ANTEPRIMA "Io sono Max"

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I. W. Survive

romanzo

Absolutely Free Editore 2


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ÂŤÂť

Inventati un modo in cui solo tu mi chiameresti. Inventatene uno

che ti imbarazzerebbe usare in pubblico

(Go fish)

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Progetto editoriale: Absolutely Free Editore Grafica e impaginazione: Nicoletta Azzolini

Š Copyright, 2011 Editrice Absolutely Free - via Rocca Porena, 44 - 00191 Roma E-mail: info@absolutelyfree.it Ăˆ vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche a uso interno o didattico, non autorizzata ISBN 978 - 88 - 97057 - 29 - 1

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Premessa

«»

Breve telefonata tra l’autore e l’editore Allora Max, lo firma o no questo libro? «È proprio necessario?». Sì, è necessario. «Non amo il mio vero nome». Se ne trovi un altro. «Va bene il titolo di una canzone?». Dipende dalla canzone. «I will survive». Gloria Gaynor? «Sì, io sopravviverò anche senza di te. I’ve got all my life to live, I’ve got all my love to give». L’accorciamo un po’? «I. W. Survive».

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«» Pinze

Baba dice: «In questi casi: pinze». Uhm. E sarebbe? «Sarebbe che la mattina vai allo specchio, ti prendi gli angoli della bocca, e te li tiri su. Così. Sforzati, fingi, ma cazzo sorridi, davanti a lei. Ti ha mollato, no? E allora pinze pinze pinze». Gli amici. Uno pensa: potranno capire, aiutare. Chiedono solo di essere usati, veniamo noi a rincollarti il cuore. Nel caso mio ci vorrebbe del cemento a presa rapida, ma insomma. Nel caso mio: sono stata appena lasciata. Da Lili. Dopo otto anni. La mia faccia è il funerale di John F. Kennedy.

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«» Due vulcani

Prendi una come Baba. Io all'inizio non glielo volevo neanche dire. Era una cosa mia. Mi schifava l'idea di dividerla con altri. E poi davvero: quella non potrà mai capire. Cosa faccio, le dico: Baba, mi ha lasciata, voglio morire, aiutami. Come minimo quella mi trascina a giocare a tennis. Perché lei è così, è generosa, è esagerata, un panzer di ottimismo. Ma appunto, un panzer. E io sono già un pezzo di asfalto, due strisciate di pneumatici sul petto, cosa vuoi schiacciare ancora. Comunque. Se n'è accorta da sola, Baba. È successo al ristorante. Eravamo noi tre. Io zitta, Lili zitta. Io a guardare la forchetta, Lili a guardare la forchetta. E panzer Baba che parlava, bla bla bla: «È pazzesco. Cinquecento euro di multa per non aver pagato l'assicurazione del motorino. Una stronza di vigilessa. Non esiste, non la pago, non esiste». E anch'io mi dicevo la stessa cosa: no, non esiste proprio. Non esiste che Lili mi lasci. Per una che conosce da tre giorni. Non esiste. Tre giorni. Non può farmi questo. Noi siamo una cosa bella. Noi. «Proprio una stronza. Le ho detto che me l'ero dimenticata a casa, l'assicurazione. E lei lì a scrivere il verbale. Una stronza colossale». Stronza stronza stronza. Come hai po-

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tuto dirmi: «È finita. Qualcuno doveva prendere la decisione e l'ho fatto io». È arrivato il cameriere. «Ragazze, che prendete? Avete fame?». Fame. A me ci vorrebbero due metri cubi di alkaseltzer per digerire questa roba che ho dentro. Ma appunto. Pinze pinze pinze. «Io tortellini». E poi Baba ha puntato la forchetta verso di lei: «Quest'anno non ci tiri il bidone come l'altra volta. Vieni anche te in montagna con noi, eh?». E Lili, non so com'è, è diventata rossa, e ha detto solo: «No, mi sa proprio che non ci verrò». Sono bastate quelle parole per sbullonarle il cuore. Per far capire tutto. Perché il senso era proprio quello. Niente sarà più come prima. Qualche giorno fa avrebbe ringhiato: «Col cavolo che vengo lassù a crepare di freddo. Come minimo a casa tua il riscaldamento sarà rotto». No. Stavolta ha detto: mi sa proprio che non ci verrò. E lì Baba, che pure stava ancora a frullarsi in testa la multa per il motorino, ha staccato il cingolato e ha fatto: alt. Col sedere ha tirato indietro la seggiola, sì, mi pare abbia fatto proprio così, sì è accesa una marlboro light, ha sputato il fumo verso il soffitto, ha guardato prima me poi lei, e se n'è uscita così: «Avverto delle vibrazioni negative. Non so cos'è. Però non mi piace. Mi sembrate due vulcani che stanno per esplodere. Non mi piace». Davvero, ha tirato fuori proprio questa roba qui dei vulcani. Babi è pazzesca. Cioè, non è che ti dice: bimbe, vi vedo giù, che succede? No, spara lì la cosa dei vulcani. Bum. Un colpo, affondato. E noi come cretine, a guardarci negli occhi, imbarazzate, eh, chissà, boh, forse, a fare zig

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zag con la forchetta sulla tovaglia. Cretine. Poi di scatto Lili ha chiesto il conto, si è infilata la giacca, e io mi sarei voluta aggrappare alle spalle di Baba, dirle tutto, infradiciarle il cappotto di lacrime e moccio. E invece. Ci siamo messi guanti, cappello, le sigarette le ho prese sì, qui c'è un pacchetto, lascia tanto è vuoto, dio quanto ho fumato, accendino, grazie per la cena, ma di che, la prossima volta paghi tu, ma quale cazzo di prossima volta, ma almeno non dirle queste cose, allora domattina ti accompagno a pagare la multa, davvero lo faresti?, davvero, pur di non stare con me la va ad accompagnare dai vigili alle otto di mattina, dai lo faccio volentieri, e certo, allora ci vediamo alle otto qui all'angolo, occhei, buonanotte. Poi questa cosa qui ce la siamo dette, io e Baba. Poi, quando se n'è parlato. Lei c'è rimasta secca: «Cristo, Max, quante cazzate ho detto quella sera». No panzer, non potevi sapere. «No no, si vedeva che c'era qualcosa di strano. E io lì a parlare di multe. Un'idiota. La perfetta idiota. Ma sai quando non ci pensi alle cose. Cioè, ci pensi, ma insomma, mi pareva così assurdo. E ho anche detto quella storia dei vulcani». E mi è venuto da consolarla. Io a lei. Io che ero uno stadio alla fine di un concerto rock, solo cartacce e lattine vuote da spazzare. Luisa, quando l'ha saputo, mi ha detto solo una cosa: «Mi dispiace, Max. Vorrei fare tutto per rimettervi insieme. Ma non so come, non lo so». Intanto, il panzer d'ottimismo mi sta salendo le scale di casa. So che sarà un massacro, ma forse mi farà bene. Al telefono ha detto che ha già cenato, e comunque io in frigo non ho niente.

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Sono quattro giorni che mangio solo sigarette. «Se vuoi ci possiamo fare una tisana. Magari ti aiuta a dormire». Dormire, non voglio dormire. Voglio stare sveglia, per capire, farmi male ma capire perché è successo, perché Lili mi è sparita così dalle mani, un giorno, un venerdì, un guanto che scivola dalla borsa. Voglio sentire come reagisce il mio corpo alle fitte di dolore che di notte mi scuotono, al freddo che mi sale per i piedi, per la schiena, e mi si pianta lì nella pancia. «Ma devi dormire. Sennò non ne esci più. Intanto, domattina andiamo a giocare a tennis». Il panzer. Lo sapevo. «D'accordo, forse è presto. Però lo faremo. Io quando ho avuto un momento tremendo della mia vita mi sono buttata sul tennis. È stata la mia salvezza». Non so che faccia ho fatto, ma è lì che Baba ha capito che era ora di mollare la racchetta e tirare fuori il bisturi. Prendere la ferita, toglierci una a una le schegge del piombo, spurgarla dai rancori, dai sensi di colpa, per poi ricucirla, piano piano.

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«» Casa

«Allora, vuoi dirmi com'è andata?». È andata che quando è tornata da quel viaggio, non l'ho riconosciuta più. Era Lili, ma era come avere davanti un’estranea, una che non sai più cosa le passa dentro, cosa pensa, come sta. È una roba micidiale. Intendo. Una persona con cui hai diviso tutto, ma proprio tutto. Poi torna da un viaggio, tre giorni, e ti ritrovi questa cosa che gira per casa e non sai cos'è. «Ti capisco perfettamente». Il panzer. Frena frena, è presto per capire. Non lo capisco neanch'io, non ancora, o forse non l'ho capito in tempo. «Ma è stata lei a dirtelo, quella sera?». Quella sera. Ero così confusa, quella sera, piena di rancori. Due telefonate in tre giorni. Due. Lei che mi aveva sempre chiamato anche sei, sette, dieci volte al giorno. Così, anche per non dirsi niente, solo per sentirsi. Due telefonate in tre giorni. E c'ero rimasta così, difficile dire. Avrei dovuto saperle leggere. Perché mi aveva detto: «Ho visto delle persone: abbiamo lavorato ad una sceneggiatura. Ora sono qui a leggere i giornali, qui a casa». Boh. Strano. E anche l'altra, fatta dalla macchina, col cellulare: «Qui è grigio, piove. Sto andando a casa». Ora. Casa. Sapete cosa vuol dire casa? Io lo so. Casa è que-

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sta, è dove sono io, dove è lei, questa con il quadro di Ingrid Bergman e Cary Grant sopra la cassapanca comprato insieme a Cannes. Casa non può essere la casa di un'amica che ti ospita per tre giorni. Mi spiego: dimmi che torni da Silvia, dimmi che sei lì a casa di Silvia e leggi i giornali. Mettilo quel cazzo di nome. Cristo. Non dirmi casa e basta, perché così mi ammazzi. «Sono qui a casa». E io non capivo. Comunque. Quella sera. Lei lì, in silenzio, che non mi dice niente. Niente del viaggio, di cosa aveva fatto, di chi aveva visto. O forse sì, qualcosa mi ha detto. «Sono stata a teatro. E tu il lavoro?». Bene, normale, le solite cose. Non avevo nessuna voglia di dividere i miei stati d'animo con lei. Mi dico: io sono qua, è lei che viaggia su un'altra autostrada, lei metta la freccia e accosti. E invece. Io nella mia parte del letto, lei nella sua. In mezzo un vuoto enorme. Il libro appoggiato per terra, la luce che si spenge, neanche una parola. Una lastra di ghiaccio quel letto. Schiena contro schiena. Due vulcani pronti a esplodere. C'ha preso, il panzer. Negli anni vissuti insieme, non c'è mai stata una notte in cui io non abbia cercato lei, lei non abbia fiutato me, anche solo per sapere che c'ero, la mano che si allunga e trova quella roba calda e non vuoi nient'altro che quella, sentirtela rannicchiarsi dietro la schiena, la sua gamba tra le tue, dai lo sai che così mi blocchi la circolazione, sì scusami amore, ancora un po' però, ancora un po', poi mi sposto. Non so se a Baba ho detto proprio così, ma insomma. «Lei zitta, tu zitta. E la mattina?». Era il mio giorno libero. L'avevo chiesto apposta in ufficio, per stare con lei. Cretina.

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Magari per passare tutto il giorno nel lettone. E intanto lei si alza alle sette. Dico alle sette. Giorno libero. Alle sette. «Devo andare dal parrucchiere». Bene. Il parrucchiere. Benissimo. «E tu che fai, vai al cinema?». Mi alzo anch'io, a quel punto. So che mi sono sfilata il pigiama e l'ho piegato. «Sì, forse andrò al cinema. Non so cosa interessi a te di tutto quello che faccio. Non lo so più». Mi sono avvicinata all'armadio, so che l'ho aperto, che mi sono lasciata ingoiare da quel buio, da quell'odore di canfora, cercando un golf, uno qualunque, in quel buio. Ed è stato lì, in quell'esatto momento, non un altro, ma quello lì, con l'armadio aperto e quella mano che cercava nel mucchio di lana, è stato lì che l'amore si è spento. «Io ti voglio ancora bene». Cinque parole. Io ti voglio ancora bene. Ce le ho qui a trapanarmi la testa. Io ti voglio ancora bene. Il respiro che si tronca, la bocca che mastica ghiaia. Lei seduta sul letto, e io che lentamente, molto lentamente, vado in bagno, mi chiudo a chiave, apro il rubinetto e vomito nel water.

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«» Tisane

Lì, l'ho vista vacillare. Panzer Baba. Con questa storia del water. Gli occhi le sono diventati sempre più rossi, due puntini spauriti, annegati. O forse erano i miei che io vedevo in lei. «Dai, prendiamoci questa tisana. Ti farà bene». Acqua su acqua. Tisane che diventano lacrime. Sì, un'altra tazza. Le tazze comprate insieme a Londra. Lili che insisteva: «Dai, Max, prendiamole, sono così belle. Stanno bene in cucina, sono dello stesso blu». E io che dicevo sempre no a tutto, mortificando i suoi entusiasmi: «Ma siamo piene di tazze, non sappiamo neanche dove metterle. E poi in valigia si romperanno». E non mi accorgevo che a romperci eravamo noi. Anche le altre volte, quando lei proponeva: «Andiamo a cena fuori a provare quel ristorante indiano?». Io frenavo: «Ma è sabato sera, sarà pieno, se non prenoti è un casino». Per me è sempre tutto un casino. Mai che una cosa mi venga facile. Enorme problema. Insormontabile montagna. Battaglia inutile. Poi le tazze blu le ha comprate lo stesso. E aveva ragione perché sono davvero belle. «Sì, però ora non puoi stare lì a guardare tutto l'arredamento di casa e dire questo l'abbiamo comprato insieme, questo anche, sennò è un inferno. Questa casa è tutta fatta di pezzi di voi. O

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traslochi, o cambi tutto. Bisogna essere pratici». Baba ha ragione, bisogna essere pratici. «Intanto: lei ora dov'è?». Non lo so. È partita, ha preso due cose, le ha messe in valigia, e se n'è andata. «Ma ha detto che torna?». Sì, probabilmente tornerà. Deve tornare. Almeno a prendersi i vestiti, i libri, a prendersi tutto, le lascio tutto. Le ho anche portato giù la valigia, quando se n'è andata, per aiutarla. «Le hai fatto cosa? Vabbè, sei matta. Io le avrei tirato uno schiaffo e avrei sbattuto la porta». Anche lei se l'aspettava, lo schiaffo. Me l'ha proprio detto. Ma a che sarebbe servito? «A te, ti avrebbe fatto bene». Ma ti pare che le metta le mani addosso? Dai, io non sono così. Ma forse sì, che cazzo, avrei dovuto farlo, magari l'avrebbe scossa. O magari avrebbe pensato: dio che liberazione lasciarti. Anzi, ora che ci penso, una cosa così me l'ha proprio detta. «Cioè ti ha detto: che liberazione lasciarti? Non può essere così spietata, non è da lei». Io non so più chi è lei, non mi sorprende più niente. Però davvero: era lì che buttava nella sacca quelle quattro magliette, i calzini, poi si è voltata: ho pagato la bolletta dell'acqua, ho chiuso i conti col bar, che altro?, ah sì, la macchina è parcheggiata bene (così bene che ha preso tre multe di fila ndr), il biglietto del treno l'ho fatto, a posto. «Accidenti, hai sbrigato tutte le pratiche, che efficienza», le ho detto io, ormai ridotta a un fascicolo archiviato. E lei: «Sì, mi sento come liberata».

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«» Mary

Essere pratici. Trovare una strategia. Niente lavoro per un po'. Non ce la faccio, ho già provato: non ho la testa. Voglio dire: il giorno dopo che mi ha lasciato, quello della mano che cerca il golf nell'armadio e io ti voglio ancora bene, insomma quel giorno lì, mi hanno spedito a intervistare una prostituta nigeriana. Esatto: una prostituta nigeriana. L'ho buttata giù dal letto a mezzogiorno. Quando mi ha aperto la porta, aveva due occhi che parevano due frittelle di Das. Poveretta. Era rientrata da due ore. Davvero sfatta di tutto. Non l'avevo mai vista prima, mi aveva dato il suo indirizzo un amico. Mary. Una perfetta sconosciuta. Però abbiamo parlato. Non so chi di noi due fosse più a terra. Io che ero stata appena mollata dall'amore della vita, o lei che per trenta euro tutte le sere si faceva allargare le gambe sul sedile delle macchine. Sì, perché è quello che le ho chiesto: di come lo faceva, con chi, quanto prendeva, cosa le chiedeva la gente, se la picchiavano. Tutte e due a fumare, nel soggiorno di casa sua triste come un ambultorio della Asl, una mezza bottiglia di plastica come posacenere. Poi a un certo punto le ho chiesto, così all'im-

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provviso: «Senti Mary, ma tu te lo fai mettere nel culo?». Pazzesco a ripensarci. Ma le ho detto proprio così. Si vede che ero proprio stravolta, stanca di girare intorno alle cose, alle parole. E Mary ha capito, e mi ha risposto: «No, nel culo no. Ho paura». Anch'io ho paura, Mary: di vivere senza di lei, di non riuscire più ad amare nessuno. Lei almeno un'altra l'ha già trovata. Ma io, io non voglio nessuno, perché è lei che voglio. Alla fine l'ho detto anche a Mary. Cioè: le ho detto che mi aveva lasciato il mio fidanzato, se le dicevo che stavo con una donna, mi cappottava lì nell’ambulatorio. Fidanzato. Mi ha lasciato per un'altra. «E questa com'è? Più giovane di te? Più bella di te?». No, è più vecchia, più brutta. «Allora vedrai che torna». Grazie Mary, lo spero. Ma non è così facile. La vita non funziona così. Come faccio a spiegartelo? Quasi non capisci l'italiano e schianti dal sonno. Come faccio a dirti che ora non vorrei essere in questo cazzo di posto qui, ma con lei, da qualche parte, qualunque parte, ma con lei, e che ora torno in ufficio e me la ritrovo lì al telefono che fa l'amore con l'altra? Sai Mary, l'ho vista stamattina. Era davvero al telefono con lei, parlava piano, e mentre sono entrata nella stanza l'ho vista sorridere alla cornetta. Mary, avessi visto quel sorriso. Mi sono sentita una guardona. Per non farmi vedere piangere, sono uscita di scatto dalla stanza e sono andata per le scale. È lì che ho incontrato Luisa e mi sono afflosciata tra le sue braccia. Io che crollavo e lei che faceva: «Ohi ohi, ohi ohi». Anche con Mary ci siamo messe a piangere. Mi ha accarezzato la testa, non fare così, non fare così, con quelle mani color

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