se e' contadini biasimar tu vuoi, sai dalla spina viene un be' rosaio, prendilo i' libro degli antichi eroi, troverai Giotto gli era un pecoraio, che pascolava gli animali suoi; senza dinanzi di Tizzone o Gaio prese una pietra ,e là sopra di quella e' vi dipinse sopra la sua agnella.


Fiorentino Senti qui' mammalucco a icché s'appella, a ragionar di Giotto 'un ti conviene, quello che fece lui fu opera bella, quello che fece lui sta tutto bene, quello che fece lui non si cancella, e unn' era un mammalucco come tene, te cosa ne ragioni, o montanaro, tu 'n sai nemmen dar bere a i' tu somaro. Contadino Certo io non so e non imparo, perché un somaro unn' è mi' compagnia, l'ho trovato oggidì pe' caso raro a desinare in questa trattoria. Oste la venga qua, prenda i' denaro, gli lascio i' posto libero e vo via, ché molte miglia ci ho da far di strada, do bere a i' ciuco e 'na mezzetta di biada. Fiorentino Villan fottuto contadino, bada, se avrò d'accordo gli altri Fiorentini, vi metterò alla porta con la spada, l'ingresso proibirò pe' contadini. E a finir vada come la vada, sian di pian, di poggio o d'Appennini, sian di colline, di coste o di valle, e' si rinserran tutti nelle stalle. Contadino Quando avrem pieni barili, sacchi e balle, ché ogni raccolto a noi tanto ci preme, e quelle pesche colorite e gialle, 'gni genere di frutta e d'ogni seme, que' presciutti, salami e quelle spalle fra noi villani mangeremo insieme; e noi mangerem polli e pollastre e tu a Firenze mangerai le lastre.


Contrasto tra un povero e un ricco borghese

Poeta Donatemi Signor, vostra assistenza, Che vana non sarà la mia speranza... Mi vedo attorno gradita udienza; Bramo cose trattare d'importanza; E sentirete la gran differenza Che passa dalla pace all'ignoranza, E poi vi aggiusterò cosa per cosa Dove il brutto pensiero alfin riposa. Ricco borghese Godo il Castello e la piÚ bella sposa E delle donne ne volessi un cento; Strappone, dove vai, vita penosa, E dove lo mettesti il tuo talento? Io godo il mirto e la vermiglia rosa... Son nel mezzo all'oro ed all'argento; E te vagabondando sempre vai Tra i sospiri, lamenti, affanni e guai.


Povero Signor, se per pietà mi ascolterai: Non è tua virtù; ma è caso fortuna; Quanto intravvien, non ti confessi mai Mentre il simile tuo, stenta e digiuna; E se uno sguardo al Cielo tu darai Sei contrario di quello e della luna... Lascia l'ostinazion, lascia l'oltraggio; Sappilo questo mondo, gli è un passaggio Ricco borghese Io godo le mie ville e l'equipaggio, E gusto tutto, le giornate intere... Quando sento de' poveri il linguaggio Mi fan venire il mal di miserere... Potess'io sterminarli di coraggio! Da nessun parte gli posso vedere; E quando io sento un povero venire Verso di me, mi pare di morire. Povero Tu mi palesi cose da stordire, Ricco balordo, privo di cervello, E tu non sai che tu devi morire, E condurti, come gli altri, nell'avello? La ricchezza mondana dee finire!... Per quanto s'è veduto a questo e quello, Se la Morte ti viene all'improvviso, Quanto lontano sei dal Paradiso! Ricco borghese Levati di costì, brutto di viso, Con l'infame tua persona vagabonda! Meriteresti te, di essere ucciso... Se un servisse la prima, la seconda. Lascia la quiete ad un Signor preciso, Che mangia e beve a tavola rotonda; Tutti gli avanzi che a pranzo mi rimane Piuttosto che darli a te, gli vo' dare al cane.


Povero Ma le massime tua le son profane, La carità l'è sacra, oggi s'intende... Perfino Iddio con le sue sante mane Te la ascrive alla gloria e te l'accende; Dammi un po' d'acqua ed un pezzo di pane, Che in tanto pane, palma Iddio ti rende; Se qualche carità tu la farai Nell'altro mondo la ritroverai. Ricco borghese Io de' consigli non ne volli mai; Giudice di me stesso sono stato... E se presto di qui non te ne vai, Ti farò carcerar per Dio sacrato!... Dimmi l'educazione dove tu l'hai? Dimmi in qual nazione tu se' nato? Se non parti di qui in sul momento, Ti fo sparir come la nebbia al vento. Povero Io me ne partirò, ma ti rammento Di tralasciar l'orrendo brutto vizio... La sorte in vita ti recò spavento, La via prepari del tuo precipizio. Non serve dopo morte il pentimento, L'opere fatte il giorno di giudizio! Ti lascio nelle pompe, feste e giochi, Ma uno sbiffe (1) tu sei mezzo a du' fochi.

1. Un legnetto


La morte del povero Settant'anni di vita non son pochi, Il pover passeggiò su questa terra: Sempre bramò il grande Dio gl'invochi L'alma scampar dalla fucina sferra. A morte venne, e i suoi respiri fiochi Gravosa malattia le membra afferra... All'altro mondo lo spirto si affaccia, Iddio v'era a aspettarlo sulle braccia. Viva, gli disse Iddio, buon pro ti faccia; Soffristi volentier digiuni e stento, Non curasti né pioggia, né minaccia... Qua padrone sarai d'ogni portento. E in un giardino ameno te lo intraccia. Le delizie a goder d'ogni contento. E lo mette nei posto dei beati Tra i Santi e i Serafini accompagnati. La morte del ricco borghese Il ricco avea gli occhi un po' appannati: Ed in circa anche lui di anni settanta Raddoppiando superbia, ira e peccati, Gravosa malattia, la febbre agguanta! Non volle comunion, preti, né frati; Di casa scacciò via fin l'acqua santa! Dalla gran pena gli batteva il cuore Si volta in là, fa una coreggia e muore. Lo spirito maligno del peccatore Arriva al fiume Stige, e qui mi sterno: Caronte della nave è il guidatore, L'unico barcarolo dell'inferno. Il ricco disse: Sai, io son Signore. - Cosa importa? Qua il danaro è scherno, Per cagion dell'infamia i tuoi peccati, E per avere i poveri strapazzati. Disse il ricco: Ove sono gli Avvocati? Chiamate qualchedun, voglio parlare... - Non c'è Signori, non c'è Magistrati! Chi è il capo di voi per ragionare? Venne Barabba con gli occhi infuocati: Il mantice a costui fece tirare. Nel cerchio lo calò degli armeggioni A far palette e temperar forconi.


La poetessa pastora

Beatrice di Pian degli Ontani Nel mondo tradizionale l’arte del cantare improvvisando ha consentito anche alle persone con scarsa scolarizzazione o agli analfabeti di esprimersi disegnandosi, nella comunità dove sono vissuti, un proprio spazio creativo riconoscibile e riconosciuto. Fra i poeti dell’ottocento troviamo la poetessa pastora Beatrice Bugelli (1803-1885) di Pian degli Ontani (PT) figura affascinante di improvvisatrice che, seppure completamente analfabeta, seppe caratterizzarsi con la propria vena poetica lasciando traccia di sé in diverse testimonianze d’epoca e nella memoria popolare dell’Appennino pistoiese. Niccolò Tommaseo, nella sua raccolta "Canti popolari toscani corsi illirici greci" (Venezia 1841), ci parla del suo incontro con la poetessa: "feci venire di Pian degli Ontani una Beatrice moglie di un pastore, che bada anch’essa alle pecore, che non sa leggere, ma che improvvisa ottave con facilità senza sgarar verso quasi mai". Oltre a Tommaseo molti studiosi e letterati ci parlano della Bugelli (Tigri, Giuliani, D’Ancona, Fucini, Francesca Alexander quest’ultima è un donna inglese, vissuta a Firenze, che ha pubblicato nel 1885: "Roadside songs of Tuscany"- in italiano è uscita una traduzione: "Storia del popolo, Beatrice Bugelli di Pian degli Ontani, Vol.I, Ontignano 1976).


RISPETTO Non vi maravigliate, giovinetti, S'io non sapessi troppo ben cantare; In casa mia non c'eran maestri, NÊ mica a scuola son ita ad imparare. Se volete saper dov'era la mia scuola, Su per i monti all'acqua alla gragnuola. E questo è stato il mio imparare, Vado per legna e torno a zappare.

CIMENTO Mi misi a fabbricar un bel castello, Credevo d'esser solo castellano. Quando che l'ebbi fabbricato e bello, Mi fur levate le chiavi di mano. Sopra alla porta han messo un cartello Che chi l'ha fabbricato stia lontano. Ed io meschino che lo fabbricai Con pianti e con dolor or lo lassai. Ed io meschino che l'ho fabbricato Con pianti e con dolor or l'ho lassato


I poeti pastori transumanti emiliani


LEONCELLI SILVIO Viaggio da qui alla Maremma Toscana degli antichi pastori Il quadernetto di poesia del pastore Silvio Leoncelli, da Nismozza (Busana), di cui si parla nella giornata Visita del Gorilla Quadrumàno a casa del pastore Silvio Leoncelli a Nismozza..., comprende altri due poemetti in ottava rima: Alle mie pecorelle, composto di 6 ottave; e Rime di nostalgia, composto di 5 ottave. La strofa quinta del poemetto Alle mie pecorelle è composta di soli 6 versi. Le note alla fine dei componimenti sono di Leoncelli. Le pecore di cui si parla nei due poemetti furono vendute nel 1962. Le ottave furono composte due anni dopo.

1 O musa cara ti vengo a chiamare Io mi rivolgo a te con tanti onori La storia in poesia voglio fare Sopra la professione dei pastori Quando dai monti venivano a calare Quando d’autunno tramantava i fiori Che a passo a passo venivano a fare Quando alla maremma dovevano tornare 2 Al mattino il sacco si veniva a fare La fodera si metteva allombrello Che sulla spalla ognuno deve portare con la bisaccia con dentro lagnello Che piccolino non puole camminare Altri sono caricati sopra lasinello Con quella soma bisognava andare Fino a Sillano e dopo il baraccio caricare 3 I greggi sincomincia a radunare Mischiando quelli dogni vergheria Ben lontani si sentivano belare Pareva un lamento di malinconia Addio ai cari monti venivo a dare Ognuno segue il suo gregge per la via Salendo sopra lalto pratorena Con gran fatica è rinnovata Iena


4 Poi a Sillano andremo a cena se da qualche ora si viene arrivare Gi첫 per le selve ognuno si dimena Perche alla strada non voliono stare Ce le castagne che danno la lena Al gregge che lo fanno camminare lasciando indietro i piccoli agnellini Che belano alle mamme poverini 5 Daltra parte c'era i garfagnini che si sentivano sempre brontolare Ci chiamano lombardi i malandrini Che le castagne mi fate mangiare Sicche fra quelli e i piccoli agnelli Che alla strada si dovevano portare Era una vita di tanti sudori Siamo a Sillano ormai siamo Signori 6 Caro Ceccardi ecco i vostri pastori Cercate dove il gregge rinserare Se si trovava una stalla erano fiori Le pi첫 volte fuori bisognava albergare Fate la cena per tanti pastori Ogni vergaio veniva a ordinare Era una minestra con tanti fagioli Senza tovalia e senza tovaglioli 7 Quella era una minestra da signori Il buon apetito faceva l'inchino Eppoi lo spezzatino veniva fuori specie quando moriva qualche agnellino Qualche fritella si tirava fori Con quelle cera tanto buono il vino Poi dopo cena sandava a dormire O dentro a un metato o sul fienile


8 Stanotte alle due bisogna partire Dicevano i più vecchi dei pastori La strada per piazza bisogna seguire a S. Romano saremo ai primi albori Lorologio che sta sul campanile Suonava i rintocchi più sonori Svelia ragazzi e lora di partire I nostri padri inviavano a dire 9 A ogni branco il cancello vanno aprire Urla e fischia il povero pastore Il fido cane il gregge sta a seguire Lungo la notte fredda in quelle ore Si arriva a piazza che volia di dormire Solo del serchio si sente il rumore E caminando tante miglie ancora Finalmente nel cielo spuntava laurora 10 A Castelnuovo nei dintorni finora Ognuno l'erba se lavà a cercare Il gregge sulla strada fa dimora Finche il vergaio non viene a tornare Poi in un prato ognuno le ristora Nelle bisaccie si viene a frugare Da quelle pane e formaggio si tira fora Quello è il pranzo che ognun ristora 11 Poi il fiasco del vino verrà fuori Quello e nel patto poi della pastura Era un vinello crudo che mi fa tremare ancora si cerca di far bassa la misura Non finisce mai ne resta ancora Si vede era acerba quella uva Non è capace di mettere armonia Fuori che delle pisciate e tiravia


12 Di Montepelpori si prende la via E molto dritta ci vole gli speroni Ognuno va con un po d'allegria Dicendo stasera andiamo dal Pieroni Quelli dal monte stanno a mezza via Loro fra tutti sono dei piÚ buoni L'oro per minestra non fanno la zuppa Ma fanno unabondante pastasciutta 13 Forza o gente mangiatela tutta La buona Rachele veniva a pregare Ma ce qualcuno che ormai si ringruppa il terzo piatto non lo può mangiare Ma ce sempre qualcuno nella truppa che pure al quarto non si fa pregare La buona cena e abondante vino faceva cantare benchera garfagnino 14 Quello per noi era un alloggio fino Quanta armonia ci si veniva a fare Poi si ripartiva presto al mattino Alla femina morta sandava a fermare La in mezzo alla via su quel ponticino La colazione si veniva a fare il bottegaio ciaspettava al mattino Prendeva il latte in baratto col vino 15 Verso il Borgo si segue il cammino La ci si andava almeno a desinare Ormai a Decimo siamo vicino Poi nella Ghiaia si andava a pascolare Veniva Manno un uomo un po' guercino O quanti siete veniva a domandare PerchÊ la massaia mette su i paioli Da questa sera li cuoce i fagioli


16 Che bella cena ci tirava fuori un po' dinzuppa senza condimento dopo un gran catino di fagioli quelli erano l'eterno tormento quando presto al mattino si sortiva fori del corpo ognun sentiva il movimento chi non era lesto a sciogliere i bottoni se la faceva dentro nei calzoni. 17 Eppure questi sono veri paragoni che nella storia voglio decifrare Ognuno si tirava su i calzoni Eppoi incominciava a camminare La verso lucca sopra nei piastroni A giorno ci si fermava a riposare un po ristorati con santa allegria Sandava albergo di Santamaria 18 Quella si che era una brutta via Quante carrozze cera da scansare Avanti e indietro su per quella via che almeno due volte bisognava fare Finalmente si arriva a Santa Maria La cena la verranno poi a portare Veniva fatta lassu alla Fattoria che di venir non trovavano mai la via 19 Dellapetito cera la nostalgia Quanti sbadigli bisognava fare Era calata a tutti l'armonia Ognuno senè stava a brontolare Ma ecco Tato in sieme alla Maria Che la gran cena vengono a portare Brodo di verdura insalata e pane E tutta roba che leva la fame


20 Poi alla paglia a riposar le brame del sonno che ristora la fatica Tutti amucchiati come tante rane Perche le coperte non c'erano mica Quando le trè suonava le campane E riposati un p0 dalla fatica Si riprendeva poi la via del monte che verso i bagni portava alevinponte 21 O quante volte di notte su quel monte Il tempo cominciava a burascare Sentivi l'accua calar dalla fronte Poi dentro alle scarpe la sentivi andare I lampi ti sfioravano la fronte Parea ti volessero accecare Quanti strapazzi e quanto dolore che sopportava il misero pastore 22 Quando nel cielo spuntavano l'aurore Alle porte di Pisa venivano arrivare Allora cominciava il dolore A dover quella città a traversare Cavalli e carrozze quanto rumore O quante volte c'era dascansare Accidenti a Pisa dalle torri pendente Era la dannazione della gente 23 Era una fortuna se non sucedeva niente O qualche agnello veniva a mancare Quella era la virtu di quella gente Che dentro Pisa stavano a Bitare Dei ladri là cistava la sorgente A occhi aperti bisogna stare Il ladro se ne stava bello bello Quando poteva fregare l'agnello.


24 Finalmente fuori di questo tranello La verso Arnaccio sandava afermare Si cercava tutti un fraticello per il suo greggio farlo pascolare A desinar la dentro allotello Un po'per volta si andava a mangiare Dopo mangiato ognun torna al suo gregge Come vuole quella antica legge 25 Ogni vergaio in tasca tien la legge dice o ragazzi e l'ora di partire Sulla strada ognuno mette il suo gregge Che verso il colle andremo a finire Ma questa notte dove si rimette il gregge che non cera assai posto per dormire I primi branchi vengano sistemati E gli altri in mezzo alla via sono restati 26 O che brutta nottata o disgraziati Sopra alla ghiaia dover riposare Il freddo i panni li rende ghiacciati Tutta la notte cera da tremare Sotto una carraia un po' ammucchiati un mezzo sonno si veniva a fare Ma poi il freddo era disperazione allora ai piedi si rimetteva lo sprone. 27 A forza di camminare viene le ore buone Il chiaro giorno torna a riscaldare Si andava a bere la brusca alle buonore Cosi ci si poteva riscaldare Uno per occhio si diceva al padrone che la a quel banco ci stava a guardare che ristoro ci da quel licuore Rimette l'allegria e il buonumore


28 Si varca le colline con l'aurore La dalla bice si veniva arrivar Lei sempre aspetta il misero pastore PerchĂŠ ci preparava il desinare Era una gabbriggiana di buoncuore che il suo interesse lo sapeva fare Ma dopo tutto teneva del buon vino che qualche volta ci faceva far l'inchino 29 Dinuovo si riprendeva il cammino Ora non si cammina tanto in fallo La pastaciutta e il bondante vino Quella e una biada che fa correre il cavallo Al malandrone ormai siamo vicino E questa sera lo faremo un ballo Dal Giusti ci aspettavan le ragazze che per ballar il valzer erano pazze 30 Riposti i bastoni con le mazze Tutti insieme sandava a cenare Anche se eravamo di cento razze Alla lunga tavola ci si veniva a stare Le bestie rinserrate nelle piazze Alla palia poi si andava a riposare Domani coraggio si arrivava al posto Andimo dai contadini a bere il mosto 31 Come difatti il capoccia composto Il capo vergaio andava a salutare Quando ogni cosa era messa al posto A cena con l'oro si faceva andare Il fiasco del vino non era nascosto PiĂš duna volta landava a colmare Diceva bevete sĂš o gente stanca Vedrete che il mio vino vi rinfranca


32 A quei tempi il fiasco costava una palanca Era quasi peccato non lo bere Quello da ogni fatica luomo rinfranca Dando tanta armonia e tanto piacere A volte poi mancava la palanca Allora l'accua bisognava bere Pareva una cosa quasi amara Quando non cera il vino sulla tortara 33 Voglio lasciare questa cosa amara al giorno doggi voglio ritornare vero che la vita oggi sarà più cara Ma a quella antica non la paragonare Quella maremma era tanto amara che sette mesi bisognava stare senza aver mai in tasca la merenda due volte al giorno solo la pulenda 34 Oggi e molto cambiata la leggenda Mezzi migliori si viene adoperare In un giorno si torna alla maremma Un altro basta poi per ritornare E finita quellorrida andare e vegna Sul camion ognuno le viene a caricare Se ritornassero i nostri Genitori Direbbero ma voi siete signori.

Leoncelli Silvio, Nismozza 22 Gennaio 1963 - questa è la storia dei Pastori quando si facevano i viaggi per andare in maremma con le pecore a piedi partendo da Nismozza a Bolgheri e Suvereto Piombino per la durata di 30 invernate, Leoncelli Silvio - va cantata tutta in ottava Rima questa è storia vera.


Alle mie pecorelle O caro gregge il tuo vecchio pastore purtroppo ti à dovuto abandonare per la vecchia ce una brutta legge Perché le forze vengano a mancare Ma perché Iddio che tutti ci protegge A ognuno il suò destino volle segnare Sento nel quor mio tanto dolore Piango il mio gregge senza il suo pastore 2 Io lo vendute con la pena al cuore Al camion io le venni accompagnare Io lo baciate col pianto nel cuore Da loro non mi potevo distaccare Si vede dalla passione non si more Tutto si deve sopportare O care pecorelle tanto amate La verso la Romagna siete andate 3 Sempre da mé sarete ricordate Di voi solo mi resta i campanelli Che facevano armonia sulle vallate La sul Ventasso e sopra gli alti avelli Quando la stavi a pascolar beate A bere andavi ai limpidi ruscelli Dove il bel rio nella valle in treccia Lassù nella piana della Vaccareccja 4 Addio a qui tempi tanto beati Bencherano di strapazzo e di sudore Ma il vivere allaria pura e da beati La vita sana e quella dei pastori Si respirava laria dei bei prati presto al mattino con le prime aurore Quando là in alto bisogna andare Le care pecorelle a radunare


5 O bel Ventasso addio ti vengo a dare Addio bei prati dalle piagge belle Sotto i bei faggi si veniva andare A quelle ombre a rinfrescar la pelle A quelle fonti poi si andava a bere Dopo mangiato o che grande piacere 6 Addio bei monti dallalte criniere che giù dal basso vi verrò a guardare Ormai e passato troppe primavere Le forze sento vengano a mancare Bisogna a mainare le Bandiere tutte le volle poi depositare Solo il ricordo rimarra nel cuore Del mio gregge che curai con tanto amore

Rime di nostalgia Musa dimmelo tu con quanta cura Ogni pastore cura il proprio gregge Prima le munge e dopo allerba pura con la sua verga in mano attento regge Passione data da madre natura Ognuno costudici e le protegge Non è per fare dei vanti o veri onori La prima professione fu quella dei pastori 2 O musa che tu porti tanti allori di quelle frode ti cinge la fronte Nel tuo bel canto cè tanti tesori di quelle ottave belle e sempre pronte Vaghi fra lerba fresca in mezzo ai fiori Scendi le nude valli e sali ai monti Imprimavera rispuntano le aurore Quando ai suoi monti tornerà il pastore


3 Risaliranno i greggi sul Ventasso che sentano come il pastore le sue brame Risaliranno lassù insieme alle viole di quelle Gialle che stanno alle lame Fioriscono quando apparisce il sole che la rugiada gli viene asciugare Tornano i greggi con i campanelli arisvegliar le valli e gli alti avelli 4 Salgano pascolando gli alti piani finché alla cima vengono afinire Passano la notte in quei divani finché il bel sole non viene apparire girando dove lombra tiene i vani poi sulle selle vengono apparire al mattino sul monte arrivano i pastori In sieme ai fini cani paratori 5 Si mettono a sedere in mezzo ai Fiori che nel bel verde la stanno a brillare Fanno riposo lassù tutti i pastori I campanelli li stanno ascoltare Chi prende per le piagge e chi al montale che verso la Bocchetta deve andare chi sale sul Ventasso e su le selle Aradunar le sue pecorelle

Leoncelli Silvio Questa e stato la vita di un pastore affezionato al proprio gregge. Nismozza il 23-1-1964 –


7 Povero Silvio come stai male Non senti più del gregge l'armonia Neppure i versi non li sai trovare della tua tanto amata poesia Vorrei con i miei versi immortalare Ma Sento mi opprime la malinconia Più non la sento l'armonia di quelli Della mia Bronza e dei miei campanelli 8 Solo il ricordo mi resta di quelli Li tengo per riccordo in casa mia Vorrei portarli la su nei bei prati Attaccarli lassù come scaramagia Sopra a quei faggi tanto belli Movendoli il vento farebbero armonia Così in eterno sentirli suonare Dove il mio gregge andava a pascolare

22 Gennaio 1964 Leoncelli Silvio Nato 22-3-1900


UMBERTO RAFFAELLI

VIAGGIO IN TOSCANA 1 Il due novembre fei partenza la strada presi per Ospitaletto col gregge mio e la rimanenza abbandonai di Vaglie il patrio tetto. Salii sul Prato Rena pien di speranza i confini dell'Emilia il parapetto l'aria toscana respirai pian piano passai dalle Capanne e andai a Sillano. 2 Ma ben che dai confini ero lontano di riposarsi ognun fino al mattino alle due mi svegliai: il tempo sano e si di nuovo mi messi in cammino. Alla Garfagnana gli stesi la mano Piazza trovai e poi San Donninò Camporgiano sui Poggio gli venni a trovare a Castelnovo andiedi a desinare. 3 Sul monte Pel andiedi poi alloggiare partir dovetti prima dell'albore. Su a Gallicano ne vensi a calare: ecco di Garfagnana tocco il cuore. E Bolognana ancor senza indugiare paese che ne stai in mezz'al rumore tra il Serchio qui vicin un grosso fossone in terza casa andiedi in conclusione.


4 Alla Femminamorta là fei colazione e poi le gambe le rimisi in lana costeggiando del Serchio il muraglione al ponte giunsi della Maddalena. Eccolo la il borgo: un grosso paesone a mangiar mi fermai ma non a cena a Diecimo n'andiedi con gran fretta all'albergo antichissimo Poletta. 5 Passa la notte come una saetta che non ti puoi nemmeno riposare la Via di Sesto la presi diretta Ponte a Moriano ancor senza indugiare Sempre di notte non dico burletta il gran sonno ci viene a tormentare sui mucchi di ghiaia noi si scapucciava ma sempre di notte a Lucca si arrivava. 7 Le bestie come noi si riposava un par d'orette e si fè colazione e poi dietro le mura si marciava un dietro l'altro come processione Con me nel viaggio si trovava Didimo, Ulisse, Sisto e compagnoni siamo quattro vagliesi in compagnia passo passo si va a Santa Maria. 8 Si cena tutti quanti in armonia ognun lo porta giusto il paragone contenti siamo, siamo a mezza via sull'invernata si fa discussione. Chi diceva dell'erba ce ne sia se non c'è piovuto a tempo è un lavorone stanchi ne siamo e non si può più stare sulla paglia ne andremo a riposare.


9 Sempre di notte si viene a varcare il monte che divide la Toscana la Lucchesia si viene abbandonare il piè si mette nell'area pisana. Di qua in cima si vede luccicare i fanal di Livorno in quella piana si scende il monte e si cala pian piano eccoci giunti ai bagni San Giuliano 10 Ormai il piede s'è messo nel piano di platani qual nido uno stradone c'interniamo giù giù nel suol Toscano che dell'Italia lui ne fu campione. Spogliati i campi li vedo dal grano uva non ce n'è più nè formentone nè dietro le strade e nemmeno nell'interno qui si conosce che viene l'interno. 11 Di seguito il cammino per noi interno che vincer si potrebbe in lotteria seguitiamo lo stradon che gli è in eterno e solo le stelle ci fan compagnia. Ecco le mura: che gli antichi temo che il Dante il se le mise in poesia rischiara l'alba e si vede la torre questo l'è Pisa che l'anno ci corre. 12 Noi ci fermiamo un pochettin a discorre poi la mano ci stringiamo in fretta convien la compagnia ora disciorre chi va a Livorno e chi va a la Torretta. Convien la strada mia ora disporre se la pazienza tua ancora l'accetta sul ponte d'Arno ci passai coi piedi e a fermarmi a S. Pietro laggiù andiedi.


13 Egl'era mezzogiorno se ci credi l'ora prescritta sai dell'appetito davanti a un tavolin allora ti siedi Appen che la padrona tu hai scolpito non guardi se gli è bella oppure brutta porti la pasta in brodo oppure asciutta. 14 Ormai la strada ti descrivo tutta di Tombo lo stradon prendo reale acqua non trovi ma nemmeno frutta e senza bere si viaggia male. Si faccia la serata la si brutta per alloggiarmi il prego mio non vale passai da Stagno col pensiero adorno fermai a una casa vicin a Livorno. 15 Ecco del mio cammin l'ultimo giorno l'ultima tappa la posso chiamare la città la girai tutta d'intorno a Lentignano ne andiedi a sbucare Da Vaglie a Lantignano sei giorni fumo e sempre a piedi dover camminare dietro il mar ne passeggio e il bell'arcano eccoci giunti qui in Campolesciano 16 Il viaggio 'a posso dir che non fu strano nemmen la posizion dove risiedo in collina io sto non è in piano e col mio occhio alla distanza vedo sopra l'acqua del mar stendo la mano che sia l'isola in mar anch'io ci credo batte l'onda lo scoglio e sulle mura questi son posti da villeggiatura. (1923)


Guerra Mondiale

Publico ascolta quel che ti descrivo Sulla mia gioventù il primo fiore Ascolta bene questo glie il motivo Anche alle belve chreperebbe il cuore Anch'io che di forse sono privo Trovandomi nei pianti e nel dolore Ora di guerra vi farò i suoi piani Dei tedeschi Austriaci e Itagliani. 2 Sentite i versi miei non sono vani Giornalmente lo provo con dolore Che noi siamo trattati come i cani In servizio noi siamo a tutte l'ore Considerate voi se sono umani Lasiar la vita nell' età del fiore Dal giorno in cui fui richiamato Sempre alla mala vita sono stato. 3 Come le bestie ho sempre riposato A lumido terreno e alla foresta Contro il detto nemico ò guerreggiato Verso le cinque incomincio la festa Il diciassette giugno ebbi marciato Tutta la notte o poi la presa e questa Se il diciotto un si scappa dalle selle Ma mi ero visto di lasiar la pelle. 4 Oddio che dall'alto tron che sei alle stelle Ma in quel momento tu ciai benpensato Il tempo si cambio che in tutte quelle Parti ci venne si un fitto nebbiato Che brutte conseguenze furon quelle Che ci veniva il foco accalierato Credete a me che gliera una babelle Eravamo spersi come pecorelle.


5 Credete miei uditor si non sonno Lascio considerare a chi ce stato Giornate un vi saran piucome quanno Perché tutti alla fuga si fum dato Tutti a cariera per salvar la pelle Chi potiede fuggire se salvato Anche per noi propizio gliera il vento In mezora arivai all'accampamento. 6 in quel giorno ne fu grande spavento quando ci penso si mi chrepo il cuore resto privo di forze e senza acento cose davero che facean terrore Si sentiva d'amici un gran lamento E chi vi era ferrito e piu chi more Solo a pensarci mi bagno le ciglia Poveri padri e figli di famiglia 7 Per altra parte la strada si piglia Zaino i' spalla e marcia con soffrire Poi per la strada ognuno si consiglia e ragionando del nostro patire Ma nessun si sapeva quante miglia E dove il punto che si potrà ire Giunti a sera vicino a un paesino A un altro fronte eramo sui confino. 8 e lì si riposo' quella nottata Alla mattina subito in cammino Su per il monte la strada imboscata Il rombo del cannone era vicino Dissi fra me oime' c'è lavanzata Alla sera sì giunse sopra il fiume E li si riposo' senza le piume.


9 La stessa notte si di fiamme a un lume Sopra d' un monte che gliera vicino Spara il cannone che buttava il fùme Che mise in fiamme un piccol paesino E' modo di distruggere il costume Ogni paese ogni citadino Di lì alle due di notte si partiva Al paese di pieve li si arìva. 10 Ora si comincia la piu lotta viva Del nove e dieci e l'undici di luglio Non vi e persona piu che la deschriva Savanza per la roccia e per lo scoglio E sempre su nel monte Si saliva In viso siamo bianchi come un foglio Lasiata la riva con grande spavento Subito cominciò il combattimento. 11 Il foco durò diverso tempo Per tre giorni e tre notti alla trincera Ci mancava perfino il nutrimento All' albergo alle stelle alloggio c'era Sento stringermi il cuor quando ci penso Quanti feriti e morti si vedeva Tre giorni amari in mezzo ai patimenti Che si sentiva strepiti e lamenti. 12 Mentre che scrivo mi trema la mano Dei morti ne giudicai un par di cento Un sergente un tenente un capitano Soldati daltri corpi a cento a centi Con lame tagliatrice e bombe a mano Che sono morti la nel col di lana Quello è il macello della carne umana.


13 Di li si parte alfin di settimana Il diciasette dello stesso mese Un punto a destra si del col dì lana Certo savanza per le nove imprese Però locupazione non fu vana Tanti morti e feriti la si fece Per otenerla si fa posizione Sotto il robbo tremendo del cannone. 14 Che brutta vita di tribolazione Ne notte e giorno un si riposa mai Quando fucile sia quando cannone Quando il bombardamento dei mortai Poi ce il fastidio adosso in prucisione Anche quelli la pace non dan mai Ce neve e freddo che rode le dita Fra tutti quanti vogliono la vita. 15 E quanta gioventù all'età fiorita Si vede giornalmente anda' alla morte Dalle loro famiglie glie rapita Lasciando i cari figli e le consorte Ditemi chi sara lor chi laita Quando alla casa sua manca il man forte Non vi e piu nulla in nesuna maniera E rovinata ogni famiglia intera. 16 Questa un è falsità gliè cosa vera Lo so che non lo spiegherà il giornale Giornalmente si vede una macera Questa glie proprio cosa naturale Se preso trento e trieste e cosa vera E di piu sie allungato lo stival Perche con laustria se fatto la guerra Per aquistare la redente terra.


17 Ma se dentro nel petto il cuor ti serra Tu stesso devi dir che ciò raggione E per quanto si vede non è questa E modo di distrugger le persone Non per far laquisto della terra Perche laustriaco ne fa distruzione Perfidi e mostri ne son tutti quanti Odio cian con litaglia e i suoi abitanti. 18 Quante famiglie nei dolori e pianti Morto sara' il suo caro guerregiando Povere spose e figli tutti quanti Starete giornalmente tribolando Chi perde il figlìo il marito e lamanti Brutte giornate starete passando In mezzo amari pianti compasione Saran disaggi di tribolazione 19 Qui cesso amatissime persone E dei miei errori vi domando scusa Non sono un campettista di canzone Di precisare e calmeggiar la musa Solo a voi la fella spiegazione che al giorno doggi la mente è confusa perche le cose non son tanto belle Sta meglio i calcerati nelle celle. 20 Venti ottave le schrivo e sono quelle Dandole a voi cesso la poesia Al monte dove lasciano la pelle Di qualunque soldato che ci sia Ottave schriverei delle piu belle Seguitando vo dirvi questa via Saluti dai compagni del confino Chi praticava il monte Sabotino.


CONTRASTO TRA UN PASTORE CERRETANO E UN CARBONAIO SASSALBINO Trascritto da una copia dattiloscritta tratta dal manoscritto originale di Zelante Tronconi - Cerretano

Prologo 1 Partii da Reggio con la mia vettura Poco v'importi se un dico chi sono A Gabellina sto in villeggiatura Per godermi quel clima tanto bono Varie escursioni faccio sull'altura Dei monti e in tal delizia m'abbandono Un di al lago per sorte mi trovai Fra un nucleo di pastori e carbonai. 2 Per dilettarmi un poco mi fermai Tenevano animata discussione Curioso come sempre mi accostai Per comprendere di tanto la ragione A uno che taceva domandai Che mi volesse dare spiegazione E da questo compresi che quei neri Eran di razza sassalbina veri. 3 Eran gli altri del gregge condottieri cioè sono i pastori cerretani son giovanotti che non... fieri e robusti coloriti e sani conosco della causa i suoi misteri che spesso ho avuto anch'io tra le mani perciò mi interessava d'ascoltare come quei due ne sapean trattare. 4 Fu il sassalbino il primo a cominciare Io non fo che copiar le sue parole Eran berneschi e messisi a cantare I versi componean come Dio vole Perché poeta anch'io possa scrutare La rima e il verso se si può cantare Queste son quattro ottave che io ho scritto Ed in quello che vien non ho diritto. 5 (carbonaio) - Caro pastore ormai sei bell'e fritto Son gia quatt' anni che nel bosco vieni Con quella scusa che ne hai diritto I soldi della fida in tasca tieni Ma ormai al fine siamo dell'affitto La causa è vinta ed i civici beni Sono spariti e tu pur sparirai E in questo bosco più non entrerai.


6 (pastore) - Sei bravo per l'onore che ti fai Poeta sei ma più sei oratore Ma dimmi chi tu sei e come mai Con l'arma acuta vai diritto al core Comincerai e a pranzo forse andrai Per dare ai detti tuoi tanto valore Devi essere tu una nobile persona Che pensa poco e che molto ragiona. 7 (carbonaio) Se di saper chi son desio ti sprona Stai pur tranquillo tel farò sapere Nato a Sassalbo da famiglia bona Son capo mandatario del paese Non ti creder ch'io parli alla carlona Sono istruíto e non ricevo offese Dunque pastore a rispettarmi impara Se no quel lago ti farà da bara. (pastore) Scusami illustre se tua mente ignora Volevo dire se sono ignorante In quel lago una nave non si vara Non vedi in mezzo ci sono le piante Il pastore vedrai pian piano impara Da una persona come te importante Son semplice pastor nato villano Il più rustico e rozzo cerretano 9 (carbonaio) Cosa m'importa a me se sei marano Sudicio rozzo come meglio vuoi Solo ti dico che hai lottato invano Più non sperar di vincer che non puoi Più non chiamarlo bosco cerretano Ti dico che i padroni siamo noi E se mi fai montare in frenesia Oggi stesso da me ti mando via. 10 (pastore) Abbiam la lotta contro l'eresia Tu sei in multa perché hai bestemmiato Quanti grilli che hai quanta pazzia Nel cervellino debole e malato Entrar in materia e non sai la via E poi mi dici che tanto hai studiato Mettiti in pace e lascia stare il gregge E spiegami del codice la legge.


11 (carbonaio) Se la fortuna e Iddio non ti protegge Vuoi che t'insegni io o ignorante Certo non sai tu scrivere di legge Ti vedo al capo sei un pecorone Ma ne mia certo sia un poco regge In breve spiegherotti in la ragione Col contratto di compera che abbiamo Ogni vostro diritto vi leviamo, 12 (pastore) - Che tu hai un contratto lo sappiamo Ma il tieni chiuso e non lo vuoi mostrare Perché su quello scritto noi ci abbiamo Quelle, che oggi tu non ci vuoi dare Cerreto ormai ha preso l'arma in mano Disposto fino in fondo di lottare E gli unici dìritti se lo sai Son dei pastori e non dei carbonai. 13 (carbonaio) - Quante chiacchiere inutili che mi fai L'appello è preso e la vittoria è nostra Dopo quest'anno più non entrerai In questa terra che non fu mai vostra Proibito eternamente ti vedrai Non con ciarle co' fatti si dimostra Non sol proibito avrai l'erba e le piante Ma persin l'acqua che quassù è abbondante. 14 (pastore) - Colle tue proibizion vai troppo innante Senza trovare un punto di ragione Fosti meno struito che arrogante In fondo non sai portar la discussione Se conosci la storia saprai quante Volte il bosco ha cambiato il suo padrone Insegnami se credi un po' di storia Te 'n son grato e lo terrò a memoria. 15 (pastore) - Non cangi di colore nel sembiante Perché sudicio sei e incarbonato Ma il tuo cuore superbo ed arrogante Dimostri appieno che l'hai... Chiaro dimostri che sei ignorante In quanto fino qui m'hai dimostrato Lo sai che il bosco detto cerretano Fu sempre nostro e che t'arrabbi invano.


16 (carbonaio) - Bada pastore se ci metto mano Ti do' il bosco la storia e la pastura Tu cerchi di conoscere ogni arcano Perché non sai un'acca di scrittura Io che ho studia ed ho il cervello sano Nulla ti cedo della mia cultura Non mi guardare se son incarbonato Ma a fronte posso star d'ogni avvocato. 17 (pastore) - Se fossi senatore o deputato Le mani a posto ti prego tenere E fin che un altro studio non hai imparato Ti considero ciuco dì mestiere Sei mandatario e non sai perché si lotta Tu credi d'aver vinto o testa rotta. 18 (carbonaio) - Cambia amico parlar cambia condotta Se no non puoi saper come finisce Il sangue nelle vene già mi scotta Qui son padron lo dico a chi capisce Sei avvertito la minestra è cotta E un sassalbin non sai come condisce E per nulla ti dico non mi ci metto Dunque meno parole e più rispetto, 19 (pastore) -Riverenze e minacce è ogni tuo detto Ma il timor non alberga nel mio cuore Se sei quel che dici un uomo d'intelletto Dimostra il tuo sapere e fatti onore D'un mandatario mio no stivaletto Che dite tutto insieme ha più valore Ma voglio che qualcosa si concluda E parlare del Conte la Paluda. 20 ( carbonaio) - Vedi la testa mia ch'è quasi ignuda Segno evidente che sono istruito Mentre la tua mi par 'na zucca cruda Detta quei poco che hai arguito Non t'accorgi la fronte ormai mi suda Cerca non stuzzicarmi l'appetito Tu mi vai a cercar baroni e conti T'intendi sol di pecore e di monti. 21 (pastore) - Per spiegare quel che dico sempre pronti Tengo il soggetto a mia disposizione Sindaco fu di Castelnovo Monti E' parte anch'esso di nostra questione Che tu sei mandatario mi racconti Miseri chi ti dette tal missione E l'avvocato tuo l'appello ha preso Perché a Bologna s'era mal difeso.


22 ( carbonaio) - Da me stesso a Bologna ho visto e inteso Anni parlai col Regio Commissario Al mio cospetto non si dette offeso Mi salutò qual primo mandatario Gli dissi che ben molto avevo speso Ma che non stanco ero anzi al contrario un gruzzol tengo ancora preparato E a causa vinta gli sarà donato. 23 (pastore) Per fabbricar le pipe sembri nato Ma io t'avverto non son fumatore Se ti presenti nel Commissariato Ti consegnano subìto al Questore A Bologna lo so che ci sei stato Farti imbeccare dal tuo professore Fra chiacchiere e promesse che fur tante il gruzzol perderai l'erba e le piante. 24 ( carbonaio) - Canaglia d'un pastor vile e ignorante Dunque pretendi tu quel ch'io comprai Coll'oro e con l'argento mio sonante Alla ditta Cerviano lo pagai Tu ti sei messo a fare l' arrogante Ma bada presto te ne pentirai Bada non ce li ho più quegli avvocati Che i mandatari tuoi m' avean comprati. 25 (pastore) - i cerretani non han mai pagato Gli avvocati che son in tua difesa La ragione noi l'abbiam da tutti i lati O sassalbin preparati alla resa Vi ha il tribunale due volte condannati Del disperato vi riman la presa Certo che se la causa è ancor pendente Del tribunale comprate il presidente. 26 (carbonaio) Che sei molto arrogante ti si sente Perché hai il podestà ch'è tuo cugino Ogni tuo mandatario si risente Specialmente quel tipo di pretino Quei Capelli conosco che sovente Viene a Sassalbo e fa sant'Agostino Se lo trovo a Bologna non mi guarda Mi getterebbe addosso una bombarda


27 (pastore) - Par che molto t'importi o ti riguarda Studiare i mandatari del Cerreto Uomini son che anche ad ora tarda Securi ponno andar senza divieto Ognuno ha cinto al fianco l'alabarda Son cavalier del più nobile ceto Ed in questo conflitto desiato Cercano quanto un di gli fu rubato. 28 (carbonaio) - Dunque pretendi che vi fu rubato Sono sei lustri che la compra è fatta Dì tal diritto non fu mai parlato Per pascolare pagai una tratta Ad un tratto superbo diventato Ma di voialtri è l'ultima disfatta Mezzo milion la causa è già di spese Pensa a pagarla non basta il paese 29 (pastore) - Che ancor devon salir ti fo palese Fino a un milione e più se più ci vuole Quel bosco che oggi è pieno di contese Chiamarsi cerretano lo si vuole Se per tema qualcun accondiscese Il pascolo a pagarti assai mi duole Tu della buona gente approfittavi Senza legge e ragione li trattavi 30 (carbonaio) - Ma se il diritto avevi perché pagavi Tu pagando tacevi e andava bene E in piena libertà tu pascolavi Come alla brava genta si conviene Solo del venticinque t'abusavi Di pascolare il bosco a tasche piene E non pensavi che sul mio venivi Esser dovete voi di testa privi.

(nella copia è scritto: trascritto 15.7.1976 (NI S.)

La presente trascrizione è stata fatta da Euride Notari nella scuola Media. di Busana. Agosto 1998


ANDREA BRISELLI Scrive Armando Zamboni in Vita sull‟Appennino (ed. Sei, Torino, 1951, pp. 152 e 156) Si aggiungano i ricordi della Poesia locale, venuta sì dalla Toscana, ma conservatasi nativamente irrorata di frescore e di aggraziamento. Ci vuoi poco a comprendere che, qui, il florilegio poetico è quasi sempre estemporaneo. Pure gli «stornelli» e i «rispetti» venivano coltivati. Sentiamo la dolcezza malinconica di queste due terzine, che hanno fatto il giro anche di antologie, per i loro pregi innegabili: Son nata nei paese di Succiso, dove la neve cade a larghe falde, e sol d'agosto nasce il fiordaliso. Vi nasce il fiordaliso e il girasole: mi sento nel cuore un grande male: mancandomi Succiso, manca ti sole C'è stato, in quel paese, un cantore che s'è fatto nome pur fuori dall'ambiente natio: Andrea Briselli. Di costui, vero tenore nel coro dei consimili, hanno scritto letterati e critici per riviste e giornali. Egli annovera parecchi componimenti, tra i quali, ad esempio, un Contrasto, da riportarci, in qualche modo, all'antico famoso di Cielo di Alcamo, o, meglio, a certe botte e risposte aulentissime dei quattrocentisti toscani. Ma deliziamoci con questa ottava, tolta da una specie di poemetto, in cui il titolo stesso, Brevi appunti di un soldato, lo manifesta - l'autore passa in rassegna compagni, superiori, cose e avvenimenti della sua vita militare: Chi ha composto tal rima piccolina, nacque al confine dell'alto Reggiano, dove il fiore si prende sulla spilla, senz'essere dagli altri posto in mano. Da queste parti la rosa è piccina: si vede il giusto effetto a mano a mano: sui monti cresce ogni sorta di fiore, che sembran perle ed hanno gran valore. Il Briselli è veramente riuscito a creare dell'armonia ed una visione profumata della sua montagna. La fine del poemetto si foggia in una specie di «licenza» tradizionale, ma intrisa di buon umore e, soprattutto, di originalità: Non son poeta che darà terrore nel canto che ne volli improvvisare; poca è la scienza mia per dar splendore alle persone che stanno a ascoltare. Dei canto non son certo un professore, perché la rima noi, ebbi et studiare: Andrea Briselli se ha sbagliato il canto domanda scusa a chi è di maggior vanto.


Giacomo Alberghi e Remigio Fontana Prosegue Armando Zamboni in Vita sull‟Appennino (ed. Sei, Torino, 1951, pp. 152 e 156) Non si debbono dimenticare due altri poeti estemporanei di questa plaga appenninica. Si chiamano Giacomo Alberghi e Remigio Fontana. Li ho conosciuti di persona, e dell'Alberghi ho assistito a un « maggio». Entrambi sono caduti tragicamente, con altri venticinque loro paesani e con alla testa il loro priore don Giambattista Pigozzi, in una una feroce rappresaglia tedesca, la sera del 20 marzo 1944.

Alberghi Giacomo

Remigio Fontana

Il primo, in età d'anni sessantacinque, coltivava la terra; il secondo, ben ottantaduenne, quando l'ho conosciuto io lavorava ancora da falegname iii una sua botteguccia scura e zeppa di vecchie cose. A offrire l'idea dei loro modo di poetare, mi piace riferire alcune ottave che essi, in una specie di gara olimpionica, - oh, assai più modesta, senza dubbio! - improvvisarono, non so più se in crocchio sulla piazza dei loro villaggio, oppure durante uno di quei desinari, tradizionali in montagna, che eccitano le vene dei cantori. Il motivo alle due poesie venne fornito da un fatterello che fece ridere un poco la gente dei paese, alle spalle di alcuni cacciatori armati di tutto punto e in procinto di buttarsi tra i monti a far strage. Quel giorno, dunque, c'era il mercato grosso sulla piazza, con banchi di frutta, stoffe, oggetti vari. La folla - è facile indovinare - cominciava ad aumentare, e quei cacciatori s'aggiravano tra essa, in aria di Tartarini. Quanta selvaggina avrebbero riportata dalla loro imminente battuta! A un momento, chi sa come, si vede arrivare da lontano un bel campione di lepre, la quale, dopo aver fatto un giro tra i banchi e i terribili cacciatori, che restano incitrulliti senza riuscire a catturarla, se ne spulezza via con lo stesso garbo, com'era venuta. L'episodietto menò scalpore: ed è comprensibile, stante la presenza di quegli eccezionali seguaci di Nembrod. Diede la stura ai commenti, alle facezie, alle risate più varie; e ricordo che anch'io che mi trovavo, allora, in un'altra zona della montagna ne accolsi l'eco. Remigio Fontana e Giacomo Alberghi, pur dimostrandosi incolti e qua e là slegati nel loro eloquio, rievocano con icastica la scenetta. Ecco il Fontana: O Villa, che possiedi un mercatone che si potrebbe dir quasi mondiale, famoso per la grande esportazione di bestie di qualsiasi naturale ne appare una, per combinazione, a gran carriera, come avesse l'ale:


aveva orecchie lunghe a meraviglia, correa senza occosion di trar la briglia La quale, uscita da una selva folta, decise di far parte all'adunata. Non guarda i cacciator e non li ascolta: per piazze vuole far la passeggiata. Vedendo la meschina non è accolta, spiacente lascia quella camerata: se a caso ritornasse in quei confini gli toglie dai fucili gli acciarini. Conoscessi di Villa i cacciatori, un plauso gli farei pel suo archibugio. Han voglia di venir dei disertori: la piazza serve a loro di rifugio. O Brescia che commetti grandi errori, ritira i tuoi fucili senz'indugio perchè non danno a lor nessun profitto: nemmen di lepre piace a loro il fritto. Ed ecco l' Alberghi: Non so se definisco un'avanzata la lepre che raggiunse il mercatone, o pur se la dichiaro in ritirata, chè avea di bracchi dietro un battaglione; o ch'ella fosse un po' desiderata la conoscenza far con le persone, o reclamar che sola contro tanti, riedere non potea nè andare avanti. Ma visto l'animale irriverente, al Sindaco saltò la bizzarria d'adoprarie il fucile iinmantinente e la bestia punir di tal follia. Intanto quell'intrusa con la gente non piacendole stare, scappa via. A me parrebbe da persona stolta pensar che a Villa torni un'altra volta. Dimmi, Toano, e svelami tu, Quara, come potete Villa contrastare? Dove l'avete voi cosa sì rara, che vengan lepri i banchi a visitare? Avrete forse in più qualche somara da vendere a contanti, o cambio fare.


a Villa, a cominciar dalla mattina, ha sulla piazza viva selvaggina.

IL VATE DELLE VAGLIE

Vera storia Vera storia di Amilcare Vegéti (1889-1964), merciaio di Vaglie, porta come sottotitolo Le atrocità compiute dai nazifascisti. Appare stampato nella tipografia U. Fabbiani - La Spezia. Via XX Settembre ang. via Capellini. N. 35 rosso - Telefono 21-24. Non c'è data. Una sorella di Rachele Vegéti ci ha raccontato, quando siamo tornati a Vaglie, che il poema è stato scritto durante e subito dopo la guerra, e che fu portato da Vaglie a La Spezia a piedi, da lei e dal padre. Insieme al manoscritto Amilcare Vegéti riportò al proprietario, un ebreo di La Spezia, un tesoro (pietre preziose e oro) affidatogli in custodia durante l'occupazione nazista. "Non mancava nulla" - ci ha detto la figlia. Vegéti leggeva Vera storia quando andava nei paesi a vendere la merceria.


Parte prima 1 O popolo, nel millenovecento, quaranta quattro ricorreva l'anno il cinque agosto, ch'in vita rammento, quai ne furo i fatti sentiranno. Su nei monti d'Emilia ov'il gran vento assai spesso ne reca molto danno di Ligonchio è le Vaglie un bel villaggio: quivi successe un terribil oltraggio. 2 Quegli infami tedeschi di passaggio rastrellavano tutta la campagna; con in braccio un fucil e col coraggio d'orribil tigre quando preda magna; scrutando ogni cespuglio ed ogni faggio, ricca vegetazion della montagna, accerchiando cosi il paese tutto onde mutano poi con grave lutto. 3 Con quel barbaro dir "facciam caputto" la caccia all'uom facean qual cignale; e chi li vide con quel ghigno brutto può dir: sembiante aveano del maiale. Molte le case son ch'essi han distrutto, portando a ogni paese tanto male. Ma, più di tutti il miser fu Carlino; lo trucidaro come un assassino. 4 Fu colpito innocente il poverino nella giovin età di quarant'anni: ha lasciato una bimba ed un bambino, una giovine sposa negli affanni, fratelli e sorelle (Vil destino!) cagione di quei perfidi tiranni:


la madre che è nonna e tutti i cognati pur essi dal dolor son angosciati.

5 Fur tant'altri paesi devastati: Cinquecerri fu messo a ferro e fuoco, le case con i mobili bruciati, fienili in fiamme come una fornace. Il bestiame (è la vita dei rubati) presero e tutto ciò che a loro piace: distrutte fur pur cose di valore da gente disumane e senza cuore. 6 E poscia si recaro dal Priore: legarongli le man dietro la schiena, ma quello rassegnato pel Signore con gran pazienza sopportò la pena; poi con nodi di ferro per molt'ore i polsi gli legaro ed ogni vena, causando a lui cosi tortura atroce come al figliol di Dio sulla croce. 7 E nell'ora ch'il sol ne fere e coce gli poser la corona sulla testa gettandosi ver lui, pecchia veloce sull'obbiettivo che non la molesta: questa cosa nel mondo a tutti noce. Ma sempre rassegnato egli si presta; e sopportò la lunga sofferenza per mercare dal ciel molta indulgenza. 8 Dopo a Capril fu data la sentenza. Appena giunti il miser fu Santino uomo del mondo di breve esperienza. In tasca egli tenea un berettino, dei Partigiani era una rimanenza, per un suo tenealo bambino:


e trovandogli indosso tal insegna, venne ucciso e bruciato come legna.

9 Dopo molti misfatti ognun s'impegna e nei fienili appiccicaro il foco, poiché dentro di lor l'ira vi regna e far del male altrui lor sembra gioco: uno le pensa e l'altro le disegna, così del tempo perdono assai poco. Al Casalino nello stesso giorno furon fienili trasformati in forno. 10 Non so se fu all'andare o nel ritorno una vittima fecero alla Loggia senza che questi avesse fatto scorno: di colpi riversar sur lui una pioggia; tema e dolor quinci ne nacque intorno vedendosi incendiati, come foggia quando il mantice soffia sul carbone: simile avvenne a quella abitazione. 11 A Piolo, dopo il lor primo sermone, decretaro di farvi un omicidio. Poi Ligonchio ch'è un'alta posizione veloci dominaro con presidio e in varie guise a tutte le persone per molte fiate danno lor fastidio; la permanenza lor fu giorni otto: i paesani in giro e col fagotto. 12 Poi all'Ospitaletto (è un paesotto ch'il confin tocca della Garfagnana), pur tre fienili in cenere han ridotto, il fumo si innalzò ver la Toscana. Ed a Ligonchio poi, redir di Sotto


per continuar lor opra disumana: e il Comune con altri fabbricati li han messi in fiamme e se ne son andati.

13 E tanti e ovunque sono i torturati che contare si possono a migliaia: una parte di lor furori bruciati dentro i fienili oppure su nell'aia, ancor molti altri sono gli impiccati, altri passati sotto la mannaia: hanno fatto una strage quei serpenti più che non fe re Erode agli innocenti. 14 O Dio, che tutto vedi e tutto senti faria, tu, si di lor giustizia esatta; abbi pietà di tutti i lor lamenti, chè ormai l'Europa intiera vien disfatta. Fai che giungano a segno gli accidenti, che tutto il mondo impreca a quella schiatta, specialmente a quel capo vil di Hitler che nel mondo impersona Lucifér. 15 Questo grande crudel, bestial messer arso di sangue, come un grosso lupo, il ghigno certo avrà di indomo e vil ver quando astretto nel chiuso si fa cupo, ed al servizio suo ogni uom è sgher pronto a servirlo al piano, al monte, al rupo: son tutti quei tedeschi indemoniati che vivono nel mondo dei peccati. 16 O America, Inghilterra, che alleati da vincol d'amicizia ormai ne siete, fate ben con Stalino i concordati per far le cose meglio che potete;


tutti i tedeschi vengano annientati, questo è il compito pria che voi farete, onde fare sparir quel tristo sesso; e date agli altri ciò che è lor concesso.

17 La prima parte l'ho finita adesso sentito ne avrete a che proclama, la seconda l'udirete appresso chè il popolo all'udir ella richiama: io prego, musa, il tuo divin permesso per scriver ciò che mio intelletto brama, onde far si che in noi memoria esista di ciò che fè il tedesco e il vil nazista. Parte seconda 18 Poi nel settembre il giorno diciassette fu iniziata battaglia furibonda: i Partigiani occupan le vette dell'alta Secchia sulla destra sponda, da Busana partian come saette i tedeschi veloci in grossa ronda; e dal Cerreto nell'istessa ora parti un ploton che li facea dimora. 19 All'apparir della rosata aurora un'auretta spirava sibilante e di colui che il mondo ognor martora di proiettili al nome risuonante; astretti i Partigian la lor dimora lasciaron e fuggiro ver levante, nacque scompiglio nella postazione, nè trovar puossi l'uso di ragione. 20 In una zona che appellano "Casone" (che da Vaglie è distante circa un miglio)


i tedeschi spararo alle persone che inveniro celate in nascondiglio; volle il caso che un uom della frazione colui di cui il bel nome è di Basilio fosse nei campi per l'agricoltura: anch'egli di fuggir si prese cura.

21 Uomo energico questi per natura: so che in mano si prese il suo cappello nè pruni eluse e siepi e sassi e mura: nessuno certo più raggiunse quello; ma in questi casi in tutti è la paura, quando si sente suonare il campanello all'uscio proprio od alle proprie porte l'orribile segnale della morte. 22 Le strade non guardò diritte o torte ma ognor veloce scese al Rio del ponte, io nel veder colui correr si forte ragguagliarlo il potei a Rodomonte quando a Parigi dette trista sorte e da lui solo sostenne la fronte rompendo la fortezza delle mura dando a molti cristian la sepoltura. 23 Qui Basilio riprendo con premura allorchè del Rossendol passò il rio e sul Predare dove l'aria è pura incominciò a fiatar con gran desio. Giunto che fu a Ligonchio la paura da lui se ne fuggi, graziando Iddio. Venuto a casa a sera, alla sua sposa narrò quella giornata disastrosa. 24 Pei Partigian non fu la stessa cosa, chè un di Capril, ferito fu mortale, mentre tentò fuggirne, in selva ombrosa


lasciando degli agresti ogni viale. Chi sa quanto sofferse in quella posa fra gli orribili spasimi del male,..! e agonizzante immerso nei dolori, quanto egli avrà invocato i genitori...!

25 Più di quaranta giorni stette fuori, mezzo coperto con de' rami e foglie; non valse ricercar, fra i rumori né tracce si trovò delle sue spoglie né l'invenir più pratici pastori: finché l'autunno per natura scioglie la foglia dalla pianta che è matura e rischiarata vien la selva oscura. 26 Un uom di Cinquecerri con premura il legname facea per un fienile, quando vide una macabra figura; veloce come il vento andò a Caprile a narrar della vista creatura e di morte scoperto avea l'ovile: I famigli con altri in lor conforto corser veloci ad adorar quel morto. 27 Gli fu fatta la cassa e poi sepolto nel cimitero ov'è la gran dimora che tutto il sesso uman cape raccolto per volontà divina all'ultima ora. Tutto Caprile ne restò sconvolto e credo che tutt'oggi si martora. Ma qui lascio e di Vaglie la frazione tratto, quand'ivi entrava un pattuglione. 28 La mia casetta è in una posizione la pria a trovarsi a chi vien dal Cerreto,


vi giunse allor di corsa un omaccione, che le sembianze avea da basso ceto, e dietro quello un altro mascalzone; quivi pur questi giunse cheto cheto: il primo tenea l'arma fra le dita contro mia prima figlia impaurita.

29 Ruggia come belva inferocita: "qui, essere, qui dentro, partigiano?" La mia Rachele affabile l'invita: "qui, nulla esiste e guardi in ogni vano," ma quello la minaccia della vita, con lo stridor de' denti e l'arma in mano; e poi le punta una grossa pistola in direzione della bianca gola. 30 Mia figlia allor perdette la parola, la chioma si rizzò dallo spavento. Finalmente costui via se ne vola per dare ad altri un simile tormento, e di Pighetto l'unica figliola ci rincorse e fermò con duro accento: "dove avere il marito? io vo' sapere," lei franca gli rispose: "in un cantiere." 31 "In un cantiere a Spezia e se vedere i documenti...," a dir si fé coraggio, ma quello si abusò del suo potere: "nulla credere, voi con me in ostaggio. " Lei disse; "Ho due bambin da mantenere io son la madre loro, il loro raggio." Ma quel con rude guardo a lei n'addit di seguirlo se cara le è la vita. 32


Ì due bambini, vedendosi rapita la propria madre, quando mosse i passi piangean con la nonna impaurita e di pietà sariansi mossi i sassi. In quell'istante, a simile partita rincasò Ulisse; si sentian chiassi, e apparve Clara, col pianto sui cigli, anch'essa essendo madre di due figli.

33 In piazza a Vaglie udivansi bisbigli e grida orrende di quella canaglia mentre scrutavan tutti i nascondigli; due volte temerario a chi si squaglia. Congregatisi poi ne' lor consigli deciser di piazzare una mitraglia: tempo cinque minuti a dichiarare ove i ribelli fosser e svelare. 34 Le donne tutte vedeansi tremare mute, dolenti e pur senza favella, quand'ecco il boia ritornò a gridare: "fra tre minuti brucio le cervella. " Farloni Ermida incominciò a parlare: "O donne, se sapete tal novella svelatela a costor," tutte ella invita, temendo non salvar la propria vita. 35 La Gina, allor, si fece la più ardita disse le cose, io qui le dicò esatte; "Se i partigiani qui han fatto qualche gita, l'han fatta per raccogliere del latte, ma stanno ai boschi, come un eremita." Ma quelle belve punto soddisfattè preser Senè e cognata con gran randa e le due Caterine e la Fernanda. 36


Gridavan: "guai a voi, se una si sbanda, marciar dovrete a noi sempre davanti, inutil ogni dir che raccomanda: non val prego, né Cristo con i Santi, siam un demone che opra in questa landa e seminiam per voi singhiozzi e pianti. " E unite con la Clara e la Minghina le portaro al Comando a Gabellina.

37 Oh! fortuna si ria e si tapina; padri e madri ploravan al destino... l'Elide e la sorella Franceschina, lacopo con Leopoldo e Pellegrino come apparve la prossima mattina veloci tutti presero il cammino onde l'orme seguir delle figliole prima che comparisse il nuovo sole, 38 Il giorno stesso (come Dio lo vuole), ognuno sano e salvo fé ritorno: qui descriver non posson mie parole l'allegrezza di Vaglie in quel bel giorno: cessàro i pianti e si schiarir le gole, poiché a nessuno fu fatto un scorno: ma di quello ricordo sarà eterno ch'han lasciato i tedeschi e il lor governo. 39 Dei partigiani non restava al perno che una disfatta piena di dolore; agli alemanni non si può far scherno: resistenza fu fatta per molte ore, ma poi su quelli imperversò l'inferno, che pure ai sassi incute gran terrore; udendo un uom armato di trombone il cannon tuona come fa il baleno: ovunque sconvolgea rupi o terreno.


40 Italia, Italia, che ferita in pieno da' tedeschi tu fosti e da milizia, ringrazia i Partigian ch'un po' di freno hanno saputo porre con giustizia; scacciato hanno dal mondo quel veleno e ripulita ti hanno da immondizia. Dei Partigian le gesta e la memoria registrate verran su nella storia.

Parte terza 41 Il ventiquattro dello stesso mese, ritornò una pattuglia inferocita; di Vaglie mitragliò tutto il paese con i dintorni suoi e ogni bandita nessuno a quella fu che la contese: tutti fuggiro, per salvar la vita chi fra i cespugli e chi dentro le tane: alberghi che non son per genti umane. 42 Ma le ricerche lor non furo vane come pardi montaro sul Chestione con quel guardo feral più che di cane: palmo a palmo passandone le zone giunser dove il terren ha delle frane, che di Tuvol chiamata è la possione; del Prete d'Ospitale è un benefizio, che in dono venne a lui d'antico tizio 43 Di sotto a questa s'apre un precipizio tutta di gesso v'esiste una scogliera: ma quelli l'annusare l'han per vizio, l'osservar tutti i buchi; con maniera insaputa (il pensavan, v'era indizio che della gente nascosta li vi era?) So che intopparo ad un calavernone... vi palpitavano undici persone.


44 Vi lascio immaginare l'impressione che qui provaro i paventosi cuori, udendo un uom armato di trombone gridar "dalla caverna tutti fuori." Teser le braccia in segno d'emissione, tutti sconvolti, immersi ne' pavori: invocato l'avran l'Alto divino che addolcisse quel br crudel destino

45 Ma il comandante, un perfido assassino li trattò tutti con fare arrogante: Ugo, Tersilio, Quinto con Beppino, Federico, Marino, uniti a Dante, Luciano, Beppe e suo fratello Aldino: se ne stava ciascun tutto tremante; con lor Triglia Giovanni è di Collagna, che a Casanuova vien a far campagna. 46 Calar li fecer giù dalla montagna per raggiunger la strada nella valle e disser: "guai a voi se uno si lagna, questo è il fucile e il colpo mai non falle. Ognuno di sudor la fronte ha bagna per il peso che porta sulle spalle, ché quei mostri l'avean caricati di munizioni e in parte schiaffeggiati. 47 A Beppino i capelli hanno tirati, che quasi dal terren lo sollevaro; Ugo e Tersilio vennero insultati e, credo, degli schiaffi lor donaro, e per lo più tutti fur beffeggiati il più vil trattamento a lor serbàro: e carchi venner come un asinello per condurli a Busana al contrappello. 48


Se talun si restava guai a quello, se pur vinto ne fosse da stanchezza; venia colpito con un manganello, senza pietà per tanta giovinezza; correva ognun la strada e lo stradello e con premura e con grande sveltezza Giunti a Busana, quivi il comandante, tutti l'interrogò su cose tante.

49 Senza dubbio pur questi era un birbante, e batteagli in seno un cuor di iene: orgoglioso si stava e trionfante vedendo quei figlioli in tante pene, poscialor disse con fare arrogante: "Per questa volta sciolgo le catene; andate a casa silenti e filare per l'avvenir, se non... vi fo' arrestare." 50 O popolo, tu poi immaginare se veloci percorser quelle miglia. In questo caso li posso uguagliare al cavallo che corre senza briglia. A casa tutti poteron ritornare ridonando la calma alla famiglia, consolando la sposa o i genitori che tutti immersi giacean nei dolori. 51 Della razza tedesca ecco gli onori che conquistar volean con il male; come demoni spinti dai furori facean una strage assai bestiale. Colpian, poveretti, anche i signori, sia nelle case, come nel viale, lasciando a ogni italian ricordo amaro, che abbiam pagato tutti a prezzo caro.


Parte quarta 52 Ancor trascorso non era il primo mese che appo noi ritornar i partigiani, provenienti, si sa, da ogni paese, tanto dalle colline che dai piani: in quattro vi eran di stirpe vagliese ve n'eran di Collagna e cerretani, di Ligonchio, Caprile e Casalino, di Castelnuovo Monti e piÚ vicino. 53 Compiuta l'opra lor, pria del mattino dalla strada rientravan Nazionale, sempre di notte facean quel cammino per poter al nemico far del male; compito quel del buon garibaldino per scacciar dalla patria il fer rivale, colui che ha martoriata la nazione, piÚ che non fece ai Filistei Sansone. 54 Venne l'inverno e queste sono zone che la neve, si sa, continuo abbonda; circolare non posson le persone perchÊ il piede calcato in essa sfonda: l'otto gennaio incominciò il cannone a colpire dell'Ozola ogni sponda, e i partigiani con mitragliatrice reagivan per tener quella pendice.


55 Ma il vii cannone è una arma deletrice, di lungo tiro e di maggior possa, ad ogni postazione la cornice fu infranta producendo ivi una fossa. I partigian deciser la radice di trapiantare per salvarsi l'ossa; non appena la notte calò il velo fuggiro ai monti fra la neve e il gelo.

56 Tutti giovani ardenti con gran zelo i disagi sostennero e gli stenti, finchè in una capanna o in qualche telo, poterono difendersi dal venti; contate avran le stelle su nel cielo io penso e tutti quanti i firmamenti, con un freddo a diciotto e cosi bagni, avran battuto i denti ed i calcagni 57 Italia, Italia, se di lor ti lagni un sacrilegio. commetti, io tel dico essi varcaro monti, fiumi e stagni, pur incessanti colpir bene il nemico: hanno teso le reti, come i ragn fan con le mosche, e poi con altri intrico di mine e bombe sparse sul terreno per poter il nemico urtar a pieno. 58 Qui lascio, e me con la mia musa meno sul bel Ligonchio, quando il nove sera giunse quassÚ quel serpe col veleno che porta il nome di" Brigata nera," nelle case costoro senza freno entravano rubando quel che vi era il capobanda era Remo Orlandini col grado di" maggior" degli assassini. 59


E pure anch'egli è nato agli Appennini nel piccol paesetto di Poiano, frequentato ha il lavor dei contadini, ma le sembianze avea di gran villano, ma a La Spezia entrò coi cittadini per dar principio a un culto disumano, pria con milizia e poi brigata nera per rovinar tutta l'Italia intera.

60 Lo riprendo a Busana, vil megera, quell'Orlandini capo-banda e guida; qui un prigioniero dei tedeschi vi era che il nome di battaglia avea di "Ida." Calavan le tenebre della sera quando Orlandin si rese un omicida, dicendo: "Questo ai miei va consegnato, e domani dev'esser trucidato." 61 Infatti il di seguente fu scortato fuor di Busana a una distanza breve, da quei cani venne pugnalato cadaver lasciato sulla neve: "esizial pena a chi si fa accostato, gridaron essi,inulto star ne deve, pei partigiani è nata la temenza finchè noi siamo una viva semenza." 62 Partiti, i Busanensi con urgenza, andaron dal comando per l'appunt ad invocare straniera clemenza se inumare lasciavan quel defunto il comandante ch'avea ancor coscienza, vedendo tanto popolo li giunto un papiro lor diè, dicendo "vale, per fare a guisa vostra il funerale." 63


Costrussero una cassa e dal viale raccolser quel cadaver con premura sotto il capo steser un guanciale nella cassa l'adagiar con cura; l'aspergo il Prete avea ed il messale e in tal guisa il scortar a sepoltura, facendo a lui pietosa funzione e infin data fu la benedizione.

64 O Vaglie, o Vaglie, tutte le persone ringraziar devi della pia Busana; color che fanno cosi opere buone chiamarsi ponno vera gente umana. Qui una madre riprendo con ragione quand'ella apprese la notizia strana, con grida e pianto inumidi i suoi cigli come madre può far per i suoi figli. 65 Le due sorelle a lei buoni consigli certamente continui a dar le danno dicendo: "cosi troppo te la pigli, piú rimedio non c'è, e per te è un danno" ma lei sente del spirto i suoi perigli ed immersa si trova nell'affanno; a lei il cuor arde come una fornace, triste e dolente non trova più pace. 66 Ed a tutti i Vagliesi assai dispiace del fu Francesco e il suo crudel destino: in tante costui sue imprese audace, sempre salvossi per voler divino, ma l'orribile ed esecranda falce di morte, l'ha rapito, oh, poverino! E voi sapete che da divin concesso il pianeta di vita ha il suo decesso. 67


Inghilterra, grazie ti rendo adesso con l'America e Russia assai gentile, che liberato avete il suolo oppresso da ponderosa soma si servile: che siam tutti innocenti vi confesso e cresciuti nel lago della bile, che siam per venti e due anni continuamente in un gran mar d'affanni.

68 Cagion di Mussolini e i suoi tiranni, che le squadre crear dei manganelli; color che non vestian gli oscuri panni, sovente molto udiano i contrappelli pinto avean nei muri quei tiranni baston nodoso per curar cervelli; per dir meglio spaccar ognor la testa a chiunque fosse una persona onesta. 69 Causar pi첫 danni lor che le tempeste quando scoppia dal cielo il temporale: ammorbati pur eran dalla peste e sulla giovent첫 versaro il male, spesso in case remote indivan feste di notte tempo e fino al capezzale, ove posava l'onesto cittadino, portar osavan olio di ricino. 70 La lor esatta misura era un quartino come prescritta dal lorprofessore; disturban la donna col bambino e fu spesso pestato il suo pudore; compito questo del vil assassino, che dove passa semina il terrore; di uccidere, oltraggiar senza riflesso l'infame duce aver lor concesso. 71


Agli Italiani ognor resterà impresso O Apollo, o Musa, grazie rendo adesso, ma al mio calamo voi deste il permesso sui misfatti fascisti e germanese

il sovvenir antico e la memoria. benché il serto non meriti di gloria: per descrivere questa vera storia sono Veggeti Amilcare vagliese.

Flaminio Bonicelli Viaggio a Roma Vliv santir e viagg ad Ruma? A ve cunt menter c’abbuma, l’è sta un viagg c’mè rmas a pet e a cuntavle i sun custrett, fa atanziun che s’incumincia fomse a Regg, nostra pruvincia, c’ac funn mna in tna vétura da Vincens cun gran premura. Prima ad tutt e fu decis ad cargar tuti al valis, numerad in te camiun e li mnen a la staziun. Dop in rang e tucc infila mi a pansè: a som sulda. Cun bandera e banda in testa, ch’isa vist che bela festa! Ma là giù sucess di guai, e piuviva quanto mai e pr’aver la mè valisa am bagnè fin la camisa. Finalment cun gran furur a munten in te vapur, un tren lung cm’ad chi a Lusgnana che s’inviè vers la Tuscana.


Ad Modna a visiten la staziun, ma ag fen poca uservaziun: e pinser l’era pù là lì e gh’è trop avsin a cà. Quand a funn in tla staziun ad Bulugna, ac cunfusiun: tucc i tren ch’endeva e gniva un lavur c’am ma cardiva, che splendur, che lusirin atarchè e mè lumin. Dop par Ruma a sti vapur iis partin tucc cun armur e andar fort i fevne a gara atarchèc la mè sumara. Quarantanov fur al galerii, an va cunt mia dal busii, ca pasen subit in freta fra al muntagn ad la Pureta. Quand po’ l’Aip’aiom pasa che s’avdiva la cita ad Pistoia in t’un lusur l’era propria un bel lavur. Anc d’adlì pasen cme e vent dop Firenze in t’un mument. Arezz, Perugia, Chiusi, Orte, dop ad Ruma a ierne al porte. Quand dal tren a funn smunta gh’era i nostar capura che par noev is’misne in schera sfortuna mi a ciam c’an ghera. Lì la banda inviè a sunar Giovinezza intant pr’inviar e a pas ad marcia a funn custrett ca parivne tancg fulett… Dop ad pass a funn invia astravers a la cita: mi iarmas stupefatt di lavur da dvantar mat aiom vist e Vatican, Scala santa, fur Traian, Coloseo, cà ‘d Nerun, e tancg arc e quanti cluun! Fu san Pedre visita, l’è na bela maista


cun dad’nanc cla bel’ara ch’eng n’è gnanc a Muntursara. A san Giuan in Lateran A g’anden po’ clatr’adman E in santa Maria magiur Anca lì ghè un bel lavur.

Dop anden dadlì e dadlà vist un quel mia andar pu là tant che a forza ad girundlar in t’un’ara anden andar. Dua somi?...a e Quirinal!? Ang’aver e mè pavial! Quand l’incuntre ag fu du re a caval, s’agniva a pè, em fè tanta la gran paiura ca cambiè fin guardadura: vedre e re lì a l’impruvis agnì verd nigre e bis. In cità a turnen in tram, a cuntavla cun la fam, tut e mal fu la claziun cl’era armasa in t’un cantun. Dop la pancia a restauren e san Pavle a visiten, ah, lì sì che ghera bel pù che al Frant e anc Sasdel. E pu bel po’ chi l’indvina? Me cval diga, na cantina. Centquarantamila pistun pien ad vin vech in cul busun, vin frascati e muscatel quel ca bevle e va e ciarvel. Mi lì dentre ac s’’rev asta tut l’inverne e mezz l’ista. E Minghin ad la Luigina pran sa strusar a sta cantina l’era armas adurmenta che pariva imbalsama Mì a pruvè anc a strasinal ma temp pers e fu svaghial! Clatr’adman in tamburlun


a turnen a la staziun e…cun di rutt ad vin ruman as’arinvien pri nostrar pians. “Ben turna” dis la mè duna “siv cuntent dunca dast Ruma?”

At m’admand sa sun cuntent? a te giur propria ist mument cuma è vera che e gh’è e sgnur là a n’ho vist ad tuc i clur. Po’ t’in voi cuntar na bela gh’era al dun fin fat a umbrella, a chi sì al faren bun a far guardia a e furmantun! S’ag sun ancura de trentequatre, tant sl’è d medre tant cm’e d batre, san g’ho i sold is pruadran ma a voi arvedre e Vatican. Em dispias che andag in tren

en s’userva tanto ben, e và trop da sfrunbatu quel ac voul vedre l’è futu! Ma s’ag turne a iò pansa, sta a scultar cosa iò strulga: pr’uservar tuti al campagn a toug la micia cun al sgarbagn e a partis ben a bun’ura …in tri mes a facc a ura.

Flamino Bonicelli, Costabona 1933


OTTAVE E MAILART

Domenico Notari

Marmoreto di Busana (RE) 1895-1983

“Son murator, di quote son dotato comunque ti do pure il nome mio Domenico Notari son chiamato e a Marmoreto tengo suol natio”. Con Ultimio Fontana intrattenne per lungo tempo uno scambio di episodi poetici, sapientemente e anche umoristicamente improntati a vicende note e meno note. Scrive di lui Romolo Fioroni: Un vero, grande personaggio, Domenico Notari, legato allo spettacolo del Maggio, nella importantissima parte di organizzatore, direttore e regista. Un vero, dotto “campioniere”!

OTTAVE sulla festa di SANTA MARIA MADDALENA


Del ventiquattro luglio la mattina Allo spuntar del sol movemmo il passo Per salir sul monte ove destina Ne fu la peccatrice sotto un sasso Maria Maddalena era meschina Quando ne sté sett'anni a capo basso Per far dei suoi peccati penitenza Che dal Supremo ne ebbe sentenza.

Partiti su dei pié indi la ruota Per d'arboscelli ornato il bel sentiero Che guida questi al punto ed alla quota Che è prefisso ognuno dal pensiero. Giunti su dove la chiesuccia è nota Che fu distrutta dal tedesco altero Li adagiammo a terra riposando Spettando altri ancor che sta arrivando. Sotto il bel nel turchino in quella cima Gente d'ogni parte era arrivata Chi giunge dopo e chi giunge prima Al pie' d'un sacerdote radunata. Si sta aspettando l'ora ch'è vicina Per ascoltar la messa preparata Che dai rintocchi d'una campanella Le dice della messa l'ora è quella. Ecco il pastor di Cristo sotto un faggio Ad un altar che sembra e se non pare Celebra la messa ch'è in omaggio Dei buon Gesù la vita rinnovare. Di canti in coro in quel pellegrinaggio Chi adora e prega ad in ginocchio stare L ' immagin di Maria Maddalena Che del Ventasso non è più terrena. Al fin dell'orazion ognun si squaglia Chi va di qua di là per il pranzino Molti sul sentier per la boscaglia Per recarsi al lago assai vicino Lungo il sentiero in mezzo alla frascaglia Si ode chiaro il suono di un clarino E questi eran Gidio, Fulvio e Bianchi Orchestra dei Felina arditi e franchi.


Sollievo per chi era stanco e lasso Parean le note che salir facean Di un valzer quel clarino e contrabbasso Che fin l'acque del lago sorridean. Di dame e cavalier tutto un ammasso E i cuori innamorati si stringean Danzando allegramente sul bei prato Al suon del gran concerto rinomato.

E siam del Calamon seduti dove Nasce d'acqua fresca una sorgente Con pane affettato e vin forse non piove Dicemmo allor pranzando allegramente. Ma intanto i nuvolon facean le prove E qualche gocciolon cader si sente Un po' più tardi cominciò d'un tratto Una forte pioggia che sembrò uno sfratto. Con dispiacer toccò lasciar quei fonte E andar di corsa per cercar rifugio Trovata una capanna a piè del monte Li entrammo dentro senza indugio. Nell'aspettar che il tuon cessasse l'onte Vedemmo sotto pioggia anche un segugio E al rischiarar del ciel scendemmo al basso Dando l'addio al caro e bel Ventasso.


Marmoreto di Busana luglio 1949 OTTAVE per la FESTA di SANTA MARIA MADDALENA

Ecco s'en torna il ventiquattro luglio Del millenovecento anno cinquanta Il popol di Busana in gran subbuglio Per salir sul monte ove si canta Una messa in quel di' presso un cespuglio Sotto ad un faggio, una grossa pianta A Santa Maddalena sì chiamata Che sul Ventasso è sempre festeggiata. Al primi albor partiti avanti il piede Il nostro don Celeste ed altri ancora Dietro poi seguia a chi precede La bella procession che Cristo adora Sorgea i rai dei sol che ci fa eredi Di luce e di splendòr che tutto indora. Sul bel sentier la serpe che ogni tanto Passa sotto fresc'ombre ch'è un incanto. Tra verdi fronde su bei prati estesi L'erba sotto ai piè facea tappeto Ai pellegrin che innalzan dai paesi Busana Cervarezza e Marmoreto. Di là dal monte innalzano i vallesi Di Montemiscoso e Ramiseto Salir la cima col più fido calle E d'in sul tramontar scender la valle. Quando sul Romito siam rivati Soffiava leggermente un ventolino, Attenti a un dissi, perché siam sudati Fermiamoci prima al sol un momentino. Un breve istante ci siam riposati E poi di nuovo riprendiarn cammino


Volgendo il piè verso la chiesa Che dei fedel cristian sempre è in attesa.

Vistamma quel santuario diroccato che ridestar nei cuor fa nostalgia D'inni sacri d'un tempo passato pria che l'invasor lo devastia Alfin l'abbiamo questo tralasciato e ci mettiam del lago sulla via che vien segnata a tanti punti rossi scavalcando rocce pietre e fossi. Ecco del Calamon che il lago appare tra faggi e tra pastor che lo circonda si cullano i suoi flutti come un piccol mar quando il vento tace e dorme l'onda un'orchestrina si sente suonare su di un palchetto ch'è la sua ritonda danzano d'amore i cuori accesi di balda gioventù i bei paesi.


Marmoreto di Busana luglio 1950

Ultimio Fontana di Cervarolo di Villa Minozzo (RE)



LA PARTENZA Era un mattino del mese di agosto lasciavo il paesello per Busana e dell'aurora a me giungeva tosto l'olezzar dell'aria che risana; sopra di un colle stanco mi assesto odo il dolce suon di una campana e l'eco definir sull'orizzonte ed io per il mio cammin rialzai la fronte.


LA NOTTE Quando la notte appar col suo mantello dorme nell'ombra tutto il gran creato, sol canta un usignol lungo a un ruscello che nell'oscurità sempre è beato. Dorme col gregge un umil pastorello, una misera capanna è il suo abitato, volgendo poi lo sguardo a lui d'intorno tutto risplende di un felice giorno. L'INCANTO DELL'AURORA Mentre sorge l'aurora al verde aprile un dolce incanto schiude gli occhi miei e al delizioso albor primaverile di un merlo il cinguettar tanto gentile del sentimento mio tutto direi; dell'usignol sempre udir vorrei: mi fa gioir la dolce melodia, mi fa pensar a tanta poesia. LA VECCHIAIA Misero vecchierel che ormai già sono sulle sponde del mar di questa vita, e della tromba parmi udir quel suono che annuncia la sentenza stabilita, se poi dal ciel non giunge a me il perdono, anzi dirò dalla bontà infinita, il giusto premio avrà la mia esistenza, ho ver dei falli miei gran penitenza.

IL GIORNO DEL MIO COMPLEANNO Nel mille novecento zero otto il venti marzo a me la madre mia diede la luce e di esistenza dotto del padre mio tal giorno fu allegria Alla sua protezion rimasi sotto per dolci anni con dolce armonia il tempo passa e gli anni son venuti settantaquattro ormai ben compiuti.


E nel quarantaquattro appunto il venti che gli era il giorno del mio compleanno dell’ingiustizia umana acuti denti diedero morte al padre e a me l’affanno rivive sempre in me quei crudi accenti e per la vita sempre resteranno con altri venne ucciso il padre mio il giorno in cui compivo gli anni io. Sebben lontan sia questa data non si cancella in cuor mio la ferita come di sangue belva assetata non è feroce più tigre ferita delle esse esse fu questa brigata con i fascisti ugual di mala vita onde tal fatto mai si è ripetuto mai più un fascista al mondo si è veduto.

OTTAVINE MIGRANTI

Marco Torri MIA CARA MOGLIE

(Parigi 1932)

1. Ti scrivo la presente o cara sposa, perdonerai se non ti ho scritto prima, mi son stancato di scrivere in prosa ora ti scriverò in ottava rima.


E se non ti sarà tanto noiosa, più volte leggerai di fondo in cima i versi miei che derivan dal cuore: tono di poesia, tono d'amore. 2. Quando ti trovi immersa nel dolore apri la voce alla mia poesia canta le rime mie di buon umore vedrai sparire la malinconia. Realizzerai completamente il cuore contenta resterai, sebben son via E' vero che mi trovo oltre i confini ma penso sempre a te ai cari bambini. 3. Io mai mi scorderò dei miei piccini mai dovran dire « senza il genitore ora son certo che siete meschini », perciò pensare a voi mi crepa il cuore. Tu, che la madre sei dei piccolini, con loro passerai tutte le ore se ti diranno « Mio padre non viene? » digli che resto via per il loro bene. 4. e che restare in Francia mi conviene, per sostenere la famiglia mia ma se un giorno ci troveremo insieme vedrete non ritornerò più via. Tu, Assunta, che hai sofferto tante pene tutto per causa dell'assenza mia qualcun di te avrà riconoscenza già che hai avuto tanta pazienza.

5. Io lo ricordo il dì della partenza che ti lasciai in letto ancor malata forse avrai detto: « Cuor senza clemanza » a lasciarti così quella giornata. Fu nostra sorte, non fu mia coscienza se dovetti partir alla disperata e tu restare in letto non guarita, quando alla luce donasti la Zita. 6. Fu brutta anche per me quella partita


che non la farei più per uno stato. Sopra Succiso l'unica salita o, quante volte a me mancò il fiato non potevo camminar dalla fatica più non marciava il motore animato. Provai per voi, o cari, un gran dolore mia mamma pure l'avevo nel cuore. 7. Tanto la mamma, come il genitore sono nel cuore di uno crudele, io, che stampato sono di vero amore a cui divenni ci sono fedele. Così spero nel mio diletto fiore, che a me mi è dolce più che non il miele Enzo, Enea, la Zita i loro cuori domani si apriranno ai genitori. 8. Assunta cara frena i tuoi dolori coraggio ti farai se resto via. Delle mie rime perdona gli errori qui devo tralasciar la storia mia. Saluterai i nostri genitori e quanta gente incontri per la via. Ti bacio, unita ai bimbi di buon cuore, io sono tuo marito e son l'autore.

LINO CASANOVA LA NOSTRA MONTAGNA NON CANTA PIU' ".. . eravamo sempre in bolletta ma si cantava, nelle osterie in campagna.. dappertutto si cantava, adesso che abbiamo qualche soldo in tasca non si canta più. Le prime due (strofe) le voglio recitare" l.


La nostra montagna si è spogliata della sua gente della sua cultura per vari paesi è emigrata dentro le città e nella pianura. Del suo dialetto non è più coltivata, il montanaro lo considerava una pittura, il giovane dice questo è progresso l'anziano gli risponde per noi è regresso 2. Alla domenica sembrava un congresso nelle osterie per cantare uno degli altri si portava appresso per poter meglio gli altri contrastare. L'ascoltator rimanea di gesso con devoto seren ad ascoltare alla fin con molto piacere tutti uniti in coro cantare e bere. 3. Lavorando nella campagna gli era un piacere, il contadino col suo canto chiama il pastore costui è sempre pronto al suo dovere il capraio non facea da spettatore. Questo gli è un racconto di cose vere Che ripensarci un po' mi soffre il cuore e nella notte le serenata si cantava l'eco fra monti e valle risuonava.

4. Ed ecco che il giovanotto si appostava sotto la finestra del suo amore con dolce melodia poi cantava svegliando la fanciulla del suo cuore. Ed ecco che la donzella si affacciava tutta tremante e senza far rumore di lacrime bagnava il suo bel viso anche il giovanotto ha condiviso. 5.


Ed ecco che alla figliola torna il sorriso tutta contenta e gaia a letto tornava volgea gli occhi suoi al paradiso felicemente poi s'addormentava. Ma nel suo cuore gli è rimasto inciso quelle frasi d'amor quando cantava sperando poi che il seguente giorno il suo amato amor faccia ritorno. (…)

NELLO FELICI Di qua e di là I O sommo fiorentin ti chiedo in grazia di spegner nel mio cuor del dir la tema,


del tuo saper che nell'eccelso spazia, mandami un ramo sol del tuo diadema di mirto, e fai l'incerta penna sazia, al faro del divino tuo poema, di revocar,come desio mi spinge, scorcio di storia che nel vero attinge. II D'un prode condottier questa è la storia, nato su terra dove '1 Po discende, la breve quanto sua fulgida gloria nomar non fa mestier si s’ottintende. Sotto '1 vetusto emblema di (Littoria) domina il volgo, ai grandi il scetro prende, comanda,impera in alto quanto in basso, al suo voler nessun contesta il passo. III S'è d'affamati lupi circondato, di basse rime,inclini già al malfare, da loro carta bianca e braccio armato, onde poter d'ovunque sovrastare. Si è in breve il lupo in tigre trasformato, for dalla gabbia libero può andare: morde coi denti, sbrana con gli artigli: sonnecchia il(nano) Re, russano i figli

IV Ma il mostro che si suol chiamare gloria non ha confini alcuni nè frontiere, il condottiero con dittator s'ammoglia; poi ver l'Oriente spiega le bandiere. Vinse la gente nera e la vittoria lo portò al sommo dell'ecelse sfere, ma il nodo che accettò fu tanto stretto che per lui scrisse un ben triste verdetto. V E qual filin da le rapaci branche, le fauci sozze di sanguigna bava rugge ma le vocali escono stanche già peggio già per lui s'avvicinava. Braccato e preso, ma da l'ali bianche de l'uncinata croce ritornava libero, ma non fu tanta fortuna fuggir, sia pur da la coatta curia. VI La terra sotto ai piè bruciante e scossa sente: si sente solo ed indifeso; tenta di nuovo,urla a la riscossa, ma fu lo sbraitar suo poco inteso.


Sicuro ostello che ospitar lo possa cerca, s'imbosca di speranza acceso, codarda e vile di tentar la fuga dal passo dello Stelvio o dallo Spluga. VII Ma ecco che'l dì fatale al varco è giunto della ben triste fine di sua vita; nella sua mente si staglia '1 riassunto in fondo a cui ei legge: E' ormai finita. Ma non fu vile in quell'estremo punto; nè chiese al "boia" la pietosa aita: ma con fierezza in a1to il capo eretto a l'arma micidial denudò il petto. VIII S'inceppa l'arma, parve opera pia volta al richiamo dell'umana voce; ma prolungò soltanto l'agonia. Fu 'l breve indugio la beffa più atroce di fredda,innominata ferocia: nemmen la donna che si fece scudo toccò del "boia" il cuor malvagio e crudo.

IX Alla maniera che'l bifolco usa il letame portar nel campo arato, ancor grondante sangue, a la rinfusa esposto a l'ira e a mosche fu portato. Cotanta inciviltà che niente scusa, con inaudito screzio fu innalzato qual porco macellato a piedi in alto lambia col naso e'l crin quasi l'asfalto. X Oh... misero mortal che non t'avvedi qual rango di bassezza ti ha toccato Nel lago uman ti specchi,eppur non vedi l'animo tuo da infamia deturpato. Ma se'l sermon ti punge o torto il credi rileggi le barbarie del passato: scritto non troverai fra chi ammazzava barbaro tanto che morti impiccava. XI A che giovò schernir,sputare in faccia, a chi già dato avea la sua esistenza; se non d'ignominia profonda traccia solcar la storia e l'umana coscienza.


Non v'è pudore alcun che arrestar faccia l'innominato scherno e l'indicenza: chi col primier saluto lo beffeggia, e chi ridendo "grasso" lo schiaffeggia. XII Qual dotta penna mai potria coniare, un nome pari a quel macabro scempio; già che ‘l vocabolario non può dare con tutto quel c’ha in se valido esempio. Se si potesse OMERO colsultare o chi in Ravenna ha'l funereo suo tempio: vedremmo le penne lor gettare ai venti e dire: A tanto noi siamo impotenti. XIII Ai più malvagi, carchi d'ogni male; rei di brutture,autori di sterminio, gli si fa onor d'avere un tribunale, Non sol, ma difesa il patrocinio. Li si proteggan pria se'l caso è tale di chi a sommaria man fosse in dominio: e l'uom che detto fu da IDDIO mandato fu a freddo ucciso: e poi vituperato

XIV Dell'uncinato stuol la prepotenza a piena voce, e non senza ragione, la tracotanza nonchè la violenza oggetto fu di critico sermone. Trova, lettor qual'è la differenza fra l'uno e l'altro messi al paragone: se l'uno ammazza e l'altro a freddo uccide qual'è il peggior? Cos'è che li divide? xv Chiunque siate voi, che trascinaste il volgo a tanto screzio vergognoso; nel morto cristo stesso profanaste, la civiltà di cui l'uomo è orgoglioso. E la bandiera italica imbrattaste d'un marchio infame triste e obbrobrioso: tanto che, da che mondo è mondo, esso è dei pochi c'ha toccato il fondo. XVI Ma infin, chi siete voi, che vi erigeste a giustizieri e pronti esecutori?


A un male un'altro mal sovropponeste che'l primo posto vanta fra gli orrori. Un turpe fine forse nascondeste sotto l'usbergo di liberatori.... QuĂŹ taccio e lascio dir quei che la fede, per patrio amore, oppur per forza diede.

I E’ notte. Romba il tuono, guizza 'l lampo, scroscia la pioggia poco men che ghiaccia, par cbe'l diluvio universal sia, in campo per dare al globo una diversa faccia. Cerco dovunque ove trovare scampo al minacciar del peggio che minaccia, allor che fra due rocce una caverna scorgo di fronte. Oh... providenza eterna! II Un teschio umano, un logoro mantello, una lanterna spenta ed un bastone,..,. resti evidenti son d'un focherello la roccia tinta, cenere e carbone. Penso sia stato questo il duro ostello d'un forilegge evaso di prigione; oppur rifugio d'un santo eremita che penitente a DIO donò la vita. III Sono i ricordi miei confusi e incerti come ad un tratto in sogno sprofondai,


ancor ch'io fossi desto e li occhi aperti, chi ero e dove fossi mi scordai. Lasciate, o Muse, che nei versi inserti un picciol cenno di ciò che provai, già che ridir del ver tutta la mole dove trovar le intrinsiche parole? IV Nel breve istante, forse d'un secondo, la terra sotto ai piè sentii mancare e per un foro poco men che tondo Oh... DIO!,gridai: sto per affondare. Eterno parve il tempo e senza fondo l'abisso, e parve il sangue congelare. Quando sul fermo suol poggiai le piante ero a la morte ormai poco distante. V Allor che alquanto mi fui rincuorato, volsi lo sguardo circospetto intorno, un gigantesco mostro in fronte armato d'un'ossea base e al centro un grosso corno. Equino ha il corpo, ma da leon codato, simile al leggendario Liocorno: barbuto ha il muso e di forma cotale becco o caprone: il nome si equivale.

VI Emise un' urlo di belva feroce, che dirompente i timpani percosse, parve un boato, assai più che una voce, di terremoto distruttrici scosse. Mi feci il segno della santa croce, allor che verso me la bestia mosse e, in nome di Gesù Cristo e Maria, a DIO raccomandai l'anima mia. VII Prono, impotente, al peggio rassegnato d'essere preda del rapace artiglio, quando m'avvidi che'l gir l'era sbarrato da tronchi d’alto fusto e altro groviglio. Poi, come fosse l'ippogrifo alato, nel tempo forse d'un batter di ciglio, si fuggì via, e le plurime forme dei pié, sui duri sassi impresse l'orme. VIII Non feci in tempo a persuader me stesso del retrofront poc'anzi avvenuto,


che vidi un'ombra d'uomo al capo d'esso sfoggiava il bianco col bianco canuto. D'abitator del celo ha in se'l riflesso, il volto smunto di rughe intessuto, di mirto intorno al capo ha corona, la stessa dignità piena impersona. IX "Sù alzati", mi disse dolcemente, e all'uopo si degnò di darmi aita, Sento la gioia pari a chi si sente da morto ritornar vivo a la vita. Guardarlo da vicino e attentamente d'averlo visto ancor creder m'invita; frugo i ricordi per trovar le prove come l'ho conosciuto, quando e dove? X Calmati, aggiunse, ogni timor discaccia, dei mostro che ti fè tanto terrore vedi che non v'è più nessuna traccia: rinsalda il core e sì vinci il tremore. Ma perchè scruti sì tanto mia faccia? in modo tal che mostra lo stupore? - Perchè,risposi a lui,com'è dovuto, non mi sembrate un volto sconosciuto.

XI Centoquaranta lustri è'l tempo esatto e che finì la mia vita terrena; un tempo eterno per chi è di carne fatto, ma per i trapassati un soffio appena. In una assomig]ianza hai certo estratto lo spunto che nel dubbio ti dimena; ma se saper chi son desio t'infiamma, fui del "sì" che suona babbo e mamma. XII E proseguì: Cantai di Beatrice sbocciata appena, qual candido giglio. Ai versi confidai, più che felice del nostro amore il primo casto idillio Un'orda d'ogni ben divoratrice, volea mia morte, ed io presi l'esilio. Il reato lo sai tu, che con acume, hai rovistato a fondo il mio volume. XIII Ah!... siete voi quel fonte di sapienza che ogni altra dotta penna sopravvanza,


anzi, detiene in pugno la reggenza d'insegnamento,a sì lunga distanza? Si studia i versi ancor con riverenza, versi immortali, di gran risonanza; e soprattutto della lingua madre il mondo intero Vi reputa il padre. XIV Con flemma che a dir poco ha del regale e un riso d'amarezza sulla bocca, Egli asserì ‘L’onor gonfia il mortale', ma chi di spirto è fatto più non tocca. A ipocrisia strisciante si equivale frullare il fuso se vuota è la rocca sì come a un vivo a cui s'è fatto guerra, da morto farne un Dio disceso in terra. XV E continuò: La meta a cui tu aspiri se la raggiungi, allor costaterai che ben centrati son dei versi i tiri segui la mira e ti persuaderai che brulica la terra di vampiri, assettati di sangue più che mai. Ora al quisito che nel cor tu chiudi darò risposta se me lo dischiudi.

XVI Ditemi allor, ma sol se dir Vi piace se a decantar l'occulto mondo eterno Vi spinse fede a crederlo verace o se lo immaginaste a m'o di scherno, sol per chiarir come l'orda vorace creò lo spauracchio dell'inferno, forgiato, forse, in clericali ambienti, a gabbo di miliardi di credenti. XVII Tacito mi squadrò per un secondo, poscia con dignitosa bocca risa, mi disse: il mio piacer non ti nascondo, che di censor tu vesta la divisa. Ma se nei versi miei tu frughi a fondo, non v'è sentor di dileggianti risa; ma lascio che'l lettor destrighi il nodo, se è fantasioso o se poggia sul sodo. XVIII E poi, l'assillo che turba tua mente discaccia e del dubbiar lo spettro invola; davanti, hai la risposta più eloquente


d'ogn'altra spiegazion detta in parola. Apparve allora un cerchio rilucente sopra al suo capo,sì come aureola; al tempo stesso stuol d'alati infanti gli vorticava intorno festeggianti. XIX Ben poca cosa è ciò che l'occhio t'offre, al paragon di quel che incontrerai, allor che a la vision ti si discopre cose che a stento credere potrai. Il punto oscuro che tua fè ricopre sparir come mi vedi lo vedrai. Oltre non indugiar: quello 'l sentiero, in fondo al qual saprai s’ho detto il vero. XX Oh Dio !... esclamai è quell'errata via che Vi condusse nella selva oscura? è desse, mi rispose, e più di pria occorre cor che vinca la paura per altro acceso,dissi, entrar vorria, dove la strada è libera e sicura, per non trovarmi in quella folta selva, dove incontrasTe quell'orrenda belva.

XXI Ed Egli a me: Chi ti farà da guida, propenso troverai poco più in basso, con sicurezza il lui credi e confida, ed assecondo al suo regola il passo. Volevo dir, ma fui di voce lasso: alato anch'egli simile a lo stuolo lo vidi verso il ciel librarsi...a volo. XXII Mi restò sol di mettermi in cammino, benché mi martellasse il cor nel petto, ma all'improviso apparve un lumicino, che del timor ne mitigò l’effetto. Ei mi precede adagio e da vicino, mostrandomi un sentier sconnesso e stretto: le parti foderate son di elmetti, di membra tronche e di squarciati petti. XXIII Chiunque tu sia che dasti tanto spazio alla mia mente e tanta fantasia, lascia ch'io possa in versi a tanto strazio


coniare un nome che appropriato sia. Senza favoleggiar né uscir dal dazio di nostra lingua e quella stretta via, col metro misurar, che il grande incanto descrisse a fondo di Rinaldo il vanto. XXIV L’incerta penna non sa dir cotanto quanto si offrì a lo sguardo inorridito, ma dir lo può che d'angoscioso pianto fu il manco e destro timpano ferito. Di ritornar desio m'assal, per tanto indietro voltai il capo inorridito, l'oscurità profonda che sconforta disse: tornar non poi chiusa è la porta XXV La fioca luce dista,scorgo appena lo viottolo, m'inciampo in ogni dove, li passi miei raddoppiano di lena, chiedendo ai piedi inusitate prove. Tuona una voce maschia, salda e piena tanto imperiosa c'al suo dir si move quel turbine d'avanzi, e par s'ingrossa per lo macabro scricchiolar dell'ossa.

XXVI Le anzidette membra mutilate che pria al sentier facean di sè parete, rividi tutte assieme allineate guizzar tal qual pesci nella rete. E poi, la stessa voce,, ricordate? riudii parlare e disse: Voi sarete al tronco vostro tutte ricongiunte, qual foste prima che da lui disgiunte. XXVII Non era bene ancor del tutto spento l'eco, qual tuon foriero di tempesta, sì come foglie a lo spirar del vento, non fù la turba a moverai men presta. Dir ciò che avvenne appena me'l consento: sui mozzi busti vidi unir la testa e rinsaldarsi ai tronche gambe e braccia, come piombo con piombo stagno allaccia. XXVIII Nel tempo che ci vol per dire "oh Dio" , i resti umani testè risanati


rividi a quattro a quattro allineati. "Attenti".., poi gridar forte s'udio, qual capurion comanda ai suoi soldati. Di tutti il cozzar secco del tallone, parve uno solo di tutto il plotone. XXIX Non posso dir se fosse opra d'incanto o se'l timor m'avesse inebitito: ai gridi di dolor successe un canto, d'autorità guerriera, un inno ardito. Poi vidi un'uomo ad una donna accanto, Dio sol saprà da dove fosse uscito: spaziosa fronte ha, sotto un basso elmetto, di emblemi militar fregiato il petto. XXX La donna cinge con la destra mano, con la sinistra tempera le note dei versi baldanzoso l'uragano è tale che del cuor le fibre scuote. Quando la tema s'attenuò pian piano, osservar meglio il tutto l'occhio pote: i loro stinchi scorsi,d'un colore bluastro, e intorno un violaceo livore.

XXXI Allor che'l fiero sguardo ebbe rivolto a destra, a manca,in alto, intorno e in basso, si pose in testa, e dal ploton fu inteso ordine dover seguirlo al passo. Parea d'alpini un fier drappello acceso d'ardor, marciante in ver l'alpestre sasso. Reggea la destra a mo' di gagliardetto, l'emblema sventolante e l'asta al petto. XXXII Chissà se per un anno, un mese o quanto, io feci coda a la marciante schiera; stordito, come un ghiro ero altrettanto uscito dal letargo in primavera. Il capurion, a la sua druda accanto, fè di parlare la movenza altiera: Parea l'autorità stessa in persona, che sa premiar, ma falli non perdona. XXXIII Poco discosto troneggiava un sasso, di forma qual piramide invertita,


ha il grosso in alto ed il sottile in basso: per tanto, non di facile salita. Ei giunse al sommo, ma di forza lasso, sul duro suolo abbandonò la vita, e allor che d'esser vivo fu ben certo, ciò che si vide intorno era un deserto. XXXIV Arido è ‘l suol, di color fosco tinto, qua e là da strane rocce punteggiato, in forma d'infernale labirinto, da un rio senz'acqua intorno serpeggiato. Ogni albero di rami era discinto, il fusto brullo, sterile, assicato: uno non v'era che per fronda dasse di se frescura e quella valle ombrasse. XXXV Un teschio enorme sì come lanterna pendeva appeso al sommo d'un'entrata a mo' di preistorica caverna, nel ventre della roccia ricavata. Un'iscrizione, che non si discerna, profondamente incisa sull'arcata, e per chi la volesse decifrare, saria più facil cosa il mar seccare.

XXXVI O pròdi - Ei cominciò ad alta voce, sottolineando il dir con gravi accentiche foste meco tutti messi in croce da intrighi, voltafacce e tradimenti; il tempo stringe con morsa feroce, è giunta l'ora di mostrare i denti: oltre quel limitar che l'uscio serra vi attende un'altra e più temibil guerra. XXXVII Se vi è fra voi chi sente tema al cuore, lo dica pur con l'indice innalzato, e chi, al contrario, sprezza ogni timore, mi mostri il braccio di pugnale armato. Fu più che un grido unanime, un clamore che for dai petti lor fu sprigionato: nessuno si mostrò col dito un vile, ma impavidi mostron nudo lo stile. XXXVIII Aprite, gridò con voce tonante


il condottier, bussando con possanza. Silenzio: niun rispose e l'eco errante si spense lentamente in lontananza. Ridir ciò che si udì dopo un istante, che eterno parve, sì breve distanza: forse chi andar fra i morti ebbe permesso potrà illustrar del ver qualche riflesso. XXXIX E non occorre molta fantasia dir che gelava il sangue nelle vene, l'orribile stridor che fuor ne uscia, sì come 'l mover di mille catene, o al fragor dell'onda, allor che sia di forza da spezzar navi e gomene, o al crollo che fè il tempio degli dei che seppellì Sanson coi filistei. XL La terra sotto ai piè scossa fremea e l’atmosfera più che tropicale, bruciante tanto che d'esser parea, entrati già nel vortico infernale. Tacque il frastuono, cosa far volea al fin guardai la truppa e 'l caporale Oh...meraviglia! in sì breve momento i crini lor, pria neri, eran d'argento!

XLI Aprite! ripeté, ma questa volta tutta la schiera al dir suo fece coro. Un muso, con la barba lunga e incolta si sporse fori da un piccolo foro. Quand'ebbe intorno la vision rivolta, come l'avaro a cui si scopre l'oro: in prevision quei fregiar di graffi, contento si leccò più volte i baffi. XLII Ai lati della sua biforme testa avea due brevi e bene aguzze corna, e dalla bocca il vomitar non resta bava infocata. Del corpo la forma è tale, che a descriver mal s'appresta; dell'uomo non ha ancor fusto e colore, ma del remoto suo progenitore. XLIII Stralunò gli occhi, digrignò fra i denti, tre colpi rimbombarono all'interno,


poscia si spalancarono i battenti, oltre dei quali impera il Re d'averno. Molti demoni, armati di tridenti arroventati nel foco d'inferno, per tormentare son ben preparati i numerosi ultimi arrivati. XLIV Cagnazzo, Graffiacane e Parfarello, Digrignazzo, Calcabrina e Tisaferno, compagni a quello che fu Lucibello, l'angelo più vicino al padreterno, che volle essere Dio, ma Dio per quello dal cel lo discacciò giù nell' inferno; e per superbia l'angelo beato, Re degli abissi Pluto è diventato. XLV E Barbariccia a fianco di Arlecchino, propenso a 'na diabolica bravata si approssimavan sempre più vicino, quasi danzando a la donna affiancata a l'uomo, al quale la legò il destino sorte che per amore Ell'ha accettata; sorte ben triste! ma che amore onora e di sublime amor amore infiora.

XLVI Primo vogl’essere, disse Barbariccia quella bella signora ad infilzare col mio tridente, e poi come salsiccia senza padella farla arrosolare; e l'uomo che così le si appicicchia, voglio altrettanto farlo riscaldare, con ambi due e l’intiera brigata faremo, credo,una bella infornata. XLVII Poscia seguì 'no orribile sghignazzo, al tempo stesso un roncigliar di coda: Su, che aspettiamo - disse Digrignazzo, mentre l'uncin col braccio in lungo snoda. Così fè Graffiacane e poi Cagnazzo, l'esempio tutti gli altri presto accoda. Un'urlo atroce i petti lor disserra: che dirlo spaventoso, il dir non erra. XLVIII Sgombrate il passo - urlò l’uomo di testa,


mentre brandì lo stil ch'avea fra i denti; non fu degli altri la mossa men presta, d'armare il braccio a la difesa attenti. D'orribile bestemmie una tempesta urla selvagge, strazianti lamenti: ben regge il paragone , e non a torto, d'una carneficina a corpo a corpo. XLIX Parfarello, fra tutti il più feroce, punse la donna col suo ronciglione; ma non meno di lui pronto e veloce fu l'uomo dal violaceo sperone. Gl'incise in fronte una profonda croce che a guisa d'un'elettrico lapione, che subito di fiamma si rilusse tal che a la fuga i demoniati indusse. L L'immagine di Cristo illuminata tenea ‘l dannato da fuggire in tema; e lungo d'essa nella scia incarnata intermittente si ravviva e scema. Solo una lingua immonda e sconsacrata coniar potria sì orribile blasfema: orrore fa a udir la sconcia voce contro l'eterno Cristo e la sua croce.

LI Con voce roca nonchè cavernosa rivolto al capurion,chiese il crociato - qual'è la forza tanto portentosa che a sfidar l'inferno t'ha mandato? Indi con grinta sempre più rabbiosa aggiunse: da chi fosti autorizzato? Forse la donna del vecchio cornuto, col suo bastardo a tanto ha provveduto? LII Di ciò non ti curar, ribattè il duce; ma per condurmi muovi avanti il passo per la più breve strada che conduce dov'è l'imperator del mondo basso. La croce che sul capo ti riluce mi farà scudo, al fin ch'io non sia lasso dei pari tuoi, che scevri d'ogni bene; consorti ad ogni mal, luride iene. LIII Un ghigno mostruoso mostrò i denti,


smorfiò l'immonda bocca e mosse i piedi, per eseguir gl'imposti avvertimenti e, suo malgrado, la truppa precede. Paren le corna due tizzoni ardenti, dall'alto in giù sin dove l'occhio vede; la testa,tutta, un'enorme fanale facea lanterna a la strada infernale. LIV Per quanto tempo gli stemmo accodati, è di accertar non facile l'impresa, ad uno ad uno in fila allineati, per una torta via stretta e scoscesa. L'uno dall'altro poco distanziati giungemmo, al fine,in fondo a la discesa. Ivi scorgemmo un'infocata tana: dentro una bestia di parvenza umana. LV E quei che pria se l'eran data a gambe al comparir della temuta croce, forman due schiere, ma niuna d'entrambe, hanno apparenza o grinta di chi nuoce. Son di smorfiate sue movenze strambe, ammutolita è l'infernal sua voce: la coda fra le gambe, accovacciati, simili a cani a sangue bastonati.

LVI Il segno del martirio in fronte inciso a Farfarello, che gemente è giunto, si proiettò sul mostro, che deciso mostrò l'indemoniato disappunto. Maledicendo, credo, il paradiso e chi l'aveva da ivi disgiunto, rabbioso, con possanza, in lungo snoda, furente, la malefica sua coda XVII Sbuffava sì che vento d'uragano sana al confronto lieve brezza appena, l’enorme bocca cratere di vulcano, che bava e sangue espurghi a bocca piena. Ben più d'un putrefatto ventre umano spande un fetor che appesta ed avvelena; furiosamente si contorge e piega, ma grossa è la catena che lo lega. LVIII


Emise un' urlo sì forte e vibrante, che parve sussultar terra,ogni cosa: che dirlo spaventoso o agghiacciante col nome appropriato mal si sposa. Poscia rivolto a l'uomo, che le piante sul limitare dell'ingresso posa, gli fece un segno che fu recepito, come d'avvicinarsi un chiaro invito. LIX Non scevro di timor,l'uomo s'appressa, ma per suo Scudo ha'l demone crociato: lo sbraitar s'attenua e poscia cessa e più mansueto appar l'indemoniato. Prossima è l'abbagliante luce stessa, tanto che par dal folgore accecato, Per richiamarlo l'uomo il piede mosse e nel seder più volte lo percosse. LX E disse: Or converrà che tu mi spieghi perché inibir mi si volea l'entrata. Questo è l'inferno e che me lo si neghi è assurdo: o fu dei tuoi una bravata? Da me partiro gli ordini dinieghi, rispose il mostra con voce adirata, perché di pronunciar la tua sentenza temo mi manchi, ahimè, la competenza.

LXI E continuò: ma per i tuoi seguaci soltanto la tua druda resta esclusa Quali assassini e predator rapaci da tempo la condanna si è conclusa. Fra lingue di foco più voraci, nudi saran gettati alla rinfusa: nel foco che strazia ininterrottamente, ma non consuma e brucia eternamente. LXII Più volte si forbì l'immonda bocca, con l'infocata lingua a sangue tinta; in ver la schiera la sua coda scocca e la con la stessa intorno cinta. La stringe sì che l'uno l'altro tocca, isola il capo e la masnada è spinta dov'è un nocciero da parecchio aspetta per caricarla a bordo a la barchetta. LXIII


Dei suoi rimase a l'uom la donna sola, mentre la barca prese a navigare: su la cresta dell'onda par che vola, s'immerge, poscia all'occhio ricompare. Quando l'orgasmo gli schiuse la gola e puote, ancor che a stento, domandare disse a Minos: Or che farai di noi, se siamo esclusi dai compiti tuoi? LXIV Restò muto Minos per un momento, con truce sguardo poi sbirciò la coppia. E' più che un caso unico, un portento - concluse - che a nessuno altro s'accoppia. Necessita per te nuovo tormento, tal che del foco eterno il mal raddoppia: già che mandarti nell'abisso ardente, sarebbe al tuo malfar pena indulgente. LXV In un idioma che niuna lingua vanta e mai nessuna penna dotta scrisse, vibrò una voce, con foga cotanta che i timpani schiantò dove s'affisse. Ha d'imperioso la radice e pianta benché restasse occulto ciò che disse: dir ciò che avvenne in un batter di ciglio, potria soltanto di Fiorenza il figlio.

LXVI In minor tempo che baglior di lampo impiega a illuminar la notte a giorno, l'oscura tana si trasse d'inciampo e frondi verdi apparvero d'intorno. Copre un diadema d'infernale stampo il capo al mostro nel nuovo soggiorno: seduto a scranna, con pompa regale, come supremo giudice infernale. LXVII: Mille, a dir poco, mostricini alati gli svolazzavan d'intorno a la testa, come impazienti infanti entusiasmati alla vigilia dell'attesa festa. Due giganteschi demoni ai due lati gli fan parete,sì che l'occhio arresta, a tergo, sull'ingresso, torreggianti, fan cardini a la porta due elefanti. LXVIII


Non lungi, esattamente di rimpetto, una tribuna apparve a mo' d'incanto: a ferro di cavallo, al centro eretto un seggio e altre scranna ad esso accanto. Una signora, di regale aspetto, avvolta in tricolor, serico manto, siede nel centro, al posto principale: e chi la segue come lei fa uguale. LXIX Vi è chi d'eroe la spada al fianco cinge, chi di poeta ha in capo la corona, chi del martirio in man la palma stringe, e chi l'autorità stessa impersona; chi con maestra man conia e dipinge, chi del potere sopportò la soma, chi d'immortalità la storia onora, e chi di fama ha risonanza ancora. LXX Sedean tutti gli addetti al tribunale, con visi gravi e modi compensati; al lato opposto siede il Re infernale, al centro i due colossi e gl’imputati. Una coppietta, corredata d'ali candide, come gigli neo sbocciati, sorvola il campo, e la serica gonna, mostra che uno è maschio e l’altra è donna.

LXXI E' quasi tutto pronto, o poco manca per l'infernale inusitata udienza. la coppia s'è nel volto fatta bianca, malgrado la spavalda sua parvenza. Due mostri, uno a destra l'altro a manca gli son custodi, in caso di emergenza: in prevision d'un sommario oltraggio certo preludio al totale linciaggio. LXXII Gravava tetro un silenzio assoluto udito saria un moscerin volare un 'uomo scarno, di pel bianco canuto chiese il permesso di poter parlare. Allor che dalla Corte l’ebbe ottenuto disse: Non è più tempo d'indugiare: per il poter dal sommo a me concesso dichiaro aperto l'infernal processo. LXXIII


Io stesso, interpellando il Re d'abisso, t'impongo di spiegare alla giuria per qual motivo mai ti sei prefisso serbare a questi un diversa via. Cosa vol dir l'inciso crocifisso in fronte a uno della tua genia? E infin perché non li hai condannati? E all'uopo ci hai dai cel quì convocati? LXXIV Scacciò dal naso una mosca molesta, alzò lo sguardo ai plurimi tribuni, mostrando il muso,come una foresta folto di peli qual pungenti pruni. E disse poi, la mia risposta è questa, la sola che'l mio compito importuni di troppe colpe è rea la sua esistenza che non ho pene al par né a sufficenza. LXXV Nel caso che a voi questo non basti, temo che messo assieme ai miei dannati, tremo al pensiero che lui me li guasti e dall'esempio suo siano traviati. Un nuovo inferno ch'ogni altro sovrasti penoso più degli spalti infocati; propongo che all'istante sia creato ed è per questo che v'ò convocato.

LXXVI Di tante accuse orrende, il modo come si rese reo costui si vuol sapere, contro chi le commise e a quale nome oltrepassò del peggio le frontiere. Se di misfatti a sì pesanti some nomarne la natura è tuo dovere: al tribunal non basta sol l'accusa, ad essa vol la chiara prova acclusa. LXXVII Guarda la donna che ti siede a fianco: ha 'l corpo tutto di magagne pieno, il manto color verde,rosso e bianco di sangue è lordo,intriso di veleno. Di farla pianger non costui mai stanco, di madre pugnalò lo cor nel seno: discinta per le chiome trascinata ridotta a serva, o peggio: beffegiata. LXXVIII Tradì suo padre e'l suo primo ideale,


ai compagni di fè tronco la vita e con ferocia, che non ha l'uguale nuotò nel sangue, diè ai vampiri aita. Nessun delitto, nessun peccato e tale, pur d'arrivare sulla vetta ambita: Dovunque seminò sterminio e morte coi malviventi a cui schiuse le porte. LXXIX Avido di poter, ei non recede nemmen di assassinare un SUO congiunto; solo la vanità nel cuor suo ha sede ogn'altro sentimento in se è consunto. Per tutto ciò che mia proposta chiede penso che basti il mio breve riassunto; ma ben altri misfatti a questi annoda, che di misura non è breve la coda. LXXX Tacque Minos, s'udi dall'altro lato voce di schietto Genovese accento, che disse:- Ora parlar può l'imputato, se di scolparsi vanta un argomento. S'è di due passi questi avvicinato al tribunale all'ascolto attento. Grazie a la corte! disse, e a capo chino qual cortigiano al Re fece l'inchino.

LXXXI Ho detto grazie!,ma non v’ho impietosire né alcuno dei falli rinnegare; ma un grazie di cuor vorrei ridire a tutti i membri che stan per giudicare. Qualunque pena che dovrò subire da un tribunale la vedrò applicare: non da un sicario,che a cor freddo uccide sarà che della sorte mia decide. LXXXII La prima accusa che da me rigetto, e mentre parlo ho sulle labbra Il cuore con chi mia figlia condivise il letto non fui della sua morte il promotore. Ma chi siglò l'orribile verdetto se non tu? Strapieno di rancore e nonché padre, di pietade alieno del voto ostil ti vendicasti a pieno. LXXXIII


Col cuore in gola, i nervi a fior di pelle la supplica di grazia attesi invano; tutta la notte, e con l'ultime stelle udii lo sparo del massacro umano. Con l'ugne a brani mi strappai la pelle, mi dissi, affranto, sono un mostro umano. Corsi sul posto, ma allor che vi arrivai ahimè!... m'accorsi ch'era tardi ormai. LXXXIV Prese parola un tal d'alta statura segnando a diti l'uomo incriminato grigia, ha barba, spada alla cintura, l'abbigliamento alquanto trasandato Il voltafaccia emerge a dismisura, di fratricida il marchio t'è addossato: il fabbro e'l murator dimenticasti, anzi, contro di entrambi ti scagliasti. LXXXV O voi tutti, che per giudicarmi siete quaggiù dal cel calati a volo vi prego caldamente di ascoltarmi del ricoperto tempestoso ruolo nulla voglio aleviar, né discolparmi di un solo errore: dico,di uno solo, ma da zavorra allegerir la barca, che di soverchio peso suo è già carca.

LXXXVI Allor che io da lor presi distanza, si disse, d'ogni mal la conseguenza, fu invece la contraria risonananza, caotica e discinta di esperienza. Ciò non legalizzò la tracotanza. - rintuzzò un'altro. - quanto l'insolenza. Ribattè il primo. Non meno insolente scuoteva il noce il primo sol nascente. LXXXVII Muggian le vacche, turgide e affamate, marcia nei campi ogni ben di Dio, e chi per forza ha le braccia incrociate guarda impotente al vandalo sciupio. scioperi ovunque ,fabbriche occupate: uno sfacelo! e'l dico in modo pio... bordello da ogni ordine discinto: ecco perché dal rosso il nero ha vinto. LXXXVIII


Fu invece l'ambizion di vana gloria, disse la donna - che tu accarezzavi: ben cara mi costò tua insana voglia. Non più di quanto in erba amoreggiavi coi discendenti dei fù Branca Doria e nelle braccia lor lieta sognavi grandi riforme pro lavoratore – rispose l'imputato con calore. LXXXIX Tu che nomasti lei novella Italia, e tu 'che di stratega il pregio vanti, m'inchino a voi, ma bassa plebaglia di pochi passi la portaste avanti. E tu che fosti il Dio della battaglia insigne condottier di prodi fanti: il non fare dei mille la partenza, stata saria 'na santa provvidenza. XC Se'l meridion potei calcar col piede - ribattè lei - è tutto suo l'onore. E' vero, ma la troppa buona fede – rispose: - non per questo è 'n tuo favore. Le terre delle qual ti fece erede, non ha alcun figlio che ti faccia onore: ma son bastardi, branchi di predoni, mafiosi, camorristi e fanulloni.

XCI Di piombo ti ha una cappa regalata, ed una grossa palla ai piedi appesa, una gabella fissa, mai pagata, centuplicata a l'utile è la spesa. Senza l'aggravio suo saresti stata - in cima, e non in fondo a la discesa. Di buona voglia o contro al tuo volere tu lo dovrai per sempre mantenere. XCII La donna che di scipio ha l'elmo in testa, schiuse le labbra ad un sorriso amaro; severa sentenziò: Poca scusante è questa al tuo dossier, che d'odio accese il faro. Se errate furono nostre gesta rintuzzò il barbuto - qual riparo vi frapponesti Tu che da regina mendica trascinasti alla rovina? XCIII


Le inemicasti tutto il mondo intiero, la desti in pasto al suo peggior nemico, che, come un predator falco sparviero, ti tenne a sé forzatamente amico. Di te egli fece presto il suo scudiero, o peggio ancora,il servo più mendico: t'avvolse intorno al collo il suo capestro ed il tuo alunno fece il tuo maestro. XCIV Giovani baldi, a l'alba della vita, discinti, male armati, allo sbaraglio mandasti a'n pazzo nato a dare aita su tutti i fronti, in bocca all'avversario. Dove per gelo è la neve impietrita, son del nemico facile bersaglio. Son tutti figli suoi, del tricolore, che piange ancora, affranta dal dolore. XCV Ho pria premesso: non mi v'o scusare, ne chiedere clemenza al tribunale, ma gli vorrei soltanto ricordare che si tien conto sol di tutto il male e'l bene nell'oblio si vol lasciare. Al fin che lo possiate giudicare, comincerò col dir che ancor vigenti son le mie leggi, fra le più efficenti.

XCVI Fra esse per la prima è l'assistenza, l'orario di lavoro e le pensioni, delle ferrate strade l'efficenza, le ferie non volute dai padroni. Nelle paludi, vivai di pestilenza, feci citta e più case per coloni: cosa che nessun monarca fece, né chi d'imperator coprì la vece. XCVII A fondo sgominai la malavita, le strade ripulii da ubriaconi, a le nubili madri diedi aita, e dagli uffici tolsi i fanulloni. Grande fra i grandi tu fosti inserita e accreditata in seno alle nazioni. Affinché Tu seder potesti a scranna, molti problemi misi a far la nanna. XCVIII


Questo ti fa senz'alcun dubbio onore, disse il compunto saggio Piemontese. ... Smentirlo saria non piccolo errore. Convinto aggiunse serio il Genovese. Se fra cotante spine spunta un fiore - ribatté il terzo, con cipiglio palese – non toglie o smorza l'accusante voce che la mettesti come Cristo in croce. XCIX La donna ch’era accanto all'imputato alzò lo sguardo verso la giuria, indi l'impresse in faccia del dannato, che turbolento assai mal la soffria. Richiese di parlar, col braccio alzato con grazia e atteggiamento in sintonia: le bastò un cenno a dir tu poi parlare: silenzio: nessun osò fiatare. C Signora - disse - Tu che la più offesa da quanto è detto, sei dal suo governo ricorda ché in trincea per tua difesa da bersaglier passò più d'un inverno. Con fede al patrio amor sempre protesa, subì di guerra il mostruoso inferno: Impavido, da prode difensore cadde col nome tuo scritto nel cuore.

CI Quando del compromesso tuo veliero s'impadronì, con forza, del timone, dai grandi fu applaudito qual nocchiero idoneo a fronteggiar la situazione. Anche l'allora successor di Piero lo elesse con la sua benedizione: non solo condottier, ma proclamato l'uomo da Dio quaggiù dal cel mandato. CII Assai più del lebbroso Costantino cadde nel raffinato suo tranello; non poche some d'oro del più fino riempì, coi patti, il triregno cappello. Ma quando in giuso Ei puntò il mirino non fu più l'uomo di sicuro ostello anzi, fu ritenuto una minaccia assieme ai grassi gli voltò la faccia. CIII


L'immane cataclisma che temesti da l'uncinata croce l'invadenza, a peggior sorte esposta ti vedesti dall' Occidente, con che con conseguenza le mostraron i tuoi miseri resti delle città distrutte, con violenza. L'acuta spina diventò uno stile che ti fè schiava, povera e servile. CIV T'avvedi? in quale stato t'hai ridotta il pravo suggerir dei tuoi lenoni? Ancorché sia la zuppa poco cotta devi ingoiarla senza discussioni; s'è ghiaccia, come se bollente scotta, devi inghiottirla impongono i padroni; dopo di che leccar ti resta un'osso, o peggio, quel baston che t’ha percosso. CV Gironzolava,intanto, fra le quinte un tarlo che inneggiava a sua sconfitta, le perse cose gli si mostraron vinte, come la strada storta per la dritta Se molte truppe restarono estinte dove l'agghiaccio impera con la slitta, Ei pianse, mentre il nano imperatore si solazzava cacciando a San Rossore.

CVI Di ogni male e sorta di sventura, il sol procacciator fu ritenuto; ma perché pria dell'immane sciagura dei grandi niun si mosse risoluto? Non è del tutto esclusa un congiura contro di lui e lo scempio voluto, onde macchiarlo e liberare il campo dal suo primo ideal: non poco inciampo CVII Io che conobbi sino in fonde al cuore i suoi difetti e vana gloria innata, non fu per scevro o scarso patrio amore, benché si voglia t'abbia adulterata. Ancorché a la mercé d'un dittatore come da bersaglier t'ha sempre amata. Che sognava per te, dirlo mi lice vederti incoronata imperatrice. CVIII


Ed ai vampiri d'insaziabil voglia strappare i denti e la mala radice che sin dalla lontana preistoria succhiano il sangue al povero infelice. Sul millenario tarlo aver vittoria rinnovar leggi, imporle a chi le indice. Cotale fu la prima sua intenzione, largire a tutti l'equo guidardone. CIX Nei giovani di prima adolescenza, ventenni, come d'anni più maturi, sparse nei loro cuori la semenza di disciplina e sentimenti puri. Gl'iniettò il puro siero di coscienza, che vince tentazioni e atti impuri: onesti, ma non per tema dell'eterno della giustizia umana e dell'inferno CX Scandali, truffe, opere ladresche, grandiose bancarotta,in guanti gialli stroncò,con disciplina e forze fresche, mozzò la cresta ai luridi sciacalli, debellò abusi e disoneste tresche. Con dei trattori sostituì i cavalli, ai buoi molte cascine prosperose le soighe bionde a le pompose rose.

CXI Tanto fé l’uomo che ti sta davante, per tuo peggior nemico reputato; tacer nol posso errò, ciononostante lascia ch'io dica che fu trascinato da la sua ciurma e l'indole incostante. Ma ciò che affermo sia che il cor ti tocchi col nome tuo sul labbro chiuse gli occhi. CXII Ma chi è costei, con che voce commossa chiese, come a se stessa la regina; quel che indossava la camicia rossa E' chiaro, disse. E' la sua concubina. D'indignazion fu la tribuna scossa; parve quel dir lo scoppio d'una mina. Ai biechi sguardi lei non si scompose, e in termini taglienti; a lui rispose. CXIII Se di tacciarmi ti prude la gola,


con frasi sconce e di buon garbo aliene, ha più corna la tua donna da sola che mille ceste di lumache assieme. Di bigamo la tua fama sorvola i monti, il mare e ovunque banco tiene. Pettegolare non fa certo onore al prode, dei due mondi, vincitore. CXIV Fui ritenuta scaltra avventuriera, ma giuro! chiamo a testimonio IDDIO, che sol l'amore infranse la barriera al mio pudore: e per l’amore mio inascoltata fui la consigliera, indole incerto sul d'affar restio vissi sol per suo amor, ma di fortuna non mi sfiorò giammai vaghezza alcuna CXV Fui la sua donna, non la male pianta, come si disse e per vero accettato; la maldicenza non sapeva quanta fosse l’abnegazion per l'uomo amato. Poi ciò che ogni dubbio abbatte e schianta ha chiaramente al mondo dimostrato quanto il mio amore fu sincero e forte, che non impallidì nemmen la morte.

CXVI Una matrona a foggia campagnola, che'n ver di lei moveva lento il passo, sul labbro le troncò voce e parola, come se presa fosse da 'n colasso. Ha la parvenza tutta Romagnola, che di pazienza ha l'indice più basso. Non è canuta ancor, ma del colore che 'l bianco vince mentre il nero more CXVII Giunta di fronte ai due famosi amanti, gettò a la donna un bieco sguardo in faccia; poi, con stupore di tutti gli astanti, spontanea all'uomo aprì ambe le braccia. Egli l'accolse fra le sue tremanti, spuntò del pianto a li occhi lor la traccia: Ella pianse dirotto lui vietar non puote bagna d'amaro pianto ambe le gote. CXVIII


Pochi, pochissimi furono fra tutti che non toccasse quella muta scena e meno chi restò con occhi asciutti prova evidente di sentita pena. Come una nave che combatte i flutti della marea rinforza la gomena: vinto dell' emozion l'acuto strale, la donna si rivolse al tribunale. CXIX Col dorso della mano i lacrimoni terse dal volto, quasi con dispetto, come se i segni di tante emozioni fossero tara al personal concetto. Malgrado sue precarie condizioni vorrei, signori, prima del verdetto i detti confermar che fè costei, e se mi lice ne aggiungerò dei miei. CXXX Ti ascolterem – rispose la Regina – non v’è motivo che parlar ti nega ma pria il tuo nome al tribunal declina e qual è il nodo che a costui ti lega. Nacqui non lungi a la marina ove l’acqua del Po nel mar s’annega: rispondo a tutto il dir che questo è il padre di tutti i figli di cui sono madre.

CXXI Ho indotto meco l'uomo assassinato in modo ignominioso quanto atroce, se è vero o falso che costui sia stato mandante, udrete da sua stessa voce Mi duole assai che non sia arrivato, anche se'l suo tarda forse non nuoce poiché mi lascia al dittator di Roma toglier non poco peso dalla soma CXXII Da bimbo prima, poi da adolescente, da uomo, espresse i paterni ideali, apostolo del caldo sol nascente, fecondator delle steppe glaciali. Tenta d'aprirgli un varco in Occidente, postribolo di leggi ancor feudali La via sinistra gli parve sconnessa prese la destra, ma la meta è la stessa CXXIII


Sgominar per sempre il covo orrendo di sanguisughe, d'ogni male immondo che della plebe il sangue sta soggendo da secoli, o meglio, da che mondo è mondo Questo è il sentier che stava percorrendo, ma un vortice impetuoso e'l tirò al fondo inavveduto cadde nell'agguato: questo e non altro l'ha digenerato. CXXIV Ma ecco il teste dianzi menzionato si avanza, con incedere elegante, ha'l capo bruno, alquanto brizzolato: ai dieci lustri, forse, non distante Da un velo di tristezza ha 'l volto ombrato che simpatia ispira al primo istante. Fece un inchino a chi sedea sul trono, poi disse all'uomo: Ti sovvien chi sono? CXXV Se un folgore di morte a ciel sereno, fosse caduto ai piè dell'imputato, l'avria terrorizzato forse meno che la presenza del nuovo arrivato. Riepilogò nel tempo d'un baleno, i tempestosi eventi del passato: volea parlar, ma gli chiudea la gola l'orgasmo. Prese l'altro la parola.

CXXVI Con bocca risa e ben dosati accenti disse, segnando a dito la giuria. Mi si conceda c'ha voi mi presenti, ed esporre il perché che qui m'invia. Se vi è fra i tanti chi non si rammenti mia triste sorte e vol saper ch'io sia: L’emme fa capo a scriverne il cognome, la G comincia e l'O termina 'l nome. CXXVII Ma dir potrà di più che son quel tale barbaramente a Roma assassinato il second’anno dell'era infernale, da sgherri, fatti (bravi) dello stato, perche volevo un ritmo equo sociale più giusto, umano, a tutti equiparato, ed addolcir, con fratellanza e amore, fra l'alto'l basso il vecchio dissapore. CXXVIII


Ciò che seguì di poco la mia morte ridir non fa mestier, nessun l'ignora, ma pochi son che videro le porte dischiuse ai sanguinai di prim'ora e fatti immuni autor di strage e morte: gesta inaudite che stridono, ancora. Costui che avete,o saggi, a voi davante fu loro sprone e ben dotto insegnante. CXXIX Come toccato da'n ferro rovente l'altro frustrato a sangue in apparenza alzò la testa,invece seccamente lo rintuzzò, con non poca irruenza. Concludi, non voler furbescamente falsare il vero, con la tua eloquenza, protesa solo al fin di danneggiarmi e di mendaci accuse caricarmi. CXXX Nemmnen la morte triste e ignominiosa smorzò d'un pelo tua spavalderia; la stessa voce irata e criminosa, rozza, temprata di villaneria. Ciò nonostante debbo dir qualcosa per cui percorsi così lunga via. A pro né contro intendo interferire ma dire il vero: il contrario smentire.

CXXXI Espressamente venni, e non a sorte previo un'avier, ancor di fresca etade, affranto dal dolor parve sì forte, che 'l vidi in veste di chi lasso cade; Tergendo il pianto dalle guance smorte corri!.. mi disse, a m'o che la pietade d'un pelo mi lasciò con l'occhio asciutto. Ed ora ascolta: m'ascolti il podio tutto. CXXXII Odi anche tu, che tornerai fra i vivi, mi disse, e, all'uopo ch'io l'avessi inteso sottolineò vocaboli e aggettivi, con l'indice ver me dritto proteso. Smentir potrai i caluniosi rivi, che voglion di mia morte suo sia'l peso: poi dir ch'un di mia fede il ver non tace nemmen per un nemico il falso piace. CXXXIII


E fai che divulgato in terra sia che la terribil morte mia avvenuta, giuro sul nome santo di Maria, fu opra, sì, dei suoi, ma a sua insaputa. S'Ei non la pianse restò, tuttavia, turbato dall'orrenda opra compiuta. Se non punì l'autori del misfatto: fu sol per tema d'esser sopraffatto. CXXXIV Ringhiava il Re d'averno, intollerante, la cavernosa bocca vomitava, l'ispida barba, al muso circostante, grondava siero di sanguigna bava. A tutti parve, per un solo istante, spezzasse la catena che'l legava; ma poi stremato e molle di sudore furente si rivolse all'oratore CXXXV Ma chi sei tu, che'l ver voi travisare a pro e vantaggio di quel criminale: cento banditi non ponno uguagliare il suo dossier, timbrato d'ogni male Sbagli se pensi d'elasticizzare, come fra i vivi leggi e tribunale: quaggiù non servon testi,né avvocati, né immunità concessa ai deputati.

CXXXVI Volgi lo sguardo intorno e vedi quanta miseria umana sparsa in ogni dove; peggior dell'assassino è chi lo manda, e sta al coperto allor che ovunque piove. E dei misfatti che 'l primato vanta, in ogni dove affiorano le prove. Sbuffando orribilmente segnalava turba di gente che s'avvicinava CXXXVII Alpini, fanti misti a bersaglieri al podio, ivi eretto s'avvicina; seguono aviatori ed artiglieri, s'accoda a lor la truppa di marina. Sul campo di battaglia o prigionieri, stroncata sua vita mattutina, A chi manca le gambe, a chi le braccia e chi ha sformata o deturpata faccia CXXXVIII


Sul destro, come sul sinistro fianco, rumoreggiava un infinita schiera, di donne, per lo più dal capo bianco altre grigiastre e chi la testa nera; chi move il passo barcollante e stanco, chi ha l'andatura elastica e leggera: Son figlie,spose e mamme che'l cor langue che versa a fiumi lacrime di sangue. CXXXIX Non molto lungi dall'incriminato, col dito accusator ver lui proteso un duo di donna e uomo, malandato, dissero, con (Reggiano) idioma esteso. Troppa clemenza fu l'essere stato solo da morto, a piedi in alto appeso: da vivo meritava peggior sorte, atroce tanto da invocar la morte. CXL Son cinque i figli nostri trucidati dall'insensata sua furia omicida, sì, come traditori rinnegati. Non vi è massacro in cui Ei non incida, con briganteschi assalti dispietati, ch'ognuno dessi al ciel vendetta grida: son uomini, città, borghi, contrade, distrutte,con orribil crudeltade.

CXLI Metteva il Re d'averno in evidenza, con gesti gai diabolico piacere; più gravi in volto quei che la sentenza di pronunciare, ormai, sentia il dovere. Male ostentava di calma parvenza la coppia,onde l'orgasmo contenere: se fatta tuttavia la faccia smunta, ed un tremor le labbra lor trapunta. CXLII Ma ecco che l’ora decisiva è giunta, un campanello si sentì squillare; del bene e'l male l'odissea riassunta, in breve, si sentì riepilogare. Ogni tribuno di suo pugno appunta il pro e 'l contro, ancora da vagliare. S'è la regina nel tricolore avvolta: solenne in volto, in se stessa raccolta. CXLIII


Allor che ognun di lor posò la penna, come per dir siam pronti, si proceda; il Piemontese l'uom col dito accenna; Parli se vuole e discolparsi creda. La risposta di questi non tentenna: per primo chiedo che mi si conceda che sia mia sorte dalla sua disgiunta: in nessun fallo fu meco congiunta. CXLIV E aggiunse: Vorrei dire al mio avvocato e lo sbirciò sì che parve un folgore - potevi - disse - risparmiarti il fiato, non ho bisogno d'alcun difensore. Nel mondo dei mortali ho già pagato con tutto il mio, e con eroico onore; in questo me ne infischio, tuttavia, se voi un grazie, è a più che mezza via. CXLV Non ti curar di me, pregò rivolto alla sua bella, con maschia fierezza, l'amaro pianto tergiti dal volto dagli occhi belli il velo di tristezza. Quaggiù, dove ogni ben giace sepolto, seguirmi ancor saria vera stoltezza: estraneati da me, ti raccomando; ai preghi è unito un rigido comando.

CXLVI De' fate,ve ne prego,vi scongiuro, che inaccetata sia la sua richiesta: distar da lui saria per me più duro, che mille volte al boia offrir la testa. Cotanto ardì l'amante del più puro sentor d'ammirazion si manifesta. Istanza accolta, disse il genovese; accolta: dir,molte voci s'intese CXLVII Oh... meraviglia! in quel preciso istante la Romagnola s'espresse col detto: M'hai fatto pianger, ma ciononostante, degna tu sei di stima e di rispetto. L'uomo, per l'emozion fatto tremante l'abbracciò entrambe, con palese affetto. Tu sei un'eroina, e tu una santa, fra le più nobil che la storia vanta. CXLVIII


Colpita alquanto dalla triste scena, la turba apparve meno minacciosa, e forse, forse un pizzico di pena emerse pér l'amante e per la sposa. Scuotea Minos sì forte la catena, spruzzava siero la bocca bavosa, poi, con indignazion disse ai giurati: Che fate?.., vi han costor forse incantati? CXLIX S'udì 'no squillo orribile di tromba, di color fosco si colorò il cielo; in lontananza l'eco che rimbomba, inietta nelle vene un mortal gelo. Poscia un silenzio lugubre di tomba, lugubre sì da far rizzare il pelo, che non ha nome alcun né paragone: coniare il suo saria vana illusione. CL Ruppe il silenzio con solenne accento, la regal donna, e non senza emozione dicendo: E' giunto il tragico momento di trarre l’equa e attesa conclusione. E aggiunse ,consultando un documento: la corte ha preso questa decisione. Nega a costui l'inferno già esistente, perch'è pena per lui troppo indulgente

CLI Tu donna che chiedesti stargli accanto, se non desisti avrai la stessa sorte, ma se cambi opinion sarai, pertanto ospite d'assai men temute porte. Riuscì a frenar lo stimolo del pianto l'interpellata, e rispose a la corte: Come al diletto fu l'amor catena, lo sia altrettanto nell'eterna pena. CLII Nel tempo d'un secondo, o forse meno sparì la truppa, donne,pria accennati; si fece il celo di minacce pieno con tuoni spaventosi e accelerati. Sussultò il suolo, serpeggiò un baleno fatto di guizzi e di dardi infocati. Ridire tutto ciò ch'io vidi poscia, saria ogni frase inefficace e moscia. CLIII


Indemoniate belve, mostri alati, serpenti—cobra,vipere e scorpioni, branchi di iene e di lupi affamati concerto "scorde" fan di fischi e suoni. Graffi d'artigli, morsi avvelenati son per gli amanti. O cel perché m'imponi d'assistere a cotanta orribil pena che vedo, ahimè! eppur lo credo appena.. CLIV Un vecchio da una lunga barba bianca che si fa gruccia d'un grosso bastone, fra il minacciar de la felina branca incede lento, ma con decisione, la donna cinge con l'arto di manca, poscia compunto come in orazione lo sguardo proiettò pregante al celo e lei coprì con un candido velo. CLV Tacquero i fischi e li strazi infernali d'un tratto, come fosse opra d'incanto; Ella, sia pure con modi cordiali si scinse da colui ch'aveva accanto. Con frasi degne d'opre teatrali, dentro le quali singhiozzava il pianto, disse: lo vuoi l'eterna onnipotenza... 0 caro..'addio' a lei debbo ubbidienza

CLVI Torse la bocca all'uomo un ghigno amaro, che mascherar tentò con un sorriso. Non ti doler - poi disse - m'è più caro che il mio destin dal tuo resti diviso. Poiché l'estremo addio è giunto al varo non sia l'orgoglio da viltà reciso. La man le tese, ma Ella dal suolo col vecchio s'era già librata a volo. CLVII O diva di Alicona, ispiratrice delle più dotte penne d'ogni tempo, la mia, che trema, addita la radice di esprimer tutto ciò che vedo e sento. Esser non vol la stessa mentitrice ma il vero è tal che m’incute spavento: congela il sangue, fa ribrezzo e orrore, in una morsa atroce opprime il cuore. CLVIII


S'è l'uomo in bestia informe trasformato la più mostruosa ad essa far può esempio ha brulicanti vermi da ogni lato voraci, intenti a lo schifoso scempio. Pute la bocca,è ributtante il fiato, il viso tumefatto e deturpato vomita a fiumi pestilente bava, che risucchiata, poi rivomitava. CLIX Pendean dal ventre aperto gl'intestini, morsi da mosche e grossi calabroni, zanzare miste a neri mostricini, vespe giganti e voraci mosconi. La triste vista oltrepassa i confini: cedono i sensi il passo a l’emozioni. A tanto non potei tenerle a freno privo di sensi caddi sul terreno. CLX Un trambusto infernal mi ridonava presenti i sensi dal malor pria vinti; per l'occhio incerto mi si delineava visione d'infernali labirinti. Poi scorsi un' uomo che si avvicinava a passi lenti, gravi, d'anni cinti, Non disse verbo, ma l'orrenda scena, scrisse sul volto suo l'interna pena.

CLXI Passò un istante, che parve in eterno, poi si fè il segno della santa croce, oh... prodigio! le furie d'averno spariron sì come lampo veloce. Vorrei ridir, ma ahimè poco discerno di ciò ch'EI disse a l'omo a bassa voce: ma posso dir che vidi il torturato, qual'era prima che fosse piagato. CLXII Incredulo, nonché meravigliato, l'omo si palpò il ventre e ogni dove, di essere del tutta risanato, cercò col tasto le concrete prove; Poi chiese secco a l'ultimo arrivato: Chi sei, che tanta grazia in te si move? Ceco risposte il cinto mio discerna, alla domanda tua farà lanterna. CLXIII


Curioso, egli sbirciò l'appeso arnese al fianco di colui testé li giunto; qual segno che l'antifona comprese, fé un gesto di eloquente disappunto. Con proba comprension l'altro riprese: sono lator del verbo, al cel congiunto; in contraposizion del Re d'abisso, che su di te, pietoso, ha l'occhio fisso. CLXIV Ritorna pur da dove sei venuto ribatté secco - e di saper gli basti a chi ti manda che non v'o e rifiuto, che di pietà per me si tocchi i tasti. Non sei qui il dittator tanto temuto - ammonì il vecchio - che tu impersonasti; a chi prega per te fai grave torto, se è vivo, e ancor di più se fosse morto. CLXV Il sommo imperator dell'alte sfere, ministro d'infallibile giustizia, sa il bene e’l male al passo mantenere, con imparziale e nobile dovizia. Non lascia inascoltate le preghiere in tuo suffragio, e nell'ora propizia niente cancella, ma pur tuttavia, di redenzione t'addita la via.

CLXVI Se è vero, come vuole la leggenda, in cui si dice che contro sua voglia cosa non v'è che salga o che discenda ne brezza che agitar possa'na foglia. Credendo che da lui tutto dipenda, perché con germi insani l'uomo ammoglia? Come potrebbe far, parlo d'un tino, se è pieno d'acqua dare del buon vino? CLXVII Lingua blasfema, rozza e sacrilega quale dottrina t'ha così accecato. La volontà dell'uomo IDDIO non lega, al bene e a male è libero lasciato. Punisce il reo, ma premio non nega a chi le leggi sue ha rispettato: ma vole che la colpa o'l merto vada ad esso sol, allor che morto cada. CLXVIII


Rintuzzò l’uomo. Come tu decanti le cose metton l'uomo a dura prova; invece di ingredienti conturbanti, non gli da forza tal che lo promuova? Istinti pravi e più bassi parenti gli radica nel cuor, che poi li cova: pretesa vana ch'Ei ne resti immune; o prima o poi si spezza la fune. CLXIX Chi nasce zoppo deve zoppicare, brancolar l'orbo, il sordo non può udire, gobbo, deve la gobba sopportare. Qual colpa gli si puole attribuire se(lui) gli dato i germi dei malfare? Riallacciati all'esempio della foglia, che muover non si può contro sua voglia. CLXX Oh... se potessi, mai.. dirglielo in faccia, anche centuplicando la mia pena; gli chiederei perché sua voce taccia, a lo sgorgar del sangue a larga vena. Il mostro che l'umanità minaccia par che nol veda o che lo tocchi appena. Risparmia il fiato: e'l ben che mi poi fare: di sparire; e più non mi scocciare.

CLXXI Scindi da te la boria, alma altezzosa e senza indugio meco movi il passo; sana l'ultima fiata spaventosa s'io ti lasciassi qui nel mondo basso. La prova dianzi, ben che tormentosa, ti paria lieve come andare a spasso: a paragone col tormento eterno, centuplicato a quel del basso inferno. CLXXII Abbassò alquanto la superba fronte, dicendo poscia: M’hai quasi convinto, ma prima d'accodarmi alle tue impronte fammi toccar l'arnese c'hai al cinto. La prova gli dischiuse l'orizonte velato dal dubbioso intimo istinto Andiamo.. disse,e l’altro. Vengo teco, che abbiam di tempo fatto troppo spreco. CLXXIII


Emise Minos un' urlo tanto acuto, che'l suol tremò dall'una a l'altra roccia. Sì che di qua e di là venni sbattuto. Solerte il serafino mi si approccia dicendo: Non temer, che quel cornuto non ha per te di sdegno la bisboccia, ma per costui, che or meco se'n viene urla di rabbia e scuote le catene. CLXXIV Ma che farò costì, se solo resto? richiesi a lui, ed egli mi rispose, con gentilezza e garbo manifesto. Tergiti le guance lacrimose; lascierai nosco esto loco funesto. E sorridente, la sua man mi pose. Senza dir verbo a lor mi misi in coda, per un sentier, che strette curve snoda. CLXXV Iti eravamo avanti, ma non tanto, quando 'na donna lacera e discinta, con voce in cui vi singhiozzava il pianto Restate! disse, e apparve stanca e vinta. Si strappò un lembo dall'acero manto, che mi sembrò di tre color la tinta; con esso a l'uomo ricinse la vita e com'era comparsa s’è sparita.

CLXXVI Sòpr'esso un ponte senza parapetto ne congiungeva l'una e l'altra sponda; il dondolar facea tutto l'effetto, d'un pescareggio in mar scòsso dall'onda. Il serafin, per nostra guida eletto, fermo,ci disse: Ognun di voi risponda, se ha cuor bastante d'abbordare il ponte; ma attenti...! è duopo aver sicura fronte., CLXXVII Io restai muto,parlò l'altro del trio si sarò forte poiché mi precedi, ma se teme l'apostolo di Dio quanto coraggio occorre nei miei piedi? Fei segno al primo di parlare anch'io, ma egli mi sovvenne e anticipò Chiedi..! Il ghiaccial vento,- dissi - d'uragano, da dove viene? Ed egli alzò la mano. CLXXVIII_


Aguzza l'occhio - disse - e attento mira laggiù dove s'appoggia lo strapiombo, v'è un gorgo enorme dove l'acqua gira, dal vorticar veloce n'esce il rombo, e dallo stesso il turbine deriva; che sferza il volto con schiaffi di piombo: turbina l'acqua poco men che ghiaccia è'l vento stesso che 'l ponte minaccia CLXXIX. E continuò: se siamo intesi andiamo, ma collegati sì come in cordata, a passi lenti e cauti procediamo. per contrapporre il peso alla ventata. Allor che a mezza strada, o quasi siamo, la furia del vento raddoppiava: fulmini, lampi e spaventosi tuoni che gir ci fu mestier quasi carponi. CLXXX Non spremerti lettor se 'l sott'inteso non è di elementare apprendimento ma se il velame l'hai bene compreso non v'è di "parte" il minimo intento. Dianzi che l'andar fosse ripreso, l'uomo di mezzo con stupito accento chiese a la guida, mi segnava a dito: Perché quel vivo s'è a noi unito?

CLXXXI Rispose: Non crucciarti, anzi ti aggradi, se'n viene nosco per voler di Dio, affinché in terra troppo non decadi, la tua recente storia nell'oblio ai vivi dir potrà, per segni e gradi, il prima e'l poi che vide, allor che uscio. Non ti sia, dunque, grave compagnia ciò detto, un cenno a gir ci diede il via. CLXXXII Per fitta nebbia,che fissa si posa, solo in barlume si scorgea la strada, di massi ingombra, pessima e tortuosa, tanto ch'è duopo ca carpon si vada Sdrucciolo è'l suolo di melma vischiosa, copre ogni palmo ed in nessun dirada; da essa n'esce un pestilente odore, qual di carogna al sol dell'Equatore. CLXXXIII


Ancorché breve fosse, eterna parve l'ora che gimmo in quella sozza broda; quando un chiaror di fronte ci comparve, ancor lontano, ma l'occhio v'approda. Due passi avanti scorgemmo le larve di costruzion mai vista e fuor di moda: L'è base un picco poco men che tondo; un gorgo d'acqua vortica sul fondo. XLXXXIV Siam giunti al punto più tetro e scabroso - disse la guida – ma non paventate senza pretese di tregua e riposo, come procedo mia mossa imitate. Quanto durò quel gioco spaventoso, siate indulgenti non me’l domandate; giungemmo finalmente a cò del ponte dove il castel s’ergeva a lui di fronte. CLXXXV Questo - disse la guida - è'l loco dove fu ambita meta del percorso viaggio; creato orsono ormai secoli nove per chi l'inferno non'l volle in ostaggio. Se cortesia a rispondermi ti move, sulla mia sorte snoda il tuo linguaggio. Ciò detto, l'om ch'esser vole spavaldo, grondava di sudor senz'aver caldo.

CLXXXVI Più che non credi m'è compito ingrato svelarti qual'é il tuo triste destino, ma poiché me l'hai chiesto sì garbato, tutto saprai: concluse il serafino. Non ti crucciar per me... son preparato al peggio; poscia tacque un momentino. Parla - riprese - non aver riguardo, che di viltà non mi ferisce il dardo. CLXXXVII Ascolta! disse a lui e me fé segno, con cui mi volle dire:a nche tu ascolta dei ripudiati dal(Sir) del basso regno è in fondo al gorgo l'anima sepolta; delle più orribil pene passa il segno, malizia e crudeltà ivi e raccolta: costì il dannato, fin che il mondo è mondo muore,rivive e muore ogni secondo. CLXXXVIII


Guarda nel centro al pozzo,il punto dove, vortica più veloce la corrente; ha la parvenza d'acqua che si muove, ma più che acqua è lava incandescente. Centuplicato ivi 'l tormento piove del tocco orribil d'un ferro rovente: non v'è un momento nell’eterno spazio di tregua o speme di men crudo strazio. CLXXXIX Quarantatre milioni e mila ottocento, son l'ore che laggiù starai sommerso, dove più stride l'immane tormento, ostello dei più rei dell'universo Ma per il ben ch'hai fatto, oltre quel tempo, nonché il suffragio in tuo favor converso, salente al cel da vivi e trapassati fuor ti trarrà dai "super" dannati. CXC Quand'egli tacque,cominciò il secondo, trasfigurato in volto, balbettando, chiese: Chi troverò laggiù, nel fondo se 'l sai,prego,rispondi al mio dimando. Son tre - rispose - i più crudel del mondo messi, perciò, dal Re d'abisso al bando: il primo qui arrivato fu Re dei potenti truce omicida d'infanti innocenti.

CXCI L'altro fu il grande sciocco presuntuoso, d'esser del canto e suono arbitro e padre, ma il suono era un trambusto disgustoso, il canto quello delle gazze ladre. Con crudeltà e cinismo mostruoso, squarciò le viscer della propria madre. La città eterna osò incenerire, poscia ai cristian la colpa fè subire. CXCII Il terzo è quello che vanta il primato fra i più feroci degl'inquisitori: nel suolo dall'Atlantico bagnato aggiunse orrore ai più mostruosi orrori. Le pagine più nere egli ha strappato for dalle penne di veraci autori; deviando l'uomo da l'antica fede, che nella trinità confida e crede. CXCIII


Di orribili strumenti da tortura si servì col crocifisso in mano, sordo ai lamenti, come alla censura quel boia scalzo( fra.. Domenicano) Muscoli, gambe,braccia, a la giuntura distorce , sloga, incurio s'è profano al cielo, anzi nel nome di Dio chiamò il massacro "santo uffizio pio". CXCIV Voleva dire ancor, ma un gran fracasso lo ammutolì, e l'occhio trasse al fondo: tremò il castello; a poco più d'un passo son da un malore, e forse, il ver confondo. Tre orribil ceffi, giù nel gorgo basso, vidi guizzar nel baratro profondo: mordeansi l'un l'altro come cani con l'ugne si facean le carni a brani. CXCV Come balena che sbuffando approda guizzando, i tre si trassero a la riva, il terzo, che facea a gli altri coda, fermossi e a me gridò – O anima schiva qual privilegio il gir sin qui t’assoda se, come sembra, sei di carne viva? Vivo io son – risposi – o maledetto Che‘l tuo tormento guardo con diletto.

CXCVI Va via, mi esortò piagnucolando, dopo d'aver d'un'altro il dorso leso, con mani giunte sì come pregando emerse il muso verso me proteso. Non dire ai vivi, te ne raccomando dove m'hai visto e come sono offeso: che per celarlo a lor sarei disposto a triplicata pena ir sottoposto. CXCVII La crudeltà inaudita da te usata non fa mestier ch'al mondo la rammenti; risposi - in ogni lingua è divulgata in mare, in terra, in tutti i continenti. Col sangue IDDIO e la croce hai profanata con numerose vittime innocenti: per quanto atroce esser possa la pena al mal c'hai fatto è un lieve graffio appena. CXCVIII


Muto, guardò, con occhi stralunati, poi si tuffò nel gorgo incandescente, seguito a ruota da gli altri dannati: di lor, dopo un'istante restò niente. Ma i miei compagni dove sono andati? Mi chiedo,cerco ovunque inutilmente. Un tonfo, un urlo atroce mi risponde: oh.. Dio!.. esclamai, e'l senno si confonde. CXCIX Non ti stupir lettor s'io restai lasso, immaginando ciò ch'era avvenuto; se'l cuor non hai di marmo o duro sasso, come io svenni saresti svenuto. Quanto durò dell'incoscienza il passo lo saprà IDDIO:io non l’ho mai saputo. Quando riapersi gli occhi e mi svegliai, che fu soltanto un sogno mi accertai.

Costantino Zambonini MISCELLANEA DI RICORDI

06/12/1994

Tornando in dietro nel tempo passato, riaffiorano i ricordi nella mente,


e rivediamo ancor quello che é stato, come attraverso un prisma od una lente. E tutto ciò che abbiam dimenticato, dal più remoto, fino al più recente, una fantasmagoria di colori, di gioie, di speranze e di dolori. O mio paese mi ricordo ancora, dei bel tempo quand'ero ancor bambino, cantare i galli tra l'alba e l'aurora, e i borghi ridestar dell'appennino. Come in un sogno io rivedo ancora, uscir dai tetti il fumo dei camìno, e mattiniera la buona massaia, che governava i polli in mezzo all'aia. E chi accudiva all'asino o ai maiale, e chi le mucche al pascolo portava, metteva il basto ai muli il vetturale, e le pesanti some preparava. E chi pensava già al tempo invernale la sua pesante scure già affilava, menava il contadino ai campi suoi, lenti e maestosi gli aggiogati buoi. Cavalli bradi al pascolo nitrire e nel cielo le rondini volare, delle cicale il noioso frinire, sui prati pecorelle pascolare. Ricordi che non possono svanire, e il cuore non potrà dimenticare lo stridulo gracchiar delle ghiandaie, e il fumo nero delle carbonaie. Parvemi riveder d'estate il Maggio, Tancredi, Orlando, Rinaldo e Ruggero, e risuonare tra l'abete e il faggio, il maschio canto di un prode guerriero. Campione di giustizia e di coraggio é nemico del falso e onora il vero, vuole la pace su tutta la terra, e agli ipocriti e vili fa aspra guerra. E dalle aie assolate la calura, ed il profumo della paglia e il grano, quando nel tempo della trebbiatura, li uni e gli altri si davano una mano. Gente buona di cuore e di natura, come si addice ad ogni buon cristiano, senza superbia e con buona creanza praticava la vera fratellanza. L'autunno tempo della transumanza, con le greggi partivano pastori,


coltivando nel cuore la speranza, che giungesser per br tempi migliori. E con gran sacrifici e con costanza, delle intemperie sfidando i rigori, passando l'alpe e poi la Garfagnana per i più miti climi di Toscana. Quando l'inverno rigido e pungente, ricopriva di neve l'appennino, e il montanaro sempre previdente, coi ciocchi alimentava il suo camino. E col badile ogni uomo valente, facea la "rotta" insieme a ogni vicino in tutti i paeselli della valle, per governar le bestie nelle stalle. Fin che vivrò io avrò nella memoria, la civiltà di questa terra avara, che per le sue radici e la sua storia, per ogni montanaro é sacra e cara. d é senza peccar di vana gloria che anch'io sono di stirpe montanara ed amo i monti, i boschi e la natura, i laghi i fiumi il cielo e l'aria pura. Voi genitori che all'amata prole, cercate di insegnar la retta via, non sia la scuola vostra sol parole, ma il viver vostro ad essa esempio sia. E ogni giorno che nasce sotto il sole sia per voi ardua o facile la via, ricorderete sempre ai figli vostri anche il santo sudor degli avi nostri. Esperienze di ricerca

La La guerra di Berto » fa parte di una serie di canti registrati la scorsa estate a Pavana, Pistoia; Pavana è un paese dell'Appennino tosco-emiliano, in posizione particolare nella valle del Limentra. Posto a circa trenta chilometri da Pistoia, si trova invece circondato da località bolognesi, e Porretta Terme, il primo centro di una certa importanza che si incontra, è a soli quattro chilometri. Le tradizioni popolari mostrano quindi spesso elementi di fusione tosco-emiliano, caratteristica riscontrabile specialmente nel dialetto. Il paese non ha risorse proprie, ed è sempre stata forte l'emigrazione, prima della guerra all'estero, ultimamente interna. Questo fatto unito alla facilità di comunicazionI con i centri vicini e al turismo estivo, ha portato a una dispersione e ad una veloce scomparsa del patrimonio popolare, ricordato e conosciuto solo dai vecchi, mentre le generazioni più giovani o lo ricordano vagamente o lo ignorano del tutto. Per fare un esempio, una canzone come « La pastora e il lupo », conosciuta dai vecchi con una versione locale, viene invece cantata dai giovani con variazioni e moduli correnti, quelli cioé standardizzati dalla radio o dai


fascicoletti di canti corali per gite riunioni eccetera; oppure, una bella versione de a « L'infanticida », cantata secondo la versione locale, è stata intonata, invece che col modulo tradizionale, con lo stile del canto cosiddetto «all'intaliana », tipico dei Villa, dei Taioli, eccetera. «La guerra di Berto », fra i canti raccolti, rappresenta un pezzo abbastanza raro ed interessante. Lo ha cantato Maria Bernardini, di anni 70; la «Guerra » fu scritto da un suo cugino, appunto Berto,, con la collaborazione di alcuni commilitoni toscani, durante la prima 'guerra mondiale. E' una specie di diario che comprende molti episodi e si snoda lungo un certo arco di tempo. Inviato come lettera ancora in tempo di guerra, fu imparato a memoria e spesso cantato, ma probabilmente solo nell'ambito familiare o quasi; altri paesani infatti hanno affermato di conoscerlo vagamente ma di non ricordare. E' quindi un pezzo assolutamente originale. E' composto di 29 strofe, intonate sul modello -dell'ottava rima dei cantastorie toscani. C'era infatti l'abitudine di improvvisare in ottava rima, e molto diffusi erano i «fatti » dei fogli volanti, appunto in ottava rima; il testo risente di composizioni molto famose, come ad esempio la « 'Pia de' Tolomei » o la «Genoveffa ». Senza' essere all'altezza di queste composizioni,la « Guerra » è però un canto brillante e ben condotto, specialmente se si pensa che è stato scritto da un a non professionista »; è comunque, a mio avviso, di certo superiore ai « fatti dei cantastorie emiliani, spesso molto più superficiali e affrettati.

Francesco Guccini

La guerra di Berto 1 Benché sia un po' confusa la mia mente Pur qualche cosa posso ricordare Di quel che mi succede nel presente e nel passato quel che venni a fare. Me la passavo assai discretamente: Quand'ero a casa col mio lavorare Ma il mio benstar però poco è durato E sotto le" armi anch'io venni chiamato. 2 Ed all'83 fui destinato Tosto spedito fui presso i confini E quindi in poco tempo fui arrivato In un paese in" mezzo agli Appennini. La guerra ancor non era dichiarata


Ogni soldato sta sui propri confini Intanto che l'Italia e l'Austria ragiona Gran discussioni trovasi a Vienna e a Roma. 3 Là dentro si discute e si ragiona L'uno vuol questo e l'altro non consente Al fin de' conti l'ora triste suona e della guerra ognun di noi sta dolente. Incomincia il cannone che scuote e tuona che in lontananza ognun lo sente L'eco rimbomba e fa tremar la terre Ecco l'Europa che è tutta in guerra. 4 A tanti padri il petto gli si serra madri spose e ragazze in compagnia Pensando che i suoi cari vanno in guerra Contro i cannoni e la fucileria. Ogni soldato la propria arma afferra Tanto a cavallo che di fanteria Anche l'83 dei primi è stato Di quelli che la frontiera - hanno varcato 5 Diversi paesetti fu occupato Il primo. Tezze, questo è il proprio nome Benché di poche case sia formato Il quale è privo pur della stazione. Grigno rimane assai distaccato Si unisce a questi con un bel stradone Il tratto è lungo, il carico pesante Che ci tirava a, terra ad ogni istante. 6 Gocce di sudore ne gettai tante Che a contarle non sarei capace Quasi d'andar non ero più bastante Bollivo come fossi una fornace. Arrivammo a Grigno tutto ansante Regna il silenzio, tutto intorno tace Dalla stanchezza, la gran sete e fame Mi gettai a terra come fossi un cane 7 Per poche ore fermi si rimane Sdraiati a terra come fosse un letto Poi ci vien data una razion dì pane E l'ordine d'andare a Spedaletto. A noi sembravano parole strane


E a tutti ci gonfiava il cuore in petto L'ordine fu dato e non si può mentire Zaino in spalla, e bisogna partire. 8 Quanto soffrii non ve lo posso dire In quelle prime notti della guerra Da questo e quello si sentiva – dire Io non ne posso più, mi gettò a terra. Molti miei amici li vidi svenire E rimanere lì distesi a terra io pur soffrendo dai piedi alle spall Giunsi ad Ospedaletto,, in quelle valle. 9 Tristi nottate, incominciai a passarle Ma pure eravain' giunti agli avamposti E pure il fischio acuto dalle palle Si sentiva essendo anche dai piccol posti La pioggia cade e ci bagna le spalle Si dorme in campi, vigne, prati e boschi Asciutti e molli si dorme per terra Questo è il letto che abbiamo in guerra. 10 Il giorno dopo ognun di noi un arnese afferra E tutti abbiamo l'occhio un po' più sveglio Si scavan fosse e buche per terra Per difenderci oppur offender meglio Ben poco si conosce ancor di guerra Perché il nemico sembra un poco sveglio Ma pur la vita è stata triste assai Perché ,in tre mesi, non ci si ferma mai. 11 Ricognizioni se,ne fece assai Esplorando quei paesi dei dintorni i quali assai discreti, li trovai e le genti pur volean nostro soggiorno. Eppure a strigno non venite mai? a me disse una vecchietta un giorno. Ma la sua volontà fu appagata due giorni dopo ci fu l'avanzata. 12 Era d'agosto una bella giornata , Dopo la pioggia dì una notte intera La quale di vedetta avevo passata' in mezzo a un campo dove alcun riparo non c'era. Ogni ufficiale ci chiama all'adunata


Fan cercar quei che presenti non c'era. Lo zaino in spalla, ch'era affardellato Il cuor fa sospirare a ogni soldato. 13 L ordine di partire poi ci han dato siamo discesi giù per una collina Poi a disfarle' tende ci han portato E verso, Strigno poi ci si incammina. Questo la sera era già occupato . E sempre più in là il nemico ci confina Quelle pattuglie che erano appostate Furon scacciate a suon di fucilate. 14 Qui s'incomincian le tristi nottat Siani sotto al tiro dell'artiglieria Più qua e più là scoppiavan le granate Passan sopra la testa e vanno via. Pur delle case n'hanno bombardate Povera gente ha dovuto andar via Scappavan tanto nudi che vestiti Povera gente eran tutti impauriti. 15 Il 23 d'agosto siam partiti Senza sapér se si facea ritorno Siamo arrivati a Sera assai avviliti Carichi come muli e con affanno. La notte eravam tutti' ringrulliti Dal freddo che credete era un malanno E la fame ancor più c'ha tormentato Perché da tanto tempo non avevam mangiato. 16 Alle due poi c'hanno svegliato Già s'era molli di guazza e infreddoliti S'era ridotti in un cattivo stato Di sotto terra si pareva usciti Una razione di lesso poi c'han dato E di far silenzio pur c'hanno avvertito Queste parole il fante le indovina C'è l'avanzata prossima e vicina. 17 Per certe brutte strade s'incammina per macchie fossi e piccoli sentieri siamo discesi giù per una collina e siamo giunti dove s'era ieri. Mentre la prim'alba s'avvicina


e siamo giunti dove s'era ieri. Dove un forte nemico su di un monte a colpi ci fa fare il dietrofronte. 18 Piovean granate che parea una fonte però gran danno non ce lo arrecava per noi più gran riparo era il monte La testa quasi a terra si ficcava le mani sul fucile sempre pronte benchè il nemico assai lontano stava Alfine un ponte s'è trovato così dalle granate c'ha salvato. 19 Quant'era meglio che non fossi nato piuttosto che trovarmi a queste prove quasi due anni è che son soldato otto mesi in guerra, il resto altrove.Fra le altre cose un fante sfortunato perchè mi son trovato sempre a tristi prove patir la fame e sete ed ogni stento specie a trovarmi in combattimento. 20 Ora ci sono abituato e non lo sento come nei primi tempi della guerra Tanto restare al''acqua oppure al vento dormire nella paglia oppure in terra Pur nella vita mia verrà il momento che i sacrifici sentirò della guerra e se fortuna avrò di non morire pur ritornando c'avrò da soffrire. 21 Troppo mi ci vorrebbe per finire di raccontar la vita della guerra chi non la prova non la può capire fosse il più intelligente della terra. Cosa lo conterei anche il morire? così morendo ogni morir si serra. Ma il peggio è continuando questa via che allunga sempre la nostra agonia. 22 Lasciamo queste cose, andiamo via e riparliamo un po' dell'avanzata che da quel ponte siam venuti via abbiamo camminato una mezza giornata senza mettere un piede sulla via


Varcando fossi e vigne all'impazzata Si varca un fiume, si entra in un canale come in Maremma alla caccia al cinghiale. 23 Appena quello scende noi si sale già l'avanguardia fa le fucilate il nemico scappa è naturale, ma si rivolta con le fucilate Sopra di noi facea un fuoco infernale più qua e più là scoppiavan le granate L'una dopo l'altra ci picchiavano accanto tra fuoco e fumo copria tutto quanto. 24 La testa alzavo allor di tanto in tanto Per conoscere l'effetto dl cannone Scorsi una casa, un campanile accanto Che era sepolto da un gran polverone Era scoppiata una granata accanto Sopra a un tetto, su nel cornicione Di un bel palazzo che nel centro stava Fortuna che nessuno l'abitava. 25 Per caso della gente passeggiava. Nei pressi di quel luogo disgraziato Dove più la mitraglia grandinava Tanto sui tetti come nel selciato Un povero barbiere che se ne stava Con altra gente presso un porticato Arriva all'improvviso una granata Tutta la gente fu terrorizzata. 26 Certo la peggio sorte fu toccate Al povero barbiere che fu colpito Da una di quelle scheggie di granata Che si scagliò scoppiando in quel granito. Tutta la testa sua fu fracassata E anche in altri posto fu ferito Fra il dolore degli astanti, la famiglia al pianto La sera fu portato al camposanto. 27 Siamo arrivati, a Borgo, dopo tanto Un bel paese, pure un po' elegante E' circondato da un bel verde manto Quasi nascosto in mezzo alle piante C'è una catena di montagne accanto


Fabbriche d'ogni specie ce n'è tante Ma or si trovano in tristi condizioni Perché si trovano in mira dei cannoni. 28 Il nemico non ha punta compassione Né delle donne né degli innocenti Che spesso ne massacra col cannone E tanti cuori li fa star dolenti. L'artiglieria nemica è in posizione Lancia granata giù tutti i momenti Chi si spaventa, e chi riman ferito E chi nel cimitero vien seppellito. 29 Vorrei spiegarvi tutto a dito a dito Di ciò che 'in questi posti ora succede Ma ora 'non posso e qui 'faccio 'finito Lasciando in altro tempo il passo al piede Invio a tutti un saluto infinito E spero che tutti l'accetterete con fede Alla famiglia, ai parenti e amici Sperando di vederci un dì felici.

(Informatrice, Maria Bernardini, anni 70)



2012 rev.2014


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