Atena nera

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Martin Bernal

Atena nera Le radici afroasiatiche della civiltĂ classica Traduzione di Luca Fontana


www.saggiatore.it

Š Martin Bernal, 1987 First published 1987 by Free Association Books, London Š il Saggiatore s.p.a., Milano 2011 Titolo originale: Black Athena. The Afroasiatic Roots of Classical Civilization


Sommario

Prefazione e ringraziamenti Trascrizione e fonetica Mappe e grafici Tavola cronologica

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Introduzione 1. Il modello antico nell’Antichità 2. Sapienza egizia e trasmissione greca dall’Alto Medioevo al Rinascimento 3. Il trionfo dell’Egitto nei secoli xvii e xviii 4. Ostilità verso l’Egitto nel xviii secolo 5. La linguistica romantica. Il sorgere dell’India e la caduta dell’Egitto. 1790-1880 6. Ellenomania, 1. La caduta del modello antico. 1790-1830 7. Ellenomania, 2. Trasmissione dei nuovi studi classici all’Inghilterra e affermazione del modello ariano. 1830-1860 8. Affermazione e declino dei Fenici. 1830-1885 9. La soluzione finale della questione fenicia. 1885-1945 10. La situazione nel dopoguerra. Il ritorno al modello ariano ampio. 1945-1985 Conclusione

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Appendice. I Filistei erano greci? Note Glossario Bibliografia

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MAPPE E GRAFICI









Introduzione

Coloro che riescono a fare questa fondamentale invenzione di un nuovo paradigma sono quasi sempre o molto giovani oppure nuovi arrivati nel campo governato dal paradigma che essi modificano. Thomas Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche

Se uso questa citazione da Thomas Kuhn, è nel tentativo di giustificare la presunzione di scrivere su argomenti remotissimi dal mio campo originario, essendo io specializzato in storia cinese. Sosterrò infatti che i mutamenti di concezione da me qui proposti, pur non essendo paradigmatici nel senso stretto della parola, sono nondimeno fondamentali. Quest’opera in tre volumi tratta di due modelli della storia greca: l’uno che concepisce la Grecia come essenzialmente europea o ariana; l’altro che la vede come levantina, alla periferia delle aree culturali egizia e semitica. Io li chiamo «modello ariano» e «modello antico». Il modello antico era la concezione convenzionale tra i Greci del periodo classico ed ellenistico, secondo la quale la cultura greca era sorta in seguito alla colonizzazione, attorno al 1500 a.C., di Egizi e Fenici, che avevano civilizzato i nativi. Inoltre, anche successivamente, i prestiti dalle culture del vicino oriente erano stati numerosi e frequenti per i Greci. Per molti è una sorpresa venire a sapere che il modello ariano, in cui gran parte di noi è stata educata a credere, si è sviluppato soltanto durante la seconda metà del xix secolo. Nella sua forma primigenia o «forma ampia», il nuovo modello negava l’esistenza di insediamenti egizi e metteva in questione gli insediamenti fenici. Quello che io chiamo il modello ariano «estremo», che prosperò durante i due picchi di antisemitismo degli anni 1890 e dei due decenni 1920 e 1930, giungeva a negare l’influenza culturale fenicia. Secondo il modello ariano ci sarebbe stata un’invasione dal Nord – non documentata nella tradizione antica – che avrebbe sottomesso la cultura «egea» o «pre-ellenica» locale. La civiltà greca è quindi concepita come risultato della fusione tra Elleni parlanti indoeuropeo e indigeni assoggettati. Proprio perché il modello ariano era un artefatto ho pensato di intitolare questo primo volume L’invenzione dell’antica Grecia. 1785-1985. Io credo si debba ritornare al modello antico, ma con alcune revisioni; chiamo perciò il modello che propongo nel secondo volume di Atena nera «modello


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antico riveduto». Esso accetta che ci sia una base di realtà nelle storie delle colonizzazioni egizia e fenicia della Grecia incluse nel modello antico. Ne sposta tuttavia un po’ all’indietro l’inizio, alla prima metà del ii millennio a.C. Concorda inoltre col modello antico nel concepire la civiltà greca come risultato delle fusioni di culture prodotte da tali colonizzazioni e di prestiti successivi da culture del Mediterraneo orientale. D’altra parte, del modello ariano accetta, ma per sottoporla a verifica, l’ipotesi di invasioni – o infiltrazioni – da Nord da parte di popoli di lingua indoeuropea avvenute in determinati periodi nel corso del iv o iii millennio a.C. Il modello antico riveduto afferma però che queste prime popolazioni parlavano una lingua affine indoittita che ha lasciato scarsa traccia nel greco e che, a ogni modo, non può essere usata per spiegare i molti elementi non indoeuropei della lingua successiva. Se ho ragione sollecitando il rigetto del modello ariano e la sua sostituzione col modello antico riveduto, sarà allora necessario non solo ripensare le basi fondamentali della «civiltà occidentale», ma anche riconoscere la penetrazione del razzismo e dello «chauvinismo continentale» in tutta la nostra storiografia o filosofia dello scrivere storia. Il modello antico non aveva gravi deficienze «interne», o debolezze di potere esplicativo. Fu rigettato per ragioni esterne. Per romantici e razzisti del xviii e xix secolo era affatto intollerabile che la Grecia, concepita non solo come epitome dell’Europa ma come sua pura infanzia, fosse il risultato della mistura tra europei nativi e colonizzatori africani e semiti. Il modello antico doveva quindi essere rifiutato e sostituito con qualcosa di più accettabile. Cosa si intende qui per «modello» e «paradigma»? Tentarne una definizione è di scarsa utilità; per una loro inevitabile vaghezza d’uso e per il fatto che le parole possono definirsi soltanto con altre parole, questi termini non offrono alcuna solida base su cui costruire. È necessario tuttavia fornire alcune indicazioni del significato in cui li si intende. Con «modello» io generalmente intendo uno schema ridotto e semplificato di una realtà complessa. Una tale trasposizione inevitabilmente distorce – come dice il proverbio italiano: traduttore traditore. Ciò malgrado, i modelli, come le parole stesse, sono necessari a quasi ogni forma di pensiero o discorso. Bisognerebbe però ricordarsi sempre che i modelli sono artificiali e più o meno arbitrari. Inoltre, così come diversi aspetti della luce possono spiegarsi sia come onde che come particelle, altri fenomeni si possono utilmente concepire in due o più modi diversi, vale a dire, usando due o più modelli diversi. Di solito, però, un modello è migliore o peggiore di un altro se è in grado di spiegare i tratti determinanti della «realtà» indagata. È quindi utile pensare in termini di competizione tra modelli. Con «paradigma» intendo semplicemente modelli o strutture di pensiero generalizzati applicati a molti o a tutti gli aspetti della «realtà» così come è concepita da un individuo o da una comunità. Ogni sfida fondamentale a una disciplina tende a giungere dall’esterno. Per


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consuetudine, gli studenti vengono introdotti gradualmente al proprio campo di studio, come nei misteri svelati per lenti gradi; cosicché, quando giungono a vedere l’insieme del proprio argomento, sono così integralmente imbevuti di preconcetti e schemi di pensiero che è assai improbabile che siano in grado di metterne in questione le premesse di base. Tale incapacità è soprattutto evidente nelle discipline che si occupano di storia antica. La ragione, si direbbe, è in primo luogo che esse implicano l’apprendimento di lingue difficili, processo che è inevitabilmente autoritario: non si può mettere in questione la logica di un verbo irregolare o la funzione di una particella. Al tempo stesso, mentre espongono le regole linguistiche, gli insegnanti forniscono anche altra informazione storica e sociale che tende a essere data e ricevuta con lo stesso atteggiamento di spirito. La passività intellettuale dello studente è accresciuta dal fatto che queste lingue vengono in genere insegnate durante l’infanzia. Mentre ciò facilita l’apprendimento e dà agli studiosi così addestrati un incomparabile sentimento del greco o dell’ebraico, costoro tenderanno però ad accettare un concetto, una parola o una forma come tipicamente greci o ebraici, senza richiedere una spiegazione circa la loro specifica funzione o origine. La seconda causa di inibizione è il timore quasi religioso, o davvero religioso, che si prova accostandosi alla cultura classica o a quella ebraica, ritenute le fonti della civiltà «occidentale». C’è quindi una certa riluttanza a usare analogie «profane» che offrano modelli per il loro studio. Grande eccezione a ciò si è avuta nel folclore e nella mitologia dove, sin dall’epoca di James Frazer e Jane Harrison, a cavallo del xix secolo, si è fatto molto lavoro comparativo. Quasi tutto questo è però rimasto entro i limiti fissati negli anni 1820 dall’uomo che distrusse il modello antico, Karl Otfried Müller. Questi esortava gli studiosi a studiare la mitologia greca in relazione alla cultura umana in generale, ma era adamantina la sua opposizione a riconoscere qualsiasi specifico prestito dall’Oriente.1 Questa situazione si ritrova più estremizzata nel campo delle lingue e dei nomi. Sin dagli anni 1840, la filologia indoeuropea, o studio delle relazioni tra lingue, è stata al centro del modello ariano. Allora, come oggi, gli indoeuropeisti e i filologi greci hanno dimostrato straordinaria riluttanza a vedere alcun nesso tra il greco, da una parte, e l’egizio e il semitico, le due maggiori lingue non indoeuropee del Mediterraneo orientale nell’Antichità, dall’altra. Non c’è dubbio che se l’egizio, il semitico occidentale e il greco fossero state le lingue di tre importanti tribù contigue nel Terzo Mondo di oggi, ci sarebbero stati vasti studi comparativi, dopodiché la maggior parte dei linguisti avrebbe concluso che con probabilità c’era una distante relazione fra le tre lingue e che c’erano stati numerosi prestiti linguistici e, presumibilmente, altri prestiti culturali, fra i tre popoli. Dato il profondo rispetto che si prova per Greci ed Ebrei, questo tipo di rozzo lavoro comparativo è però ritenuto inappropriato.


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I non addetti non possono avere quel controllo del dettaglio, conquistato con lenta pazienza e fatica, che hanno gli esperti. Mancando di una piena comprensione della complessità di fondo, tendono a vedere corrispondenze semplicistiche in somiglianze superficiali. Ciò non significa però che i non addetti sbaglino di necessità. Heinrich Schliemann, il magnate tedesco che per primo scavò a Troia e Micene, negli anni 1870, fece ingenue ma fruttuose congiunzioni tra leggende, documenti storici e topografia, dimostrando che, malgrado gli storici amino credere che sia così, l’ovvio non è sempre falso. Un’altra tendenza tra i professionisti è quella di confondere ciò che io chiamerei l’etica di una situazione con la sua realtà. Pur se è di lapalissiana evidenza che l’esperto che ha passato una vita a padroneggiare un argomento debba saperne di più di un frettoloso ultimo arrivato, ciò non è sempre vero. Quest’ultimo a volte ha il vantaggio della prospettiva, la capacità di vedere l’argomento nel suo insieme e di ricorrere ad analogie esterne rilevanti. Ci si imbatte così nella situazione paradossale per cui mentre i dilettanti sono di solito incapaci di far avanzare la conoscenza all’interno di un modello o paradigma, sono però i migliori quando si tratti di metterli in questione. Le due più importanti scoperte avutesi negli studi archeologici a partire dal 1850 – il ritrovamento dei Micenei e la decifrazione della loro scrittura, la lineare B – furono entrambe fatte da dilettanti: Schliemann, di cui ho appena detto, e Michael Ventris, che era un architetto anglogreco. Eppure, anche se concezioni di fondamentale novità giungono spesso dall’esterno, ciò non significa certo che tutte le proposte che ne giungono siano corrette o utili. La maggior parte non lo sono, e giustamente le si rigetta perché bislacche. Discriminare tra tipi diversi di sfida radicale pone due problemi difficili. Chi dovrebbe farlo? Come lo si dovrebbe fare? Naturalmente, il primo gruppo da consultare sarebbe quello degli esperti. Essi possiedono le conoscenze necessarie a valutare la plausibilità e l’uso delle nuove idee. Se, come avvenne con Ventris quando decifrò la lineare B, la maggior parte di essi accettano un’idea nuova, sarebbe sciocco sfidare il loro verdetto. L’opinione negativa di costoro non può tuttavia essere considerata con lo stesso incondizionato rispetto, poiché, pur possedendo le capacità necessarie a dare un giudizio, essi hanno anche un interesse diretto nella questione. Sono i custodi dello statu quo accademico, avendovi fatto un investimento intellettuale e spesso emotivo. In alcuni casi, per difendere la propria posizione, gli studiosi affermano che l’età eroica dei dilettanti, un tempo necessari nel loro campo, è ormai finita. Quindi, anche se la loro disciplina è stata fondata da non professionisti, questi ultimi non possono più dare il loro contributo. Per quanto plausibile possa sembrare l’idea di un non addetto, è intrinsecamente impossibile che sia vera. Così come «la guerra è questione troppo seria per essere lasciata ai militari»,


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l’opinione del profano informato, come certo quella del professionista, è necessaria a giudicare la validità delle nuove sfide che sono state respinte dagli studiosi del campo. Anche se questi ultimi in genere sanno più del pubblico, ci sono stati casi che dimostrano il contrario. Si prenda per esempio la teoria della deriva dei continenti, proposta per la prima volta dal professor A.L. Wegener alla fine del xix secolo. Per gran parte dei primi anni del xx secolo, la rilevanza degli «incastri evidenti» tra Africa e Sud America, tra le due sponde del Mar Rosso e tra molte altre coste fu negata dalla maggior parte dei geologi. Oggi, per contrasto, si accetta universalmente che i continenti si siano separati. E analogamente, le proposte di abbandonare la parità aurea, avanzate dai populisti americani negli anni 1880 e 1890, furono denunciate dagli economisti accademici dell’epoca come del tutto impraticabili. In tali casi, si direbbe che il pubblico avesse ragione e gli accademici torto. Quindi, anche se l’opinione professionale deve essere studiata con attenzione e trattata con rispetto, non la si dovrebbe mai prendere come ultima parola. Come potrà il profano informato distinguere tra un innovatore radicale esterno alla disciplina e un eccentrico? Tra un Ventris che decifra un sillabario cretese e un Velikovski che scrive sequenze di eventi e catastrofi in totale contrasto con tutte le altre ricostruzioni della storia? In definitiva, una giuria di profani dovrebbe affidarsi al proprio giudizio soggettivo o estetico. Ci sono però alcuni utili indizi da seguire. L’eccentrico – ossia, qualcuno che abbia una spiegazione coerente ma le cui ipotesi non attraggano subito l’interesse degli accademici ufficiali – tende ad aggiungere alle teorie dei professionisti fattori sconosciuti e inconoscibili: continenti perduti, uomini dallo spazio, collisioni planetarie, ecc. A volte, certo, questo tipo di ipotesi viene spettacolarmente vendicata dalla scoperta dei fattori sconosciuti postulati. Per esempio, i misteriosi «coefficienti» ipotizzati da Ferdinand de Saussure per spiegare anomalie nelle vocali indoeuropee furono scoperti nelle laringali ittite. Prima di ciò, la teoria rimaneva però inverificabile e quindi senza interesse. Per contrasto, innovatori meno immaginosi tendono a togliere piuttosto che aggiungere. Ventris sottrasse l’ignota lingua egea, che si supponeva fosse scritta in lineare B, lasciando soltanto una contrapposizione diretta tra due entità note, il greco omerico e classico e il corpus delle tavolette in lineare B, creando in tal modo, all’istante, un intero nuovo campo accademico. Io sostengo che la ripresa del modello antico della storia greca proposta in questo lavoro appartiene a questa seconda categoria. Essa non aggiunge fattori nuovi sconosciuti o inconoscibili. Ne sottrae invece due introdotti dai sostenitori del modello ariano: (1) i popoli «pre-ellenici» parlanti lingue non indoeuropee, dai quali si fa discendere ogni aspetto inspiegabile della civiltà greca; e (2) quelle misteriose malattie «egittomania», «barbarofilia» e interpretatio graeca che, come


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pretendono gli «arianisti», avrebbero illuso così tanti tra gli antichi Greci – peraltro intelligenti, equilibrati e informati – con la credenza che gli Egizi e i Fenici avessero svolto un ruolo centrale nella formazione della loro cultura. Tale «illusione» era tanto più sorprendente quanto più si consideri che chi ne era vittima non traeva alcuna soddisfazione etnica da essa. La sottrazione di questi due fattori e la ripresa del modello antico lascia a diretto confronto le culture e le lingue greca, semitica occidentale ed egizia, generando centinaia, se non migliaia di ipotesi-predizioni verificabili del tipo: se la parola o il concetto a ricorreva nella cultura x, ci si dovrebbe aspettare di ritrovarne l’equivalente nella cultura y. Tali ipotesi possono illuminare aspetti di tutte e tre le civiltà, ma soprattutto quelle aree della cultura greca che non si possono spiegare in base al modello ariano. Il modello antico, il modello ariano e il modello antico riveduto hanno in comune un paradigma, quello della possibilità di diffusione della lingua o cultura tramite conquista. È interessante che ciò sia in contrasto con la tendenza oggi dominante in archeologia che pone invece l’accento sugli sviluppi indigeni. Tale tendenza influenza la nuova concezione della preistoria greca come appare dal modello d’origine autonoma di recente proposto.2 Atena nera si concentra però sulla concorrenza tra il modello antico e quello ariano. I secoli xix e xx sono stati dominati dai paradigmi di progresso e scienza. La credenza dominante nel mondo della cultura è che la maggior parte delle discipline abbiano fatto un salto di qualità nella «modernità» o «vera scienza», seguito da progressi cumulativi nella conoscenza. Nella storiografia del Mediterraneo orientale antico, tali «salti» li si riscontra nel xix secolo; da allora in poi gli studiosi hanno teso a credere che il loro lavoro sia stato qualitativamente migliore di tutto quello svolto in precedenza. I successi tangibili della scienza naturale durante questo periodo hanno confermato la verità di tale credenza in quel campo. Estenderla alla storiografia è però operazione con basi meno sicure. I distruttori del modello antico e i costruttori del modello ariano si ritenevano tuttavia «scientifici». Per questi studiosi tedeschi e britannici, le storie della colonizzazione e civilizzazione egizia della Grecia violavano la «scienza razziale» con la stessa mostruosità con cui le leggende di sirene e centauri infrangevano i canoni della scienza naturale. Con eguale gesto, le screditavano e scartavano. Da centocinquant’anni, gli storici proclamano di possedere un «metodo» analogo a quelli usati nella scienza naturale. In realtà, i modi in cui gli storici moderni differiscono da quelli «prescientifici» sono molto meno certi. I migliori tra gli storici d’epoca precedente erano molto consapevoli, usavano la verifica di plausibilità e cercavano una coerenza intrinseca. Citavano e valutavano inoltre le loro fonti. A paragone, gli storici scientifici del xix e xx secolo sono stati incapaci di dare dimostrazioni formali della «prova», o di stabilire solide leggi storiche.


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Perdipiù oggi l’accusa di «metodologia scorretta» viene usata per condannare non soltanto il lavoro incompetente ma anche quello non gradito. L’accusa è ingiusta perché presuppone falsamente, a contrasto, l’esistenza di studi metodologicamente corretti. Considerazioni di questo tipo conducono alla questione del positivismo e alla sua esigenza di «prova». Prova o certezza sono abbastanza difficili da raggiungere, anche nelle scienze sperimentali o nella storia documentata. Nei campi di cui quest’opera si occupa è poi fuor di questione: tutto quel che si può sperare di trovare è maggiore o minore plausibilità. Per dirla in altro modo, è fuorviante vedere un’analogia tra dibattito di studiosi e diritto penale. Nel diritto penale, poiché la condanna di un innocente è tanto peggiore dell’assoluzione di un colpevole, i tribunali richiedono giustamente una prova «al di là di ogni ragionevole dubbio» prima di giungere a una condanna. Ma né le nozioni convenzionali, né lo statu quo accademico hanno i diritti morali di una persona accusata. Dei dibattiti in queste aree non si dovrebbe quindi giudicare in base a prove, ma solo in base alla plausibilità competitiva. In questo lavoro, io non ho la possibilità, e quindi non tenterò, di provare che il modello ariano è «sbagliato». Quel che mi propongo è invece di mostrare che esso è meno plausibile del modello antico riveduto e che quest’ultimo offre un contesto più proficuo per la ricerca futura. La preistoria del xx secolo è stata ossessionata da una forma particolare di questa ricerca della prova, che io definisco positivismo archeologico. Si tratta di quella fallacia per cui trattare «oggetti» rende per forza «oggettivi»; è la convinzione che le interpretazioni delle testimonianze archeologiche siano cosa tangibile quanto i reperti archeologici stessi. Tale fede eleva a status «scientifico» le ipotesi basate sull’archeologia e svaluta l’informazione circa il passato che ci deriva da altre fonti – leggende, toponimi, culti religiosi, lingue e distribuzione di dialetti linguistici e scrittòrî. In questo lavoro si sostiene che tutte queste fonti devono essere trattate con grande cautela, ma le testimonianze documentali che esse ci danno non sono categoricamente meno valide di quelle che ci fornisce l’archeologia. Lo strumento favorito dei positivisti archeologici è l’«argomento in base al silenzio», ossia la credenza che se qualcosa non è stato trovato, ciò significa che non può essere esistito in quantità significative. L’argomento si direbbe utile in quei pochissimi casi in cui gli archeologi non siano riusciti a trovare, in un’area ristretta ma molto ben scavata, qualcosa che il modello dominante aveva predetto. Per esempio, da cinquant’anni, si ritiene che la grande eruzione a Tera sia avvenuta durante il primo periodo ceramico Minoico Tardo iB, eppure, malgrado estesi scavi su questa piccola isola, non è comparso nemmeno un coccio di questo vasellame al di sotto delle scorie vulcaniche. Ciò suggerisce che sarebbe utile riconsiderare la teoria. Ma anche in questo caso, tuttavia, qualche vaso di questo


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tipo potrebbe pur sempre comparire, e ci sono sempre problemi circa la definizione degli stili ceramici. In quasi tutta l’archeologia – come nelle scienze naturali – è virtualmente impossibile «provare» l’assenza. Si potrà forse sostenere che questi attacchi sono diretti contro uomini di paglia o, perlomeno, uomini morti. «Gli archeologi moderni sono troppo affinati per essere positivisti», o «nessun serio studioso crede oggi all’esistenza, per non dire l’importanza, della “razza”.» Entrambe le affermazioni sono forse vere, ma ciò che qui sostengo è che i moderni archeologi e storici antichi del campo ancora lavorano con modelli approntati da uomini che erano grossolanamente positivisti e razzisti. È quindi assai implausibile supporre che tali modelli non fossero influenzati da queste idee. Ciò non falsifica di per sé i modelli ma – date quelle che ora ci appaiono come le dubbie circostanze della loro creazione – li si dovrebbe accuratamente riesaminare e si dovrebbe prendere in seria considerazione la possibilità che ci siano alternative altrettanto valide o migliori. In particolare, se si può dimostrare che il modello antico è stato respinto per ragioni estrinseche, la sua sostituzione col modello ariano non può più essere attribuita ad alcuna superiorità esplicativa di quest’ultimo. E quindi legittimo porre i due modelli in competizione o cercare di conciliarli. A questo punto è forse utile fornire una scaletta del resto di quest’Introduzione. In un progetto così vasto come quello che qui sto tentando di realizzare è certo d’aiuto dare un sommario degli argomenti, assieme ad alcune indicazioni sui documenti forniti a loro sostegno. Per queste ragioni ho incluso una scaletta dei capitoli che compongono questo libro. I problemi che l’esposizione delle mie tesi comporta sono resi ancora più complessi dal fatto che le mie concezioni sul più vasto contesto in cui si collocano gli argomenti di Atena nera a volte differiscono dalle nozioni convenzionali. Ho quindi scritto un abbozzo schematico del retroterra storico che spazia attraverso gli ultimi dodici millenni del mondo occidentale antico. A questo compendio per grandi linee segue un profilo storico del ii millennio a.C., periodo che Atena nera tratta in particolare, allo scopo di chiarire ciò che io penso sia «realmente accaduto» di contro alle nozioni che altri hanno sull’argomento. Viene poi un riassunto del primo volume stesso, L’invenzione dell’antica Grecia, cui fanno seguito descrizioni un po’ più dettagliate del contenuto degli altri due volumi della serie. Una scaletta del secondo volume, Documenti e testimonianze archeologiche è inclusa a questo punto per dimostrare che esistono forti argomenti a favore di una ripresa del modello antico nell’ambito delle testimonianze archeologiche, linguistiche o d’altra forma di cui disponiamo. Ho poi abbozzato una descrizione dei contenuti che mi prefiggo per il terzo volume, L’enigma della Sfinge, per poter mostrare gli interessanti risultati che si ottengono appli-


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cando il modello antico riveduto a problemi di mitologia greca che apparivano in precedenza inesplicabili.

Retroterra storico Prima di indicare gli argomenti trattati in questi tre volumi, può esser utile dare un’impressione complessiva delle mie concezioni generali circa il retroterra storico di tali argomenti, soprattutto quando queste si scostino dalle nozioni convenzionali. Come la maggior parte degli studiosi, credo sia impossibile decidere tra le teorie di monogenesi o poligenesi del linguaggio umano, anche se propendo per le prime. D’altra parte, il lavoro recente di un piccolo ma crescente numero di studiosi mi ha convinto che c’è un rapporto genetico tra le lingue indoeuropee e quelle della «superfamiglia» linguistica afroasiatica.3 Accetto inoltre la concezione tradizionale, anche se discussa, secondo cui una famiglia linguistica ha origine da un singolo dialetto. Ritengo quindi che debba essere esistito in un certo periodo un popolo che parlava protoafroasiatico-indoeuropeo. Tale lingua, e cultura, deve essersi frammentata moltissimo tempo fa. La possibilità più tarda sarebbe forse il periodo musteriano, 50-30 000 anni pP (prima del Presente), ma potrebbe anche essere successo prima. Il terminus ante quem è determinato in base al fatto che le differenze tra indoeuropeo e afroasiatico sono assai maggiori di quelle all’interno di ciascun gruppo; a mio parere la frammentazione di quest’ultimo può essere datata al ix millennio a.C. Io vedo la diffusione dell’afroasiatico come l’espansione di una cultura – insediata per lungo tempo nella Rift Valley dell’Africa orientale – avvenuta alla fine dell’ultima glaciazione tra il x e ix millennio a.C. Durante le ere glaciali, l’acqua era imprigionata nelle calotte polari e le piogge erano molto meno frequenti di oggi. Il Sahara e il Deserto Arabico erano anche più grandi e più invivibili di quanto siano oggi. Con l’aumentare della temperatura e delle precipitazioni piovose nei secoli che seguirono, gran parte di queste regioni si trasformò in savane in cui accorsero i popoli delle regioni circumvicine. Tra questi, quelli che ebbero più successo furono, a mio parere, popoli parlanti protoafroasiatico provenienti dal Rift. Questi non solo disponevano di un’efficace tecnica per la caccia all’ippopotamo tramite arpioni, ma possedevano anche bestiame addomesticato e tecniche di semina e raccolto. Attraversando la savana, popoli parlanti ciadico raggiunsero il lago Ciad; i Berberi, il Maghreb; i proto-Egizi, l’Alto Egitto. Popoli parlanti protosemitico si stanziarono in Etiopia e si spinsero sino alla savana arabica (mappa 1; grafico 1). Con il prolungato inaridirsi del Sahara durante il vii e vi millennio a.C., ci furono movimenti da ovest e da est e anche dal Sudan verso la Valle del Nilo


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egiziana. Sostengo inoltre – ma qui sono in minoranza – che si sarebbe avuta una simile migrazione dalla savana arabica sino alla Bassa Mesopotamia. La maggior parte degli studiosi ritiene che quest’area fosse dapprima abitata da Sumeri o proto-Sumeri e fosse poi infiltrata da Semiti del deserto soltanto durante il iii millennio. Io sostengo che durante il vi millennio la parlata semitica si diffuse, assieme al cosiddetto vasellame di Ubaid, in Assiria e in Siria, sino a occupare più o meno quella regione dell’Asia Sudoccidentale dove il semitico è parlato ancora oggi (mappa 2). A mio parere, i Sumeri arrivarono in Mesopotamia da nordest, all’inizio del iv millennio. In ogni caso, oggi sappiamo dai testi più remoti che siamo stati in grado di leggere – quelli di Uruk risalenti al 3000 a.C. circa – che il bilinguismo semito-sumero era già ben insediato.4 Pochi studiosi contesterebbero l’idea che sia stato in Mesopotamia che si venne componendo per la prima volta ciò che chiamiamo «civiltà». Con la possibile eccezione della scrittura, tutti gli elementi che la costituirono – città, irrigazione agricola, metallurgia, architettura in pietra e ruote sia per veicoli sia per il tornio del vasaio – erano già esistiti prima e altrove. Ma una volta coronato dalla scrittura, questo assemblaggio permise una grande accumulazione economica e politica che possiamo utilmente concepire come l’inizio della civiltà. Prima di discutere il sorgere e il diffondersi di questa civiltà, è forse utile considerare la frammentazione e lo sviluppo separato delle lingue indoeuropee. Nella prima metà del xix secolo si riteneva che l’indoeuropeo avesse avuto origine in certe montagne dell’Asia. Con l’avanzare del secolo, questa Urheimat, o patria originaria, fu spostata verso occidente, sinché si arrivò poi a convenire che il protoindoeuropeo sarebbe stato dapprima parlato da nomadi in aree a nord del Mar Nero. Negli ultimi trent’anni tali nomadi sono stati identificati con la cosiddetta cultura kurga, attestata in questa regione attorno al iv e iii millennio a.C. A quanto risulta, i possessori di questa cultura materiale si diffusero verso ovest in Europa, verso sudest in Iran e in India, e verso sud nei Balcani e in Grecia. Lo schema generale di espansione dall’Asia Centrale o dalle steppe fu sviluppato prima della decifrazione dell’ittita, ossia prima della scoperta che esso era una lingua indoeuropea primitiva e che si fosse quindi coscienti dell’esistenza di un’intera famiglia linguistica anatolica. Devo forse aggiungere che per i linguisti le lingue «anatoliche» non includono quelle che, come il frigio e l’armeno, pur parlate in Anatolia – moderna Turchia – sono chiaramente indoeuropee. Le lingue anatoliche propriamente dette – l’ittita, il palico, il luviano, il licio, il lidio, il lemnio, probabilmente l’etrusco e forse il cario – pongono un certo numero di problemi alla concezione tradizionale delle origini delle lingue indoeuropee (mappa 3). Si ammette in genere che il protoanatolico si sarebbe scisso dal protoindoeuropeo prima che quest’ultimo si disintegrasse. È però impossibile precisare il lasso di tempo tra i due eventi, che può spaziare dai 500 ai 10 000 anni. A ogni modo,


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la differenza è sufficiente a convincere molti linguisti a operare una distinzione tra l’indoeuropeo – che esclude le lingue anatoliche – e l’indoittita, che include entrambe le famiglie (vedi grafico 2). Se, come suppongono molti linguisti storici, non soltanto l’indoeuropeo ma anche l’indoittita ebbero inizio a nord del Mar Nero, come e quando i parlanti delle lingue anatoliche entrarono in Anatolia? Alcuni studiosi sostengono che ciò avrebbe avuto luogo durante il iii millennio quando, come indicano fonti mesopotamiche, ci furono invasioni barbariche in quest’area. Con molta maggiore probabilità tali invasioni le si direbbe quelle di popoli parlanti frigio e protoarmeno. È pressoché inconcepibile che un periodo di poche centinaia di anni, prima della più antica attestazione dell’ittita e del palico, basti a spiegare la notevolissima differenziazione tra indoeuropeo e anatolico e all’interno di quest’ultima famiglia. I reperti archeologici per il iii millennio sono assai frammentari, ma non si ritrova alcuna ovvia rottura nella cultura materiale che possa chiarire una tale imponente deriva linguistica. Non si deve tuttavia far troppo affidamento sull’argomento in base al silenzio; un influsso della cultura anatolica durante il v e iv millennio non può essere del tutto escluso. Una possibilità più attraente è l’ipotesi proposta dai professori Georgiev e Renfrew.5 In base a essa, l’indoeuropeo – io preferirei l’indoittita – sarebbe stato già parlato nell’Anatolia meridionale da coloro che produssero le grandi culture neolitiche dell’viii e vii millennio, inclusa quella famosa di Çatal Hüyük nella pianura di Konia. Secondo Georgiev e Renfrew, la lingua sarebbe giunta in Grecia con la diffusione dell’agricoltura attorno al 7000 a.C., epoca in cui l’archeologia individua una significativa rottura nella cultura materiale di queste aree. La lingua delle «civiltà» neolitiche della Grecia e dei Balcani nel v e iv millennio sarebbe quindi stata un dialetto dell’indoittita. Parrebbe quindi utile accettare la proposta dell’americano professor Goodenough, ossia che la cultura nomade kurga fosse derivata dal sistema agricolo misto di queste culture balcaniche e che quindi derivasse da queste la propria lingua.6 In tal modo, postulando che la cultura kurga di lingua indoeuropea si sia ridiffusa all’indietro nei Balcani e in Grecia sovrapponendosi a una popolazione di lingua indoittita, è possibile conciliare l’ipotesi di Georgiev e Renfrew con quelle degli indoeuropeisti ortodossi. L’ipotetica espansione dell’afroasiatico, avvenuta con l’espandersi dell’agricoltura africana nel ix e viii millennio a.C., e quella dell’indoittita, diffusosi con l’agricoltura del sudovest asiatico nell’viii e vii millennio, spiegherebbero in qualche misura quelle che appaiono come differenze fondamentali tra la costa nord e quella sud del Mediterraneo. Le migrazioni avvennero in gran parte per terra, poiché i viaggi per mare, anche se già possibili almeno a partire dal ix millennio, erano rischiosi e faticosi. Col migliorare della navigazione nel v e iv millennio, la


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situazione fu in gran parte rovesciata. Malgrado i nomadi continuassero a migrare per terra, in particolare attraverso le pianure, il trasporto e le comunicazioni, dal iv millennio a.C. sino allo sviluppo delle ferrovie nel xix secolo d.C., furono in genere più facili per acqua che per terra. In questo lungo periodo, i fiumi e i mari fornirono collegamenti, mentre i territori furono isolati da deserti senza fiumi o montagne. Un simile schema di successione storica – prima terra, poi mare – spiegherebbe il paradosso generale di cui questo libro si occupa: la palese contraddizione tra le evidentissime somiglianze culturali che si ritrovano nelle popolazioni tutt’intorno al Mediterraneo e la fondamentale divisione linguistica e culturale tra le sue coste nord e sud.7 La civiltà si diffuse con grande rapidità dalla Mesopotamia del iv millennio. L’idea della scrittura sembra sia stata presa in considerazione in India e in molte parti del Mediterraneo orientale anche prima che fosse codificata nella sua terra d’origine. Sappiamo che i geroglifici furono sviluppati nella Valle del Nilo attorno al terzo quarto di questo stesso millennio, e, malgrado la mancanza d’attestazione, sembra probabile che i geroglifici ittiti, così come i prototipi dei sillabari levantini, ciprioti e anatolici, si formassero prima dell’arrivo in Siria, attorno all’inizio del iii millennio, della civiltà sumero-semita nel suo pieno sviluppo, con la sua regolare scrittura cuneiforme. La civiltà egizia è chiaramente basata sulle ricche culture predinastiche dell’Alto Egitto e della Nubia, le cui origini africane sono incontestate. Ciò nondimeno, la vasta influenza mesopotamica, evidente nei tardi reperti predinastici e della i dinastia, lascia scarso adito a dubbio che l’unificazione e la fondazione dell’Egitto dinastico, attorno al 3250 a.C., fossero innescate da sviluppi avvenuti a oriente. La miscela culturale si venne ulteriormente a complicare per i fondamentali legami linguistici e, come sosterrò, culturali, tra l’Egitto e la componente fondamentale semitica della civiltà mesopotamica. Al miracoloso iv millennio seguì il prospero iii. Gli archivi, recentemente scoperti, di Ebla in Siria, datati attorno al 2500 a.C., ci descrivono un concerto di stati ricchi, alfabetizzati e raffinati che si stendevano dal Kurdistan a Cipro. Sappiamo dall’archeologia che in quest’epoca la civiltà si estendeva anche più in là – sino alla cultura Harrapan estesa dall’Indo all’Afghanistan, e alle culture del Caspio, del Mar Nero e dell’Egeo che lavoravano metalli. Le civiltà semito-sumeriche della Mesopotamia erano strettamente connesse da una scrittura e da una cultura comuni. Quelle alla periferia, anche se altrettanto «civilizzate», mantenevano lingue, scritture e identità culturali proprie. A Creta, per esempio, risulta un considerevole influsso culturale del Levante all’inizio del periodo ceramico Minoico Antico i, al volgere del iii millennio. Il cuneiforme non vi divenne tuttavia la scrittura dominante e Creta non fu mai incorporata nella civiltà siro-mesopotamica. A parte la mera distanza, le più plausibili ragioni di ciò sembrerebbero es-


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sere la resilienza della cultura nativa e il fatto che Creta culturalmente si trovava a metà tra le sfere d’influenza semitica ed egizia. Questo doppio rapporto sia col Levante che con l’Africa si riflette nelle scoperte archeologiche. A Creta e in altre parti dell’Egeo, si sono ritrovati molti oggetti egizi e siriaci. Attorno al 3000 a.C., come avveniva nel Vicino Oriente, si cominciò a mescolare il rame con l’arsenico per produrre il bronzo; fu introdotto il tornio da vasaio; e ci sono sorprendenti similarità tra i sistemi di fortificazione delle Cicladi e quelli dello stesso periodo ritrovati in Palestina. Gli archeologi Peter Warren, professore a Bristol, e Colin Renfrew, professore a Cambridge, ci chiedono di credere che questi sviluppi abbiano avuto luogo in modo indipendente, senza alcuna influenza diretta degli stessi cambiamenti prodottisi in epoca di poco anteriore nel Vicino Oriente e senza che avessero alcun influsso gli indubbi contatti tra le due regioni.8 Trovo ciò assai implausibile. Sembrerebbe molto più probabile che gli sviluppi dell’Egeo si producessero come conseguenza dei contatti avuti tramite il commercio levantino, degli insediamenti levantini e delle iniziative locali in risposta a tali stimoli. Sappiamo che nel iii millennio gran parte del mondo che faceva uso di bronzo possedeva anche la scrittura, o cuneiforme o altre scritture locali. Non c’è però alcuna traccia di scrittura nell’Egeo di questo periodo. Quanto sul serio bisogna dunque prendere in questo caso l’«argomento in base al silenzio»? Ci sono alcune valide considerazioni a suo sfavore. In primo luogo, i climi della Grecia e dell’Anatolia sono assai meno appropriati a preservare tavolette d’argilla e papiri dei climi del Medio Oriente o dell’India nordoccidentale. Persino in queste regioni aride, prove documentali sono spesso difficili da trovare. Fino alla scoperta delle tavolette di Ebla, nel 1975, non c’era alcun documento che provasse l’esistenza della scrittura durante il iii millennio. Ora sappiamo che la Siria di quell’epoca possedeva una classe di letterati colti e che uomini giungevano dall’Eufrate per studiare alle scuole di Ebla. Un ulteriore argomento suggerisce che nell’Egeo la scrittura ci fosse già agli inizi dell’Età del bronzo. Anche se la lineare A, la lineare B e i sillabari ciprioti, ritrovati a partire dal ii millennio, sembrano condividere un prototipo comune e al tempo stesso rivelano divergenze talmente grandi che, per analogia con sviluppi di sistemi di scrittura storicamente osservati, richiederebbero molti secoli per prodursi. I «dialetti» scrittòri documentati sembrerebbero indicare che la forma originaria sia esistita nel iii millennio, e lascerebbero inoltre supporre che lo sviluppo di questa si sia avuto nel iv millennio: periodo di tempo plausibile, quindi, perché ciò si sia potuto produrre. Infine, ho sostenuto altrove che al più tardi l’alfabeto raggiunse l’Egeo alla metà del ii millennio.9 Se così è stato, sembrerebbe plausibile supporre che la sopravvivenza dei sillabari dimostri che essi erano già ben radicati in questa regione. In tal modo, quindi, in base ai documenti, si possono ritenere esistenti nel iii millennio.


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La civiltà della prima Età del bronzo subì un collasso nel xxiii secolo a.C. In Egitto, si è contraddistinta quest’epoca come Primo periodo intermedio. In Mesopotamia ci fu l’invasione dei Guti dal Nord. L’intero mondo civilizzato fu dilaniato da invasioni barbariche e rivolte sociali, causate forse, sia le une che le altre, da un improvviso deterioramento del clima. Fu in questi anni che l’Anatolia venne invasa da gruppi che ritengo siano da identificarsi con popoli parlanti frigio e protoarmeno. Nella Grecia continentale, in questo e nei secoli successivi, ci furono distruzioni diffuse alla fine del periodo ceramico Elladico Antico ii, che con plausibilità sono state messe in relazione con un’invasione «ariana» o «ellenica» della Grecia, ma potrebbero anche essere il risultato di incursioni e colonie egizie risalenti agli inizi del Medio Regno. Tre secoli dopo ci fu un’altra distruzione, anche se meno devastante, alla fine del periodo Elladico Antico iii, 1900 a.C. circa, per una delle cause sopra menzionate, o per entrambe. Se si postula questo grado di contatto tra l’Egeo e il Vicino Oriente, nel iii millennio, è probabile che alcune delle parole, alcuni toponimi e culti religiosi di origine egizia e semitica discussi in questo lavoro siano stati introdotti in quest’epoca nell’Egeo. Nella Grecia continentale è meno probabile che siano riusciti a sopravvivere al disordine delle invasioni e delle infiltrazioni dal Nord. A Creta e nelle Cicladi, non colpite da tali disordini, e che erano forse in gran parte di lingua semitica, è però più probabile che questi elementi culturali si siano perpetuati. Devo ripetere a questo punto che l’ipotesi appena avanzata non è l’argomento di questo lavoro, ma soltanto il mio modo di percepirne lo sfondo storico. Quindi, anche se discuterò molti dei problemi linguistici nel secondo volume, e ho già scritto altrove su alcuni altri aspetti, non posso qui fornire una documentazione esauriente a sostegno di tale ipotesi.10

Proposta di profilo storico Atena nera si concentra sui prestiti culturali greci dall’Egitto e dal Levante nel ii millennio a.C., o, per esser più precisi, nel corso dei mille anni che vanno dal 2100 al 1100 a.C. Alcuni di questi scambi avvenuti forse prima, e altri posteriori, saranno anche tenuti in conto. Le ragioni per scegliere questo particolare lasso di tempo sono, in primo luogo, che questo risulta essere il periodo in cui la cultura greca si formò, e, in secondo luogo, che mi è stato impossibile scoprire, nei documenti del Vicino Oriente o in fonti leggendarie, culturali o etimologiche greche, indicazioni di qualsiasi prestito precedente. L’ipotesi che propongo è che mentre sembra esservi stata durante questo millennio un’influenza più o meno continua del Vicino Oriente sull’Egeo, essa


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avrebbe subìto considerevoli variazioni d’intensità a seconda del periodo. Il primo «picco» di tale influenza, di cui si abbia traccia, fu il xxi secolo. Fu allora che l’Egitto si riprese dal crollo del Primo periodo intermedio e fu costituito il cosiddetto Medio Regno dalla nuova xi dinastia. Questa non solo riunì l’Egitto, ma attaccò anche il Levante, e, a quanto risulta da testimonianze archeologiche, ebbe contatti di vasto raggio che si spinsero ben oltre, sino a includere di certo Creta e forse la Grecia continentale. La successione di faraoni neri dell’Alto Egitto, tutti chiamati Menth.otpe, aveva a proprio divino patrono il dio falco e toro Mntw o Mont. È durante lo stesso secolo che vennero costruiti i palazzi cretesi; e a quest’epoca risalgono le prime tracce del culto del toro, rappresentato sui muri dei palazzi, culto che fu centrale alla mitologia greca su re Minosse e Creta. Sembrerebbe quindi plausibile supporre che tali sviluppi cretesi, direttamente o indirettamente, riflettessero il sorgere del Medio Regno egizio. A poca distanza dalla Tebe greca, in direzione nord, si trova un grande tumulo, chiamato per tradizione «tomba di Amfione e Zeto». L’eminente archeologo T. Spyropoulos, uno degli ultimi a scavarvi, lo descrive come una piramide di terra a gradini con un coronamento di mattoni, in cui si trovava una tomba monumentale, ora saccheggiata. Egli data il vasellame e i pochi gioielli trovati nei pressi al periodo ceramico Elladico Antico iii – convenzionalmente posto attorno al xxi secolo. Sulla base di questi documenti, della raffinata tecnologia usata per prosciugare il vicino lago Kopais – impresa databile attorno a quest’epoca – e del considerevole corpus di letteratura classica che stabilisce connessioni tra questa regione e l’Egitto, Spyropoulos postula l’esistenza in quest’epoca di una colonia egizia in Beozia.11 C’è inoltre altra documentazione a sostegno della sua ipotesi, che verrà citata nei successivi volumi di Atena nera. Nel frattempo, è interessante notare che secondo un’antica tradizione, cui fa riferimento Omero, Amfione e Zeto furono i primi fondatori di Tebe, e che l’altro fondatore della città, Cadmo, arrivò dal Vicino Oriente molto tempo dopo che la loro prima città era stata distrutta. Come le piramidi egizie, la tomba di Amfione e Zeto fu associata col sole e, come queste, la Tebe greca aveva strette associazioni con una sfinge. Inoltre, essa era in qualche modo connessa col segno zodiacale del Toro, e molti studiosi hanno stabilito paralleli tra il culto del toro tebano e quello cretese. Nulla è certo, ma ci sono forti indizi che connettono la tomba e la prima fondazione di Tebe, direttamente o indirettamente, all’Egitto della xi dinastia. Mentre a Creta il culto del toro fu dominante per altri seicento anni, l’Egitto abbandonò il culto regio di Mont col sorgere della xii dinastia, poco dopo il 2000 a.C. La nuova dinastia aveva come patrono il dio ariete Amon, originario dell’Alto Egitto. Credo che la maggior parte dei culti dell’ariete che si ritrovano attorno all’Egeo, e in genere associati a Zeus, derivassero dall’influenza di


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questo periodo, traendo spunto tanto da Amon che dal culto dell’ariete/capra Mendēs nel Basso Egitto. Erodoto e autori successivi scrissero molto circa le vaste conquiste di un faraone che egli chiama Sesōstris, il cui nome è stato identificato con S-n-Wsrt o Senwosret, nome di alcuni faraoni della xii dinastia. Ma queste affermazioni di Erodoto sono state trattate con speciale derisione. Lo stesso trattamento è stato riservato ad antiche leggende circa spedizioni di vasto raggio intraprese dal principe etiope o egizio Memnōn, il cui nome potrebbe derivare da >lmn-mh3t (scritto Ammenemēs da autori greci posteriori), nome anche questo di altri importanti faraoni della xii dinastia. Entrambi i cicli leggendari sembrano ora trovare conferma nella recente lettura di un’iscrizione proveniente da Memfi che descrive le conquiste per terra e per mare di due faraoni della xxii dinastia, Senwosret i e Ammenemēs ii. C’è anche un’interessante somiglianza tra Hpr k3 R<, nome alˇ ternativo di Senwosret, e Kekrops (Cecrope), il leggendario fondatore di Atene che alcune antiche fonti dicono fosse egizio.12 La successiva ondata di influenza, su cui la tradizione è molto vaga, ebbe luogo durante il periodo degli Hyksos. Gli Hyksos, il cui nome viene dall’egizio h. k. 3 h. 3 st, «Signori di terre straniere», furono invasori giunti dal Nord che conquistarono e governarono almeno il Basso Egitto dal 1720 circa al 1575 a.C. Anche se risulta che altri elementi, forse urriti, vi avessero una parte, gli Hyksos furono in prevalenza di lingua semitica. La prima revisione del modello antico che propongo è che si ammetta che ci siano state, durante il iv e iii millennio, invasioni o infiltrazioni della Grecia da parte di popoli di lingua indoeuropea provenienti dal Nord. La seconda revisione che voglio proporre è che si situi lo sbarco di Danao in Grecia vicino all’inizio del periodo Hyksos, ossia circa nel 1720 a.C., non vicino alla sua fine – nel 1575 o dopo – come riportato nelle antiche cronografie. Sin dalla tarda antichità, gli autori hanno scorto nessi tra le testimonianze egizie sull’espulsione degli odiati Hyksos da parte della xviii dinastia, la tradizione biblica dell’Esodo dall’Egitto degli Israeliti e le leggende greche sull’arrivo ad Argo di Danao. Secondo la tradizione greca, Danao era o egizio o siriano, ma è definitivo che egli giungesse dall’Egitto dopo o durante la lotta col suo gemello Egitto, la cui origine è palese. Questa triplice associazione sembrerebbe plausibile, e da alcuni archeologi è stata messa in coincidenza con le testimonianze archeologiche. Sviluppi recenti nella datazione al radiocarbonio e nella dendrocronologia rendono però impossibile situare i nuovi insediamenti in Grecia alla fine del periodo Hyksos. D’altra parte, sia questi nuovi dati che le testimonianze archeologiche di Creta concorderebbero a datare lo sbarco nel tardo xviii secolo, agli «inizi» del periodo quindi. Gli antichi cronografi variano nelle loro datazioni dell’arrivo di Cadmo e della sua «seconda» fondazione di Tebe. Io assocerei anche queste leggende agli


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Hyksos, per quanto potrebbero riferirsi a periodi successivi. La tradizione greca associava Danao con l’introduzione dell’irrigazione e Cadmo con l’introduzione di certi tipi di armi, dell’alfabeto e di alcuni rituali religiosi. Secondo il modello antico riveduto, sembrerebbe che l’irrigazione giungesse con un’ondata migratoria precedente, ma altri prestiti, incluso il carro da guerra e la spada, entrambi introdotti in Egitto nel periodo Hyksos, giunsero poco dopo nell’Egeo. Nella religione, i culti introdotti in questa fase sembra si accentrassero attorno a Poseidone e Atena. Io sostengo che il primo debba identificarsi con Seth, dio egizio delle plaghe selvagge o del mare, cui gli Hyksos erano devoti, e col semitico Yam (mare) e Yahwe. Atena era l’egizia Nēit e probabilmente la semitica <Anåt, anch’essa a quanto risulta venerata dagli Hyksos. Con ciò non si vuol negare che altri culti di divinità quali Afrodite e Artemide fossero introdotti in questo periodo. Per generale accordo, la lingua greca si sarebbe formata durante i secoli xvii e xvi a.C. In essa struttura e lessico di base indoeuropei si combinano con un vocabolario della vita colta non indoeuropeo. Sono convinto che gran parte di questo sia plausibilmente derivato dall’egizio e dal semitico occidentale. Ciò ben si accorderebbe con un lungo periodo di dominazione da parte di conquistatori egizio-semiti. Alla metà del xv secolo, la xviii dinastia costituì un potente impero nel Levante, e ricevette tributo dall’Egeo. In questa regione si sono ritrovati molti oggetti della xviii dinastia. A mio parere, fu questa un’altra onda di piena dell’influenza egizia, e fu probabilmente in questo periodo che il culto di Dioniso – tradizionalmente considerato come «tardo» – sarebbe stato introdotto in Grecia. Nello specifico, accetto l’antica tradizione secondo cui i culti misterici eleusini di Demetra si costituirono in questo periodo.13 Agli inizi del xiv secolo a.C., ritengo che ci fosse un’altra invasione della Grecia, quella dei Pelopidi o Achei provenienti dall’Anatolia, i quali introdussero nuovi stili di fortificazione e forse le corse dei carri; ma questa non interessa direttamente il mio progetto. Nel xii secolo a.C., si ebbe un’altra e più disgregante rottura storica. Nell’Antichità, ciò che ora chiamiamo «invasione dorica» era molto più spesso definita «il ritorno degli Eraclidi». Gli invasori giunsero certamente dalle frange nordoccidentali della Grecia, zone che erano state influenzate di meno da quella cultura dei palazzi micenei che essi distrussero. È affascinante che essi stessi si chiamassero «Eraclidi», e che pretendessero di essere d’origine divina e di discendere da Eracle, e vantassero anche come propri gli antenati egizi e fenici delle famiglie reali che erano state rimpiazzate dai Pelopidi. Non c’è dubbio che i discendenti di questi conquistatori, i re dorici dell’età classica e ellenistica, credessero di discendere dagli Egizi e dai Fenici.14 Nel volume ii tratterò quella che a mio parere può definirsi l’«egittizzazione» della società spartana tra l’800 e il 500 a.C., e nel volume iii discuterò anche


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l’introduzione dei culti orfici egizi nel vi secolo a.C. Ho scritto altrove sull’origine fenicia della polis o città-stato e sulla «società schiavistica» durante il ix e viii secolo nell’interpretazione marxista. Spero anche, un giorno, di lavorare sulla trasmissione della scienza, della filosofia e della teoria politica egizie e fenicie da parte dei fondatori greci di queste discipline, la maggior parte dei quali avevano studiato in Egitto e in Fenicia. Atena nera si occupa però essenzialmente del ruolo svolto da Egizi e Semiti nella formazione della Grecia durante la media e tarda Età del bronzo.

«Atena nera», volume i: riassunto degli argomenti Il primo volume di Atena nera si occupa dello sviluppo del modello antico e del modello ariano, e il primo capitolo, Il modello antico nell’Antichità, tratta gli atteggiamenti dei Greci, nel periodo classico ed ellenistico, verso il proprio passato remoto. Prende in considerazione gli scritti di autori che affermarono il modello antico, fecero menzione delle colonie egizie a Tebe e Atene e fornirono dettagli sulla conquista egizia dell’Argolide e sulla fondazione fenicia di Tebe. Io vi discuto quel che sostengono vari «critici delle fonti» del xix e xx secolo, ossia che il modello antico sarebbe stato confezionato soltanto nel v secolo a.C., e cito testimonianze iconografiche e altri riferimenti precedenti per dimostrare che la struttura concettuale esisteva già parecchi secoli prima. Il Capitolo 1 dedica particolare attenzione a Le supplici di Eschilo, in cui si descrive l’arrivo di Danao e delle sue figlie ad Argo. La tesi che sostengo, sulla base di un certo numero di etimologie, è che nel peculiare lessico della tragedia sia documentata in modo considerevole un’influenza egizia, e ciò indica che Eschilo era a contatto con tradizioni antichissime. In particolare, affermo che il tema stesso è basato su un gioco di parole tra hikes(ios) (supplice) e Hyksos; mentre, a un altro livello, l’idea che i colonizzatori giungessero dall’Egitto come supplici può essere intesa come un contentino per l’orgoglio nazionale dei Greci. Un simile tentativo di attenuare il colpo lo si può vedere nel Timeo, in cui Platone riconosce un’antica parentela «genetica» tra l’Egitto e la Grecia in generale, e in particolare tra Atene e Sais, la principale città sul margine nordoccidentale del Delta. Piuttosto implausibilmente, assegna però priorità temporale ad Atene. Come alcuni altri Greci, Eschilo e Platone sembrano sentirsi offesi dalle leggende di colonizzazione, poiché esse pongono la cultura ellenica in posizione inferiore rispetto a quella degli Egizi e dei Fenici, verso i quali la maggior parte dei Greci di quel tempo sembra provasse un’acuta ambivalenza. Gli Egizi e i Fenici erano disprezzati e temuti, ma al tempo stesso profondamente rispet-


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tati per la loro antichità e per la loro antica religione e filosofia, che avevano ben conservato. Che così tanti Greci superassero le proprie antipatie e trasmettessero queste «tradizioni [sulla colonizzazione] così poco confortanti per il pregiudizio nazionale» impressionava assai lo storico settecentesco William Mitford, e ciò gli sembrava rafforzare la sua affermazione che «nei tratti essenziali tali tradizioni sembrano incontestabili». Prima di Mitford, nessuno aveva messo in questione il modello antico, non c’era quindi alcun bisogno che egli ne formulasse una difesa. Tali motivi di «pregiudizio nazionale» potrebbero forse contribuire a spiegare perché Tucidide non faccia menzione di queste leggende, che gli erano certo note. Nel seguito del Capitolo 1 si discutono alcune delle equivalenze stabilite tra specifiche divinità e specifici rituali dell’Egitto e della Grecia, e anche la credenza generale che quelle egizie fossero le forme più antiche e che la religione egizia fosse quella originaria. Solo col desiderio di ritornare alle forme antiche e corrette si può spiegare perché, a partire dal v secolo al più tardi, le divinità egizie cominciassero a essere venerate coi loro nomi egizi e secondo il rituale egizio in tutta la Grecia, nel Mediterraneo orientale e più tardi nell’intero mondo romano. Fu solo dopo il crollo della religione egizia, nel ii secolo d.C., che altri culti orientali, in particolare il cristianesimo, cominciarono a sostituirsi a essa. Il Capitolo 2, Sapienza egizia e trasmissione greca dall’Alto Medioevo al Rinascimento, considera l’atteggiamento dei Padri della Chiesa nei confronti dell’Egitto. Dopo l’annientamento del neoplatonismo, discendente ellenico pagano della religione egizia, e dello gnosticismo, sua controparte giudeo-cristiana, i pensatori cristiani addomesticarono la religione egizia trasformandola in una filosofia. Tale processo fu identificato con la figura di Ermete Trismegisto, una versione evemerizzata o razionalizzata di Thoth, dio egizio della sapienza; e numerosi testi associati con Thoth, scritti negli ultimi secoli della religione egizia, furono attribuiti a lui. Se Trismegisto precedesse per data Mosè e la filosofia morale biblica era questione dibattuta tra i Padri della Chiesa. L’autorevole opinione di sant’Agostino si espresse fermamente a favore della priorità, e quindi della superiorità di Mosè. Seguendo la tradizione classica, i Padri erano tuttavia uniti nella credenza che i Greci avessero in gran parte imparato la loro filosofia dagli Egizi – anche se gli Egizi avrebbero potuto a loro volta apprendere la loro dalla Mesopotamia e dalla Persia. A ogni modo, per tutto il Medioevo, Ermete Trismegisto fu visto come fondatore della filosofia e della cultura non bibliche, ossia «dei Gentili». Tale credenza continuò per tutto il Rinascimento. La rinascita degli studi greci nel xv secolo produsse amore per la letteratura e per la lingua greca e identificazione con i Greci, ma nessuno mise mai in questione che i Greci fossero stati allievi degli Egizi, per i quali c’era un interesse eguale, se non più appassiona-


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to. I Greci furono ammirati per aver preservato e trasmesso una piccola parte dell’antica sapienza: in una certa misura, le tecniche sperimentali di uomini come Paracelso e Newton furono sviluppate per recuperare la perduta conoscenza egizia ed ermetica. Alcuni testi ermetici erano rimasti accessibili per tutto l’Alto e Basso Medioevo, molti altri furono ritrovati nel 1460 e portati alla corte di Cosimo de’ Medici a Firenze, dove furono tradotti dal suo maggior studioso, Marsilio Ficino. Questi testi, e le idee in essi contenuti, divennero centrali al movimento neoplatonico iniziato dal Ficino, che fu a sua volta al centro dell’Umanesimo rinascimentale. Anche se la matematica di Copernico derivava dalla scienza islamica, il suo eliocentrismo trasse forse spunto dalla rinascita, nell’ambiente intellettuale ermetico in cui egli si formò, del concetto egizio di un sole divino. Alla fine del xvi secolo, il campione di tali idee, Giordano Bruno, fu più esplicito e andò ben al di là dell’ermetismo neoplatonico-cristiano rispettabile del Ficino. Atterrito dalle guerre di religione e dall’intolleranza cristiana, Bruno propugnò un ritorno alla religione originaria o naturale, quella dell’Egitto, e fu per questo bruciato sul rogo dell’Inquisizione nell’anno 1600. E con ciò arriviamo al Capitolo 3, Il trionfo dell’Egitto nei secoli xvii e xviii. L’influenza di Bruno continuò anche dopo la sua morte. Sembra che egli avesse avuto contatti coi fondatori dei misteriosi ed elusivi Rosacroce, i cui manifesti anonimi affascinarono molti agli inizi del xvii secolo. Anche i Rosacroce concepivano l’Egitto come fonte della religione e della filosofia. Si suppone in genere che nel 1614 i testi ermetici siano stati screditati dal grande studioso Isaac Casaubon, il quale a propria soddisfazione dimostrò che essi non giungevano dalla più remota antichità ma erano postcristiani. A partire dal xix secolo, questa tesi è stata accettata come assiomatica, e persino da studiosi «ribelli» come Frances Yates. In questo capitolo cerco però di spiegare perché io sia incline ad accettare la tesi formulata dall’egittologo Sir Flinders Petrie secondo cui i testi più remoti risalirebbero al v secolo a.C. Qualunque ne sia la data reale, la credenza che Casaubon abbia distrutto la credibilità dei testi è erronea. L’ermetismo continuò a essere una forza importante ancora per tutta la seconda metà del xvii secolo e mantenne una considerevole influenza anche dopo. Vero è che col declino della credenza nella magia tra le classi alte, alla fine del xvii secolo, anche i testi ermetici persero d’interesse. Anche se i testi ermetici ebbero minor attrattiva sui pensatori dell’Illuminismo, l’interesse e l’ammirazione per l’Egitto non diminuirono. In generale, il xviii secolo fu un periodo di classicità, caratterizzato da un desiderio d’ordine e stabilità; di solito, quindi, Roma fu preferita alla Grecia. Al tempo stesso, per favorire il distacco dal feudalesimo e dal cristianesimo superstizioso del passato


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europeo, s’accrebbe di molto l’interesse per le altre civiltà non europee. Di gran lunga, le più influenti tra esse furono quelle dell’Egitto e della Cina. Entrambe erano concepite come provviste di sistemi di scrittura superiori che rappresentavano idee, non suoni; entrambe avevano profonde e antiche filosofie. Ma il loro aspetto più attraente sembra fosse quello di essere governate razionalmente, senza superstizione, da organismi di uomini reclutati per la loro moralità e tenuti a sottoporsi a un rigoroso processo di istruzione e iniziazione. Il clero egizio aveva infatti sempre attratto i pensatori conservatori almeno sin dall’epoca in cui Platone l’aveva preso a modello per i suoi Custodi. Nel xviii secolo, questa linea di pensiero fu ripresa dai massoni; ma anche nel Medioevo sembra che i liberi muratori fossero particolarmente interessati all’Egitto poiché, secondo l’antica tradizione, lo ritenevano patria della geometria e dell’arte muraria. Col sorgere della Massoneria speculativa, nel xviii secolo, si trasse ispirazione dal rosacrocianesimo e da Bruno per fondare una «duplice filosofia». Essa comportava religioni superstiziose e ottuse per le masse, ma, per gli illuminati, un ritorno alla pura religione naturale originaria dell’Egitto, dalle macerie della quale erano state create tutte le altre religioni. I massoni, tra i quali si annoveravano quasi tutte le figure significative dell’Illuminismo, concepivano quindi la propria religione come egizia; i propri segni, come geroglifici; le proprie logge, come templi egizi; e se stessi, come un clero egizio. L’ammirazione dei massoni per l’Egitto è addirittura sopravvissuta allo scadimento di interesse tra gli studiosi. Con una certa misura di autoironia, i massoni hanno mantenuto il culto sino a oggi, un’anomalia in un mondo in cui si ritiene che la «vera» storia abbia avuto inizio con i Greci. Il culmine per la Massoneria radicale – e la sua più acuta minaccia all’ordine cristiano – giunse durante il periodo della Rivoluzione francese. Qui, alla minaccia politica e militare, si accompagnò una sfida intellettuale contenuta nell’opera del grande studioso francese Charles François Dupuis. La tesi di Dupuis era che la mitologia egizia – che, seguendo Erodoto, egli interpretava come identica a quella greca – fosse essenzialmente costituita da allegorie dei moti delle costellazioni e che il cristianesimo fosse soltanto un’accozzaglia di frammenti fraintesi di questa grande tradizione. Ostilità verso l’Egitto nel xviii secolo è l’argomento del Capitolo 4. La minaccia egizia al cristianesimo provocò naturalmente una risposta; l’immolazione di Giordano Bruno e l’attacco di Casaubon all’antichità dei testi ermetici possono entrambi essere intesi come primi esempi di questa reazione. La situazione divenne però ancora una volta acuta alla fine del xvii secolo con la riorganizzazione e il tentativo di radicalizzazione della Massoneria. La minaccia che questo Illuminismo radicale poneva può spiegare il netto mutar d’atteggiamento di Newton


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verso l’Egitto. Nelle sue prime opere, egli aveva seguito i suoi maestri neoplatonici di Cambridge nel rispetto mostrato per questo paese, ma gli ultimi decenni della sua vita furono dedicati al tentativo di sminuire l’importanza dell’Egitto spostandone in avanti la data di fondazione a poco prima della guerra di Troia. Per Newton era preoccupante la minaccia alla sua concezione dell’ordine fisico con le sue implicazioni politiche e teologiche – una divinità con abitudini regolari e una monarchia costituzionale «Whig». La minaccia era il panteismo, che implicava un universo animato senza alcun bisogno di un regolatore e persino di un creatore. Questo tipo di panteismo può esser fatto risalire, al di là di Spinoza e Bruno, ai neoplatonici e all’Egitto stesso. La prima, chiara confutazione della minaccia rappresentata dall’Illuminismo radicale – e la primissima volgarizzazione del progetto «Whig» newtoniano in scienza, politica e religione – fu formulata nel 1693 da Richard Bentley, amico di Newton e grande classicista scettico. Uno dei modi in cui Bentley attaccò i propri nemici, e quelli di Newton, consistette nell’usare la tattica di Casaubon. Egli si servì del proprio rigore critico per screditare le fonti greche sull’antichità e saggezza degli Egizi. Per tutto il xviii e il xix secolo troveremo quindi un’alleanza de facto tra ellenismo e critica testuale, da una parte, e difesa del cristianesimo, dall’altra. I trambusti causati da occasionali ellenisti atei come Shelley e Swinburne furono irrilevanti a paragone della minaccia posta dall’egizio-massoneria. Newton si era limitato a cercare di retrocedere di grado l’Egitto rispetto al cristianesimo; non aveva cercato di accrescere il valore della Grecia. Con la metà del xviii secolo, però, alcuni apologeti cristiani cominciarono a usare il paradigma emergente di «progresso», col suo presupposto che «il più nuovo è meglio», per promuovere i Greci a spese degli Egizi. Queste correnti di pensiero si fusero ben presto con due altre che stavano diventando dominanti nello stesso periodo: il razzismo e il Romanticismo. Il Capitolo 4 traccia quindi anche un profilo dello sviluppo del razzismo fondato sul colore della pelle nell’Inghilterra del tardo xvii secolo, accanto alla crescente importanza delle colonie americane, con le loro politiche gemelle di sterminio dei Nativi americani e schiavitù dei Neri africani. Questo razzismo permeò il pensiero di Locke, Hume e altri pensatori inglesi. La loro influenza – e quella dei nuovi esploratori europei di altri continenti – fu rilevante all’Università di Göttingen, fondata nel 1734 da Giorgio ii, Elettore di Hannover e re d’Inghilterra, che costituiva un ponte culturale tra Gran Bretagna e Germania. Non è sorpresa quindi che il primo lavoro «accademico» sulla classificazione razziale umana – che naturalmente poneva i «bianchi» o, per usare il suo nuovo termine, i «Caucasici», al vertice della gerarchia – sia stato scritto nel 1770 da Johann Friedrich Blumenbach, professore a Göttingen. L’università pose le basi della moderna organizzazione per discipline degli


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studi. Nello stesso decennio, altri professori di Göttingen iniziarono a pubblicare storie non più di individui, ma di popoli e razze e delle loro istituzioni. Questi «moderni» progetti, in cui si combinavano meticolosità di studio e metodo critico di analisi delle fonti, è forse utile concepirli come un aspetto accademico del nuovo interesse romantico per l’etnicità, corrente all’epoca nella società tedesca e britannica. Il Romanticismo del xviii secolo non fu soltanto una fede nel primato del sentimento e una credenza nell’inadeguatezza della ragione. A queste si associava un sentimento dei paesaggi – specialmente se selvaggi, remoti e freddi – e un’ammirazione per le genti primitive vigorose e virtuose, in un certo senso forgiate da tali paesaggi. Simili sentimenti spesso si combinavano con la credenza che, essendo il paesaggio e il clima d’Europa migliori di quelli di altri continenti, anche gli Europei dovessero essere superiori. Queste idee furono sostenute da Montesquieu e da Rousseau, ma presero più solide radici in Gran Bretagna e in Germania. Con la fine del xviii secolo, il «progresso» era ormai divenuto il paradigma dominante, dove dinamismo e cambiamento erano valutati più della stabilità, e il mondo cominciò a essere concepito attraverso il tempo più che in base allo spazio. Lo spazio rimase nondimeno importante per i romantici, per l’interesse che essi avevano nella formazione locale dei popoli o «razze». Si riteneva perciò che una razza mutasse forma man mano che passava attraverso le diverse epoche, ma sempre mantenendo un’immutabile essenza individuale. Non si percepiva più la comunicazione reale come qualcosa che avviene tramite la ragione e può raggiungere ogni uomo razionale. Ora la si concepiva come se fluisse attraverso il sentimento e potesse raggiungere soltanto coloro che erano legati l’un l’altro da parentela, «sangue», o un comune «retaggio». Per ritornare al tema del razzismo. Molti tra gli antichi Greci condividevano un sentimento assai simile a ciò che oggi chiameremmo nazionalismo: disprezzavano gli altri popoli e alcuni, come Aristotele, davano a ciò persino una dignità teorica sostenendo una superiorità degli Elleni basata sulla posizione geografica della Grecia. Era un sentimento temperato dall’assai sincero rispetto che molti autori greci provavano per le culture straniere, in particolare quella dell’Egitto, della Fenicia e della Mesopotamia. Ma in ogni caso la forza di questo «nazionalismo» dell’antica Grecia era trascurabile rispetto all’onda di piena dell’etnicità e del razzismo, legati ai culti dell’Europa cristiana e del Nord, che col movimento romantico travolse l’Europa settentrionale alla fine del xviii secolo. Il paradigma delle «razze», intrinsecamente ineguali per dotazione fisica e mentale, fu applicato a tutti gli studi umani, ma soprattutto alla storia. Si riteneva ora indesiderabile, se non disastroso, che le razze si mescolassero. Per essere creativa, una civiltà doveva essere «razzialmente pura». Divenne così sempre più intollerabile


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che la Grecia – concepita dai romantici non soltanto come epitome dell’Europa, ma come sua pura infanzia – potesse essere il risultato della mescolanza tra nativi europei e colonizzatori africani e semiti. Il Capitolo 5, La linguistica romantica. Il sorgere dell’India e la caduta dell’Egitto. 1740-1880, inizia con un abbozzo delle origini romantiche della linguistica storica e della passione per l’antica India, al volger del xviii secolo, in gran parte prodotta dalla percezione di una fondamentale relazione tra il sanscrito e le lingue europee. Il capitolo esamina inoltre il declino della Cina nella stima degli Europei, a misura che la bilancia commerciale volgeva a favore dell’Europa e Britannici e Francesi lanciavano attacchi di scala sempre più vasta contro la Cina. Io sostengo che questi fattori produssero un mutamento di immagine della Cina, da civiltà raffinata e illuminata a società piena di droghe, sudiciume, corruzione e tortura. L’antico Egitto, che nel xviii secolo era stato visto come parallelo assai prossimo della Cina, soffrì gli stessi effetti generati dal bisogno di giustificare la crescente espansione europea in altri continenti e i maltrattamenti inflitti alle popolazioni indigene. Entrambi furono rigettati nella preistoria per servire da solida e inerte base allo sviluppo dinamico delle razze superiori, gli Ariani e i Semiti. Malgrado il declino in reputazione dell’Egitto, l’interesse per il paese continuò durante il xix secolo. Anzi, in un certo senso, divenne anche maggiore con l’esplosione di conoscenze su di esso che seguì alla Spedizione napoleonica del 1798, la cui conseguenza più importante fu la decifrazione dei geroglifici da parte di Jean François Champollion. Nel capitolo, indago alcune delle intricate motivazioni di Champollion e della sua carriera accademica in relazione alla tradizione massonica e al rapporto triangolare tra antico Egitto, antica Grecia e cristianesimo. Qui basti notare che all’epoca della sua morte, l’essersi fatto paladino dell’Egitto gli aveva inimicato tanto l’establishment cristiano che quello accademico, da poco divenuto, e con veemenza, ellenista. Infatti, dopo un entusiasmo iniziale, la decifrazione dei geroglifici fu negletta per un quarto di secolo. Quando fu ripresa, nei tardi anni 1850, gli studiosi erano divisi tra l’attrattiva dell’Egitto e l’ingegnosità del lavoro di Champollion, da una parte, e l’intenso razzismo dell’epoca, dall’altra. Con gli anni 1880, gli accademici arrivarono a concepire l’Egitto come una strada senza uscita, culturalmente statico e sterile. Durante il xix secolo, alcuni matematici e astronomi, «sedotti» da ciò che a loro appariva come matematica eleganza delle piramidi, arrivarono a pensare che in esse fosse depositata una più alta sapienza antica. Furono classificati come pazzi per la loro triplice offesa al professionalismo, al razzismo e al concetto di «progresso», le tre credenze cardinali del xix secolo. Tra studiosi «seri» la reputazione degli Egizi era rimasta bassa. Nel tardo xviii e nel primo xix secolo, gli studiosi romantici concepirono gli Egizi come essenzialmente morbosi e senza


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vita. Alla fine del xix secolo cominciò a emergere una nuova immagine, opposta ma altrettanto denigratoria. Gli Egizi erano ora visti in conformità alla contemporanea concezione europea degli Africani: giocondi, amanti del piacere, infantilmente vantoni e in essenza materialisti. Un altro modo di considerare tali cambiamenti è supporre che dopo il sorgere della schiavitù nera e del razzismo, i pensatori europei si preoccupassero di tenere gli Africani neri il più lontano possibile dalla civiltà europea. Mentre uomini e donne, nel Medioevo e Rinascimento, furono incerti circa il colore degli Egizi, i massoni egittofili tesero a vederli come bianchi. Gli ellenomaniaci del xix secolo cominciarono poi a dubitare della loro bianchezza e a negare che gli Egizi fossero stati civili. Fu solo alla fine del xix secolo, quando l’Egitto era ormai stato del tutto spogliato della sua reputazione filosofica, che se ne poterono ristabilire le affinità africane. Si noti che in ciascun caso la necessaria separazione tra Neri e civiltà fu sempre chiaramente demarcata. Eppure, malgrado il trionfo dell’ellenismo e la liquidazione dell’Egitto negli ambienti accademici, il concetto di Egitto come «culla della civiltà» non si estinse mai del tutto. Inoltre, la diffusa ammirazione mistica ed eccentrica per la religione e la filosofia egizia è rimasta una costante irritazione per i professionisti «seri» dell’egittologia. Due correnti di questa «controdisciplina», il «diffusionismo», promosso da Elliot Smith, e la lunga tradizione della «piramidologia» sono discusse in questo capitolo. Il Capitolo 6 si intitola Ellenomania, 1. La caduta del modello antico. 1790-1830. Anche se il razzismo fu sempre una delle principali fonti di ostilità verso il modello antico e divenne il principale sostegno di quello ariano, a esso, nel xviii secolo e agli inizi del xix, si accompagnò un attacco alla rilevanza dell’Egitto da parte di cristiani allarmati dalla minaccia della religione o «sapienza» dell’Egitto. Questi attacchi cristiani misero in dubbio le affermazioni dei Greci circa l’importanza dell’Egitto e accrebbero la creatività indipendente della Grecia per poter sminuire quella dell’Egitto. È anzi assai significativo che il modello antico sia stato messo in questione per la prima volta tra il 1815 e il 1830, poiché questi furono anni di intensa reazione contro il razionalismo massonico, che si riteneva agisse dietro le quinte della Rivoluzione francese, e anni di Romanticismo e rinascita cristiana, tendenze che una volta unite alla nozione di progresso, considerato che il cristianesimo si identificava con l’Europa, potevano cooperare a un movimento filoellenico a sostegno della lotta dei «giovani» Greci, cristiani ed europei, contro i «vecchi» Turchi, asiatici e infedeli. Negli anni 1820, Karl Otfried Müller, professore a Göttingen, usò le nuove tecniche della critica testuale per mettere in dubbio tutti gli antichi riferimenti alle colonizzazioni egizie e indebolire quelli che riguardavano i Fenici. Si cominciò inoltre a usare tali tecniche per attaccare tutte le fonti che riferivano di Greci


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che avrebbero studiato in Egitto. Il modello antico frapponeva una barriera alla nuova fede che la cultura greca fosse essenzialmente europea e che la filosofia e la civiltà avessero avuto origine in Grecia; questa barriera fu «scientificamente» rimossa anche prima che si giungesse a un’accettazione generale del concetto di famiglia linguistica indoeuropea. Il titolo del Capitolo 7 è Ellenomania, 2. Trasmissione dei nuovi studi classici all’Inghilterra e affermazione del modello ariano. 1830-1860. A differenza degli Antichi, i sostenitori del modello ariano credevano fermamente al «progresso». I vincitori erano visti come più avanzati e dunque «migliori» dei vinti. Quindi, malgrado apparenti anomalie di breve termine, la storia – ora concepita come biografia delle razze – consisteva nel trionfo dei popoli forti e vitali su quelli deboli e infiacchiti. Le «razze», formate dal paesaggio e dai climi delle loro patrie, mantenevano essenze permanenti anche se assumevano nuove forme a ogni nuova epoca. Per questi studiosi, per giunta, era palese che la «razza» più grande nella storia mondiale fosse l’europea o ariana. Essa sola aveva, e sempre avrebbe avuto, la capacità di conquistare tutti gli altri popoli e di creare civiltà dinamiche avanzate – di contro alle società statiche rette da asiatici o africani. Era possibile che alcuni europei ai margini, come Slavi e Spagnoli, si lasciassero conquistare da altre «razze», ma tale dominio – a differenza della conquista di «razze inferiori» da parte di europei – non avrebbe mai potuto essere benefico o permanente. Questi paradigmi di «razza» e «progresso», con i corollari che vi si associavano, la «purezza razziale» e il concetto che le sole conquiste benefiche fossero quelle delle «razze padrone» sulle razze suddite, non potevano tollerare il modello antico. Le confutazioni di Müller delle leggende sulla colonizzazione egizia in Grecia furono quindi rapidamente accettate. Il modello ariano – posteriore al successo di Müller – fu costruito entro l’ambito dei nuovi paradigmi. Molti fattori contribuirono a incoraggiarlo: la scoperta della famiglia linguistica indoeuropea, che porta ben presto a concepire gli Indoeuropei o Ariani come «razza»; il postulato plausibile di una patria originaria indoeuropea nell’Asia centrale; il bisogno di spiegare che il greco era fondamentalmente una lingua indoeuropea. Inoltre, esattamente nello stesso periodo, gli inizi del xix secolo, ci fu un intenso interesse storico per la caduta dell’Impero romano d’Occidente, sopraffatto dai Germani nel v secolo d.C., e per le conquiste ariane in India nel ii millennio a.C. L’applicazione del modello della conquista nordica alla Grecia era quindi ovvio e molto attraente: l’ipotesi era che vigorosi conquistatori fossero giunti da terre d’origine opportunamente stimolanti a nord della Grecia, laddove gli aborigeni «pre-ellenici» sarebbero stati fiaccati dalla mite natura della loro patria. E anche se non si riusciva a conciliare con l’ideale di una completa purezza aria-


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na degli Elleni il gran numero di elementi non indoeuropei nella cultura greca, la nozione di conquista nordica rendeva però l’inevitabile mescolanza razziale il più indolore possibile. E certo, i più puri e più nordici tra gli Elleni erano i conquistatori, come si conviene a una razza padrona. Le popolazioni egee preelleniche, per parte loro, erano talvolta viste come marginalmente europee, ma pur sempre caucasiche; in tal modo, anche i nativi venivano salvati dalla contaminazione con «sangue» africano o semitico. La questione del «sangue semitico» ci conduce al Capitolo 8, Affermazione e declino dei Fenici. 1830-1885. K.O. Müller, negli anni 1820, aveva negato che i Fenici avessero avuto alcuna influenza sulla Grecia, ma egli era estremo nel suo romanticismo e in anticipo sui tempi nell’intensità del suo razzialismo e antisemitismo. In un certo senso, quindi, persino i Fenici trassero profitto dal declino degli Egizi, poiché ora le leggende di colonizzazione egizia potevano essere spiegate come riferite a loro. Consciamente o inconsciamente, tutti i pensatori europei concepivano i Fenici come gli Ebrei dell’Antichità – come astuti mercanti «semiti». La concezione della storia mondiale prevalente nel xix secolo era quella di un dialogo tra Ariani e Semiti. I Semiti avevano creato la religione e la poesia; la conquista ariana aveva portato la scienza, la filosofia, la libertà e ogni altra cosa che val la pena avere. Questo riconoscimento limitato dei Semiti corrispondeva a ciò che potremmo chiamare un ristretto «spiraglio di fortuna» che si apriva tra la sparizione dell’odio religioso verso gli Ebrei e gli inizi dell’antisemitismo «razziale». In Inghilterra, in cui si erano mischiate tradizioni di anti e filosemitismo, l’ammirazione per i Fenici era notevole, poiché il loro commercio del panno, le esplorazioni e l’apparente rettitudine morale apparivano, tanto agli stranieri quanto agli Inglesi, quasi vittoriani. Permaneva sempre la concezione opposta dei Fenici – e di altri Semiti – come lussuriosi, crudeli e infidi, ed era in genere prevalente nel Continente. Questo odio per i Fenici, visti a un tempo come «inglesi» e orientali, era particolarmente accentuato nelle opere del grande storico romantico francese Jules Michelet. Le concezioni di Michelet sui Fenici ebbero diffusione ancor maggiore grazie al romanzo storico di Flaubert Salambò, pubblicato nel 1861, che ebbe immensa popolarità. Salambò conteneva vivide descrizioni di Cartagine giunta al fondo della decadenza che rafforzavano vigorosamente i già diffusi pregiudizi antisemiti e antiorientali. Ma ancor più incriminante era la brillante e macabra descrizione che vi si dava del sacrificio di bambini al Moloch. L’aver creato nel pubblico una così solida connessione tra il massimo abominio biblico e Cartaginesi o Fenici rese assai difficile farsene paladini, e durante gli anni 1870 e 1880 la loro reputazione crollò anche più rapidamente di quella degli Ebrei.


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E con ciò si arriva al Capitolo 9, La soluzione finale della questione fenicia. 18801945. Con una simile reputazione e col sorgere dell’antisemitismo negli anni 1880, l’attacco rivolto ai Fenici fu prolungato e particolarmente feroce riguardo i loro leggendari contatti con (e influenza su) i Greci, i quali ormai godevano di status semidivino. Un decennio più tardi, negli anni 1890, due articoli brevi ma di straordinaria influenza furono pubblicati da Julius Beloch, un tedesco che insegnava in Italia, e da Salomon Reinach, un ebreo alsaziano assimilato che viveva al centro della società colta e del mondo accademico di Parigi. Entrambi riconoscevano Müller come precursore e sostenevano che la civiltà greca era puramente europea, mentre i Fenici, a parte la trasmissione dell’alfabeto consonantico, non avevano contribuito in nulla alla cultura ellenica. Sebbene, nel ventennio successivo, molti studiosi si mostrassero riluttanti ad accettare questa posizione, le basi di ciò che io chiamo «modello ariano estremo» erano state fermamente gettate già al volgere del xix secolo. Ci fu, per esempio, una marcata differenza tra la reazione che si ebbe negli anni 1870 alla scoperta di Schliemann della civiltà micenea e la reazione, nel 1900, alle comunicazioni di Arthur Evans sulla civiltà cretese di Cnosso. Nel primo caso, diversi studiosi suggerirono inizialmente che reperti, del tutto diversi da quelli della Grecia classica, potessero essere fenici. Ciò fu poi energicamente negato nei decenni successivi. Nel Novecento, per contrasto, la cultura di Cnosso fu immediatamente etichettata col nuovo nome di «minoica» e considerata «pre-ellenica»; certamente non semitica, malgrado le antiche tradizioni sostenessero che Creta lo fosse stata. L’eliminazione finale dell’influenza fenicia sulla Grecia – e il suo completo rigetto in quanto «miraggio» – giunse solo negli anni 1920, col crescendo di antisemitismo causato dal ruolo immaginario o reale avuto dagli Ebrei nella Rivoluzione russa e nella Terza Internazionale comunista. Negli anni 1920 e 1930, tutte le leggende di colonizzazione fenicia della Grecia furono rigettate, come lo furono le testimonianze di presenza fenicia nell’Egeo e in Italia nei secoli ix e viii a.C. L’origine fenicia di molti nomi e parole greche, proposta in precedenza, fu del tutto negata. Si giunse in quest’epoca a fare ogni sforzo per limitare l’importanza del solo inconfutabile prestito della cultura semitica, l’alfabeto. In primo luogo, si pose grande enfasi sulla presunta invenzione delle vocali che, si sosteneva, erano essenziali a un «vero» alfabeto, e senza le quali, si lasciava intendere, l’uomo era incapace di pensare logicamente. In secondo, il sito dell’imprestito fu spostato a Rodi, poi a Cipro e infine a una presunta colonia greca sulla costa siriana. E ciò non solo perché ora sembrava più in carattere con i «dinamici» Greci aver riportato l’alfabeto dal Medio Oriente che averlo ricevuto passivamente dai «Semiti», come affermavano le leggende, ma anche perché il concetto di prestito sembrava implicare mescolanza sociale, e la contaminazione razziale che essa


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avrebbe comportato per i Greci era inaccettabile. In terzo, la data della trasmissione fu spostata in avanti al 720 a.C. circa, epoca che, per evitare ogni rischio, è posteriore alla creazione della polis e al periodo formativo della cultura arcaica greca. Ciò veniva a porre un lungo periodo di analfabetismo tra la sparizione delle scritture lineari, scoperte da Evans, e l’introduzione dell’alfabeto, permettendo in tal modo un duplice vantaggio: Omero diveniva il bardo cieco – e quasi nordico – di una società illetterata, e tra il periodo miceneo e quello arcaico si stabiliva un compartimento stagno, un’era di «secoli bui». In tal modo, le testimonianze dei Greci sulla loro storia più remota venivano ancor più screditate assieme al modello antico. Negli anni trenta, il positivismo si venne indebolendo nelle scienze «dure», ma prese forza oltre i propri confini in certe discipline periferiche come la logica e la storia antica. Negli studi classici la soluzione del problema fenicio appariva quindi «scientifica» e definitiva: d’ora in avanti la disciplina avrebbe potuto procedere scientificamente o, come si direbbe adesso, si era definito un paradigma. Qualsiasi studioso osasse negarlo veniva messo al bando come incompetente, infondato o eccentrico. La forza di tale posizione è dimostrata dal suo sopravvivere per ben trent’anni dopo che le conseguenze dell’antisemitismo erano state rivelate nel 1945; rivelazione che minò in profondo le basi dell’antifenicismo. Sulla lunga durata, c’è stato però un ripiegamento del modello ariano estremo, e questo processo è descritto nel Capitolo 10, La situazione nel dopoguerra. Il ritorno al modello ariano ampio. 1945-1985. È probabile che nella riabilitazione dei Fenici la fondazione di Israele abbia avuto più influenza dell’Olocausto. Dal 1949, gli Ebrei – o perlomeno gli Israeliani – sono stati sempre più accettati come Europei a pieno titolo, e appare ormai ovvio che parlare una lingua semitica non squalifica dalla prodezza militare. Inoltre, negli anni cinquanta si è anche assistito a una rapida crescita d’orgoglio ebraico nelle proprie radici semitiche. Nel contesto di tale processo – e forse perché era loro impossibile accettare l’esclusivismo sia del giudaismo che del sionismo – Cyrus Gordon e Michael Astour, due grandi semitisti, iniziarono a sostenere l’idea di una civiltà semitica occidentale nel suo insieme e a criticare il modello ariano estremo. Gordon, che conosce le lingue dell’antico Mediterraneo orientale meglio di ogni persona vivente, ha sempre ritenuto sua missione riuscire a dimostrare le interconnessioni tra la cultura ebraica e quella ellenica. Nella sua ricerca, Ugarit, un antico porto sulla costa siriana, e Creta sono individuati come ponti. Egli ha inoltre scorto nessi con la Bibbia e con Omero nei miti cananei tramandati a Ugarit nei secoli xiv e xiii a.C. e tradotti negli anni quaranta e cinquanta del Novecento; la monografia sull’argomento, che ha pubblicato nel 1955, gli ha distrutto la reputazione di studioso «serio», ma ha affascinato alcuni storici generali e parte del pubbli-


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co profano. Poco dopo, Gordon ha recato offesa ancor più grave agli ortodossi leggendo come semitiche le iscrizioni cretesi in lineare A. Ha subito incontrato uno sbarramento di obiezioni, che sono state poi quasi tutte respinte dalla ricerca successiva. La maggior parte degli studiosi, però, ancora non accetta la sua interpretazione. Quando invece Ventris, alcuni anni prima, aveva decifrato come greca la lineare B, la novità era stata ben accolta in quanto confermava l’ampia diffusione geografica e profondità storica della cultura greca. Ma accettare che la lineare A, e quindi la civiltà minoica, siano state di lingua semitica sconvolge ogni nozione di unicità ellenica e perciò europea. I sostenitori delle nozioni convenzionali sono stati altrettanto, se non di più, sconcertati da Hellenosemitica, opera di vasto respiro di un allievo di Gordon, Michael Astour, pubblicata nel 1967. Si tratta di una serie di studi su sorprendenti parallelismi tra la mitologia semitica occidentale e quella greca, che rivelano connessioni di struttura e nomenclatura troppo ravvicinate per essere spiegate soltanto come manifestazioni simili della psiche umana. A parte la sfida posta da questo tema principale, Astour muoveva tre altri fondamentali attacchi. In primo luogo, il fatto stesso che egli avesse scritto il libro sconvolgeva lo statu quo accademico. Mentre era permesso a un classicista, proveniente dalla disciplina dominante, trattare del Medio Oriente in relazione alla Grecia e a Roma, l’opposto non era tollerato. Si riteneva che un semitista non avesse alcun diritto di scrivere della Grecia. In secondo luogo, Astour metteva in questione il primato assoluto dell’archeologia rispetto alle altre fonti sulla preistoria – mito, leggenda, lingua e nomi – minacciando in tal modo lo status di «scientificità» della storia antica. In terzo, egli aveva abbozzato una sociologia della conoscenza in relazione agli studi classici che rintracciava nessi tra gli sviluppi negli studi e quelli della società. E persino suggeriva una connessione tra antisemitismo e ostilità verso i Fenici, mettendo inoltre in dubbio la nozione di progresso cumulativo costante della conoscenza. Ma la minaccia peggiore era implicita nel suo messaggio fondamentale, ossia, che le leggende di Danao e Cadmo contenessero un nucleo di realtà. Così tante eresie non potevano restare impunite. Astour è stato così strapazzato dai suoi critici che ha smesso di lavorare nel campo che aveva così acutamente aperto. La sua opera, come quella di Gordon, ha peraltro avuto profondi effetti: assieme al numero crescente di reperti levantini, ritrovati nell’Egeo in siti della tarda Età del bronzo e della prima Età del ferro, essa ha sovvertito il modello ariano estremo. Parrebbe equanime dire che col 1985 la maggioranza dei ricercatori che lavorano in quest’area hanno ripiegato sul modello ariano ampio. Cioè a dire, accettano la possibilità di insediamenti semitici occidentali nell’Età del bronzo non solo sulle isole ma anche in terraferma, almeno a Tebe. Ritengono anche che l’influenza fenicia sulla Grecia dell’Età del ferro abbia avuto inizio assai prima dell’viii secolo a.C., probabilmente già nel x secolo.


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D’altra parte, Gordon e Astour, nonostante la loro audacia intellettuale, non avevano sfidato il modello ariano stesso. Nessuno dei due aveva considerato la possibilità di una massiccia componente semitica nel vocabolario greco; e nemmeno, così preoccupati dei Semiti, avevano esplorato la possibilità di colonizzazioni egizie della Grecia e l’ipotesi che la lingua e la cultura egizia avessero svolto un ruolo uguale o anche più centrale nella formazione della civiltà greca. Ci sono stati alcuni tentativi di resuscitare le tradizioni di influenza egizia sulla Grecia. Nel 1968, Siegfried Morenz, egittologo tedesco-orientale, ha pubblicato un’importante opera sull’argomento, e sulle sue più ampie ramificazioni che coinvolgono l’Europa nel suo insieme, che ha purtroppo ricevuto scarso interesse al di fuori della Germania. L’ipotesi di una colonia egizia a Tebe, avanzata dal dottor Spyropoulos, è stata sepolta in decente oscurità. Gli studiosi hanno attaccato le sue datazioni, evitando al tempo stesso di fare ogni riferimento alla sua «eccentrica» conclusione.15 Per la maggior parte, le sole persone che hanno preso in considerazione rilevanti influenze egizie sulla Grecia si ritrovano ai margini o al di fuori della vita accademica; uomini come Peter Tompkins – che ha scritto su un’ampia gamma di argomenti giornalistici, oltre ad aver pubblicato The Secrets of the Great Pyramid, scritto con cautela ma intitolato con audacia – e lo studioso afroamericano G.G.M. James, il cui affascinante piccolo libro Stolen Legacy sostiene con plausibilità ipotesi di massicci prestiti dall’Egitto confluiti nella cultura e nella filosofia greca. L’invenzione dell’antica Grecia termina con la predizione che, anche se per abbattere il modello ariano ampio ci vorrà più tempo che per il modello estremo, agli inizi del secolo xxi si arriverà ad accettare una forma riveduta del modello antico. Le sezioni seguenti dell’Introduzione contengono una quantità considerevole di discussione tecnica e non sono necessarie alla comprensione di questo volume. Raccomando quindi ai lettori il cui interesse principale sia la storiografia di passare direttamente all’inizio del primo capitolo.

Documenti e testimonianze archeologiche. Componenti egizie e semiticooccidentali della civiltà greca: riassunto del volume ii Il ii volume di Atena nera compara i vantaggi relativi offerti dai due modelli rispetto ad alcune delle diverse discipline, o tramiti, di ricostruzione storica: le fonti documentali dell’epoca, l’archeologia, i toponimi, la lingua e i culti religiosi. L’introduzione al volume è una comparazione della plausibilità implicita nei due modelli.


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Con la possibile eccezione della conoscenza dell’Egitto antico, è chiaro che i sostenitori del modello antico erano più informati sul ii millennio a.C. di quanto lo fossero i sostenitori del modello ariano. Questi ultimi, tuttavia, non fondavano le proprie pretese di superiorità sulla quantità d’informazione ma sul proprio «metodo scientifico» e sull’obiettività, concetti messi entrambi in questione in L’invenzione dell’antica Grecia. Sul problema dell’oggettività si fa rilevare che mentre gli autori greci erano combattuti tra il desiderio di aggiungere ulteriore profondità storica alla propria cultura e il desiderio di essere in ogni senso superiori ai propri vicini, gli studiosi del xix secolo non soffrivano di tale ambivalenza. Avevano anzi ogni interesse a innalzare la Grecia europea e a retrocedere di grado gli africani Egizi e i semiti Fenici. Ciò renderebbe di per sé un estraneo alla materia incline a ritenere che gli Antichi fossero più «obiettivi» degli storici del xix e primo xx secolo. Peraltro, migliori possibilità di accesso all’informazione e maggiore obiettività non significano di per sé che il modello antico abbia un valore esplicativo superiore a quello del modello ariano. Come ho sostenuto, e reiterato nella conclusione di questo volume, quest’ultimo non dovrebbe essere respinto soltanto perché i motivi che ne hanno ispirato la costruzione sono ora considerati sospetti. Per esempio, se gli studiosi del xix secolo trovavano diletto in affreschi storici dell’invasione ariana dell’India e della formazione del sistema delle caste fondato sul colore della pelle, ciò non toglie l’utilità di questo schema come spiegazione storica. Dovremmo però ricordare che in India, a differenza della Grecia, c’erano antiche tradizioni di invasione. Il Capitolo 1 di Documenti e testimonianze archeologiche ripercorre la documentazione sul periodo e sull’area di cui ci occupiamo. Nel ii millennio a.C., il Mediterraneo orientale non era analfabeta: gli Egizi e i Levantini scrivevano già da secoli; Creta già usava i propri geroglifici e la lineare A, che era impiegata anche nelle Cicladi. È perdipiù grandissima la probabilità che la lineare B si sviluppasse nella Grecia orientale durante la prima metà del millennio. Io inoltre sostengo che gran parte del Mediterraneo orientale usava alfabeti già nel xv secolo a.C.16 Non solo la scrittura era quindi assai diffusa, ma, a differenza dei formulatori del modello ariano, noi siamo oggi in grado di leggerne la maggior parte delle forme. Detto ciò, i documenti sulle relazioni tra le diverse regioni culturali del Mediterraneo orientale rimangono assai scarsi. L’iscrizione di Mit Rahineh, scoperta di recente su un blocco posto sotto una colossale statua, fornisce dettagli su spedizioni egizie di vasto raggio per terra e per mare nel corso del xx secolo a.C.17 Si sa da tempo che agli inizi del xvi secolo a.C. la regina Ah. h. otpe, madre del primo faraone della xviii dinastia, era ritenuta originaria di h. 3 w Nbw, regione straniera che è stata plausibilmente identificata con l’Egeo. La tradizione


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sembra confermata dal disegno egeo di alcuni dei suoi gioielli. Sebbene sembri che il figlio Amōsis avesse proclamato una qualche forma di sovranità su h. 3 w Nbw, null’altro si saprà di ciò per più di un secolo. Qualunque fosse la natura del rapporto tra Amōsis e h. 3 w Nbw, è chiaro che alla fine del periodo degli Hyksos e all’inizio della xviii dinastia, ci fu un certo interscambio di popolazioni. Il no› me P3Kftıwy, «il cretese», ricorre a quest’epoca in Egitto, ed Egizi e Levantini compaiono sulla lista di nomi cretesi rinvenuta in un papiro egizio dell’epoca. Questo quadro di una popolazione radicalmente mescolata nell’Egeo meridionale del xvii secolo a.C. è confermato dagli affreschi di Tera e da nomi di persona d’epoca posteriore ritrovati in iscrizioni in lineare A e B. La documentazione egizia sui contatti con l’Egeo è molto più abbondante per i secoli xv e xiv a.C. Iscrizioni e pitture tombali chiariscono che dopo le conquiste di Tuthmōsis iii in Siria, alla metà del xv secolo, gli Egizi si sentirono autorizzati a esercitare una forma di sovranità su Creta e oltre, e che tale diritto fu rinnovato molte volte nei cent’anni seguenti. Poco dopo la costituzione di tale rapporto, i documenti e i dipinti egizi indicano un cambiamento di potere a Creta e, in ciò concordando con i ritrovamenti archeologici di Cnosso, offrono indizi di una conquista micenea dei Minoici avvenuta a quest’epoca. I testi › egizi smettono a questo punto di far riferimento a Kftıw nell’Egeo e lo sostitui› scono con Tın3 o Ta-na-yu. L’identificazione con i Danai e la Grecia è quasi certa in base a un’iscrizione del xiv secolo che fornisce toponimi di Ta-na-yu molti dei quali sono stati plausibilmente identificati con toponimi a Creta e in Grecia. Dello stesso periodo c’è inoltre una lettera inviata dal re della città fenicia di Tiro al faraone in cui si fa riferimento a un re di Da-nu-na, paese che ben potrebbe essere in Grecia. Ci sono riferimenti a contatti tra il Levante e l’Egeo nel xiv secolo, sia in ugaritico che in lineare B. Mercanti ugaritici commerciavano con Creta, e io ritengo che il nome di persona Dnn ritrovato a Ugarit sia «Danao» e sia indizio della presenza di Greci in quel porto. Le tavolette in lineare B mostrano che a Creta e nel Peloponneso esisteva una società di palazzo e un’economia di lingua greca assai simili a quelle del Vicino Oriente all’epoca. All’analisi linguistica, le iscrizioni in lineare B rivelano che molti dei prestiti linguistici semitici riconosciuti erano già presenti nel greco del xiv secolo. Come si sostiene, questi si incontrano generalmente nelle aree semantiche «ideologicamente solide» delle merci di lusso che potrebbero essere state importate da mercanti semitici. Tuttavia, essi includono anche chitōn, termine comune per «abito» e chrysos (oro), metallo che era stato di fondamentale importanza culturale in Grecia sin dalla tarda Età del bronzo. Ci sono perdipiù numerosi nomi di persona del tipo «Egizio» o «Tirio», e così via. Tutto considerato, i documenti indicano stretti contatti e mescolanza di popolazioni di un tipo che ben si accorderebbe col modello antico. D’altra parte,


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potrebbero anche essere fatti concordare col modello ariano, e non esiste alcuna prova documentale delle colonizzazioni leggendarie. Il Capitolo 2 è sull’archeologia. Inizia con le probabili tracce di influenze del Medio Regno in Beozia al volgere del ii millennio. Gran parte del capitolo è però dedicata alla datazione della grande esplosione avvenuta a Tera, isola situata settanta miglia a nord di Creta. Sappiamo che questa eruzione dell’intero centro dell’isola fu di molte volte maggiore di quella gigantesca avvenuta a Krakatoa nel 1883. Poiché l’eruzione di Krakatoa infranse le finestre a centinaia di chilometri di distanza, e produsse maremoti che spazzarono l’Oceano Indiano – e poiché la polvere che diffuse attorno al mondo contribuì allo sviluppo dell’Impressionismo e influì sul clima dell’intero emisfero occidentale – l’impatto dell’esplosione di Tera deve essere stato colossale. In base alle nozioni convenzionali si ritiene che avesse luogo allo stesso tempo delle distruzioni avvenute a Creta, che sono state anch’esse associate con l’arrivo dei Greci micenei sull’isola, attorno al 1450 a.C. Una difficoltà implicita in quest’ipotesi è però che prima di tali distruzioni a Creta il vasellame è di stile Minoico Tardo iB, e malgrado intense ricerche non è mai stato ritrovato al di sotto dei depositi vulcanici a Tera. Alcuni archeologi hanno quindi separato i due eventi, sostenendo che l’eruzione sarebbe avvenuta circa cinquant’anni prima della distruzione micenea, vale a dire attorno al 1500 a.C. Io ritengo che l’esplosione abbia avuto luogo anche prima, nel 1626 a.C., basandomi per la precisione di questa data sulla dendrocronologia: nel caso specifico, sulla conta degli anelli nei tronchi dei pini (bristle cone) negli Stati Uniti Sudoccidentali. Esplosioni della scala del Krakatoa lasciano segni di gelate estive e di crescita stentata degli alberi in prossimità della linea di innervazione per molti anni. Ora, da questi antichi pini non si trae alcuna prova di eruzioni che scossero il mondo nei secoli xvi e xv a.C., ma c’è prova di una avvenuta nel 1626. Questo fu anche un anno cattivo per le querce in Irlanda. Un tale «effetto Krakatoa» avrebbe potuto essere causato da un altro immane evento sismico in qualsiasi altra parte del mondo, ma, stante il problema di documentare l’eruzione di Tera, l’identificazione sembrerebbe probabile.18 Ci sono tuttavia altre prove a sostegno di una data anteriore o posteriore. Anche se sembra che i gas vulcanici abbiano distorto alcune delle datazioni al radiocarbonio per i materiali ritrovati appena al di sotto del livello di distruzione, quelle relative alle piante a vita breve – che forniscono la sola informazione accurata – indicano una data vicina al xvii piuttosto che al xv secolo.19 In Cina, alla caduta di Jie, ultimo imperatore della dinastia Xia, si accompagnarono eventi straordinari – una nebbia gialla, gelate in estate, l’affievolirsi del sole, e tre soli in una volta – che furono tutti plausibilmente spiegati come con-


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seguenze della nuvola di polvere di Tera. Il problema che subito si presenta è però la datazione della caduta di Jie. Non può essere avvenuta nel xv secolo: alcuni storici la pongono al xvi secolo, altri a prima del Settecento. Compilazioni basate sull’antica cronografia – risalenti al iii secolo a.C. – e i reperti archeologici indicherebbero però una data del xvii secolo.20 Ulteriori indizi di una data anteriore ci giungono dall’Egitto, dove il xv secolo è assai ben documentato. Sarebbe sorprendente se un evento della scala dell’esplosione di Tera, che senz’altro ebbe effetti sul basso Egitto, non fosse stato in qualche modo registrato. Inoltre, come abbiamo visto, sembra che Creta inviasse missioni tributarie in Egitto precisamente a quest’epoca, 1450 circa. Per contrasto, non esiste virtualmente documentazione egizia per il xvii secolo, che renderebbe più facile spiegare l’assenza di ogni menzione dell’esplosione. L’immensa scala della catastrofe mi permette di fare un’eccezione alla mia generale opposizione all’«argomento in base al silenzio». Riconosco però che questo tipo di argomento è intrinsecamente debole. Perdipiù, le datazioni dendrocronologiche, quelle al radiocarbonio e quelle «cinesi» sono soggette a dubbio. Nondimeno, data l’estrema debolezza degli argomenti a favore di una data del xv secolo, le quattro fonti combinate insieme fanno apparire il 1626 a.C. molto più plausibile. Poiché scarsi sono ormai i dubbi che l’eruzione si sia verificata durante il periodo Minoico Tardo iA, si rendono necessari alcuni aggiustamenti in avanti per le date assolute di alcuni periodi. La Cambridge Ancient History fornisce uno schema cronologico che usa la periodizzazione standard basata sul mutare degli stili ceramici: Minoico Medio iii, 1700-1600; Minoico Tardo iA, 1600-1500; Minoico Tardo iB, 1500-1450.

Quello che qui si propone è: MM iii, 1730-1650; MT iA, 1650-1550; MT iB, 1550-1450.

Una revisione dei periodi ceramici cretesi ne richiederebbe una anche per quelli della Grecia continentale, che erano basati sui periodi minoici e rimangono più o meno correlati a essi. Ciò comporterebbe in particolare un mutamento di data per le tombe a pozzo – scoperte a Micene da Schliemann – dal tardo xvii secolo agli inizi dello stesso. Ma in tal caso si accrescono le difficoltà per il modello antico, in base al quale le colonizzazioni che diedero inizio all’età eroica sarebbero state conseguenza dell’espulsione dall’Egitto degli Hyksos avvenuta nel xvi secolo. La datazione al xvi secolo è però in conflitto con l’assenza di re-


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perti archeologici cretesi che testimonino una significativa distruzione generale in questo periodo, ed è assai improbabile che i colonizzatori egizi si limitassero a doppiare l’isola. Queste incongruenze rispetto ai reperti archeologici spiegano una delle principali revisioni del modello antico proposta in Atena nera. Il modello antico riveduto sostiene che gli insediamenti egizi e semitico-occidentali nell’Egeo iniziarono alla fine del xviii secolo a.C., quando gli Hyksos presero il controllo del Basso Egitto, piuttosto che negli anni 1570, quando il loro potere in quest’area crollò. Se, per un momento, si accetta la revisione, ci si pone subito la domanda: perché mai gli Antichi, col loro rispetto per i tempi remoti, avrebbero dovuto avvicinare la data degli sbarchi? Una ragione potrebbe essere il desiderio di associarli con l’espulsione dall’Egitto degli Hyksos e con l’Esodo degli Israeliti, che avvennero probabilmente agli inizi del xvi secolo. Un altro fattore potrebbe essere una sottovalutazione, nel desiderio di apparire posati e ragionevoli, poiché non c’è alcuna ragione di credere che una motivazione del genere fosse nell’Antichità minore di quanto sia oggi. Infine, i sentimenti «patriottici» e il gioco di parole Hikesios/Hyksos possono aver avuto la loro influenza. Era meno urtante per l’orgoglio greco vedere i nuovi arrivati come profughi o supplici giunti alla fine del periodo Hyksos che come conquistatori arrivati in prossimità dell’inizio di tale periodo. Ci sono testimonianze archeologiche che concorderebbero assai bene con l’ipotesi di un’invasione Hyksos dell’Egeo poco dopo il loro arrivo in Egitto. Nel tardo xviii secolo ci fu una distruzione di tutti i palazzi di Creta, seguita dalla loro ricostruzione in modo lievemente ma significativamente diverso. C’è quindi una demarcazione convenzionale per questa rottura tra il primo e il tardo periodo dei palazzi; tra i cambiamenti si riscontrano anche l’introduzione della spada, le tombe a pozzo e il motivo regio del grifone – tutti elementi che già esistevano nel Levante e che divennero importanti nella Grecia micenea. Un suggello ritrovato al livello della distruzione a Cnosso mostra un barbuto re barbarico di forte apparenza micenea. Dal punto di vista artistico, ci sono somiglianze sorprendenti tra oggetti egei del periodo Minoico iii/Elladico Medio iii e oggetti del periodo Hyksos e degli inizi della xviii dinastia ritrovati in Egitto. Si ritiene in genere che il flusso culturale si muovesse dall’Egeo verso l’Egitto; qualche dubbio sorge però a causa dei precedenti levantini di tanti fra i più caratteristici oggetti, motivi e tecniche micenei. A mio parere, l’analogia più feconda per questo grande mescolarsi di culture – perlomeno – materiali attorno al Mediterraneo orientale nei secoli xviii e xvii a.C. è quella con la Pax Tartarica del xiii secolo d.C. I dominatori mongoli produssero una fusione di tecniche e arti cinesi, persiane e arabe, introducendo tratti delle une nelle altre e spezzandone le più rigide convenzioni. Nel caso de-


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gli Hyksos, io postulo che tradizioni da lungo radicate, come quelle dell’Egitto e di Creta, siano state rapidamente riprese con lievi modificazioni, mentre nella Grecia continentale, che mancava di una tale tradizione, l’eclettico «stile internazionale Hyksos» sia durato assai più a lungo. L’ipotesi di una conquista Hyksos egizio-cananea di Creta, e dell’insediamento di colonie più a nord alla fine del xviii secolo, fornirebbe uno schema plausibile in cui far rientrare i reperti archeologici che ho menzionato. Le tombe a pozzo di Micene, piene di nuove armi e di altri oggetti che mostrano influenza straniera, perlopiù minoica e del Vicino Oriente, potrebbero proprio essere le tombe dei nuovi conquistatori. Frank Stubbings, professore di storia antica a Cambridge, ha sostenuto la stessa cosa nel suo articolo sulle tombe a pozzo nella Cambridge Ancient History, pur accettando una datazione al xvi secolo e rassicurando i lettori che gli invasori Hyksos non avrebbero avuto alcun effetto durevole sulla cultura greca.21 Dall’epoca in cui l’articolo apparve, negli anni sessanta, nuova documentazione è emersa a sostegno della sua posizione di minoranza. Recenti scoperte a Tel ed Daba<a, nel Delta orientale, quasi certamente sito di Avari, capitale Hyksos, hanno rivelato una cultura materiale composita, semitico-occidentale-egizia, che mostra chiare somiglianze con quella delle tombe a pozzo.22 Le continuità degli stili ceramici a Micene, a partire dalla media Età del bronzo, sembrano indicare la sopravvivenza, a un livello sociale relativamente basso, di una precedente cultura. E proprio questo indicherebbero le testimonianze linguistiche così come vengono interpretate dal modello antico riveduto. E ciò concorderebbe anche con le descrizioni dei Pelasgi nativi che sarebbero diventati Danai o Ateniesi grazie all’insegnamento dei nuovi arrivati. È necessario insistere, peraltro, che questa non è la sola interpretazione dei reperti archeologici che si possa dare. Anche dopo i ritrovamenti di Tel ed Daba<a, è sempre possibile sostenere che la cultura materiale micenea fu conseguenza dell’accrescersi di ricchezza e potere dei capi egei nativi che importarono oggetti e artigiani stranieri; o che mercenari greci ritornarono dall’Egitto arricchiti e con l’esperienza dei nuovi stili. Malgrado non esista alcuna testimonianza linguistica, o alcun autore antico, a sostegno di queste interpretazioni, la maggior parte degli archeologi contemporanei ne sono peraltro assertori. Come ho già menzionato, c’è anche una scuola di pensiero che concepisce il cambiamento radicale avvenuto a quest’epoca nella cultura materiale greca come risultato di un’invasione senza conseguenze di lunga durata. In entrambi i casi, non c’è gran motivo di dubitare che gli archeologi siano stati pesantemente influenzati da argomenti non archeologici. Inevitabilmente, la maggioranza degli studiosi, che nega ci siano mai stati insediamenti Hyksos, è stata influenzata dal modello ariano entro il quale lavora. E parimenti, la minoranza che crede negli insediamenti è stata influenzata dalle leggende che hanno costituito il model-


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lo antico. In entrambi i casi, è chiarissimo che gli oggetti stessi non impongono una singola configurazione intellettuale. In circostanze favorevoli, l’archeologia può essere in grado di fornire informazioni importanti e affascinanti sulla densità della popolazione, sulle dimensioni dell’insediamento o sull’economia locale, ma è strumento troppo poco affilato per dare risposte da sola alle domande che Atena nera pone. Il Capitolo 3, Nomi di fiumi e montagne, è il primo in Atena nera a concentrarsi sui prestiti linguistici. Inizia quindi con una discussione delle corrispondenze fonetiche accertate tra egizio, semitico e greco. Quelle tra egizio e semitico sono state individuate con una certa precisione; dai pochi prestiti linguistici accertati e dalle centinaia di nomi propri trascritti in altre lingue si può inoltre dedurre molta informazione sulle corrispondenze tra questi e il greco. Da tutto ciò appare evidente che l’ambito di corrispondenze fonetiche era amplissimo; è sbalorditiva, per esempio, l’ampia varietà di modi in cui si potevano trascrivere in greco parole o nomi egizi o semitici. Queste variazioni possono spiegarsi in parte con le difficoltà di percezione uditiva e di riproduzione dei suoni stranieri, in parte col prestito per il tramite di diversi dialetti regionali o terze lingue. La causa principale di queste divergenze sembrerebbe però il lunghissimo lasso di tempo in cui i prestiti sarebbero avvenuti. Nel periodo tra il 2100 e il 1100 a.C. – di cui principalmente ci occupiamo – tutte e tre le lingue, e l’egizio in particolare, subirono mutamenti fonetici. Io sostengo quindi che è possibile che la stessa parola o nome siano stati presi a prestito due o più volte con diversi esiti. L’analogia più utile che si possa trovare è quella con i prestiti dal cinese della lingua giapponese, avvenuti nel corso di un simile periodo di tempo, ossia circa un millennio; in questo caso, però, il sistema di scrittura permette di vedere quale fosse la parola originaria, e sono le diverse «letture» o pronunce giapponesi del carattere cinese che indicano i diversi prestiti. Né il sistema di scrittura dell’egizio né quello del semitico occidentale indicano le vocali. Si possono fare tentativi di ricostruirle a partire dal copto e dalla vocalizzazione masoretica della Bibbia, oltre che dal cuneiforme, dal greco, e da altre trascrizioni. Molte etimologie devono nondimeno essere ricostruite in base alla sola struttura consonantica. Ciò crea – assieme all’ampia gamma di equivalenze evidenti tra le consonanti stesse – un numero straordinario di corrispondenze fonetiche possibili tra parole e nomi egizi, semitici e greci. D’altra parte, il fatto che si possano facilmente immaginare fenomeni non ha niente a che fare con la probabilità del loro verificarsi. Ci sono inoltre solidi argomenti esterni a favore di massicci prestiti linguistici. Anche non considerando il modello antico, ci sono le prossimità geografiche e temporali e le testimonianze archeologiche e documentali che attestano stretti contatti. A tutto ciò si aggiunge il fatto


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che gli studiosi che hanno applicato il modello ariano negli ultimi centosessanta anni non sono stati capaci di spiegare il 50 per cento del vocabolario greco e l’80 per cento dei nomi propri nei termini o dell’indoeuropeo o delle lingue anatoliche che si presumono imparentate col «pre-ellenico». In queste circostanze, ritengo valga la pena cercare etimologie egizie o semitiche di forme greche, ma il più rigorosamente possibile. In primo luogo, non faccio alcun tentativo di sostituire etimologie indoeuropee universalmente accettate, anche se alcune di esse sono forse errate; la maggior parte delle nuove etimologie che propongo in questo lavoro non hanno un’ortodossia con cui competere. Ma persino in simili casi, si dovrebbe avere la massima cautela. Dal punto di vista fonetico ci si dovrebbe limitare alle corrispondenze consonantiche realmente attestate, anche se l’occorrenza di altre è assai probabile. Analogamente, non ci dovrebbero essere metatesi – inversioni dell’ordine consonantico. La sola eccezione a questa regola è lo scambio di liquide l e r tra la seconda e la terza posizione. Ciò è tollerato perché è comunissimo in tutte e tre le lingue, in particolare in egizio e in greco. Sembrerebbe quindi legittimo derivare il greco martyr (testimone) dall’egizio mtrw (testimone), o pyramis (piramide) dall’egizio p3mr (la tomba o la piramide). Per evitare derivazioni spurie, il principale controllo è la semantica, che impone strette corrispondenze di significato. A questo proposito, l’area dei toponimi è quella in cui gli studiosi che applicano il modello ariano sono stati particolarmente negligenti. Qualsiasi vaga corrispondenza fonetica tra un nome greco e uno anatolico è stata considerata sufficiente a collegarli, senza considerare se si riferiscano a un’isola, una montagna, un fiume o una città, e senza tenere in alcun conto le circostanze geografiche o leggendarie. Questa trasandatezza ha indotto i più rigorosi a evitare del tutto l’argomento. In quest’area, nulla ha ancora rimpiazzato il lavoro assai impreciso del classicista tedesco A. Fick, pubblicato nel 1905. Questa sorprendente lacuna è l’inevitabile conseguenza della quasi completa incapacità degli studiosi arianisti a spiegare i toponimi egei in base all’indoeuropeo. Tutto ciò che gli arianisti riescono a fare è spiegare perché non riescono a spiegarli, e si limitano poi a definirli «pre-ellenici». Gli arianisti assegnano grande importanza agli elementi toponimici -(i)ssos e -nthos, ai quali non è mai stato assegnato un significato, e che essi presumono «pre-ellenici». Tale classificazione, definita per la prima volta dal linguista classico tedesco Paul Kretschmer, fu sviluppata dal classicista americano j. Haley e dall’archeologo Carl Blegen, i quali sostennero che la distribuzione di questi toponimi sarebbe corrisposta a insediamenti della prima Età del bronzo; inoltre, poiché si supponeva che gli invasori fossero arrivati agli inizi della media Età del bronzo, tali elementi sarebbero stati indicatori di insediamenti


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pre-ellenici. Dal punto di vista archeologico, questa teoria è assai fragile, poiché le corrispondenze concorderebbero altrettanto bene sia con siti della tarda Età del bronzo sia con siti della prima Età del bronzo. L’aspetto toponimico è altrettanto debole. Anche prima che Haley e Blegen annunciassero la loro teoria, Kretschmer aveva ammesso che i suffissi avrebbero potuto essere congiunti a radici indoeuropee e in tal modo sarebbero stati di per sé indicatori di presenze pre-elleniche – certo, purché si accetti il modello ariano. Poiché i suffissi appaiono anche alla fine di elementi radicali semitici ed egizi, essi sono altrettanto inefficaci come indicatori di un substrato indigeno, quando si operi all’interno del modello antico. Date queste palesi inadeguatezze, potrebbe sorprendere che l’ipotesi di Blegen e Haley continui a essere trattata con così gran rispetto. La spiegazione è che in un campo così sterile come l’antica toponomastica greca non si può gettar via nemmeno la spazzatura. Secondo il modello antico riveduto, -nthos ha molte origini diverse, le due più comuni essendo semplici nasalizzazioni in prossimità di dentali e davanti al suffisso egizio -ntr (santo); -(i)ssos sembrerebbe una caratteristica desinenza egea, rimasta in uso almeno sino alla fine dell’Età del bronzo. Come ho detto, il Capitolo 3 tratta di nomi di fiumi e montagne. Sono questi toponimi che tendono a essere i più persistenti in ogni paese. In Inghilterra, per esempio, gran parte di essi sono celtici e alcuni sembrano addirittura essere preindoeuropei. La presenza di nomi di montagne egizi o semitici indicherebbe quindi una penetrazione culturale assai profonda. Si prenda, per esempio, Kēphisos o Kāphisos, nome di fiumi o torrenti che si ritrova in tutta la Grecia, per il quale non è stata proposta alcuna spiegazione. Io lo farei derivare da Kbh. , un comune nome di fiume egizio che significa «fresco», con l’aggiunta del suffisso -isos. La concordanza semantica è eccellente: Kbh. è chiaramente legato alle parole k. b(b) (fresco) e k. bh. (purificare). I Kēphisoi greci erano di frequente usati per rituali di purificazione. k. bh. aveva un significato accessorio: «lago con selvaggina». Ciò ben concorderebbe col grande Kopais, un lago poco profondo che nella tradizione greca ha molte connessioni egizie e che è alimentato da un fiume Kēphisos. Per quanto mi risulta, quest’etimologia non è mai stata proposta. L’etimologia del nome del fiume greco Iardanos – che si ritrova a Creta e nel Peloponneso – dal semitico Yardēn o Giordano, prima della formulazione del modello ariano estremo, era universalmente accettata. Persino Beloch e Fick dovettero ammettere che questa derivazione era «allettante» e non riuscirono a fornire alcun’altra alternativa. Ciò nondimeno, essa è stata negata per tutto il xx secolo. Un’altra etimologia semitica ampiamente riconosciuta prima del tardo xix secolo è quella dell’elemento toponimico greco sam-, come in Samos, Samotracia, Samikon, che fa sempre riferimento a luoghi posti in alto, dalla radice semitica √ smm (al-


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to). Anche questa è stata dimenticata o negata. Altre derivazioni proposte in questo capitolo richiedono una discussione più approfondita. Nel Capitolo 4 mi occupo di nomi di città. È più comune che questi siano trasmessi da cultura a cultura di quanto non avvenga per i nomi di tratti naturali del paesaggio. Tuttavia, il numero insignificante di nomi di città indoeuropei in Grecia, e il fatto che si possano trovare plausibili derivazioni egizie e semitiche per la maggior parte di essi, sono indizio di un’intensità di contatto che è impossibile spiegare in termini di commercio. Uno dei gruppi consonantici più comuni nei nomi di città greche, per esempio, ha origine dalla radice Kary(at). Sarebbe plausibile spiegarla in base alla comune parola semitico occidentale per città – qrt – vocalizzata in molti modi nei diversi nomi di città, inclusi Qart-, Qårêt o Qiryåh/at. Si tratta infatti di uno dei più comuni toponimi fenici ed ebraici, come si riscontra in Cartagine e in molte altre città. Qui fornisco esempi che dimostrano uno stretto parallelismo tra l’uso di Karye quello della parola greca comune per città, polis. Tra questi, il più interessante è quello che riguarda le figure di cariatidi poste attorno alla tomba di Cecrope, leggendario fondatore di Atene, in un portico del tempio di Atena Polia. «Figlie della città» sembrerebbe quindi una spiegazione di questo nome più plausibile che «sacerdotesse di Artemide originarie di Karyai in Laconia» o «fate del noce», che sono le sole spiegazioni oggi fornite. Ci sono molte varianti della radice Kary-, tra queste io ineludo Korinthos (Corinto). Vicino a Corinto, sull’Istmo, sorgeva la città di Megara. Pausania, la guida turistica greca del ii secolo d.C., ne spiegava il nome come se significasse «caverna» o «camera sotterranea». Una parola semitica occidentale con esattamente lo stesso significato appare nel toponimo ugaritico Mg´rt e nella biblica Me<åråh. Sembrerebbero queste origini più plausibili per gli altrimenti inspiegati nomi greci di città o toponimi in prossimità di città, Megara e Meara. Non si sa bene se gli Egizi abbiano avuto una lunga tradizione di tauromachia, vale a dire combattimento fra tori. Il combattimento – e l’arena in cui esso avveniva – era chiamato Mtwn. In Omero, la parola mothos – accusativo mothon – significava «clamore di battaglia» e «combattimento tra animali»; mentre mothōn poteva significare «danza licenziosa, una melodia per flauto» o «ragazzo sfrontato». Mtwn era un comune toponimo egizio; Mothōne, Methōne o Methana erano altrettanto frequenti in Grecia. Tutti questi luoghi sono situati su baie che potremmo ben descrivere come teatrali. Non è dunque strano che si sia ritrovata una moneta di Mothone che ne rappresenta il porto come un teatro, stabilendo in tal modo un chiaro legame con Mtwn. L’etimologia tradizionale di Mykēnai (Micene) fa derivare la parola da mykēs, «fungo». Candidatura più plausibile sembrerebbe una derivazione da Mah. ăneh,


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«accampamento», o Mahănayim, «due accampamenti», toponimo comune in ˇ semitico occidentale. E ancora, prima dell’affermarsi del modello ariano estremo, per generale accordo si faceva derivare il toponimo greco di città Thēbai › dal cananeo têbåh (arca, cofano) il quale a sua volta derivava dall’egizio tbı o dbt (scatola, cassa). Queste due parole erano spesso confuse con un’altra parola, probabilmente imparentata, db3 (imbarcazione di vimini, arca di giunco), e db3t (cofano, sacrario, tempio) e quindi (palazzo). Db3, scritto Tbo o Thbo in copro, era un nome di città in egizio. È interessante però che non ne sia documentato l’uso per la capitale meridionale dell’Egitto che i Greci chiamavano Thēbai. Può darsi peraltro che venisse usato per la capitale degli Hyksos, Avari. Se così avvenne, Db3/Thēbai potrebbe essere diventato un termine o nome greco per la «capitale egizia», che fu attribuito alla Tebe egizia quando la xviii dinastia vi stabili la propria capitale. In ogni caso, non c’è ragione di dubitare che il nome di città greco provenisse dal semitico occidentale tēbåh e dal gruppo di nomi egizi sopra menzionato. Il Capitolo 5 è dedicato a una città, Atene. Vi sostengo che tanto il nome della città, Athēnai, quanto quello della divinità, Athēnē o Atena, derivino dall’egizio h . t Nt. Nell’antichità, Atena era con coerenza identificata con la dea egizia Nt o Nēit. Entrambe erano divinità vergini della guerra, della tessitura e della sapienza. Il culto di Nēit aveva il suo centro nella città di Sais, nel Delta occidentale; i cittadini di Sais avvertivano una speciale affinità con gli Ateniesi. Sais ne era il nome profano; il titolo religioso della città era h. t Nt (tempio o casa di Nēit). Questo nome non è attestato in greco o in copto, ma l’elemento toponimico h. tè trascritto come At- o Ath-. Era anche assai comune che le parole egizie avessero quel che si definisce vocali protetiche davanti alla prima consonante. In tal caso, la probabilità che Nt fosse preceduta da una vocale è accresciuta dal nome < Anåt, dato a una dea semitico occidentale assai simile; sembrerebbe quindi le* gittimo proporre per h . t Nt una vocalizzazione del tipo At(h)anait. La mancanza di i in Athēnē, Athānā in dialetto dorico e A-ta-na in lineare B, sembrerebbe porre un problema. Tuttavia, il dorico e l’attico possiedono le varianti Athēnaia e Athānaia, mentre la piena forma omerica è Athēnaiē. E poiché le -t finali venivano lasciate cadere tanto in greco che nel tardo egizio, la non occorrenza della lettera in Athēnai e Athēnē è soltanto da attendersi. Se la concordanza fonetica è buona, quella semantica è perfetta. Come ho detto, gli Antichi concepivano Nēit e Atena come due nomi della stessa divinità. In Egitto era normale che ci si rivolgesse a una divinità col nome della sua dimo*  La convenzione usata per denotare forme ipotetiche ma non attestate di una parola o di un nome.


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ra, e ciò spiegherebbe la confusione greca tra il nome della dea e quello della sua città. C’è infine l’affermazione di Carace di Pergamo, del ii secolo d.C., secondo cui «gli abitanti di Sais chiamavano la loro città Athēnai», e ciò avrebbe senso a patto che essi avessero usato h. t Nt come nome di Sais.23 Nel seguito del Capitolo 5 si considerano i nessi iconografici tra Nēit e Atena. Nēit, sin dall’epoca predinastica, era stata simbolizzata come uno scarabeo su un bastone, per poi svilupparsi in uno scudo a forma di 8, spesso accompagnato da armi. Questo simbolismo parrebbe essere all’origine della cosiddetta «dea scudo» che si ritrova nella Creta minoica, la quale a sua volta è di solito posta in relazione con una placca di calcare dipinto ritrovata a Micene che mostra le braccia e il collo di una dea che spunta da dietro uno scudo a forma di 8. Ora, quest’immagine è stata vista come una rappresentazione primitiva del Palladio, una panoplia di corazza e armi associata col culto di Pallade Atena, oltre che con la dea stessa. In tal modo si può quindi tracciare uno sviluppo iconografico – dall’Egitto del iv e iii millennio, attraverso Creta e Micene nel ii, sino alla ben nota dea del i millennio – che corrisponde precisamente alla leggendaria associazione tra Nēit e Atena e al rapporto etimologico tra loro. Inoltre, il culto di stato ateniese per la dea Atena giunse alla sua pienezza proprio nell’epoca – alla metà del vi secolo – in cui Amasis, faraone saita d’Egitto, ne promuoveva il culto altrove nel Mediterraneo orientale. Sais era alla frontiera tra Egitto e Libia, e fu inoltre a periodi in parte libica, il che spiega la minuta descrizione che Erodoto fornisce dell’associazione tra Atena e Libia. E inoltre chiaro che questo primo, grande storico greco riteneva che gli Egizi e alcuni libici fossero neri. D’altra parte, le prime rappresentazioni greche di Atena sono quelle di Micene, in cui le membra della dea sono dipinte in accordo con la convenzione minoica – presa dall’Egitto – di rappresentare gli uomini come rosso/marroni e le donne giallo/bianche. È infatti la congiunzione tra le origini egizio-libiche di Nēit/Atena, la consapevolezza di Erodoto del nesso tra le due, e la sua descrizione degli egizi come neri che ha ispirato il titolo di questa serie. Il Capitolo 6 tratta esclusivamente di Sparta. Io intendo questo toponimo come appartenente a un vasto gruppo, che include varianti come Spata e Sardis, e che si ritrova in tutto il bacino dell’Egeo. Ritengo che tutti derivino direttamente o indirettamente dal toponimo egizio Sp(3)(t) (nomos) o «distretto con una propria capitale». Nell’antico e medio egizio il segno dell’«avvoltoio», qui rappresentato come 3, era udito come una liquida r/l; nel tardo egizio, questo segno si limitava a modificare le altre vocali. In Egitto, la Sp(3)(t) per eccellenza era posta vicino a Memfi ed era dedicata ad Anubi lo sciacallo, messaggero della morte e guardiano dei morti. Io sostengo che questo nesso permane almeno


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per Sardis e Sparta; la cultura spartana o laconica è piena di associazioni canine. E tra queste, anche l’altro nome di Sparta, Lakedaimōn, che si può plausibilmente spiegare come «spirito ululante/mordace», epiteto del tutto appropriato ad Anubi e calco esatto di Kanōb/ pos, K3 ‹Inpw, «spirito di Anubi», nome della foce più occidentale del Nilo. Nel mito greco, Kanōpos aveva strette associazioni con Sparta, e sia l’uno che l’altra erano ritenuti ingressi al mondo ipogeo. Indago quindi anche l’importanza religiosa in Laconia della controparte greca di Anubi, Ermes, e la speciale relazione che gli Spartani avevano con i canidi, col mondo ipogeo e con la morte, tratti che, ne sono convinto, possono tutti essere fatti risalire all’Età del bronzo. L’ultima sezione del capitolo è dedicata alle influenze egizie sulla Sparta dell’Età del ferro. Il fatto che gran parte del vocabolario politico tipicamente spartano possa essere stato plausibilmente derivato dal tardo egizio è connesso alla tradizione secondo cui il legislatore spartano Licurgo avrebbe visitato l’Oriente e l’Egitto per studiarne le istituzioni. Inoltre, l’ipotesi di un’influenza culturale egizia su Sparta è rafforzata dall’aspetto sorprendentemente egizio dell’arte spartana arcaica. Tutto ciò si collega alla credenza dei re spartani in una propria discendenza dagli Eraclidi, e quindi dagli Egizi o dagli Hyksos; e ciò potrebbe anche spiegare anomalie, dal punto di vista del modello ariano, quali la costruzione di una piramide nel Menelaion, il santuario «nazionale» spartano, e la lettera che uno degli ultimi re spartani scrisse al gran sacerdote di Gerusalemme proclamando di essergli legato da parentela. Il Capitolo 7 riporta il lettore alla linguistica, con un riassunto degli argomenti pro e contro la parentela genetica tra le lingue afroasiatiche e indoeuropee. Qui mi pronuncio nettamente a favore della posizione di minoranza assunta da A.R. Bomhard, A.B. Dolgopolskii, Carleton Hodge e altri linguisti che ritengono vi debba essere stata una protolingua comune a entrambe le famiglie. Io credo inoltre che vi possano anche essere stati prestiti dal semitico e dall’egizio prima della disintegrazione del protoindoeuropeo al volgere del iii millennio. Entrambe queste conclusioni complicano notevolmente il mio compito; tuttavia, poiché le somiglianze tra parole egizie e semitiche occidentali, da un lato, e parole greche, dall’altro, non possono essere attribuite soltanto a prestiti avvenuti nel ii millennio, esse potrebbero essere il risultato non soltanto di coincidenza ma di rapporti genetici o di prestiti avvenuti molto prima. Il miglior modo di verificarli sta nel vedere se si ritrovino parole simili in teutone, in celtico e in tocario – lingue remote dal Medio Oriente e che quindi è relativamente improbabile che siano ricorse a prestiti dall’afroasiatico. Ma anche con queste lingue non si può essere mai certi. Il Capitolo 8 si intitola Tratti comuni nelle lingue dell’antico Vicino Oriente, incluso il greco. Sin dalla scoperta dell’indoeuropeo, la linguistica storica si è in gran


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parte occupata delle ramificazioni e differenziazioni delle famiglie linguistiche. Dove si sono percepite similarità tra lingue confinanti ma non «imparentate», si sono di solito attribuiti questi Sprachbunden ad antichi «substrati» sotto stanti alle lingue successive. In anni recenti, però, alcuni linguisti hanno iniziato ad analizzare la convergenza linguistica tra lingue adiacenti senza parentela genetica: cioè a dire, mutazioni linguistiche che avvengono attraverso frontiere linguistiche. Si prenda, per esempio, la r francese delle classi raffinate diffusa in tedesco, e mal pronunciata nell’affettazione delle classi alte inglesi. O la tendenza a sostituire il passato remoto semplice con un passato prossimo composto, che risulta essersi diffusa dal francese agli adiacenti dialetti del tedesco, dell’italiano e dello spagnolo. Questi cambiamenti non solo indicano contatti stretti, ma riflettono anche il grande prestigio culturale e politico della Francia tra il xvii e il xix secolo, epoca in cui si verificarono questi cambiamenti linguistici. Il Capitolo 8 tratta della possibilità che processi simili si siano verificati nell’antico Vicino Oriente. Vi si sostiene, per esempio, che sebbene il mutamento della s iniziale in h iniziale sia avvenuto in molte lingue, incluso il gallese, la sua occorrenza in greco, armeno e iranico dovrebbe essere messa in rapporto con quella che si riscontra nella contigua lingua anatolica, il licio, e in lingue semitiche come il cananeo e l’aramaico. Risulta che questo sviluppo si sia verificato nel ii millennio, poiché non lo si riscontra in lingue più antiche della regione quali l’eblaita, l’accadico, l’ittita. Inoltre, in testi ugaritici databili dal xiv e xiii secolo tale processo appare iniziato ma non completo. Un altro sviluppo del ii millennio fu quello dell’articolo determinativo, tratto che non è così comune nelle lingue del mondo come si potrebbe supporre. Esso è attestato soltanto nelle lingue indoeuropee e afroasiatiche, e in ogni caso l’articolo determinativo è una forma indebolita del dimostrativo originario. Eppure, ciò non esclude che il concetto possa essere stato un prestito. L’articolo determinativo appare per la prima volta nel tardo egizio, in ciò che appare essere il registro colloquiale della lingua nel xvi secolo a.C. Non esiste nella poesia ugaritica o biblica, ma è presente in fenicio e nella prosa biblica. Se si tiene conto dell’impero egizio nel Levante nei secoli xv e xiv, sembrerebbe plausibile suggerire che questo sviluppo – e altri mutamenti linguistici tipicamente «cananei» – si siano prodotti come conseguenza dell’influenza egizia. La Grecia, a sua volta, sembra aver sviluppato l’articolo determinativo un poco più tardi. Non ce n’è traccia nei testi in lineare B, e scarsa traccia in Omero; esso è tuttavia presente nella prosa della primissima Età del ferro, e il fatto che l’articolo greco sia usato in alcuni modi che sono peculiari al greco e al cananeo suggerisce che l’idea possa essere stata presa in prestito dal Levante. Come è noto, il latino non ha articolo determinativo, ma tutte le lingue che ne discendono ce l’hanno; è quindi probabile che fosse diffuso nel latino volgare presu-


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mibilmente per l’influenza dell’uso che se ne faceva in greco, punico e aramaico, le lingue, in ordine decrescente, più influenti, dopo il latino, nell’Impero romano. La diffusione dell’articolo determinativo nelle lingue teutoniche e slave occidentali può essere documentata storicamente. È solo con l’ipotesi di un rapporto genetico tra afroasiatico e indoeuropeo, e di tratti regionali prodotti da convergenza, che si possono spiegare «coincidenze» come la notevole similarità tra l’ebraico ha (articolo) e le forme nominative greche della parola, ho e hē. Sia l’afroasiatico sia l’indoeuropeo avevano un dimostrativo *se. Sia il greco sia il cananeo sembrano aver trasformato l’iniziale sin h-, ed entrambi svilupparono articoli determinativi a partire dai dimostrativi. Ci può essere stata un’influenza diretta o «contaminazione» dalle forme semitiche a quelle greche, ma queste ultime sono troppo ben radicate nell’indoeuropeo per poterle considerare un prestito. Un andamento di convergenza ancor più complesso si riscontra nella mutazione della a lunga, ā o >a in molti contesti fonetici, che si produsse in gran parte della regione nella seconda metà del ii millennio. In Egitto e a Canaan essa mutò in una ō lunga. Ma in ugaritico del Levante settentrionale, nel licio dell’Anatolia meridionale e nello ionico della Grecia orientale – ma non negli altri dialetti greci dove la ā lunga rimase – divenne ē lunga. Questa distribuzione di ō e ē ben corrisponde alla nota divisione politica di quel periodo tra impero egizio e impero ittita e relative sfere d’influenza. Essa è di particolare interesse perché taglia attraverso i confini linguistici, genetici e storici, del semitico occidentale e del greco. Questi diffusi cambiamenti del ii millennio a.C. sono indizio di una frequenza di contatti nel Mediterraneo orientale che non è in genere riconosciuta, e sono inoltre indizio dell’influenza politica e/o culturale dell’Egitto e Canaan. Labiovelari in semitico e in greco è l’argomento del Capitolo 9. Le labiovelari sono suoni come qu- in cui una velare come k o q è seguita da un arrotondamento delle labbra o da un w. C’è generale accordo che tali suoni siano esistiti in protoindoeuropeo, ma l’accordo non è generale circa la loro esistenza in protosemitico. Le labiovelari, peraltro, sono comuni in tutte le restanti lingue afroasiatiche e semitiche dell’Etiopia. In questo capitolo sostengo come per molti rispetti sia molto più utile ricostruire il protosemitico sulla base di alcune lingue semitiche dell’Etiopia meridionale piuttosto che a partire dall’arabo, come si fa oggi. In particolare, affermo – lo documento con esempi tratti da queste stesse lingue – che il semitico asiatico aveva labiovelari e il semitico occidentale le mantenne per un lungo tratto del ii millennio. Poiché si ammette anche che le labiovelari greche sarebbero mutate attorno alla metà dello stesso millennio, io sostengo che alcuni prestiti dal semitico al greco siano avvenuti quando entrambe le lingue possedevano labiovelari; alcuni dopo che il greco le aveva già lasciate cadere, ma il semi-


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tico occidentale ancora le manteneva, e alcuni quando esse erano scomparse da entrambe le lingue. Quindi, se si postula un considerevole livello di contatti tra la cultura semitica occidentale e quella greca prima della scomparsa delle labiovelari – cioè a dire, prima della metà del ii millennio a.C. – si possono risolvere alcuni problemi d’etimologia greca altrimenti inspiegabili. E ciò chiarisce anche quanto il modello antico riveduto possa contribuire alla ricostruzione di forme primitive in egizio e semitico ricorrendo all’abbondante materiale greco. Di ciò, in questo riassunto dei contenuti, posso soltanto citare due esempi. Il primo è quello della famosa città fenicia nota come Gublu(m) in eblaita e accadico, Gebal in ebraico e Jebeil in arabo. Se si tiene conto della mia convinzione circa la ritenzione delle labiovelari in semitico occidentale, credo sia plausibile postulare una pronuncia primitiva *Gweb(a)l che potrebbe spiegare tali varianti. Per contrasto, il nome greco della città è Byblos o Biblos. Questo rompicapo può essere risolto postulando che il nome fosse noto nell’Egeo prima della metà del ii millennio. Poiché è risaputo che nella maggior parte dei dialetti greci gwi divenne bi dopo la scomparsa delle labiovelari, sembrerebbe plausibile suggerire che il nome *Gweb(a)l fosse in uso in greco come *Gwibl mentre questa lingua ancora possedeva labiovelari, e che quindi, seguendo le normali mutazioni fonetiche, divenisse Biblos o Byblos. Il secondo esempio è l’enigmatico nome di Demetra. Da fonti etiopiche e semitiche occidentali è possibile ricostruire le forme primitive *gwe e *gway, che significavano «terra» o «ampia valle». Se questa parola fosse stata introdotta in greco prima della scomparsa delle labiovelari e fosse passata attraverso le regolari mutazioni fonetiche, gwe sarebbe dovuto diventare *de. Ciò potrebbe spiegare perché la dea madre terra greca fosse chiamata Dēmētēr e non *Gēmētēr, problema che ha tormentato gli studiosi per due millenni. Ma altri problemi li pongono la vocalizzazione e il fatto che il nome non compaia mai in lineare B; nondimeno, in assenza di un’alternativa, questa spiegazione rimane plausibile, ed è altresì rafforzata dall’esistenza della rara parola gyēs (misura del terreno). Gyēs sembrerebbe un prestito dal cananeo al greco dopo che in greco le labiovelari erano scomparse, ma prima che la mutazione fonetica si fosse verificata in cananeo. Infine, dopo la scomparsa delle labiovelari da entrambe le lingue, il greco gaia e gē (terra), che non trovano alcuna spiegazione nell’indoeuropeo, sembrerebbero presi a prestito dal cananeo gaye>, che nella forma «costruita» o modificata si pronuncia gê>. I Capitoli 10 e 11 trattano dei prestiti linguistici dal semitico occidentale e dall’egizio. Qui discuterò i due capitoli insieme. In entrambi si fa riferimento alla sintassi, o ordine delle parole nella frase. Si discutono, per esempio, gli usi simili dell’articolo determinativo nel tardo cananeo – in fenicio e in ebraico – e in greco. Al-


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trove, si considera la morfologia o modificazione delle parole; ma gran parte dei due capitoli è dedicata all’analisi dei prestiti lessicali. Iniziamo qui con la morfologia, o modificazione delle parole in base a numero, genere e caso, tempo verbale e così via. Con l’eccezione dell’ittita, il greco è la primissima lingua indoeuropea attestata, il grado di «decadimento» morfologico che vi si riscontra è quindi assai notevole. Poiché, pur preservandosi in greco l’originario sistema verbale indoeuropeo, i sostantivi avevano soltanto cinque casi, mentre il latino, attestato per la prima volta più di mille anni dopo, ne aveva sei, e il lituano, documentato per scritto soltanto nell’epoca moderna, ha mantenuto tutti gli otto casi che si postulano per il protoindoeuropeo. La perdita morfologica subita dal greco sembrerebbe indicare intensi contatti con altre lingue, e ciò concorda con le mutazioni lessicali documentate e indebolisce il modello delle origini autoctone. È però spiegabile sia nei termini del modello ariano che in quelli del modello antico, i quali, a differenza del modello delle origini autoctone, possono entrambi spiegare questo livello di contatti. L’argomento principale di questi due capitoli è però quello dei prestiti linguistici. Come ho già accennato, la componente indoeuropea del lessico greco è relativamente piccola. Per esempio, lingue come l’antico slavo ecclesiastico e il lituano, attestate per la prima volta duemila anni più tardi del greco, hanno una proporzione considerevolmente più alta di radici con forme affini in altre lingue indoeuropee. Inoltre, l’ambito semantico in cui ricorrono radici indoeuropee in greco è assai simile a quello ricoperto dalle radici anglosassoni in inglese. Queste radici forniscono la maggior parte dei pronomi e delle preposizioni; la maggior parte dei sostantivi e dei verbi fondamentali della vita familiare, ma non di quella politica; dell’agricoltura di sussistenza, ma non di quella a fini commerciali. Per contrasto, il lessico della vita urbana, del lusso, della religione, dell’amministrazione e dell’astrazione è non indoeuropeo. Una simile configurazione di solito riflette una situazione di lunga durata in cui i parlanti della lingua – o lingue – che fornisce le parole dell’alta cultura controllano gli utenti del lessico elementare, come nel rapporto tra anglosassone e francese in inglese; tra bantu e arabo nella creazione dello swahili; o tra vietnamita e cinese nella formazione del vietnamita moderno. Configurazione meno comune è quella che si riscontra in turco e in ungherese, in cui i conquistatori adottarono il lessico raffinato dei nativi. In questi casi, tuttavia, Turchi e Ungheresi mantennero le proprie parole, o parole mongole, per la tecnologia e l’organizzazione militare. In greco, però, le parole per designare il carro da guerra, la spada, l’arco, la marcia, la corazza, la battaglia, ecc., sono non indoeuropee. Il greco, quindi, così come è rappresentato nel modello ariano, non somiglia a lingue del tipo turco. Per accettare dunque il modello ariano è necessario postulare che il greco sia una lingua tipologicamente unica. Il modello antico porrebbe


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invece il greco, assieme all’inglese e al vietnamita, nella più comune categoria di simili lingue miste. Consideriamo ora ciascuno dei due capitoli per sé. Il Capitolo 10 tratta dei prestiti greci dal semitico occidentale. In quest’area io posso affidarmi non soltanto agli studi svolti prima del trionfo del modello ariano, ma anche a quelli di studiosi che in questi ultimi due decenni, cautamente ma su solide basi, hanno restaurato alcune delle etimologie precedenti e ne hanno aggiunte alcune nuove. Malgrado questo processo, siamo però ancora lontani dalla situazione esistente prima dell’affermazione del modello ariano. Per esempio, come ho accennato sopra, l’embargo contro i prestiti semitici non ha mai incluso le spezie e le merci di lusso orientali. Ma le proposte di etimologie altrettanto plausibili avanzate dai semitisti per aree semantiche più sensibili, come per esempio bōmos da båmåh – che significavano entrambi «luogo eminente» o «altare» – sono ancora unanimemente respinte dai classicisti. Altri esempi di etimologie dal semitico occidentale per termini religiosi che avanziamo in questo capitolo includono il greco haima, parola che in Omero, oltre al significato generale di «sangue», implica anche sovrassensi di «spirito» e «coraggio». Dei due primi significati si ritrova il riflesso nella scienza greca, in cui haima era ritenuto un equivalente di «aria», e non di «acqua», come ci si potrebbe aspettare. Si è sostenuto che haima derivasse dal cananeo h. ayîm (vita); nella religione cananea il sangue era concepito come fonte della vita. Come secondo esempio, c’è la notissima radice semitica √qds (sacro); dal punto di vista semantico, ciò concorda assai bene con quella costellazione di parole greche che ruota attorno a kudos, che significa «gloria divina». È interessante notare, inoltre, che qds nel senso di «separato, impuro» sembra si rifletta nel greco kudos (abietto) e kudazō (ingiuriare). Un’altra costellazione di parole con significati religiosi, quella attorno alle parole naiō (dimorare) e naos (dimora, tempio o santuario), sembrerebbe derivare dalla radice semitica √nwh, che ha le stesse connotazioni generali e specifiche. La derivazione di nektar da un semitico *niqtar (vino affumicato o profumato ecc.) era ampiamente accettata prima che si affermasse il modello ariano estremo, e di recente è stata ripresa dal professor Saul Levin. Passando al lessico astratto, troviamo la radice greca kosm, dalla quale deriviamo non soltanto il nostro «cosmo» ma anche «cosmetici». Per significato fondamentale ha quello di «distribuire» o «mettere in ordine». La radice semitica √qsm ricopre l’ambito semantico «dividere, mettere in ordine e decidere». Oppure, il cananeo sēm (traccia, segno, nome) sembrerebbe sia stato preso in prestito in greco due volte: dapprima, come sēma (segno, traccia, pegno) e più tardi – probabilmente dalla forma sēm – come schēma (forma, figura, configurazione). Anche in politica ci sono simili costellazioni di parole, come per esempio il greco deil- (disgraziato, infelice) e doul- (cliente) o (schiavo) che potrebbero


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derivare dal cananeo dål o dal (dipendente, ridotto) o (povero); mentre il greco xenos (straniero, estraneo) sembrerebbe derivare dal semitico occidentale √śn› (odio, nemico). Nella sfera militare troviamo etimologie come phasgan- (spada) o (lama) dalla radice semitica √psg (fendere) e harma (carro da guerra) o (paranco), dalla radice semitica √ h. rm (rete). Infine, ci sono alcune parole greche fondamentali che sembrano avere etimologia semitica: per esempio, mechri(s) (fino a) sembrerebbe derivare dalla radice semitica √mhr (essere di fronte, andare incontro). Vero è che nessuna di queste derivazioni èˇ certa, ma tutte sono più o meno plausibili. In assenza di etimologie indoeuropee che possano competere con queste, e alla luce di tutti i documenti e testimonianze a sostegno dell’influenza semitica sulla Grecia del ii e i millennio, le si dovrebbe prendere in seria considerazione. Lo stesso vale per le etimologie egizie proposte nel Capitolo 11. A differenza dello studio delle etimologie semitiche, la ricerca sui prestiti linguistici dall’egizio al greco non si è mai seriamente sviluppata. La semplice ragione è che i geroglifici furono decifrati soltanto quando il modello antico stava cominciando a perdere piede. Attorno agli anni 1860, quando furono pubblicati i primi dizionari dell’antico egizio, il modello ariano si era così fortemente affermato che la comparazione tra i due lessici era assolutamente impossibile nel mondo accademico. Sola eccezione furono i coraggiosi e fruttuosi tentativi di comparare parole greche con parole copte compiuti dall’abbé Barthélemy nel xviii secolo. Oggi, con le tre sole anomalie di baris (un tipo di piccola imbarcazione), xiphos (spada) e makar- (beato), a nessuna parola greca di rilievo è stata concessa un’etimologia egizia, e per le due ultime parole da più parti la si è persino messa in dubbio. Due brevi articoli apparsi nel 1969 raccoglievano e attestavano alcune parole di origine ovviamente esotica, con plausibili origini egizie; ma, come nel caso di parole del semitico occidentale, c’era pur sempre la possibilità che queste fossero state trasmesse tramite il commercio o per contatto casuale e fossero quindi accettabili anche per il modello ariano. Nel 1971 usciva un lavoro anche più negativo che negava alcune delle etimologie egizie accettate e ne metteva in dubbio altre.24 Ho già sottolineato l’importanza del lessico militare. La derivazione di xiphos dall’egizio sft (coltello, spada) è quindi assai significativa. Abbiamo due etimologie, una semitica e una egizia, per le due parole che in greco significano spada. Entrambe di riconosciuta origine non indoeuropea; e la spada era la nuova superarma dell’«eroica» tarda Età del bronzo. Altri esempi che qui val la pena di menzionare includono makar-, che deriva dall’egizio m3 ‹hrw (di voce veritiera), titolo dato ai morti beati che hanno passato la prova delˇ giudizio. Altri termini giuridici greci sembrerebbero avere etimologie egizie altrettanto plausibili; e già abbiamo incontrato la derivazione di martyr da mtrw (testimone). La radice tima- (onore) che s’incontra sia nel linguaggio militare che in quello giuridico


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deriva forse da un egizio *dı m3 ‹, attestato in demotico come tym3 ‹ e che significa rendere vero, giustificare. In politica, mentre c’è una diffusa e fondamentale radice indoeuropea √reg che significa «legge, dominio» o «re» e che si ritrova nell’indiano rajah, nel gallico rix, nel latino rex e nell’irlandese rí, in greco antico le parole per significare re non avevano niente a che fare con essa, ma erano (w)anax e basileus. La prima, che sarà discussa nel Capitolo 1 di questo volume, sembrerebbe derivare dalla formula egizia ‹nh dt (possa egli vivere per sempre!) usata dopo i nomi dei faraoˇ arcaico il basileus non era un re ma un funzionario subordini viventi. Nel greco nato al (w)anax. In egizio p3 sr (il funzionario) divenne un titolo comune del vizir. Lo si è ritrovato trascritto in accadico come pa-ši-i-a-(ra). Poiché p e b non erano distinti in tardo egizio, e la r egizia era spesso resa come l in greco, non c’è alcuna difficoltà fonetica che impedisca la perfetta concordanza semantica. L’origine egizia della parola greca sophia (sapienza) è descritta nel Capitolo 1 del ii volume. Tutte queste etimologie, nelle aree del potere, dell’astrazione, della vita raffinata, concordano con quella configurazione suggerita dal modello antico che implica dominatori egizi su una popolazione nativa meno sviluppata. Come nel caso del semitico, tuttavia, altri prestiti linguistici suggeriscono una penetrazione anche più profonda nella vita greca. Non c’è ragione di dubitare che il greco chēra (vedova) derivi dall’egizio h3rt, o che la particella gar derivi dalla particella egizia grt, che ha la stessa funzione e posizione sintattica. Come ho detto, le t finali erano lasciate cadere sia nel tardo egizio sia in greco. La conclusione di Documenti e testimonianze archeologiche è che le prove documentali e archeologiche, seppure tendono a sostenere il modello antico rispetto a quello ariano, non sono però conclusive. Per contrasto, quelle che si traggono dalle lingue e dai nomi di ogni tipo sono nettamente a favore dell’intrinseca plausibilità della tradizione antica, poiché la scala e la centralità dei prestiti lessicali e nominali starebbero a indicare una massiccia e prolungata influenza culturale egizia sulla Grecia. Anche se il caso del giapponese mostra che prestiti su scala così ampia possono non essere necessariamente conseguenza di conquista, la conquista e la colonizzazione sono le condizioni usuali in cui essi si producono. I rilievi linguistici offrono quindi un forte sostegno al modello antico. Se poi si considerano insieme prove documentali, testimonianze archeologiche e rilievi linguistici, in nessun modo il modello ariano potrebbe avere superiore valore euristico. Se è poi dimostrata l’ipotesi – espressa nel i volume di Atena nera – che la sostituzione del modello antico col modello ariano possa spiegarsi nei termini della Weltanschauung del primo xix secolo, non c’è alcun bisogno di continuare a usare quest’ultimo. In breve, come ho detto altrove in questo libro, il i volume mostra che il modello ariano fu «concepito nel peccato». Il ii volume dimostrerà che esso ha fallito. ›


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L’enigma della Sfinge risolto, e altri studi di mitologia egiziogreca: riassunto del volume iii Il iii volume di Atena nera è un tentativo di usare il modello antico riveduto per far luce su alcuni aspetti della religione e della mitologia greca sin qui inesplicabili, e soprattutto sui nomi di personaggi eroici e divini. I capitoli sono organizzati secondo quel che appare essere l’ordine cronologico d’arrivo in Grecia dei vari culti; come per ogni altra cosa in quest’area, la sequenza è però assai incerta. Il Capitolo 1 tratta della più remota influenza religiosa che si possa discernere nelle origini del culto taurino cretese, la cui nascita è contemporanea alla fondazione dei palazzi dell’isola. L’influenza è quella del culto regio del dio falco/toro Mntw o Mont sotto l’xi dinastia, nel xxi secolo a.C. Io sostengo che la mancanza di testimonianze su un culto taurino a Creta nel periodo Minoico Antico, nel iii millennio, rende assai improbabile che vi sia continuità col culto taurino documentato in Anatolia nel vii millennio. Inoltre, la montuosa Creta non può in alcun modo essere considerata un paese per natura favorevole all’allevamento del bestiame. Oltre all’improvvisa comparsa del culto taurino nell’isola, alla coincidenza dei tempi, a quanto si sa sull’espansione dell’influenza egizia durante i regni dei vari faraoni dell’xi dinastia chiamati Menth.otpe, e alle testimonianze archeologiche sui contatti tra Egitto ed Egeo in quest’epoca, ci sono testimonianze leggendarie che indicano un’influenza egizia su Creta in questo periodo. Io credo che i nomi del dio Mntw e del faraone Menth.otpe si riflettano entrambi nel nome che le leggende greche assegnano a un antico giudice, legislatore e conquistatore delle isole greche, Radamanto, nome che si può plausibilmente far derivare da un egizio *Rdi M(a)ntw, «Mnttw dà». Radamanto era anche il patrigno bellicoso di Eracle, e all’eroe aveva insegnato a tirar d’arco; Mnttw era anche il dio dell’arte dell’arco. Mntw era associato alla dea R<t, il cui nome, come sappiamo da fonti mesopotamiche, era vocalizzato come Ria. Sembrerebbe questa un’origine plausibile del nome della dea Rhea, che aveva un ruolo centrale nella religione cretese. Il culto di Mntw non fu il solo culto taurino egizio a raggiungere l’Egeo. Ritengo plausibile associare la figura leggendaria di Minosse, primo re e legislatore di Creta, a Mēnēs – o Mina, come lo chiamava Erodoto – primo legislatore e faraone d’Egitto, da datarsi attorno al 3250 a.C. Nell’Antichità si attribuiva a Mina la fondazione del culto taurino di Apis a Memfi. Un altro culto taurino egizio – chiamato Mnevis dai Romani – era stato plausibilmente derivato da una forma egizia *Mnewe. Questo culto era stato associato a «mura serpeggianti» sin dall’epoca dell’Antico Regno, centinaia di anni prima che i palazzi cretesi fossero costruiti. Abbiamo così una triplice coincidenza: in Egitto c’erano due culti taurini associati con i nomi Mina e Mnewe; il primo era il nome del fondatore della


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dinastia regia, e il secondo era connesso a «mura serpeggianti»; a Creta c’era un culto taurino associato con il fondatore re Minosse e con un labirinto! La tradizione greca, assai chiara in proposito, sostiene che per ordine di Minosse il labirinto fu copiato da un originale egizio dal grande artista e architetto Dedalo. I tentativi di derivare il nome labirinto da una presunta parola lidia labrys che significherebbe «ascia» sembrano meno plausibili dell’etimologia proposta dagli egittologi attorno agli anni 1860 – e negata da quelli del xx secolo – che risale a un toponimo egizio ricostruito *R-pr-r-h. nt, nome del sito ove sorgeva il grande labirinto egizio descritto da Erodoto e da altri antichi autori. Culti taurini, derivati non soltanto da quello di Mntw ma anche da quelli di Mina, Mnevis e Apis, erano presenti in tutta la Grecia, ma furono sopravanzati da quelli dedicati a capre e arieti. Agli inizi o attorno agli inizi della xii dinastia, il culto regio egizio mutò: da culto del falco/toro Mntw a culto dell’ariete Ammon. Come già detto, sulla base di rilievi epigrafici si è dimostrato che i faraoni della xii dinastia chiamati >Imn-m-h. 3t e S-n Wsrt, plausibilmente da identificarsi con i grandi conquistatori Memnōn e Sesōstris della tradizione greca, intrapresero spedizioni di vasto raggio nel Mediterraneo orientale. Sostengo quindi, nel Capitolo 2, che i diffusi culti oracolari dell’ariete/capra, rinvenuti in tutto il bacino egeo, iniziarono a essere introdotti poco dopo che essi ebbero assunto posizione predominante nello stesso Egitto nel corso del xx secolo a.C. In Egitto, i culti erano associati sia con Ammon che con Osiride e, nell’Egeo, con Zeus e con Dioniso, che erano visti come loro equivalenti greci. La naturale confusione tra arieti e capre era aggravata dal fatto che il culto oracolare della città del Delta, nota ai Greci come Mendēs, era associato con una specie di arieti assai ben dotati d’attributi che – fatto imbarazzante per un simbolo della fertilità – si era estinta. In secoli successivi, l’ariete venne rappresentato in modo tale da indurre Erodoto a descriverlo alternativamente come una capra o un montone. Dodona, nella Grecia nordoccidentale, per generale ammissione era il più antico oracolo di questo tipo; secondo Erodoto e altri autori greci, l’oracolo vi era stato fondato per influenza degli oracoli di Siwa, un’oasi del deserto, e di Tebe, sede del culto oracolare di Ammon. L’archeologia ha confermato notevoli parallelismi tra Dodona e Siwa. Inoltre, il culto di Ammon a Siwa era associato con la divinità Ddwn, che parrebbe essere l’origine del nome Dodona, altrimenti inspiegabile. La confusione tra Zeus e Dioniso era particolarmente grande a Creta – dove si supponeva che Zeus fosse morto – e alla periferia settentrionale della Grecia, da Dodona, a occidente, alla Frigia e alla Tracia, a oriente. Queste regioni, particolarmente conservatrici a quanto risulta, e anche per altri motivi, sembra che preservassero un culto indifferenziato a cui si sostituirono culti più specifici introdotti o sviluppati più tardi. Molti centri di culto, tuttavia, come per esempio


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quello di Zeus a Olimpia, preservarono elementi dello strato precedente. Alla fine della sezione sui culti dell’ariete/capra, considererò i parallelismi tra la rappresentazione della passione o dramma di Osiride nella religione egizia e le origini del teatro greco. È sorprendente notare che in Grecia la tragedia, che era essenzialmente religiosa, veniva associata tanto con Dioniso quanto col capro, tragos. Il Capitolo 3 di L’enigma della Sfinge risolto si intitola La Bella e tratta della dea Afrodite. Il suo nome per tradizione veniva fatto derivare dalla parola aphros (schiuma); nessuna spiegazione è stata proposta per l’altrimenti ignoto suffisso -ditē. L’immagine d’età classica della dea che sorge dalla spuma dimostra che la tradizione è antica. Nondimeno, quest’etimologia appare a me più come un gioco di parole o un’etimologia popolare; quella vera quasi certamente deriva dall’egizio Pr W3dyt (casa di W3dyt). Questo nome, dato a due città – una sul Delta del Nilo, successivamente nota ai Greci come Boutō/os, e l’altra nell’Alto Egitto, chiamata Aphroditopolis – dimostra l’identificazione di W3dyt con Afrodite. Ho già menzionato, in rapporto ad Atena, l’associazione tra divinità e loro dimore che esisteva presso gli Egizi; in questo caso però, l’uso di Pr W3dyt come appellativo è stata attestata. Dal punto di vista fonetico ci sono alcuni problemi, poiché non esiste alcun altro caso in cui la r in pr sia stata preservata; ma se lo fosse stata, l’apposizione di un prefisso «protetico» a/i sarebbe stata automatica. In ogni caso, la derivazione da *aPr-W3dyt è certo migliore dal punto di vista fonetico che quella da aphros. Dal punto di vista semantico, le ragioni per far derivare Afrodite da Pr W3dyt sono in verità assai forti. W3dyt era una dea della fertilità ed era associata con la nuova crescita delle messi dopo il Diluvio, proprio come Afrodite lo era con la primavera e con l’amore giovanile; W3dyt era anche associata con i serpenti che apparivano in quella stagione. Capita che uno dei reperti egizi più interessanti ritrovati nella Creta del periodo minoico sia la base di una statua di un sacerdote di W3dyt. E perdipiù, i geroglifici sono così irregolari da suggerire che siano stati incisi sul luogo. Il reperto, in ogni caso, indica che all’epoca il culto esisteva sull’isola. È sorprendente quindi che si ritrovino parecchie immagini di questo periodo che rappresentano una dea bella e allettante che regge due serpenti. Alcuni studiosi hanno tentato di stabilire nessi tra queste immagini e Afrodite. Sembra che tale culto sia fiorito verso la fine del periodo Minoico Medio; sarebbe quindi plausibile far risalire approssimativamente l’introduzione della dea a quell’ondata di influssi egizio-levantino-minoici che si ebbe attorno al periodo dell’invasione degli Hyksos, ossia alla fine del xviii e agli inizi del xvii secolo a.C. A La Bella segue il Capitolo 4: e la Bestia. Ne è argomento Seth o Sutekh, il dio cui si ritiene che gli Hyksos fossero devoti. Nella teologia egizia, Seth era la divi-


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nità dell’esterno, dei deserti e dei loro selvaggi e imprevedibili abitanti, e, secondo Plutarco, era anche il dio del mare. A quanto pare, c’è ogni ragione di supporre che così come è possibile identificare la conquista degli Hyksos col soggiorno biblico in Egitto, il Seth degli Hyksos fosse lo Yawhe degli Israeliti, Dio dei deserti, dei vulcani e dei tumultuosi mari. Nella mitologia ugaritica, il nemico del dio della fertilità Ba‹al era Yam, «mare», che risulterebbe quindi essere un’altra controparte semitica. In epoca ellenistica Seth era tradotto come Tifone, ma, a differenza di tutti gli altri dèi egizi, mancava di una sua controparte divina greca. La ragione di ciò appare ovvia: a quell’epoca, Seth come incarnazione del male non poteva essere equiparato con una divinità rispettabile. D’altra parte, il solo tra gli dèi greci maggiori a mancare di una controparte egizia era Poseidone. Io sostengo che queste due fila sciolte vadano riannodate insieme. Entrambi gli dèi si occupavano di mare, terremoti, caccia, carri da guerra e cavalli; entrambi erano in genere irascibili. Se gli Hyksos erano molto devoti a Seth, Poseidone era il dio più spesso menzionato nelle tavolette in lineare B d’epoca micenea sia cretesi che greche. Forme alternative, con una t, come un Poteidōn, hanno indotto gli indoeuropeisti a identificare il nome con la radice √pot, «potere». È però difficile connettere il suffisso -d(e)ōn a dios (divino). Per alcuni che applicano il modello antico l’alternanza s/t suggerisce la lettera semitica s. ade, che sembra fosse una forma di ts. L’etimologia che propongo per Poseidone è p3(w) o Pr Sidoˆn, «colui che è di Sidon» o «casa di Sidon». Sid, dio patrono di Sidon, derivava il proprio nome dalla radice √s. wd, «cacciare». Era una divinità della caccia, della pesca, dei carri da guerra e del mare; la concordanza semantica è quindi perfetta. Tuttavia, la difficoltà implicita in questa derivazione è che essa richiede una forma egiziosemitica di un tipo che non è stato sinora attestato; posso quindi proporre l’etimologia solo provvisoriamente. Ma sia essa accettabile o meno, credo di poter mostrare sorprendenti parallelismi tra Seth e Poseidone, di particolare interesse proprio perché nel periodo classico le due divinità non venivano identificate. Similarità tra i due dèi e i loro culti non possono quindi essere attribuite a una successiva «egittizzazione». Il Capitolo 5, I gemelli terribili, tratta di Apollo e Artemide. In Egitto il sole era venerato in molti modi diversi: come Ra, come Aten, il disco solare, e come hprr e Tm, rispettivamente il giovane sole del mattino e il vecchio sole della sera.ˇDal punto di vista fonetico, il solo problema che una derivazione di Apollo da hprr ˇ presenta è che molto di rado h è trascritta come ø. Un simile prestito sarebbe ˇ possibile, d’altra parte, soltanto se il culto fosse stato introdotto in epoca tarda e fosse giunto per il tramite del fenicio, in cui h si fonde con h. più dolce, assai spesso resa in greco come ø. Ci sono però dueˇ indizi a favore di quest’ipotesi.


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L’epoca tarda è suggerita dal fatto che il nome Apollo non è attestato in lineare B, e la trasmissione fenicia dalla vocalizzazione CaCoC che indica che il nome è passato attraverso la «mutazione cananea» da ā> a ō. Dal punto di vista semantico, la derivazione di Apollo da hprr sembrerebˇ be assai buona. hprr era identificato con hrm3h. t, il greco Harmachis, «Horus ˇ ˇ del sole nascente». Horus veniva identificato con Apollo almeno sin dai tempi del poeta Pindaro, nel v secolo, e che sia così legato all’alba delle origini è molto appropriato ad Apollo, che era concepito come eternamente giovane. Il mito centrale su Horus era quello della sua lotta vittoriosa con Seth che gli si era manifestato sotto le spoglie di un mostro acquatico. In Grecia uno dei principali miti di Apollo era quello di Delfi, in cui il giovane dio, accompagnato dalla sorella Artemide, aveva ucciso il Pitone. Io sostengo che Delfi, come adelphos (fratello), deriva da una parola semitica che significa «coppia» o «gemello». Il titolo di Apollo, Delphinios, è un doppione di un altro, Dydimos, «gemello», e la «gemellarità» di Apollo sembra essenziale alla sua natura. I moderni storici della religione greca stanno abbandonando l’idea che Artemide, sorella gemella di Apollo, fosse esclusivamente una dea lunare. Si ritiene ora che essa fosse una dea, vergine e cacciatrice, della sera e della notte. In epoca ellenistica, Artemide era vista come controparte della dea gatta egizia B3stt, che era identificata con la luna. Anche B3stt aveva però un aspetto battagliero e come tale si riteneva che avesse contribuito alla distruzione dei nemici di Horus. Sotto questo aspetto era concepita come leonessa e identificata come controparte femminile di Ra e di Tm, dio del sole serale. hprr e Tm insieme costituivano gli aspetti gemellari di h. r 3h. twy, «Horus dei (due)ˇ orizzonti», che era l’equivalente di Ra. La consorte di Tm, Tmt/B3stt, sembra godesse di una qualche indipendenza, e dalla metà del iii millennio fu posta in relazione con le due dee leonesse associate con «Horus dei (due) orizzonti». In Egitto, il più grande monumento a Horus era la Sfinge di Giza. Anche se il monumento è un singolo leone, una dedica inseritavi accanto nel tardo xv secolo, più di mille anni dopo che fu co› struita, fa riferimento a h. r 3h. twy e a h. r(ı) Tm, che quasi sicuramente si riferisce allo stesso Tm. Dal punto di vista fonetico, una forma femminile * h. rt Tmt offrirebbe una buona etimologia di Artemide. La corrispondenza tra una -t finale egizia e una -is finale greca è comune; la t mediale sarebbe caduta nel corso del normale sviluppo dell’egizio, e la vocalizzazione di h. r come (h. )ar è ampiamente attestata, così come lo è la modificazione dell’h. egizia in ø. La gemellarità di Apollo e di Artemide è quindi la stessa che esiste tra hprr e Tm, tra il sole matˇ tutino e quello della sera. Nel seguito del Capitolo 5 si indagano le ragioni dello scambio di sesso, e anche i paralleli, tra Apollo e Artemide e Cadmo e Europa, i cui nomi derivano dal semitico √qdm (oriente) e √<rb (occidente e sera). I culti e i miti della Tebe gre-


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ca sono di particolare importanza a questo riguardo poiché, essendo anch’essi associati con la Sfinge, arricchiscono quell’intricato reticolo di nessi che li connettono a questo aspetto della religione egizia. Io sostengo che la Sfinge tebana si può identificare come la natura selvaggia e leonina di Europa e di Artemide; ma un nesso ancora più stretto tra le due sfingi ci è offerto dall’indovinello posto dalla Sfinge greca: «Quale essere ha soltanto una voce, ha talvolta due piedi, talvolta tre, talaltra quattro, ed è più debole quando è giunto al culmine?». La risposta di Edipo riguardava la vita dell’uomo, ma l’enigma appartiene a un’intera costellazione di indovinelli – che si ritrova in tutto il mondo – molti dei quali si riferiscono alla debolezza del sole alla mattina e alla sera, e alla sua forza a mezzogiorno. Io credo che alla luce della dedica della Sfinge egizia al sole del mattino e della sera, il parallelismo sia assai degno di nota. Malgrado la comparsa assai tarda del nome di Apollo, l’interazione di influssi egizi e semitici mi induce a ritenere che questo ciclo di miti solari sia stato introdotto durante il periodo Hyksos. D’altra parte, sembra che i misteri eleusini, argomento del Capitolo 6, giungessero assai tardi. Gli antichi cronografi, per parte loro, convenivano in genere che i culti di Demetra e Dioniso erano giunti in Attica nella seconda metà del xv secolo. Ciò sembrerebbe del tutto plausibile, malgrado l’origine del nome Demetra sia databile agli inizi del ii millennio (vedi sopra, p. 77). Il tardo xv secolo, dopo le conquiste di Tuthmōsis iii, fu un periodo di grande potenza per l’Egitto, durante il quale, a quanto risulta, i culti misterici di Iside e Osiride erano già ben consolidati nell’Egitto e nel Levante. Poiché a Micene si sono ritrovate placche di maiolica del tipo di quelle che venivano poste sotto gli angoli dei templi, databili al regno di Amenōphis iii (1405-1367), non ho alcuna difficoltà ad accettare la possibilità che il culto eleusino della Grecia arcaica fosse il discendente di un culto fondatovi dagli Egizi settecento anni prima. Una delle molte ragioni, infatti, per cui questo culto era assolutamente unico in Grecia era che – come avveniva nei templi egizi – esso disponeva di un clero ufficiale, costituito da due clan i cui membri, in epoca ellenistica, ritenevano per certo di avere ascendenze egizie. Nei misteri egizi di Osiride figurava Iside in cerca del marito/fratello assassinato, la dea che ne ricomponeva il corpo, e il trionfo del loro figlio Horus su Seth, assassino del padre. Di primo acchito, la storia eleusina sembra assai diversa. In essa Demetra andava in cerca della figlia Persefone, rapita da Ade, dio del mondo infero. Ritrovava Persefone, ma, non riuscendo a liberarla, scendeva in sciopero impedendo la naturale crescita stagionale dei raccolti. Infine, si stipulava un patto secondo il quale Persefone avrebbe passato metà dell’anno con Ade e metà con la madre. Queste differenze non sono sufficienti a convincere di non tenere in alcun conto l’antica testimonianza secondo cui i misteri greci sarebbero giunti dall’Egitto.


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Mentre in Egitto Osiride era il centro del mito, Iside ne era la protagonista; in Grecia, non c’è dubbio che dietro Demetra si ritrovasse Dioniso. Inoltre, nei misteri egizi c’erano in realtà non una ma due donne. Iside aveva la sorella/doppio Nephthys a costante compagna, la quale non solo andava in cerca di Osiride e ne celebrava il lutto, ma era anche sposata col di lui assassino, Seth. In tal modo, essa corrispondeva simmetricamente alle ambiguità di Persefone, che aveva aspetti amorosi e infernali. Soprattutto, però, le ampie variazioni che si ritrovano in questi cicli di miti greci ed egizi dimostrano che non si dovrebbe cercare di estrarre troppo dalle differenze che tra essi si riscontrano, dato il gran numero di precisi parallelismi tra i due culti misterici. Nel Capitolo 6 si trova inoltre una rassegna degli studi sull’argomento pubblicati nel xx secolo, a cominciare dall’opera di Paul Foucart, il quale, grazie alla dettagliata ricerca che svolse su Eleusi e alla propria considerevole conoscenza dell’egittologia, raggiunse il convincimento che l’antica tradizione sull’origine egizia del culto fosse irrefutabile.25 Non c’è alcun dubbio, a ogni modo, che il nucleo dei misteri eleusini fossero la ricerca dell’immortalità e la paradossale credenza che la si potesse raggiungere soltanto attraverso la morte. Si credeva che tramite l’iniziazione ai misteri si passasse attraverso una morte simbolica per «rinascere» come immortale; tale concezione era corrente in tutto il Vicino Oriente antico, ma era predominante in Egitto. Tutti gli autori antichi convenivano quindi che Pitagora, Orfeo, Socrate, Platone e gli altri che si erano occupati dell’immortalità dell’anima ne avessero appreso dall’Egitto. La preoccupazione per l’immortalità personale era centrale all’orfismo, un aspetto della religione greca che venne forse introdotto nel periodo arcaico, centinaia di anni dopo la fine dell’Età del bronzo, periodo di cui principalmente si occupa Atena nera. Credo tuttavia che le similarità tra orfismo e culti dionisiaci ed eleusini ne giustifichi la presenza nel iii volume. Il nome Orfeo sembrerebbe derivare dalla forma egizia (>I)rp<t (principe ereditario), trascritta in greco come Orpais. (>I)rp<t era il titolo conferito al dio egizio comunemente noto come Geb: divinità della buona terra – della flora e della fauna che la ricoprivano – e del mondo infero. Ciò concorda sia con la funzione di Orfeo come armonizzatore della natura, sia con il suo interesse per l’interno della terra. Geb era in stretta relazione con Osiride, che a volte era ritenuto suo figlio e dal quale egli fu in gran parte sostituito come signore del mondo infero. Sotto molti aspetti, Orfeo e Dioniso sembrano duplicarsi l’un l’altro in egual maniera, anche se con una certa ostilità tra loro. Risulta che la società egizia fosse abbastanza intollerante verso l’omosessualità, ed è difficile trovare il minimo parallelismo diretto con questo aspetto del carattere di Orfeo. È però interessante notare che il nome (>I)rp<t è una forma femminile. Ancor più significativo è il fatto che (>I) rp<t fosse scritto con un uovo in funzione di determinativo, che sembrerebbe


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da porsi in relazione con l’uovo cosmogonico deposto da Geb sotto spoglie di oca, spesso senza intervento femminile. Anche in questo caso c’è un sorprendente parallelismo con la Grecia, poiché un uovo primigenio era anche all’origine della cosmogonia orfica. Malgrado la grande antichità di Geb, è probabile che il culto orfico venisse introdotto in epoca tarda. Non c’è, per esempio, alcuna menzione di Orfeo e della sua cosmogonia nella Teogonia di Esiodo, e la vocalizzazione di (>I)rp<t come Orpais/Orfeo sembrerebbe anch’essa tarda. Appare probabile quindi, come hanno sospettato molti antichi e moderni, che anche se Orfeo è forse assai antico, l’orfismo venisse instaurato nel vi secolo in stretta connessione col pitagorismo, e che l’associazione con (>I)rp<t fosse un tentativo di conferire al nuovo culto il carisma dell’antichità. È però impossibile decidere se la riforma iniziasse in Grecia o in Egitto. L’importanza che la metempsicosi – trasmigrazione delle anime – aveva per l’orfismo e per il pitagorismo, e il vegetarianesimo che ne derivava, erano comuni anche tra i sacerdoti egizi in epoca ellenistica e romana. È impossibile dire quanto antiche fossero queste forme di astinenza, ma, tenendo conto del generale conservatorismo della religione egizia, è possibile che risalissero all’Antico Regno. D’altra parte, potrebbero anche essere state incoraggiate da riforme d’epoca più tarda. Ci sono inoltre nessi tra Orfeo e il Libro dei morti. Nel Nuovo Regno e in epoca più tarda, il libro era una guida per l’anima, la conduceva attraverso i pericoli del mondo infero sino all’immortalità, e spesso era seppellito accanto al cadavere mummificato. In Grecia e in Italia, incantesimi e inni incisi su foglia d’oro venivano posti accanto ai corpi dei devoti di Orfeo. È interessante notare a questo riguardo che una versione del Libro dei morti fa riferimento ai «libri di Geb e Osiride». In epoca classica, si riteneva comunemente che Orfeo fosse in qualche modo d’origine tracia, ma che avesse appreso i suoi misteri in Egitto. Nell’Antichità, lo stretto nesso tra Pitagora e l’Egitto era accettato da tutti. Le notevoli similarità etimologiche e culturali tra forme egizie e forme orfiche e pitagoriche sembrano quindi assai facili da spiegare nei termini del modello antico. Devo aggiungere che sarebbe possibile a un arianista ammettere l’origine egizia di questi aspetti «tardi» senza peraltro danneggiare il proprio modello nell’insieme. E tuttavia significativo che così pochi lo facciano. La conclusione di L’enigma della Sfinge risolto reitera la mia concezione generale secondo cui le etimologie e i parallelismi culturali che fanno argomento del volume andrebbero visti nel contesto. Le comparazioni che vi si fanno non sono tra la religione greca e, diciamo, quella algonquina o tasmaniana, separate da tante distanze di spazio e di tempo. Sono comparazioni tra due sistemi situati nella stessa zona del Mediterraneo e nell’arco degli stessi millenni. Inoltre,


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gli stessi Greci d’epoca classica ed ellenistica affermavano che la loro religione proveniva dall’Egitto, ed Erodoto persino specificava che i nomi degli dèi, salvo una o due eccezioni, erano tutti egizi. Il materiale del iii volume, se considerato assieme alla sezione su Atena ed Ermes nel volume ii, mostra che se si mettono a confronto la religione greca con l’egizia e la cananea si rendono comprensibili lunghi tratti di ciò che in precedenza appariva come totale mistero. Ma, fatto ancora più importante, si pongono molte nuove questioni e si generano centinaia di ipotesi verificabili. Come ho detto all’inizio dell’Introduzione generale a quest’opera, è proprio questo che distingue una proficua innovazione radicale dalla sterile eccentricità. Lo scopo conoscitivo di L’enigma della Sfinge risolto è lo stesso degli altri due volumi: aprire nuove aree di ricerca a donne e uomini che sono molto meglio qualificati di me. Lo scopo politico di Atena nera è, inutile dirlo, sminuire l’arroganza culturale europea.


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