Centre Court - il tennis dei pionieri

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Progetto editoriale: Absolutely Free sas Grafica: Nicoletta Azzolini In copertina: Wimbledon, Centre Court foto di Art Seitz © © Copyright, 2011 Editrice Absolutely Free - via Roccaporena, 44 - 00191 Roma E-mail: info@absolutelyfree.it

È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche a uso interno o didattico, non autorizzata

ISBN 978.88.97057.40.6


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STEFANO SEMERARO

Centre Court 1. Il tennis dei pionieri

Absolutely Free Editore



A mio padre Sergio e a mia madre Anna che mi hanno insegnato a stare in campo nella vita

“La vita è una storia. Si devono raccontare storie, allora la gente sente la vita. Gli istanti, che fuggono sempre via, rimangono insieme in una storia. E quando uno compare in una storia, allora il tempo non gli può nuocere” Edgar Reitz


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introduzione

C’è una bellissima poesia di Marco Fortini, si chiama Editto contro i Cantastorie, che parla del disastro che accade quando gli uomini decidono di cancellare il passato. Se perdiamo la memoria siamo destinati a non capire il presente in cui viviamo, a non coglierne la profondità, a sciuparne la bellezza. Per questo esistono gli storici e più modestamente i cantastorie, artigiani del racconto che non pretendono di essere originali ma più semplicemente di salvaguardare un passato che altrimenti diventerebbe in fretta irrecuperabile. La memoria naturale che l’umanità ha di se stessa, dicono, dura appena ottant’anni. Questo libro nasce dal desiderio, ma sarebbe più corretto dire dal bisogno di raccontare di nuovo storie bellissime che parlano di tennis e quindi anche di uomini, di emozioni, di vite spese a capire come funziona quella lente di ingrandimento dei nostri sogni e delle nostre paure che si chiama sport. I ventotto capitoli che trovate qui vogliono essere altrettanti pali del telegrafo, capaci di sorreggere e ritrasmettere un messaggio che viene da lontano, che ha già viaggiato a lungo e che sarebbe un peccato lasciar svanire. Sono stati scritti per raccontare le vicende di campioni che hanno marcato un’epoca, che sono stati a loro modo esemplari, prototipi di una vicenda sportiva e umana. E che per questo si sono guadagnati il diritto a giocare su un 6


Centre Court che non è solo il campo centrale di Wimbledon, il più famoso e nobile di tutti i court, ma anche il rettangolo della memoria dove continuano ad andare in scena le partite, e le vite, che vale la pena di salvare dall’oblio. Quando uno compare in una storia, è stato detto, il tempo non gli può più nuocere. Altri cantastorie, più bravi di me, hanno già narrato in forme diverse, in tempi distanti fra di loro, le vicende che troverete nelle prossime pagine. Ogni tanto però certi episodi, certi lampi memorabili in cui è racchiuso il senso di una storia vale la pena gustarli riscoprendo le fonti, le testimonianze e i documenti più antichi, per ritrovarne la freschezza. Non la verità, che è un concetto troppo alto e impegnativo per chiunque, figuriamoci per un povero cronista appassionato di tennis, ma il timbro, l’intonazione che rischia di andare persa nell’eco dei rimandi. La speranza è che chi queste storie non le ha mai sentite prima, o le ha ascoltate distrattamente, se ne faccia catturare e a sua volta parta alla scoperta di tanti affascinanti libri che al tennis, o più in generale allo sport e ai suoi ambigui dintorni sono stati dedicati. C’è una biblioteca enorme in cui perdersi felicemente. Questo è solo il primo di due volumi, dedicato al periodo che va dalla prima codificazione del Lawn Tennis alla fine dell’era della separazione fra professionisti e veri e finti dilettanti, dal Maggiore Wingfield a Rod Laver. Coprire tutta la storia del Gioco fino ai tempi attuali con un solo volume avrebbe richiesto una selezione ancora più crudele di quella che è stato necessario operare, e che ha già escluso personaggi sicuramente interessanti e avventure intriganti, ma forse più laterali rispetto allo svolgersi della trama centrale. Racconta7


re, in fondo, è soprattutto una faccenda di scelte e Centre Court non vuole essere un manuale completo, un’enciclopedia, né un catalogo esaustivo, piuttosto un invito al viaggio, all’esplorazione di una mappa vastissima, distesa sia nel tempo sia nello spazio. Il prossimo volume è già in cantiere, e lì si parlerà del tennis open, dal 1968 ai nostri giorni. Da quando ho iniziato a fare il giornalista ho avuto l’occasione e la fortuna di assistere dal vivo a molti avvenimenti sportivi, di conoscere gli attori principali, i registi e i comprimari di un teatro nomade che fa tappa ogni anno, ogni settimana in luoghi vergini o densi di storia e tradizione. Ma ricordo ancora l’emozione di quando, a sette anni, mio padre mi portò a vedere un incontro di Rod Laver. «Vedi quell’omino laggiù?», disse, «è il tennista più forte del mondo». Per un bambino era già notte tarda, ma mi stropicciai gli occhi e cercai di mettere a fuoco l’immagine della creatura vestita di bianco che si muoveva là in basso, sotto i riflettori, davanti a tanta gente. «Se lui è il più forte», mi domandai, improvvisamente ridestato, «chi sono gli altri che giocano con lui?». Ecco, dalla scatola magica di quella domanda infantile, ingenua ma fondamentale, è uscito anche questo libro.

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capitolo 1

Intelligente, deciso ma anche spregiudicato e un filo furfantesco, il maggiore Walter Clopton Wingfield seppe guardare negli occhi i giovani ricchi della sua generazione e confezionare l’idea migliore per le loro giornate da sfaccendati. Appena nato, il tennis moderno è già business

Il maggiore Walter Clopton Wingfield

Il Centrale in una scatola Il primo Centre Court stava tutto in una scatola. Ce lo aveva infilato un inglese alto, ben piantato, dotato di un paio di vigorosi favoriti sistemati ai lati del viso abbronzato dal sole delle Colonie ed erede di una nobile famiglia del Suffolk, le cui origini risalivano addirittura a un’epoca precedente la visita dei Normanni di Guglielmo il Conquistatore. Si chiamava Walter Clopton Wingfield ed era un soldato, figlio e discendente di soldati. Nel quindicesimo secolo al suo antenato John Wingfield era stato affidato Charles d’Orleans, nipote del re di Francia 9


catturato dagli inglesi ad Agincourt. Un playboy, un poeta e soprattutto un grande appassionato di Jeau de Paume che nel 1345, proprio durante il lungo soggiorno forzato al Wingfield Castle, si divertì a comporre il primo poema mai scritto sul gioco che oggi chiamiamo tennis. Gioventù sfaccendata Quattrocento anni più tardi Walter Clopton, più modestamente ma molto dignitosamente, si arruolò nel primo reggimento Dragoni, e servì – a cavallo - Sua Maestà la regina Vittoria: prima in India, poi in Cina, dove nel 1860 partecipò addirittura alla presa, ma forse sarebbe meglio dire al saccheggio, di Pechino. Tornato in patria, scoprì che la vita civile poteva essere infinitamente noiosa. E soprattutto che per guadagnare abbastanza per permettersi i lussi di Londra, dove si era trasferito lasciando la sua residenza nel nord del Galles, a Nantclywd, avrebbe dovuto inventarsi qualcosa. Wingfield, all’epoca non ancora maggiore, era un uomo intelligente, oltre che spregiudicato, un tipo deciso, forse un filo furfantesco. Si guardò attorno e vide tutta una generazione di amici ricchi, più o meno sfaccendati, che passavano le giornate giocando a cricket o a racket, a croquet o a Field Tennis, una evoluzione del cinquecentesco Long Tennis, a cui potevano partecipare fino a sei giocatori vestiti in «morbide giacche di flanella» calzati «di soffici scarpette dalla suola flessibile». Riunioni campestri, goderecce, che iniziavano a mezzogiorno e finivano al tramonto. Roba da gentlemen, da borghesi soddisfatti. “Leisure”, attività ricreative e conviviali, più che sport. «In estate avevamo un altro Club – scriveva già nel 1767 William Hickey – che si riuniva alla Red House, nei Battersea Fields, non distante da Ranelagh: un po10


sticino ritirato. Ne facevano parte persone molto rispettabili, il gioco che praticavamo si chiamava Field Tennis, e ci richiedeva un nobile esercizio… Ci incontravamo due volte alla settimana, all’una, e alle due ci accomodavamo per il pranzo che consisteva in anguille in umido, carne bollita o arrosto, adeguatamente accompagnata da verdure e seguita da un abbondante pudding, o da una torta; le bevande erano liquori di malto, sidro, porto e punch. Alle quattro iniziava lo sport, che continuava fino al crepuscolo e il terreno, che si estendeva per sedici acri, era tenuto in perfetto stato, liscio come una pista da bowling». Perché non ricavare un brevetto da questi passatempi?, si chiese Wingfield. Perché non definire un canone, come già avevano fatto cricket, calcio, rugby , e poi commercializzarlo? Insomma, codificare uno sport da praticare outdoor, all’aperto, facile da adattare ai giardini delle case signorili ma che non richiedesse troppi giocatori, come il cricket, né troppa manutenzione, come il Real Tennis. Il primo match di Lawn Tennis Detto, e quasi fatto. Dopo qualche sperimentazione in famiglia a Nantclywd, Wingfield nel 1869 si presentò a Berkely Square, a casa di Lord Lansdowne, con un’idea da propagandare in società. «Un giovane capitano di artiglieria, il maggiore Wingfield, è venuto a Lansdowne House dicendo che aveva inventato un nuovo gioco e che voleva darne una dimostrazione a me e ai miei amici sul prato di fronte alla mia casa», annotò il Lord. “Ha detto che erano richiesti quattro giocatori. Essendo interessato, ho acconsentito e gli ho chiesto di tornare l’indomani. Per arrivare a quattro ho invitato Walter Long e Arthur Balfour a unirsi a noi. Il pomeriggio seguente noi quattro 11


giocammo il primo match di Lawn Tennis sul mio prato, sopra una rete larga circa due piedi appesa a due paletti inclinati tenuti in piedi da corde piantate su pioli. Lo trovammo un buon esercizio, e davvero interessante, nonostante le racchette storte e le palline dure, senza copertura, che usammo quel giorno». L’invasione delle casse Per tutta l’estate i quattro si incontrarono tre o quattro volte la settimana, e più giocavano più trovavano la nuova occupazione divertente. Il problema era il nome. Wingfield aveva rispolverato da qualche rugginoso ricordo di scuola il termine greco Sphairistiké, che in maniera un po’ sgrammaticata avrebbe dovuto significare “gioco di palla”. «Un nome impossibile da ricordare», commenta Lord Lansdowne, «e infatti un giorno Walter Long disse a Wingfield: “guarda caro, se vuoi che il tuo gioco abbia successo devi trovargli un nome accettabile. Perché non chiamarlo Lawn Tennis?” Ci trovammo tutti d’accordo, e il nome fu adottato anche dall’inventore». Cinque anni dopo, il 24 luglio 1874 il Maggiore ottenne il suo brevetto per un “Campo migliorato per giocare all’antico Game of Tennis” e iniziò a pubblicizzare la sua creatura, lo «Sphairistiké o Lawn Tennis», di cui si poteva entrare in possesso ordinando una cassa vivacemente colorata a French & Co., 46 Churton Street. Nella cassa erano contenuti un manuale, una rete, quattro racchette, pali, pioli per formare il campo – largo 10 yards e lungo 20, e disegnato a forma di clessidra ristretta attorno alla rete - una fornitura di palle, mazzuole e pennello. Costava cinque guinee da sganciare cash, in contanti, sull’unghia. 12


Tempo un anno e le casse del maggiore avevano invaso l’Inghilterra. Un guazzabuglio di regole Wingfield, va detto, non era stato l’unico, nè il primo ad avere l’idea, ma sicuramente il più veloce a brevettarla. Qualcosa di molto simile al suo Sphairistiké era stato giocato nel 1864 a casa di Walter Scott, l’autore di Ivanhoe, nel Roxburgshire. Lord Hervey, poi diventato vescovo di Bath, sostenne di praticarlo regolarmente con amici e familiari nel Suffolk. Altri, pare, ne erano già avidi consumatori a Leyton, nell’Essex. Nel 1866 il Maggiore (una mania!) Henry Gem e il suo amico J.B Perera, commerciante di origine spagnola, nel giardino della casa di quest’ultimo, la Fairlight di Ampton Road a Edgbaston, avevano “inventato” un passatempo chiamato Pelota, poi ribattezzato Lawn Rackets - e quattro anni più tardi persino fondato il primo Lawn Tennis Club sul terreno del Manor House Hotel di Lemington. J.H. Hale, a sua volta, sosteneva di aver creato un’altra variante del gioco, il Germains Lawn Tennis. Insomma: una ressa di inventori, ciascuno con la sua idea di tennis in testa. Campi rettangolari o a clessidra, reti alte o basse, punteggi rubati al racket o al Real Tennis: la confusione imperava. Wingfield per tenere il punto e salvaguardare il suo brevetto scrisse sui giornali, alzò la voce e nel novembre pubblicò una seconda edizione delle regole. Ma solo nel 1875, per iniziativa di John M. Heathcote e di R.A. Fitzgerald, il segretario del Marylebone Cricket Club, il tempio del cricket che aveva da poco dato una sistemata anche al Real Tennis, si ebbe la prima canonizzazione istituzionale di quel guazzabuglio di pratiche. Wingfield accettò il codice dell’M.C.C. nella terza edi13


zione del suo manualetto, da cui decise di espellere, rassegnato, la denominazione Sphairistiké: amici e clienti lo avevano ormai ridotto ad un poco gradevole nomignolo, “Sticky”, ovvero appiccicoso. Quel Club nato da uno sfizio La fortuna del tennis, come è noto, fu la decisione dell’All England Croquet Club di adottare il gioco. Il Club, nato nel 1868 per uno sfizio di Whitmore Jones e di Henry Jones, avrebbe potuto sorgere dalle parti di Crystal Palace, o nella proprietà di Lady Holland a Kensington; oppure ancora ad Hans Place, in coabitazione con il Prince’s Club e la Royal Toxophilite Society, la più antica associazione di arcieri di tutta l’Inghilterra. Ma tutte queste location furono messe da parte quando nel 1869 Albert Dixon, che possedeva quattro acri di terra dalle parti di Worple Road, vicino alla stazione di Wimbledon, li offrì per tre anni in affitto al Club al prezzo di 225 sterline. Altre 495 ne servirono per preparare il terreno, costruirci un cottage per il giardiniere e spogliatoi per ladies and gentlemen. Il gardener fu ingaggiato per quattro scellini al giorno più un aiuto per i giorni di pioggia, e presto ebbe parecchio lavoro in più per le mani. Nel 1875 infatti Henry Jones propose di destinare un po’ del terreno al Lawn Tennis, che ormai era diventato di gran moda a Londra, e l’anno dopo il nome del club cambiò in All England Croquet and Lawn Tennis Club. Il 9 giugno del 1877, poi, apparve il noto trafiletto su The Fields, che annunciava la convocazione di un “Lawn Tennis meeting” per il 9 del mese successivo, con la messa in palio di una bella coppa, la Silver Challenge Cup, del valore di 25 ghinee. Insomma, The Championships. Il Committee fin dall’inzio espropriò Wingfield della sua creatura. Via il campo a clessidra, si decise di zappettare court rettan14


golari, lunghi ventisei yarde e larghi nove. Si adottò il punteggio “a quindici”, concedendo al battitore di commettere un errore al momento della messa in gioco. Da allora molto è cambiato, nel tennis, ma non questo pugno di regole e misure. Dopo il tennis, la gastronomia Il poliedrico Wingfield dopo il tennis si diede alla gastronomia. Divenne presidente dell’ Universal Cookery and Food Association, quindi fondò una società culinaria, Le Cordon Rouge. Inventò un tipo di bicicletta chiamato butterfly, farfalla, e dovette assistere, oltre che allo scivolare della moglie nell’inferno della malattia mentale, alla morte di tre figli giovani. Del Lawn Tennis, già molto prima di morire il 18 aprile del 1912, al 33 di St. George Square, aveva smesso di occuparsi. Wimbledon, che aveva prima messo in un cantuccio e poi cancellato il Maggiore, nel frattempo prosperava. Del proliferare del nuovo gioco in quei tempi beati ci restano tracce sparse. I campi del Manor House Hotel a Edgebaston oggi non esistono più, ma la Edgbaston Archer and Lawn Tennis Society ancora sopravvive, ed è a tutti gli effetti il più antico tennis club del mondo. Nel 1875 nacque l’Edgbaston Priory Club, che ha finito per fondersi con l’Edgbaston Lawn Tennis Club, fondato nel 1878, e a quell’intorno di anni risale anche il Solihull Lawn Tennis Club, nel Warwickshire. Radure verdi, magiche, le prime dove signori in pantaloni lunghi e baffoni a manubrio e leggiadre miss bardate di crinoline e smisurati cappellini inizarono a flirtare con il gioco. Ma oggi quasi dimenticate, soffocate dal planetario successo di Wimbledon. Da Worple Road l’All England Club si spostò nel 1922 a Church Road, e quel trasloco in qualche modo 15


ha smaterializzato e reso universale, quasi metafisico il concetto stesso di Centre Court. Che oggi si incarna nel praticello da 14 mila spettatori, ben protetto dal “roof” costato 100 milioni di sterline, ma la cui origine e il cui nome, come quelli della rosa di Umberto Eco, sono ormai perduti per sempre. Al centro della tradizione «La cosa buffa - scriveva il vecchio referee di Wimbledon F.R. Burrow nel 1937 - è che il Centre Court non è più affatto un campo “centrale” . Due anni fa un giovane straniero mi chiese perché, essendo posto a una estremità del terreno, si chiamasse ancora “centre” court. Gli spiegai che si trattava di uno di quei casi in cui la tradizione è troppo forte per essere messa da parte. Nel vecchio sito dell’All England Club a Worple Road, il campo dove la maggior parte dei match principali veniva giocato durante i Championships, era, di fatto, il campo “al centro”. Era in mezzo al terreno, con gli altri campi, nove in tutto, disposti attorno a cerchio. Quando avvenne la migrazione nel nuovo terreno di Church Road, il campo principale fu steso e le tribune che lo circondavano costruite ad una estremità del luogo, e non in centro, ma questo non fece nessuna differenza. “The Centre Court” era stato per quasi cinquanta anni , e “The Centre Court” era rimasto – e sempre rimarrà». In fondo, era nato dentro una scatola, pronto per essere montato e usato ovunque e da tutti, non importa se tennisti di un giorno o campioni destinati all’immortalità.

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