Street Zine #1

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STREET ZINE

#1_ottobre 2010

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Creative editor and art director Raffaele Paolucci Design Raffaella Venier Photographers Alessandro Digaetano Simone Maestra Raffaele Paolucci Websites paoluccistile.net raffaellavenier.it streetracker.blogspot.com Contact info@paoluccistile.net info@raffaellavenier.it

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Lontano 10.206 chilometri

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Beijing by foot

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Il lungo fiume su tre ruote

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srehpargotohp gnitubirtnoc Alessandro Digaetano

He is a photojournalist and he has had work published in the major Italian and leading international magazines. Professional photographer since 2001 when he gave up with his 18 years job as IT manager in Telecommunication mobile company. He covered the Middle East area and he moved at the same time to China in 2002 (he have already been in 88/90/99) untill 2008. He is still covering far east where he is following a personal project on Kashgar city. He lives now between Beijing and Milan where his wife, his sons Michele and Dario and his (famous) cat Miciotto Bello live. His work has included features from Egypt, Mali, Yemen, Turkey, Lebanon, Palestine, Israel, Iraq, India, Italy, Spain, Germany, Bulgaria, Ukraine, Russia, Mongolia, Pakistan, India, Singapore, Vietnam, South Korea, Japan, China.

Simone Maestra

He was born in Italy in 1976. He graduated from the School of Photography and Visual Arts (ISFAV), Padova, Italy. After some work experience abroad, he specialized in interior design photography. He has been collaborating since 2002 with the agency Franca Speranza/Olycom, publishing some work in different magazines. He transferred to Paris in 2005 and worked for some fashion photographers. Among his most important exhibitions are, “border line” in Venice (2003), and “bariphotocamera” in Bari (2006). In 2008 he won first prize for an individual photo in the Photocontest “Made in China” (Fotofestiwal /Poland). For the last two years he has been working on a personal project about the periphery of Moscow. He is currently living and working between Spain and Russia.


Un veloce ritratto argentino

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A casa di Fiora Gandolfi

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Don't judge a book by its cover

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“…quel sorriso mi ha fatto ricordare qualcosa che a volte ho dimenticato. Per meglio dire, quel sorriso mi ricorda che ho dimenticato qualcosa. Ma non so cosa, perché l’ho dimenticato. E come è possibile ricordare di aver dimenticato qualcosa?” Féliz de Azùa, Storia di un idiota narrata da lui stesso, Ugo Guanda Editore, 1990. Scomodando le inarrivabili indagini di un capace scrittore sulle follie della vita e sulla ricerca della felicità, ci accorgiamo di aver iniziato un progetto senza ricordarne bene il perché. Qualcuno continua a chiederlo ma, un po’ ingenuamente, rispondiamo di volta in volta in maniera poco coerente. Resta il fatto che Street Zine, rivista online sull’esercizio grafico e la passione fotografica, è arrivata. Dentro c’è un po’ di noi e un po’ di alcuni amici incontrati lungo la strada. Si parla di ispirazioni, di viaggi, di incontri, di fabbriche, di motociclette, di case, di libri. È un nuovo posto, un luogo virtuale, un incrocio di strade. Street Zine, la strada è aperta. Se vi piace l'idea, ne percorreremo un pezzo assieme.


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chilo metri


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fotografie di Simone Maestra intervista di Raffaele Paolucci


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Barba incolta, sigaretta tra le dita, sposta frequentemente il ciuffo di capelli che gli cala davanti e si stropiccia l’occhio sinistro fino ad irritarlo. È il suo biglietto da visita: una volta lo faceva perché lavorava lontano da casa e dormiva poco. Adesso lo fa perché lavora spesso a casa e dorme poco uguale. È nata Tica, ogni scusa è buona. Simone Maestra è l’unico che conosco capace di portare con stile una t-shirt con il collo a v. Ci mette sopra una giacca, possibilmente vecchia ed ereditata, pantaloni a sigaretta e mocassini in cuoio marrone. E cammina. Una vecchia Super 8 Canon, Rolleiflex, Polaroid SX-70. Simone, che ci farà mai uno come te a La Coruna? “… a dire il vero non so bene cosa ci sto a fare qua. Semplicemente, ho seguito Marta che aveva ricevuto una proposta di lavoro interessante. Abitavamo a Milano. Io passavo il tempo tra uno studio fotografico e l’altro e Marta non aveva più un lavoro. Senza pensarci più di tanto abbiamo fatto i bagagli e sono passati già tre anni. Ed è arrivata Tica”. Almeno lì sull'oceano avrai imparato a fare il surf. Lo sai fare il surf? “Dire che io sappia fare surf è una parola grossa. Cado comunque dalla tavola ma da un bel pezzo non mi spacco più in due! Però posso già dire che è uno sport fantastico, fa scoprire posti incredibili, regala sempre emozioni forti e i delfini ti nuotano in fianco!” Da quell’avamposto atlantico, la tua Cina l’hai voluta disegnare su una texture classica e delicata. “Sì, classica e delicata, quasi romantica. Ho utilizzato un fondo unico per tutta la serie, un motivo floreale dai colori pastello che si amalgama con i soggetti rappresentati. Volevo creare un’atmosfera dai toni morbidi. La scelta di lavorare in Polaroid è stata fatta con questo intento. Il lavoro è filato liscio, io sono

fatto così, devo approfittare del momento creativo e lasciar fare al mio istinto”. Questo tuo istinto cosa ti ha fatto scoprire della Cina a diecimila chilometri di distanza? “Non mi ha fatto scoprire nulla di più di quello che ho voluto conoscere prima di cominciare. Io vivo nel mondo moderno, come tutti sono sovraesposto alle informazioni e, almeno nella fotografia, tento di difendermi così, usando strumenti e tecniche magari un po’ superati. Il lavoro sulla Cina è un semplice esercizio fotografico. Che io abbia potuto fare una divertente scelta dei modelli tra una dozzina di cuochi che lavorano in un ristorante cinese di La Coruna potrebbe anche avere un senso ben preciso. Non saprei dire di più. La mia Cina sta in quelle foto”. Questo lavoro avrà un seguito? “Sicuro, questo progetto ha solo subito un’interruzione. Ci sarà almeno una seconda parte. Nel frattempo sto lavorando anche attorno ad un tema legato alle nuove generazioni. Non so se sia perché sono preoccupato per il futuro di Tica o perché sto invecchiando io. Magari comincio davvero a sentirmi responsabile verso le generazioni future. A loro, facile che una texture e due polaroid non bastino più!” ■


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testo e fotografie di Raffaele Paolucci


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BEIJING BY FOOT MAY 2010

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Ci siamo persi. Tocca chiedere. Kikka fa sfoggio di una collaudata simpatia cinese ed interpella i taxi driver fermi al semaforo. Grandi sorrisi e divertite discussioni. Finalmente qualcuno indica una direzione e si riparte. La macchina frigge di un’allegria contagiosa ed un poco alcoolica. “Moving Bar! The Moving Bar is coming!” È la voce di Bartek, il vacillante passeggero di Simone. Ci stanno inseguendo da un pezzo sullo scooter rotolando da un semaforo all’altro della Dongsanhuan Belju. Bartek ha scovato nel bauletto in metallo una bottiglia di vodka e offre un improvvisato servizio di bar mobile. Jasper, scompigliato danese che disegna scarpe a Pechino, estrae dal cilindro un cartone Ikea da sei bicchieri. La festa ambulante comincia così, dopo un pomeriggio passato a ballare tra i capannoni della 798, in un sovraffollato monovolume a sette posti animato da una nutrita presenza italiana. In minoranza netta sono Susu, art director di un magazine locale, il calzolaio Jasper e la sua giovane, seducente morosa olandese. Mi godo la festa improvvisata. La considero quasi un addio al mio soggiorno a Pechino. Tra poche ore sarò sul volo di ritorno. Mi abbandono all’incerto itinerario notturno cercando di catturare ancora qualche emozione dal panorama urbano di questa immensa città. Corriamo veloci tra i grattacieli e le grandi insegne luminose di Chaoyang, sfiorando i cantieri polverosi che non mollano mai. Città dinamica, frenetica, in perenne movimento, da osservare e da ascoltare. Senza la colonna sonora originale, si può solo abbozzare qualche tratto. Tutto attorno è un gracchiare di richiami sonori improvvisati che sbucano da ogni angolo, da magazzini e negozi di vario genere e dimensione. Un chiasso popolare, continuo, ritmato da clacson

di ogni timbro e tonalità, un armonioso sottofondo della frenesia quotidiana di milioni di persone in movimento nell’incessante processo di trasformazione della Cina moderna. Un processo, a dir la verità, ormai fatto e compiuto. I più giovani, come la maggior parte degli impiegati che escono dal lavoro, hanno la testa bassa ornata di cuffie e la loro proiezione virtuale nel palmo della mano. Da qualche parte ho letto che si dubita del fatto che i cinesi sapranno ancora scrivere gli ideogrammi. La tecnologia ha facilitato comunicazione, scambio e velocità di informazione a danno della conservazione della memoria. Per questo, la Pechino che ho amato di più, che ho apprezzato e ho cercato di portare con me, è quella della memoria cancellata e, forse, un po’ quella della storia tradita. A spasso per Pechino significa quindi per me a spasso per gli hutong, gli stretti vicoli della città più antica, della cui distruzione e definitiva cancellazione sono da lungo tempo programmati tempi e metodi. Qui in mezzo ho vissuto gran parte delle mie passeggiate pechinesi, perdendomi letteralmente nel dedalo dei vicoli formati dalle case a corte. Qui si cammina tra edifici pericolanti, panni stesi, bagni pubblici, cucine improvvisate, parrucchiere, artigiani di ogni tipo, operai al lavoro tra i cavi dell’alta tensione, carretti e bici elettriche, furgoncini e automobili che passano a fatica tra un muro e l’altro del vicoli più stretti. Beijing by foot è tutta qua. E nei sorrisi e negli sguardi di un popolo stanco, affaticato, piegato da una storia importante, ricca di abitudini e usi secolari ma inquinata e compromessa dagli interessi speculativi e dalla corruzione dilagante. Il centro del mondo, nel ventunesimo secolo, ho cominciato a guardarlo da qua. E spero non solo con i piedi… ■


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il lungo fiume su tre ruote

ndo Digaetano Fotografie di Alessa

courtesy of

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Alessandro Digaetano è un fotoreporter professionista dal 2001, da quando ha rinunciato al suo lavoro di manager per una compagnia di telefonia mobile. Ha viaggiato ormai in tutta l’Asia e nell’Europa dell’Est ed i suoi lavori sono stati pubblicati dalle maggiori testate giornalistiche: Time, Newsweek, New York Times, D Repubblica, 24 Magazine… Appassionato motociclista, ama lo sterrato e colleziona Yamaha Tenerè. Qui trovate una serie di immagini scattate a Pechino che raccontano una delle tante, strane storie di questa incredibile città nella quale un occhio motociclistico fatica a non restare incuriosito dalla nutrita presenza di questi mezzi. L’origine di questo progetto, ormai lontana nel tempo, è proprio nel cuore della vecchia Europa, nella Germania dell’Est, in cui fu decentrata la produzione BMW dei sidecar militari. Dopo la seconda guerra mondiale, la fabbrica venne acquisita dai russi e da lì, negli anni sessanta, il controllo passò ai cinesi. Insomma, da Hitler a Stalin e da Stalin a Mao… I cinesi ne hanno costruiti un milione e mezzo di esemplari. Li chiamano Chang Jiang, fiume lungo, siglati così CJ750. ■ www.alessandrodigaetano.photoshelter.com


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Suonano un poco leggendari, quasi mistici, i nomi che talvolta si incontrano a praticar d’Argentina. Suonano importanti e misteriosi, come Tata Cardiles e la Gorda Zulema del rigore più lungo del mondo raccontato da Soriano. Alcuni poi suonano quasi familiari, come i nomi dei calciatori che permeano la nostra memoria o come i quartieri di Buenos Aires che ricordiamo meglio, Palermo e Belgrano. Così, mi sembra che solo a dire di due che fanno di nome Nico Covatti e Facundo Gruat, la storia possa sembrare interessante di per sé. È invece, semplicemente, la ancor breve storia di due ragazzi argentini che amano uno sport, lo speedway, già povero per statuto, in un contesto sociale che ricco, negli ultimi anni, non lo è stato davvero mai. Eppure, tra mille difficoltà, i due ci provano. Prima Facundo, animato dalla tradizione familiare, e poi il più giovane Nicolas, che comincia sporcandosi le mani come meccanico nella scuola di speedway dell’eroe locale Carlos Villar e finisce col vincere due titoli nazionali. Due ragazzi attorno ai vent’anni, dividono fatiche e sacrifici per coltivare la voglia di andar di traverso sulla terra rossa, amano e respirano speedway e non pensano ad altro. Dopo la telefonata della federazione argentina, senza aiuto da parte di nessuno, raccolgono quattro soldi vendendosi l'auto di casa e volano in un angolo d’Europa per giocarsi un round di qualificazione mondiale.

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testo e fotografie di Raffaele Paolucci

Il resto è storia recente: Nico si cala nella polvere del catino da speedway di Terenzano, tra gente di confine e piloti di provata esperienza. Regala spettacolo, si allunga fino a nascondersi lungo il lato sinistro della moto come solo i grandi sanno fare durante i lunghi traversi delle curve senza freno. Facundo è il suo angelo custode ai box, respira i vapori del metanolo e controlla che la frizione sia registrata, la catena sia tesa al punto giusto, la moto in ordine. Qualcuno rimane affascinato dalla volontà, dall’energia, dalla motivazione ma, soprattutto, dalla semplicità dei due amici argentini. Offre loro una possibilità. Un paio di mesi in Italia, due, forse tre gare, per continuare a coltivare il sogno. E loro ricambiano. Sorridono, dicono di amare il nostro paese, vestono una nuova divisa, guardano stupiti quante gomme nuove possono usare in una gara, quando magari erano abituati ad usare la stessa per più di qualche sera. Nico Covatti e Facundo Gruat, una giovane, provvisoria, appena tracciata storia di due piloti da speedway. Bello pronunciare il loro cognome argentino. Lo speedway ci costruirà attorno un nuovo romanzo e noi saremo qui a raccontarlo. Promesso. ■ Thanks to Moto Club La Favorita and Enrico Palanca Location: Pista Santa Marina, Lonigo.


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testo e fotografie di Raffaele Paolucci


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Me lo racconta con quel tono distaccato, appena stanco ed annoiato che ho ormai imparato a riconoscerle: “… mo’ li vedi ‘sti leoni? Guarda che faccia che c’hanno… so’ tristi, lo vedi che c’hanno gli angoli della bocca rivolti verso il basso? So’ due gattoni tristi, manco sembrano due leoni”. Le dò ragione. Non avrei mai potuto farci caso. I bassorilievi che ornano l'ingresso del palazzo del Quattrocento che ospita il suo appartamento veneziano hanno un’espressione triste, rassegnata, davvero poco fiera. “Non me n’ero mai accorta nemmeno io” prosegue, salendo le scale che portano in casa. “Me l’ha fatto notare Daniel Pennac, un giorno che stava qui da me…”. A scambiare due parole con Fiora Gandolfi succede spesso che ci si debba confrontare con storie, racconti e personaggi di tale spessore. Il suo è uno dei salotti meglio frequentati della città. Uno spazio in cui Fiora mette in gioco tutta la sua disinvolta ospitalità creativa e nel quale si intrecciano e si confronta-

no profili culturali spesso diversi e variegati. È una sua caratteristica quella dell’ecletticità, accompagnata da una forte, determinata, irrefrenabile curiosità intellettuale. Sono rimasto sempre affascinato dal suo talento espressivo. Prima di conoscerla, ero colpito soprattutto dai toni forti e decisi degli abiti e degli accessori, quasi sempre disegnati da lei stessa, portati con raffinata ironia. Poi ho cominciato ad osservare la sua casa, un impianto architettonico tipicamente veneziano, fatto di spazi e volumi importanti che fanno da vigorosa struttura ad una decorazione fortemente scenografica. Qui ho imparato ad amare la sua particolare deriva collezionista, ispirata da un senso raffigurativo che porta a comporre un’originale, ricercata, coordinata galleria domestica. Un apparente disordine sembra regnare sovrano. Un disordine colto, fatto di una quantità di oggetti tale da rendere impegnativa una superficiale classificazione. Tutto per Fiora ha un senso compositivo ma è pur sempre la casa in cui


vive. E quindi, il magma compositivo ha una valenza funzionale e organizzativa molto più familiare e privata che espositiva. Di questa casa apprezzo perciò il dettaglio, attraverso il quale mi pare di capire un po’ meglio una donna, prima che un’artista, che ha saputo come poche traghettare da un secolo all’altro nel segno di una sensibilità colta, moderna, sicuramente un po’ geniale. Fiora ha vissuto gran parte della propria vita accanto ad un uomo che dell’intelligenza e del genio aveva saputo fare il proprio marchio di fabbrica. Helenio Herrera, magico protagonista di un’epoca sportiva che non potrà mai più tornare, è stato l’uomo della sua vita. Tra i segni grafici e le scritte fatte a mano da lei stessa su tessuti e pareti che decorano la casa, sono talvolta riconoscibili simboli e riferimenti della storia calcisitica di una persona che Fiora ha smisuratamente ammirato, oltre che amato. Della geniale filosofia di Helenio, Fiora racconta oggi attraverso la cura di scritti biografici ed eventi quale unica, au-

torevole, imprescindibile custode della storia della loro vita. Tra decine di telefonate, testi da rivedere al computer e raccolte grafiche da archiviare, la giornata passa veloce. “Non te preoccupà se te passo davanti”, esclama con un insolito mix di veneto e romano “È che devo finì la valigia, domani parto per la Tunisia. Ho disegnato i costumi per un film e cominciamo le riprese… ma qua xe massa roba, non ghe sta tuta ‘sta roba qua”. Ora capisco cos’era quella lunga fila di occhiali, quaderni, libri, documenti, manoscritti, che avevo notato sul pavimento davanti alla libreria. È il suo modo di preparare la borsa da viaggio. Però la fila si è fatta lunga un paio di metri. Ogni tanto se ne occupa, aggiunge qualcosa, e riprende un precedente impegno lasciato in sospeso. Ognuno ha il proprio modo, anche semplicemente nel preparare una valigia da viaggio. Quello di Fiora è un modo da artista. ■

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Strappo fotografico dall'Annuario Generale del Touring Club, 1925. Formato curioso, praticamente un mattone rilegato, pieno di informazioni utili al raro viaggiatore motorizzato dell'epoca.


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Simone Maestra - Made in China Primo premio Fotofestiwal International Festival of Photography www.lodzartcenter.com


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Š Paolucci Venier Ogni riproduzione totale o parziale di immagini e testi presenti in questa rivista è vietata.


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