Una Storia Nazionale

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cover_STORIA_NAZIONALE_DEF_sportdoc 27/09/12 17:07 Pagina 1

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Francesco Totti «Sono più uomo io di tutti voi messi insieme»

Bobo Vieri ROBERTO RENGA è nato a Perugia di lunedì:

«Come Achille, me ne sto sulla collina»

LIPPI ESCLUSIVO. PER LA PRIMA VOLTA RACCONTA IL SUDAFRICA

Alessandro Del Piero «Non so che cosa ha detto Lippi, ero al bagno»

Rino Gattuso «Oggi facciamo il 4-4-3»

Giovanni Trapattoni «Meglio due feriti che un morto»

Gianluigi Buffon

€ 15,00

UNA STORIA NAZIONALE

il giorno prima sua madre era allo stadio. Non ha fatto il calciatore: era una schiappa. Moglie e due figli. Segno: Toro. Studi classici. Ama scacchi, cinema, Caravaggio, letteratura americana e calcio, che scoprì con il Brasile del 1958. Fa il tifo per gli amici: ne ha molti nella Nazionale, che segue, senza tregua, dagli Europei del 1980. Ha cominciato alla Nazione di Perugia, è passato poi a Roma: Paese Sera prima, dopo Il Messaggero. Molta tivvù e moltissima radio. Un fioretto nel 1990: mai più incarichi interni al giornale... Ma ha sbandato due volte per l'offerta di una direzione. Per venti anni inviato intorno al mondo.

ROBERTO RENGA

ROBERTO RENGA

«Mo' je faccio er cucchiaio»

sport.doc

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UNA STORIA NAZIONALE Quattro stelle, qualche flop Un secolo d'Italia in azzurro

L'attesa nuova edizione del bestseller "Ho ballato con Mandela" Absolutely Free Editore

“Una Storia Nazionale” è la storia della Nazionale, che è parte integrante della storia della Nazione, la nostra Storia, la Storia dell’Italia... Per uscire alla meglio da ciò che sembra (ma non è) un gioco di parole, Roberto Renga si affida a una trasformazione (quasi) genetica della sua prima opera, “Ho Ballato con Mandela”: l’ha ripresa in mano, l’ha asciugata dei molti racconti nati dalle sue scorribande da inviato, la ripropone oggi con un testo nel quale la Nazionale è l’unico filo conduttore. Un filo al tungsteno, però... Talmente forte e resistente da trascinare con sé altre mille storie. Quelle dei molti calciatori che ne hanno fatto parte, dei dirigenti, dei tecnici, dei giornalisti, degli avversari, di “quelli al seguito”, dei tifosi e degli appassionati. E noi con loro, tutti insieme in lieta e sussultante carovana, dato che la Storia della Nazionale – e questo Renga lo spiega e documenta benissimo – va di pari passo alla storia del nostro Paese, certe volte l’anticipa, più spesso ne è succube, quasi sempre la spiega. Un libro di mille ricordi, mille fatti nascosti, mille volti da riscoprire. Compreso quello di Marcello Lippi, che a Renga ha concesso la sola intervista in cui abbia raccontato, e spiegato, lo sfortunato Mondiale sudafricano. Daniele Azzolini


Progetto editoriale: Absolutely Free Grafica: Nicoletta Azzolini Immagini: L’immagine di copertina è una rielaborazione grafica realizzata da Nicoletta Azzolini

Prima edizione: ottobre 2012

© Copyright, 2012 Absolutely Free Editore - via Roccaporena, 44 - 00191 Roma E-mail: info@absolutelyfree.it

È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche a uso interno o didattico, non autorizzata

ISBN 978-88-97957-75-8


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ROBERTO RENGA

UNA STORIA NAZIONALE Quattro stelle, qualche flop. Un secolo d’Italia in azzurro

Absolutely Free Editore



Agli studenti inglesi che, mentre in Italia succedeva un quarantotto, misero per iscritto le prime norme del gioco del calcio, ufficializzandone la nascita



a prima Nazionale venne applaudita da quattromila spettatori all’Arena di Milano: 6-2 sulla Francia, che da allora non ci sopporta. Era il 15 maggio 1910, ore 15,30 in punto. Radio, televisione, tribuna stampa: niente di niente. Arbitro l’inglese Goodley, stipendiato dalla Juve, stimatissimo: può capitare e allora capitava anche che il notaio calcistico venisse pagato, ufficialmente dico e non sotto sotto, da un club. Altri tempi. Belli, se in vista non ci fosse stata la grande guerra, quando il pallone prese a rimbalzare tra le croci bianche che segnavano la morte e la porta. Centodue anni fa, appunto. Un secolo e un pizzico d’Italia. Un titolo mondiale ogni venticinque anni. Buona media e si poteva fare di più. Almeno tre titoli ci sono scivolati via dalle mani: 1970, 1990, 1994. Pianti e rimpianti. Un percorso che ha toccato due conflitti mondiali, la tragica fine del Torino, il 68, Pelè, Maradona, i figli dei fiori, il catenaccio e il possesso palla, scandali che sembravano dovessero cancellare il calcio e toglierlo dalla testa della gente, come è capitato con altri sport, ormai sfioriti e dimenticati. È cambiato il pallone, che non è più, come si chiamava nelle ore dell'alba, la sfera di cuoio e se la colpivi di testa erano dolori. È cambiato il liguaggio di chi scrive e di chi ne parla. Sono cambiate le maglie, ora piene di disegni, scritte di ogni tipo, non solo quelle degli sponsor. Il calcio si leggeva. Poi si ascoltava e, se proprio lo amavi, lo guardavi grazie ai disegni di Silva (inventava: che altro avrebbe potuto fare?). Ora si vede tutto e in tutto il mondo e si resta in poltrona.

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Si andava allo stadio, quello sì, almeno in Italia, rimasto come allora. Da noi ci sono ancora gli impianti alzati per i mondiali del 1934, quando Mussolini si accorse che i calciatori di ieri ricordavano i gladiatori di ieri l’altrio e che il calcio sarebbe stato un ottimo veicolo pubblicitario. In particolare vincendo, come capitò per due volte di seguito e l'azzurro divenne anche nero e il saluto si fece romano.

Il regalo di Lippi Questo nostro viaggio parte con la prima Nazionale e arriva all'ultima Nazionale, vista agli europei di Polonia e Ucraina. E si presenta con un regalo, offerto a chi ama il nostro calcio: Marcello Lippi per la prima volta racconta il suo Sudafrica. Non ne aveva mai parlato. Mi assumo ogni responsabilità, disse quel giorno, dopo la sconfitta degli ex campioni del mondo. Si alzò, fece un cenno di saluto e chiuse. Poi silenzio, sino alle parole che potrete leggere quasi alla fine della storia nazionale.

Dal bianco al bleu marina Italia, in quel fatidico giorno passato allora inosservato, in camicia bianca in onore della Pro Vercelli, cui l’Inter aveva appena portato via uno scudetto. Scandalo, dissero a Vercelli e non solo. Il primo, comunque, non l’ultimo. Quanti ne avremmo visti, sempre sperando nel ravvedimento. La seconda partita si giocò a Budapest e ne prendemmo sei da una delle migliori squadre dell’epoca, l'Ungheria. Trerè si portò dietro una valigia piena di cibo, non si sa mai e, del resto, lo facciamo ancora, accompagnati in trasferta da cuochi, parmigiano, pomodori e spaghetti. La mamma no, ma ci dispiace un po'. 8


A Fossati rubarono gli scarpini e giocò con eleganti calzature da passeggio. Esordì a sedici anni De Vecchi, figlio di Dio, come, allargandosi, lo chiamarono. Al banchetto ufficiale, ungheresi in smoking, italiani in flanella. De Vecchi in calzoni corti. Il 6 gennaio del 1911 si giocò la terza partita, di nuovo contro l’Ungheria, ospitata a Milano: uno a zero per loro. Fece la sua comparsa la nuova maglia. Non azzurro Savoia, come si è tante volte detto e scritto, ma bleu marina: lo si legge nell’unico resoconto della vicenda. Maglietta con scollatura a V, un laccetto per chiuderla, una croce sul cuore. Era nata la divisa dell’Italia. I calciatori da allora vennero chiamati azzurri; il bleu lo lasciammo, sbagliando, ai francesi. Azzurri furono poi gli atleti di ogni disciplina.

Un salto in Messico La nuova Italia del calcio, quella che ha accompagnato le penultime generazioni, nacque nel 1970 in Messico, dove, tra le nuvole, Montezuma con la sua vendetta, le piramidi, la quebrada e la tequila, perse in finale contro il Brasile: stanchi (noi: eravamo tutti in campo con Riva e gli altri) per la semifinale contro la Germania, reggemmo solo un tempo. Il secondo fu un calvario. I brasiliani arrivavano da ogni parte e facevano sempre gol. Un incubo. Mille anni dopo mi raccontarono una storia. Valcareggi nel dare, come si usava, le marcature, chiese a Burgnich di prendere Rivelino e a Bertini di controllare Pelè. Esattamente l'opposto di ciò che esperienza e intelletto consigliavano, essendo uno il brillante regista che si sa e l’altro, appunto, Pelè, che con il gol aveva un solido e noto rapporto d’amore e di stima reciproca. I giocatori si scambiarono sguardi preoccupati: loro sapevano. Bisognava fare qualcosa. Modificare le marca9


ture senza dirlo al tecnico? Prima o poi se ne sarebbe accorto. Accettare e andare incontro alla disfatta? Lasciamo perdere. C’era una sola strada da seguire: convincerlo. Venne spinto in avanti De Sisti, che, con quell’aria tra il puro e l’impuro di chi è nato ai Castelli romani, avrebbe potuto spiegare all’allenatore la situazione tattica senza apparire presuntuoso. Lo fece. Noi, almeno, la vediamo così, chiuse tutto d’un fiato e facendo subito un passo indietro. Valcareggi lo guardò. Si mise seduto. Ci pensò a lungo. Disse infine: partiamo come dico io. Se avete ragione voi, si cambia. Avevano ragione i calciatori e al quarto d'ora Valcareggi prese la storica decisione: invertiamo le marcature. Ma si stava giocando e certe cose si fanno a palla ferma. Burgnich lasciò Rivelino, Bertini mollò Pelè. Il primo sfruttò la libertà per pennellare un cross per l'altro, piazzato al centro dell'area. Burgnich stava arrivando, c'era quasi. Allungò il braccio, fece un salto. Pelè, senza ostacoli, rimase in cielo e fece quel gol che ha rovinato l’adolescenza di tanti.

I sei minuti Non ci fa una bella figura Valcareggi. Il quale, del resto, si è portato dietro per tutta la vita il mistero della staffetta tra Mazzola e Rivera e quello dei sei minuti fatti giocare in finale a Gianni, un’altra figuraccia mica da ridere. Non era un cattivo tecnico, ma debole e predisposto a inspiegabili cadute. Rivera piaceva poco al capo comitiva Mandelli, un industriale che ignorava il calcio, e a qualche compagno importante, che gli rimproverava snobistica solitudine e pigrizia in campo. Come Platini, riteneva che dovessero essere gli altri a correre, a lui toccava un diverso e più alato compito: pensare, creare, disegnare calcio. Del re10


sto, vale una regola: accanto all'ingegnere, ci vuole il muratore. E Rivera, guardategli le mani (e i piedi), muratore non era. È stato il primo italiano a vincere il Pallone d’oro, nonostante l’avversione di Gianni Brera, che, ai suoi tempi, contava più del presidente della Federcalcio. Ma intelligenza e buona scrittura non sempre portano alla verità. La sensazione è questa: Brera, tutto compreso, era così più bravo degli altri da arrivare a prenderli in giro. Sandro Mazzola in privato offre un’altra, prosaica, versione. Il titolare sarebbe stato sempre lui, altro che staffetta, che venne ideata solo per il mal di pancia che l’aveva colto e debilitato durante i mondiali. Rivera favorito dagli dei e dalla toilette, insomma, non rovinato dagli uomini.

Fulvio esagerato Fulvio Bernardini fu uno dei migliori calciatori di sempre. Cominciò nella Lazio e come portiere. Nella Roma si trasformò in centrocampista, così diverso dagli altri, per i piedi e per la laurea, che la Nazionale lo lasciò spesso fuori: i compagni parlano un’altra lingua, spiegò senza arrossire Vittorio Pozzo, che non andava per il sottile quando si trattava di spararle grosse. Da allenatore ha vinto scudetti a Firenze e Bologna, non a Milano: segno di classe superiore. Offensivista, in uno spareggio con l'Inter di Herrera all'Olimpico mise un terzino in più (Capra) e confuse le idee di HH, bravo nel preparare a parole le partite, non a cambiarle dalla panchina. Non ci vedeva, dicono. I ragazzi non capirebbero, sosteneva Herrera, dando degli stupidi ai calciatori. Il dottore prese il posto di Valcareggi, dopo la pessima figura rimediata in Germania nel 1974, quando l'Italia si ritrovò davanti la Polonia, qualificata e disinteressata. Gli 11


azzurri litigarono durante il riscaldamento: Mazzola chiese spiegazioni a Capello, che aveva detto di voler ringiovanire la squadra e dunque partendo proprio da lui, già vecchiotto. Sandro, per innervosire l'acido collega, eseguì da caposquadra solo esercizi di velocità. L'altro, lento e pesante, finì in panne e boccheggiava prima del via. Bisognava trovare qualcuno che, incontrandosi con i polacchi, capisse sino a che punto si potessero ammorbidire. Quel qualcuno, alla fine, spuntò fuori, ma era tardi. L'Italia perse e uscì dai mondiali.

Il vice con la pipa Il vice del dottore, detto anche, con amichevole snobismo romano, Fuffo, era Enzo Bearzot, destinato a grandi imprese e dava l’idea di saperlo. Se ne stava in disparte. Guardava e fumava la pipa. Non scontroso: tra l’assente e il meditabondo. Ciò che faceva il capo gli sembrava strano e misterioso. Non riusciva a fare coppia con uno così diverso. Bernardini dipingeva calcio in campo e cercava di farlo in panchina. Con Fiorentina e Bologna gli riuscirono svolazzi, giochi di luce e d’ombre e pennellate stravaganti. Con la Nazionale no. Era stanco. Credeva meno in se stesso e nel suo lavoro. Arrivò a convocare un tale Martelli, sconosciuto. È il figlio di un mio amico di Livorno, disse il cittì. E chiuse. Non ci furono polemiche, ma solo stupore mascherato. Come a dire: se va bene per te, va bene anche per me. Non so che cosa ne pensasse Bearzot, che era quadrato per quanto l’altro era tondo. E concreto, come chi viene dal Friuli, una terra fatta di pietre e il raccolto deve sudarselo, mica gli cade tra i piedi. Facile la vita di Bernardini. Era un genio del calcio. Da portiere e da centrocampista. Lo vedevi e perdevi la testa. Roma e l’Italia l’amavano. Elegante, lucido, capace di 12


scherzi e di epiche sfuriate. Si laureò alla Bocconi di Milano e al dottore e al lei teneva. Girava con fuoriserie che altri potevano solo sognare. E se doveva avere un incidente stradale, faceva le cose in grande: tamponò l’auto di Mussolini, non di uno qualsiasi e quanti problemi ne ricavò. I due tecnici non potevano prendersi. Il dottore guardava l’altro come se venisse da Marte, Bearzot lo stava a sentire per pura educazione. In Federazione capirono e li misero alla pari. Non funzionò. Rimase alla fine il solo Bearzot, che ci avrebbe regalato la terza stella, litigando con il mondo: una scelta di vita.

Totonero... Sembrava la fine Nessuno avrebbe puntato una lira sull'Italia. Era il 1982 e ci aspettava la Spagna. Venivamo da pessimi Europei persi in casa e dal Totonero, uno scandalo che poteva stenderci, secondo, forse, solo a Calciopoli. Sono passati più di trenta anni e il 23 marzo, il giorno delle manette, sembra ieri. Giocatori e tecnici scommettevano sulle proprie sconfitte: una polizza sulla vita calcistica. Un allenatore raccontò: in caso di vittoria prendo mezzo milione, ma come posso essere sicuro di vincere? Allora scommetto duecentomila sulla sconfitta e come va, va bene. Si faceva tutto alla luce del sole e un dirigente teneva il banco. A un calciatore, vecchio e con solide e numerose amicizie romane e non solo, venne in mente di trasformare il giochino individuale in un gioco di squadra. Il capo, i sottocapi, gli scommettitori, i banchisti. Lui il regista. Di notte, in ritiro, era tutto un telefonare: oggi vinci tu, domani tocca a me, il mondo va avanti lo stesso e il conto in banca tira un sospiro. La folle idea nacque e si sviluppò a Roma, attorno a Trinca, che aveva un ristorante al centro, e 13


Cruciani, che vendeva frutta all'ingrosso e serviva gratuitamente di pesche e zucchine la maggior parte dei calciatori romani. Trinca era basso e rotondo, occhi piccoli e lingua lunga. Pensava, come gli avevo detto, che fossi un medico e con medico e prete ci si confessa. Una sera, all'interno del suo ristorante (cui poi dette fuoco per cercare, invano, di riscuotere i soldi dell’assicurazione), si avvicinò al tavolo con aria sofferta e misteriosa. Dopo essersi guardato intorno, sollevò il pullover e mostrò un’insolita cintura: tutti biglietti da diecimila, infilati in verticale, attraente cartucciera. Sono cinquanta milioni, fece, abbassando la voce. Domani vado a Bologna e scommetto tutto sul pari con la Juve. Azzeccò la puntata. Qualche giocatore del Perugia si mise d'accordo per fare due a due ad Avellino. Fu, effettivamente, due a due. Paolo Rossi, non uno qualsiasi ma il numero uno, secondo il successivo atto d'accusa, avrebbe detto sì in cambio di due reti. Leggerezza, disincanto, voglia di liberarsi di seccatori, non i sa. Successe. Il Perugia era in ritiro a Vietri, l'incontro tra giocatori e organizzatori avvenne durante una tombolata, l'allenatore Ilario Castagner era fuori. La Lazio pensò male di perdere per tre a due a Milano e di vincere per due a zero con l'Avellino: risultati che non avrebbero dato nell’occhio e neppure danneggiato la società. A Montesi dissero tutto nei bagni degli spogliatoi di San Siro. Si tirò fuori: malato. Al suo posto Totò Lopez. Solo Vincenzo D'Amico venne tenuto al buio: non si fidavano. Operazione compiuta a metà: due a uno. È complicato truccare le partite. Vanno sintonizzate ventidue teste e addomesticato il pallone, che spesso va dove gli pare. E con l'Avellino, quando a Roma nessuno accettava più scommesse sulla vittoria della Lazio, finì uno a uno.

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L’avvocato con la pistola Studio di un noto avvocato. Sopra la scrivania un revolver. Un tizio l'impugnò e disse: è per chi non sta con noi. Raccontarono che tutte le squadre italiane, meno Inter e Catanzaro, erano finite nella rete tesa da Trinca e Cruciani. I quali, a forza di puntare soldi altrui ma soprattutto propri, si rovinarono. Chiesero un risarcimento ai giocatori. Ricevute pernacchie, li denunciarono e lo scandalo divenne pubblico e ufficiale. Si arrese anche Tuttosport che, quando Paese Sera, e Messaggero in seconda battuta, pubblicarono le prime notizie, uscì con un titolone: "Scandalo inventato". Della vicenda si occuparono giustizia sportiva e giustizia ordinaria. I processi sportivi portarono retrocessioni, radiazioni, squalifiche. L'altro processo, svoltosi a Roma, si chiuse con l'assoluzione: la frode sportiva non era ancora reato. Fui chiamato a testimoniare. In una saletta del tribunale mi ritrovai con Gianni Rivera. Avevo un rimpianto: hai giocato troppo poco con Gigi Riva. E in Nazionale? mi disse. Non basta, gli risposi: volevo di più. Ho una foto: sullo sfondo, alla sbarra, Walter Cruciani, lo sguardo a terra. Riqualificarono, giusto in tempo per i mondiali, Paolo Rossi. Che era magro da far paura e pallido e, sinceramente, non stava in piedi. Gli altri beneficiarono dell'amnistia che seguì la vittoria. Pagò soprattutto Montesi, che non c'entrava.

Lo schiaffo di Enzo L'avventura spagnola si aprì a Fiumicino: Enzo Bearzot litigò con una tifosa che voleva Beccalossi in Nazionale. Il tormentone mediatico di quei giorni. Bearzot era uomo di grandi ideali e feroci passioni. Da vice di Bernardini 15


aveva girato il mondo e conosciuto il calcio degli altri, non ancora mostrato dalla televisione. Aveva capito, come Vittorio Pozzo tanti anni prima, una cosa: vince la squadra, non il singolo. Beccalossi era un giocoliere: non gli serviva. Quel giorno, dissero, gli era scappato uno schiaffo, come risposta a un insulto. Non ci sono prove o testimonianze dirette. Ma tutti lo scrissero. facendo diventare ufficiale il gesto. A Biella, dove l'Italia si riunì prima degli Europei del 1980, mi capitò di chiedere a Bearzot il motivo per il quale non faceva scalare le marcature. Per intenderci: io lascio il mio uomo per affrontare un avversario libero, un collega mi copre, un altro copre lui. È l'abc del calcio. Bearzot mi guardò e sorridendo offrì un pizzicotto e una massima: ragazzo, sempre undici contro undici siamo. Come a dire: lasciami lavorare e tu gioca con le figurine. In Belgio e Olanda già scalavano le marcature in avanti, lasciando in fuorigioco il più lento degli avversari. Il mondo correva e Bearzot, mentre il Piave mormorava, rimaneva in trincea. Non era un incompetente. Aveva idee semplici, datate, ma chiare e non deviava: è uno dei segreti del calcio. Il cittì aveva giocato con Torino e Inter: discreto e robusto mediano di rottura. Una brevissima parentesi da allenatore e poi a Coverciano: federale classico, tutto d’un pezzo, pipa compresa. Fece tre mondiali: uno benissimo in Argentina, dove arrivò al quarto posto e dette spettacolo; un secondo bene in Spagna; un terzo malissimo in Messico.

Il gioco, i giocatori Bearzot puntava su un portiere affidabile: Dino Zoff, friulano come lui. Uomo di sostanza, non di apparenza. Badava al sodo. Il contrario di Albertosi, tra i pali e nella 16


vita. In Argentina Zoff prese qualche gol da lontano e scrissero che non ci vedeva più. Siamo i più bravi del mondo a costruire statue per il gusto di distruggerle. In difesa Gentile dalle mille mani e uno stopper da scegliere, via via, tra Collovati e Bergomi, chiamato zio per via dei baffi che gli davano qualche anno in più. Bearzot aveva due artisti, come Scirea e Cabrini, abilissimi nel trasformare in offesa, azioni che altri avrebbero chiuso con un calcione. Cabrini dribblava come un'ala, Scirea era nato centrocampista e ricopriva il ruolo di libero con l'eleganza che solo Beckenbauer e Baresi hanno avuto in dono. Quando andava avanti, te ne accorgevi a cose fatte, perché girava al largo, come fanno i gatti, sempre attaccati alla parete. Arrivato, graffiava. È morto mentre faceva l'osservatore della Juve: assurdo incidente in una stradina polacca. A centrocampo Bearzot teneva un mediano basso (Oriali o Marini), un centrocampista completo, inimitabile giocatore universale (Tardelli), un calciatore elegante e discontinuo (Antognoni), un'ala capace di superare sempre l'uomo e di mettere la palla dove voleva, un fantasista esterno e quasi regista (Conti, chiamato però BrunoConti, una sola parola da sparare velocissima). In avanti, una punta alta e una bassa. Perso per malattia Bettega, il tecnico ripiegò su Graziani e Altobelli. Il secondo era magro e tecnico, temevi che potesse spezzarsi. Graziani era apprezzato per la sua corsa continua, ma dargli solo del generoso, come capitò in quel periodo, è un’offesa oltre che un errore. Ciccio era un calciatore moderno. Un centravanti che giocava per il partner (Pulici nel Toro, Rossi in azzurro) e per la squadra, mai per se stesso. La punta bassa fu Paolo Rossi, ripescato per l'occasione, ma ben lontano da una condizione accettabile e che solo il cittì riusciva a vedere. 17


Una squadra completa, forte fisicamente e moralmente, con gente insuperabile e altra di grande qualità. Tutti gli azzurri fornirono nelle ultime quattro partite del mondiale le migliori prestazioni della vita. I campioni, del resto, vincono quando serve. Rivisti adesso sembrano lenti, come lentissimi ci appaiono i giocatori del 1970, per non parlare di quelli che vinsero nel '34 e nel '38. La verità è che ora ci si allena di più e meglio: ci sono anche tecnici creati apposta, i preparatori atletici. Una volta ci si fermava ai professori di ginnastica, qualche flessione, un giretto di campo, il pallone medicinale e via. Ora accanto ai giocatori ci sono scienziati in camice bianco. I giocatori migliori (significa: quelli che se lo possono permettere) hanno il preparatore personale, come le attrici: un altro mondo e altri risultati. I cento stile libero si nuotavano in un minuto e gridavamo al miracolo. Ora l'uomo scivola sull'acqua. Nel calcio bisognerebbe cambiare misure e regole. Ampliare il terreno, alzare e allargare le porte, ridurre il numero dei giocatori, infilare la moviola, ma non si fa niente: a decidere sono vecchietti che poco o niente sanno di calcio, materia già di per sé complicatissima, come tutte le cose che sembrano facili. C'è una conclusione e vale per lo sport e per la vita: non si fanno paragoni, ogni epoca ha i suoi campioni, che qualche volta, travolti dall’enfasi, possiamo chiamare eroi. I cavalieri azzurri litigarono con noi e con il mondo, collezionarono insulti e fu il livore e la rabbia il loro doping.

Gabbiani e granchi In Galizia si pose la prima pietra della vittoria mondiale. Per via del clima. Brasile e Argentina si sciolsero al sole spagnolo, l'Italia rabbrividiva al freddo, recuperando 18


energie. Pioveva sempre. Al primo giorno di mezzo sole gita incontro all'oceano. Spiaggia e scogli. Anzi, no: granchi. Centinaia di enormi granchi rossi. Si spostavano minacciosi, ondeggiando. Prezioso cibo in scatola. I gabbiani, come grasse galline, gironzolavano tra i pescherecci e beccavano il pesce lasciato cadere da distratti pescatori. La sera si sceglieva un ristorante tra due: la Bella Napoli e i Cuatro Caballeros. L'ingresso del Bella Napoli era dominato da un acquario, dentro il quale si azzuffavano i granchi di prima e aragoste. Un giornalista napoletano del Corriere dello Sport, Antonio Corbo, curava da vicino la cottura degli spaghetti e Giampiero Galeazzi, usciva dalla cucina con una montagna di cibo fumante, cameriere personale e di classe, capace di togliere i piatti sotto il naso a timidi avventori. Nell'altro ristorante della città, tiravano tardi giocando a carte Gianni Brera, Giovanni Arpino, Oreste Del Buono, Manlio Cancogni e Mario Soldati. Gli scrittori. Del Buono si autoproclamò presidente del "Club dei rimbambiti", di fronte ai quali, i piccoli e giovani cronisti si sentivano ed erano anonime comparse. L’oste offriva vino spagnolo, che non è granché. Brera glielo bocciava. Tutte le sere così. Soldati viaggiava in macchina e autista. Per due volte denunciò il furto della valigia. In albergo girava allora in canottiera e bretelle, perché non dubitassiro i presenti e, soprattutto, l'amministratore del Corriere della Sera, per il quale scriveva.

Il silenzio stampa Un brillante giornalista del Giorno, Claudio Pea, un pomeriggio bussò alla porta. Tanto per cambiare, pioveva. Senti che ho scritto, disse. Lesse. Più o meno: Rossi e Cabrini stanno sempre chiusi in camera. A questo punto ci si chiede chi sia la muchacha e chi il caballero. Diver19


tente, ma un po' forte, gli dissi. Ormai ho dettato, fece lui. Avrebbe scatenato un pandemonio storico e inedito: il silenzio stampa. Il giorno successivo Rossi e Cabrini scesero a braccetto dalle lugubri scale del Parador. Cantavano la marcia nuziale. Ci scherzarono, insomma. I giornali turchi ripresero il pezzo, usando tinte forti e dando per certo ciò che era un gioco di parole. A Vigo volò Consuelo, allora signora Cabrini, preoccupata per la novità. La Nazionale, ci dissero, sarebbe andata in un'isola in cui sorgeva un casinò. Un giornalista di Torino scrisse che i calciatori avevano giocato e perso grosse cifre alla roulette. Il casinò era chiuso. Brutto giorno per dare spazio alla fantasia. Aggiungete le critiche per i tre pareggi (Polonia, Perù e Camerun) del girone di qualificazione e capirete come mai il rapporto tra Nazionale e giornalisti abbia toccato in quei giorni il punto più basso della storia. Sull'aereo che da Santiago ci portava a Barcellona, Dossena disse: hanno deciso il silenzio stampa, indicando il resto della truppa azzurra. Non capii bene e al giornale spedii solo un corsivo: meglio del niente mandato da altri. Diceva, più o meno: la nazionale italiana, dopo aver deciso di interrompere il rapporto con i giornalisti imponendosi il silenzio stampa, si è chiusa in un albergo di Barcellona, che dista pochi metri da una clinica psichiatrica, dai rappresentanti della quale è stata vanamente e a lungo attesa. Da quel momento parlarono con i cronisti solo il tecnico Enzo Bearzot e il portiere Dino Zoff, noto, quest'ultimo, per i suoi silenzi. Per tutto il mondiale riportai raramente le parole dell'allenatore. Mai quelle del portiere. Cercavo servizi alternativi: le mogli, i marinai italiani, i turisti, gli avversari, i personaggi di passaggio, i toreri.

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