La birra non esiste

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LORENZO “KUASKA” DABOVE

LA BIRRA NON ESISTE LA VITA, LE STORIE, I SEGRETI DI KUASKA, IL “PROFETA” DELLA BIRRA ARTIGIANALE ITALIANA


CAPITOLO 5

L’EPICA STORIA DELLA BIRRA ARTIGIANALE La birra è l’unico alimento che si chiede per quantità e non per qualità.

Se ci pensate un attimo l’avrete fatto anche voi. Siete entrati in un locale e avete chiesto “una media” (che per default è una media “chiara”). È un po’ come entrare in un negozio di vestiti e chiedere “una XL” o in salumeria e chiedere “un etto e mezzo”. Oppure, in un ristorante, “un piatto”. Da quasi 40 anni mi batto proprio per questo, per diffondere una corretta cultura della bevanda più socializzante del Pianeta: è un compito arduo nel Paese del vino, dove la birra è sempre stata vista come una bevanda culturalmente inferiore. Qui se ne è sempre bevuta poca (circa 30 litri pro capite all’anno, la regione più birrofila è la Sardegna ndr), ma il giro d’affari della birra industriale vale comunque miliardi ed è saldamente nelle mani di poche potenti multinazionali. Come accade in tutto il mondo e i settori, quando si detiene denaro e un potere assoluto, si rivolgono messaggi ambigui al consumatore, guidandolo verso un appiattimento del gusto ed ergendosi a difensori del “prodotto”. Un esempio concreto: una potente joint-venture di birra industriale è arrivata a sostenere di investire molto nella promozione della “cultura birraria”, organizzando, nelle varie nazioni, master di 3


spillatura per i gestori dei locali. Peccato che nei suoi spot pubblicitari spesso si vedono dei ragazzotti trendy che acchiappano dal frigorifero una “birra” ghiacciata e la trangugiano direttamente dalla bottiglia. In altri casi domina una comunicazione “non pubblicitaria”: una volta nella trasmissione Linea Blu di Rai 1 - si parla di anni 2000 - si racconta di un gemellaggio Sardegna-Irlanda. Inquadrano le due birre che rappresentavano le due isole: la Ichnusa e la Murphy’s. Un signore (che tutti credono sardo) ci spiega che la birra si fa con l’orzo e bla bla bla... Tutto normale? Insomma. La Ichnusa è dell’Heineken, la Murphy’s è dell’Heineken. Ah! E quel signore? Ma io lo conosco, non è sardo! Era Michele Camastra, un manager di... di... non mi viene... ah sì, della Heineken! Peraltro, è ottima persona. All’estero una volta ci conoscevano solo per la Peroni, la Moretti o (i più informati) per la Menabrea, vincitrice per due volte al Campionato di Chicago nella categoria “pale lager”. Nel libro del grande maestro Michael Jackson “The World Beer Guide” del 1977, quello che mi fece prendere la scimmia, l’Italia si riduceva a poche righe, inserite nel capitolo del Mediterraneo, con quattro etichette di anonime birre industriali. Ma a un certo punto qualcosa è cambiato. Ecco per voi l’esaltante racconto del “rinascimento” della birra artigianale italiana. I pionieri Siamo all’inizio anni 90. Un pugno di appassionati “profeti”, nei loro viaggi di piacere all’estero incontrano i grandi stili birrari. Proprio grazie a loro, in Italia, a partire dai primi anni 90, è finalmente possibile trovare alcuni locali che servono - nel modo corretto - un numero sempre crescente di birre estere (belghe soprattutto) e alcuni rari beershop, in cui acquistarle in bottiglia e ricevere le appropriate informazioni, magari per poi degustarle a casa propria in un bicchiere adeguato allo stile. Nacque anche - e ben presto si sviluppò - l’idea di organizzare corsi di degustazione, sia per neofiti sia per iniziati: assaggi guidati nei quali le birre, dopo essere state introdotte (per stile, luogo di produzione, aneddoti e filosofia del birraio) vengono degustate “consapevolmente”, accompagnate dal cibo adeguato. Si andava formando così un “nuovo consumatore” più educato, consapevole e colto ma anche più esigente 4


(ne traccio un identikit a pagina 49), che sarebbe stato pronto per il momento topico, l’apertura dei primi microbirrifici e brewpub. Arriviamo alla metà degli anni 90. Seguendo l’esempio dei giovani birrai americani, grandi protagonisti della nota renaissance, i nostri pionieri vengono folgorati, non sulla via di Damasco ma nei loro viaggi all’estero. Questo percorso esemplare è particolarmente vivido nel racconto del mio primo incontro con due dei nostri più abili e fantasiosi birrai: Agostino Arioli del Birrificio Italiano di Lurago Marinone (Como) e Teo Musso del Baladin di Piozzo (Cuneo). Agostino, nato a Milano nel 1965 da padre biologo e ricercatore, dimostrò ben presto la sua passione per la birra, facendo esperimenti - fin dalle elementari - con Mike un amico olandese, e creando una “birra” il cui aroma non lo lascerà più. A 15 anni, il suo sogno dichiarato era di diventare un mastro birraio e a 19 cominciò a farsi la birra in casa. Mentre era ancora studente universitario iscritto alla facoltà di Agraria, durante un viaggio negli Stati Uniti e in Canada, si innamorò perdutamente del Granville Island Brewing, un pub di Vancouver. Al suo ritorno in Italia, resistendo alla tentazione di fare subito il “grande salto” e aprire il suo brewpub, decise di concludere gli studi, migliorando le sue conoscenze in tecnologia birraria con la tesi e il tirocinio alla Von Wunster di Comun Nuovo (BG). Da grande amante delle birre a bassa fermentazione, Agostino si perfezionò in Germania, presso le birrerie Feierling di Friburgo e Joh. Albrecht di Costanza. Il lieto fine fa data al 3 aprile 1996: con l’aiuto del fratello Stefano, Agostino corona il suo sogno, inaugurando il glorioso Birrificio Italiano di Lurago Marinone con il primo impianto concepito da Agostino e realizzato da Ugo Paglia dell’officina Omap di Sabbioneta. Qui - sotto i tigli del locale della terrazza - mi trascinò la prima volta la mia amica Flavia Nasini, forse nel 1997: io a quei tempi ero un po’ restio ma ci andai lo stesso. Così incontrai la Tipopils, la Bock e una fantastica La Prima, di cui chiesi il bis (era una dunkel che poi non ha più fatto). Senza nemmeno accorgermi mi ritrovai ingaggiato con Agostino nei primi “corsi” al Birrificio Italiano, con pochi iscritti, sì è vero, ma si stava tracciando una nuova via! Per dire che tempi erano, in un corso a Milano - all’Escondido Pub di Rogoredo, dove nella prima serata nessun avventore sapeva nulla di nulla di birra - c’erano sì le birre belghe di 5


Gabriella Ceolaro di “Progetto birra”, ma... non avevamo i bicchieri! Allora le servimmo nelle coppette a forma di fiore della macedonia. Matterino (detto Teo) Musso nasce invece nel 1964 a Piozzo, meno di mille abitanti, da padre contadino, in piena zona vinicola, con Dogliani a due chilometri e Barolo a una decina. Ben noto fin da giovane per il suo anticonformismo ma grande appassionato della sua terra, Teo si sentiva attratto da qualcosa di diverso. Scelse infatti di votarsi alla birra e decise di viaggiare in Belgio, alla scoperta dei segreti delle celebrate birre locali. Ebbe la fortuna di avere come maestri alcuni dei grandi birrai belgi come Christian Vanhaverbeke, tecnico di produzione addirittura dai monaci trappisti di Chimay e poi anche a Grimbergen e Achouffe e il leggendario Jean-Louis Dits della Brasserie à Vapeur di Pipaix, che per Teo è come un padre putativo. Tornato a casa nel 1986, dapprima aprì il suo pub proponendo ai fortunati clienti i grandi classici della produzione belga, ma ben presto si accorse di non essere completamente soddisfatto e appagato e decise di trasformarlo in un brewpub. Con l’aiuto dei suoi due maestri si costruì un impianto originalissimo in Belgio (e riuscì a farlo arrivare a Piozzo, come racconteremo) e nel 1996 il suo sogno diventò realtà. Nasce Baladin, la cui fama ha ormai ben superato i confini nazionali. Un giorno di luglio del 1997 il mio migliore amico, che ovviamente è uno psichiatra (abita a Torino ma lavora a Bra) mi convinse - sempre malvolentieri - ad andare a dare un’occhiata a quel pub di Piozzo. Arrivammo nel tardo pomeriggio di un sabato di luglio, storditi da un caldo infernale. Nel brewpub deserto c’erano solo dei ragazzini che giocavano a calcio-balilla e andavano a cambiare la moneta aprendo direttamente la cassa. C’erano tre birre alla spina, una blanche, una brune e un’ambrata. Quando finalmente comparve una cameriera le chiesi una blanche. La degustai trovandola scialba e senza schiuma. Fu poi il turno della brune che mi sembrò senza corpo e con una schiuma inguardabile. Lo psichiatra mi suggerì di andarcene ma il mio proverbiale sesto senso e la deformazione professionale mi fecero ordinare la terza birra, chiamata Super. È allora che ho visto il paradiso! Fu una vera rivelazione: era ricca di aromi “caldi” e sapori fruttati con divine note di amarena e mandorla amara, caratteristiche che trovavo solo in 6


grandi birre monastiche del Belgio! Ne bevvi tre di seguito e poi feci chiamare Teo: quando arrivò lo scambiai subito per un tossico, come ricorda Marco Drago nel libro “Tutta colpa di Teo” (Feltrinelli): “mi si presenta magro, anelli, capelli ricci neri, estroso, pizzetto, catene, una sorta di zingaro con la faccia vissuta, sembrava anche un po’ tossico...”. Teo subì le critiche e accettò i complimenti con malcelati cenni di delusione e di soddisfazione, ma facemmo le due di notte e diventammo subito fratelli. Quando, non molto tempo dopo, tornai a controllare la produzione rimasi folgorato dal cambiamento: tutte le birre sfoggiavano una schiuma stupenda, un bel corpo e quel tocco di genialità che Teo sa apportare. Alla fine del nostro primo incontro, gli diedi un sottobicchiere del Birrificio Italiano e lo informai che a Lurago Marinone esisteva un suo “collega”. È così che cambia così la storia: in quel momento nacque l’idea di associarsi e di creare Unionbirrai e partì l’esaltante avventura del movimento della birra artigianale italiana. Il compleanno della birra artigianale Molti dei nostri più noti birrifici, come vedremo nel dettaglio, sono nati - tra un’autorizzazione e un’altra - proprio nel 1996. Per questo nel 2016 - scriviamo tra estate e autunno 2015 - si possono dunque ben celebrare i 20 anni della birra artigianale in Italia, un movimento giovanissimo ma inarrestabile. Si va avanti come il Telethon. Quando avrete finito questa pagina probabilmente sarà nato un nuovo birrificio. Il sito microbirrifici.it - for the record - ha appena registrato sul counter l’apertura del birrificio n. 1.000! Per la verità - anche se i primi birrifici sono stati aperti tra 1996 e 1997 - c’è una data simbolica precedente a cui fare riferimento: la Giornata Nazionale dell’Homebrewing - nata da un’idea di MoBI (Movimento Birrario Italiano) - ricorda infatti la ricorrenza del 26 ottobre 1995, data di pubblicazione del Decreto 504 che legalizzò la produzione casalinga di birra (purché non fosse venduta!). Forse, ma non lo sapremo mai, questo movimento ha preso slancio proprio grazie a questo cambiamento legislativo (le bozze di questo libro sono state chiuse proprio quel giorno, 20 anni dopo!). Quel che è certo è che il movimento degli homebrewer ha avuto un’importanza capitale (a pagina 89). 7


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