Il Sorpasso - Obiettivo Generazionale n°1

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Numero 1 - Giugno 2011 - In corso di Registrazione

Il orpasso Obiettivo

Generazionale

...A presto Istanbul Reportage Fotografico

I B.U.M. a Londra Anticipazioni di un live

Inutilniente. Guardo lei, lei non sa Inedito di Elvira Buttiglione



Il Sorpasso Generazionale

“CINQUINA” (1 DI 4 TELE 50X50) - FRANCESCO CISKY GABRIELE

Obiettivo

SOMMARIO EDITORIALE 4 di Luigi Bramato

SETTANTA100

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...A presto Istanbul

di Bruna D. Tonelli

6 L’Accademia nel deserto di Maria Claudia Olivieri 8 Un sogno circense di Michele Diana 9 Re-inventarsi di Sergio “Sud” Scarcelli

QUARTA PAGINA

JAM SESSION

CARTOLINE DA...

11 I B.U.M. a Londra di Nicoletta Panza 13 Organismi musicali. Guido Di Leone e l’esperienza dell’ Organ Trio di Gianluca Cardellicchio

26 Giornali addio di Leonardo Petrocelli 28 Tonio Kröger: una cultura in tensione di Giuseppe “Corto” Ceddìa 31 A Torino il salone si veste tricolore di Mariangela Romanazzi

L’INEDITO

33 Inutilniente. Guardo lei, lei non sa di Elvira Buttiglione

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DIRETTORE Luigi Bramato

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RESPONSABILE DELLA PUBBLICAZIONE Francesco G. Caputi Iambrenghi REDATTORI G i a n l u c a C a r d e l l i c c h i o, Giuseppe Ceddìa, It a l o C i n q u e p a l m i , Lu i g i S c o r c i a

PROGETTO GRAFICO Claudio Capasso claudiocap82@live.it

RESPONSABILE FOTOGRAFIA Bruna D. Tonelli

CONTATTI rivista.ilsorpasso@gmail.com

HANNO COLLABORATO: Maria Claudia Olivieri - Michele Diana - Sergio Scarcelli Nicoletta Panza - Leonardo Petrocelli - Valeria De Bari - Mariangela Romanazzi - Elvira Buttiglione RINGRAZIAMENTI: eKoinè ri-Pub - Donato Casale - Averla Piccola Giovanni S. Celentano


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FOTO ELISA PERRINO

Obiettivo

editoriale di Luigi Bramato

L’

attesa è finita. L’idea si è finalmente trasformata in azione. Con impazienza sfoglio una dopo l’altra le pagine di questa anteprima. Se fossi un vero direttore la cestinerei senza batter ciglio. “Il direttore furibondo riunì di gran corriera la redazione imprecando contro lo spettacolo orrendo della prima pagina”. Quante volte lo avrò letto … Ripenso al lavoro immenso e appassionato di questi ultimi mesi. E a quello che verrà. Respiro e riprendo a sfogliare. Mi fermo a leggere un articolo, uno a caso, come se non lo avessi già fatto cento volte. Lo trovo impeccabile. Come tutti, del resto. Correggo qualche refuso. Azzardo delle previsioni, ne discuto con i ragazzi. Il loro entusiasmo mi conforta. Ritorno con lo sguardo sulle fotografie di Bruna e

della sua amata Istanbul. Leggo la cronaca del nostro inviato da Torino. E poi l’inedito, l’articolo di opinione, le recensioni, l’intervista. Sembra proprio che non manchi nulla. Al telefono anticipo l’uscita del primo numero ad un amico giornalista. Gli chiedo consiglio e rispondo alle sue domande. La prima è sul titolo. Il migliore che mi sia venuto in mente, dico. Vuol sapere di più. Per esempio la scelta dei collaboratori. I più bravi, rispondo. Professionisti, studenti, musicisti, fotografi, giornalisti ed educatori. Riuniti in un progetto editoriale che vuol premere il pedale sull’acceleratore della città. In piena libertà e indipendenza di giudizio e di parola. Non sarà facile, chiosa. Io sorrido e guardo avanti. Ai lettori, soltanto a loro, l’ultima parola … luigibramato@virgilio.it

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FOTO DI MARIA CLAUDIA OLIVIERI

a cura di Italo Cinquepalmi

L’ACCADEMIA NEL DESERTO

di Maria Claudia Olivieri

Nel cinema si lavora in reparti. C’è un reparto di elettricisti, di macchinisti, un reparto per il trucco e parrucco, uno per le scenografie. Ogni reparto ha un suo ruolo preciso e peculiare eppure dipende imprescindibilmente dagli altri. Ogni singolo componente di ogni singolo reparto è indispensabile ed è indispensabile che stia al passo perché tutta la macchina cammini. Il cinema richiede responsabilità. Soprattutto quando si trasforma in uno strumento pedagogico per quei luoghi ad alta ghettizzazione sociale. La periferia diventa un luogo dell’anima, uno spazio brullo connotato dall’esterno sotto il segno della marginalità. Ma vitale ed energico. È un luogo in cui la vita viene vista passare e poi, d’un tratto, aggredita a morsi. Enziteto è questo. La prima volta che si approda nel quartiere quasi ci si aspetterebbe di veder rotolare balle di polvere stile far west. La prima volta sembra di essere arrivati nel nulla. Eppure, di fianco alla piazzetta che do-

veva simboleggiare la rinascita del quartiere e che oggi subisce inesorabile i segni del degrado, sorge l’Accademia del Cinema Ragazzi. Le pareti esterne, reinventate dai suoi giovani iscritti, sono un primo indice di come funzionano qui le cose: la struttura vive (e a volte sopravvive) grazie alle energie personali di quanti continuano a credere nel suo progetto, che da sei anni offre agli abitanti di Enziteto - S. Pio, così ora, un’alternativa alla vita di strada. È grazie a quelle energie che l’Accademia, nonostante il disinteresse delle istituzioni che tanto potrebbero fare, continua a vivere. Ogni giorno. La tiene in vita un direttore, che strenuamente decide di non chiudere i battenti finché la cooperativa avrà almeno le risorse minime. La tengono in vita i docenti, impegnati con le lezioni frontali e i laboratori, in cui periferia e città si incontrano e si scontrano, sporcandosi miracolosamente una dell’altra. La tengono in vita gli e tutti quei cittadini che, non vivendo ad

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FOTO DI MARIA CLAUDIA OLIVIERI FOTO DI MARIA CLAUDIA OLIVIERI

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Enziteto, scelgono di seguire i corsi di cinema e di vivere il quartiere. E poi, fuori da ogni retorica, tengono in vita l’Accademia tutti i ragazzi, i bambini, le donne e gli uomini che ne hanno fatto un punto di riferimento e di incontro in cui poter intessere relazioni efficaci attraverso il lavoro del cinema. Persone che urlano la propria esistenza anche per chi cassa possibilità di riscatto con una semplice X su un progetto o su un bilancio, dall’interno di un palazzo. Andare nel quartiere significa sceglierlo. Ed è vero, la prima volta che ci arrivi sembra di essere arrivati nel nulla. Ma dopo un anno di lavoro ad Enziteto, con Enziteto, lo posso dire: l’ultima volta, andando via, mi è sembrato di lasciare tutto. m.claudia.olivieri@gmail.com


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UN SOGNO CIRCENSE

FOTO DI DANIELA DI MAGGIO

FOTO DI DANIELA DI MAGGIO

di Michele Diana

Cosa fa un gruppo di sei amici appena conquistata la maturità scientifica? È sicuro che possa intraprendere il percorso universitario. Magari Lettere, Economia o Veterinaria. Ma nel caso in cui il gruppo abbia una passione per la clownerie, può anche darsi che possa fondare un’associazione che si occupi di promozione sociale attraverso percorsi artistici. Così è nata nel 2004 l’associazione “Un Clown per Amico” per opera di Giovanni, Luciano, Domenico e Luca. E del sottoscritto. Eravamo clown di corsia che, sulla scia dell’onda mediatica generata dal celebre film “Patch Adams”, si divertivano e divertivano persone che affollavano i luoghi deputati al disagio e al dolore. Abbiamo giocato con bambini, anziani, diversamente abili, adulti. Abbiamo visitato ospedali, case protette, centri famiglia, centri di recupero tossicodipendenti, restituendo il dono che ci era stato fatto: un modo diverso di vivere il mondo con le sue vittorie e le sue sconfitte. Questo dono era il “Clown” con tutto il suo bagaglio di potenza creativa. Ridere e far ridere era la nostra missione e per anni lo abbiamo fatto così, senza chiedere nulla in cambio, con la purezza e l’ingenuità dei nostri vent’anni. Ma il

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FOTO DI DANIELA DI MAGGIO

tempo passa per tutti, ed ecco che la passione diventa un lavoro, le abilità competenze certificate, e quello che prima era un gioco socializzante oggi è un progetto di vita a lunga gittata che punta alla creazione della prima scuola di Arti Circensi della Regione Puglia: un centro polifunzionale delle arti, con particolare attenzione a quelle circensi, con un approccio non elitario ma diffuso, avviando percorsi pedagogici nei quali chiunque potrà trovare la propria dimensione attraverso la tecnica artistica che più sente vicina a sé. clownarturo@hotmail.it

di Sergio “Sud” Scarcelli L’arte ha il pregio della sperimentazione. Molte volte è azzardata, altre esageratamente lungimirante come tutti i settori di ricerca. Essa non trova il suo portavoce in quel “creativo” di cui spesso non si comprendono stili di vita e/o rapporti con il quotidiano che appartiene al razionale. I progetti “Prossima Fermata”, “Il Grande Libro dei Rifiuti”, “banca del riuso e riciclo bari” ed “eKoinè ripub”, realizzati qui a Bari, partono da un primo impulso creativo di chi, attraverso la risorsa “scarto urbano e industriale”, offre alla comunità una visione/angolazione diversa. Le risorse, recuperate attraverso il processo virtuoso della straordinaria miniera della “conoscenza responsabile”, si traducono in consapevolezza del saper fare e contribuiscono a ri-pulire, ri-ordinare, FOTO DI GIACOMO PEPE

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Re-INVENTARSI mettendo in atto un percorso di re-distribuzione delle risorse. Ri-pensare e ri-modulare pratiche di vita consapevoli, comprendendo che la società attuale ha stratificato i livelli sociali creando relazioni sempre più conflittuali e difficilmente sanabili se non al prezzo di enormi catastrofi. sergiosud@libero.it



Jam Session a cura di Gianluca Cardellicchio

I B.U.M. SBARCANO A LONDRA di Nicoletta Panza

FOTO DI SIMONA ARDITO

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Quella che segue è un’anticipazione dell’intervista ai B.U.M. (Bari Upbeat Movement) registrata alla vigilia dei due live londinesi di Brixton Heights e di Hootananny. Ai nostri microfoni Valeria Quarto, voce e tastierista del gruppo. Tra qualche ora sarete a Londra. Un’occasione d’oro per i B.U. M. Come ti senti? Sono chiaramente eccitata dalla partenza ma anche un po’ preoccupata. Spero che tutto quello che abbiamo preparato fino ad ora vada come previsto, siamo tredici presone e non è facile spostarsi tutti insieme fra aerei, metro e pernottamenti. Com’è nato questo mini-tour londinese? Abbiamo avuto la possibilità di suonare a Londra grazie all’aiuto di alcuni amici che vivono lì. E ne siamo contentissimi. Londra è il luogo dove la musica che suoniamo, il reggae, è sbarcato direttamente dalla Jamaica per svilupparsi in tutta Europa. Che tipo di esibizione sarà la vostra? Penso che proporremo il nostro solito live, per lo meno nel secondo luogo dove suoniamo, l’Hootananny, perchè so che li c’è un bel palco che può contenerci tutti e tredici. Del primo locale, invece, non so niente... andremo un po’ all’avventura, come sarà per tutto questo mini tour! Qual è il pubblico che vi aspettate di trovare? Bè, il pubblico dell’Hootananny generalmente segue la scena reggae a Londra. La direzione artistica del Brixton heights invece é italiana. Quindi penso che davanti a noi ci saranno un po’ di connazionali, oltre alla nostra tifoseria barese! nicolettapanza@gmail.com


FOTO DI CRISTIANO VALENTE

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FOTO DI ADRIAN FEIUN


ORGANISMI MUSICALI Guido Di Leone e l’esperienza dell’ organ trio. di Gianluca Cardellicchio

FOTO DI TONIO DEL VECCHIO

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Determinare cos’è il jazz con tutti i suoi contorni sfumati non è facile. C’è una costante però che trasuda dalla quotidiana (e anche giusta) contaminazione di generi: il trio. Formazione che nell’ epopea della musica afroamericana è quella più intrisa di senso rispetto alla dissoluzione formale di un altrove ricercato, sperimentato. Tutta la purezza del jazz la ritroviamo nella formazione a tre elementi. Sfogliando la vasta discografia jazz della guida inglese “Penguin”, una tipologia dominante del trio è sicuramente quella chitarra-organo-batteria. Un’identità musicale assai significativa dove l’organo, uno strumento leggermente più asettico del pianoforte, si occupa al contempo dell’apparato armonico melodico e del walking bass. La chitarra diventa uno strumento simile al sax, ma non esclusivamente melodico. I ruoli si invertono, si scambiano di continuo in una costante ritmica della batteria che può seguire anche la propria evo-

luzione improvvisativa. I chitarristi più disparati hanno espresso al meglio il loro sound in questa maniera, così come gli organisti. Vengono subito in mente le registrazioni di Wes Montgomery e Kenny Burrell con Jimmy Smith, Pat Martino e Joey DeFrancesco. Probabilmente non è un caso che anche uno dei più noti chitarristi pugliesi si sia cimentato in questa esperienza discografica. L’ultima produzione della «Fo(u)r», etichetta barese indipendente, vede avvicendarsi Guido Di Leone alla chitarra, con Renato Chicco, pianista e organista di chiara fama, e il batterista newyorchese Andy Watson. L’album in questione, “Standards on Guitar”, entra a pieno titolo nella categoria del purismo jazzistico, che s’intende nella commistione di swing, fraseggio bop e interpretazione di standard in chiave moderna. In uno spirito da night club con iperboliche improvvisazioni e un interplay magnifico.

jazzyman@email.it


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L’ INTERVISTA

FOTO DI MARCO GIULIANI

Nell’introduzione ho già parlato dell’esigenza del trio come intenzione di fare jazz nudo e crudo, senza fronzoli apparenti o contaminazioni volute. E, soprattutto, come esperienza della maggior parte dei chitarristi jazz. In realtà, in principio gli organisti hanno trovato

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nei chitarristi il giusto connubio dato dalla possibilità armonica dello strumento. L’organista com’è risaputo suona l’accompagnamento di basso con la mano sinistra e con la destra fa tutto il resto. Dunque la necessità di un chitarrista viene quasi naturale. Basti pensare alle prime esperienze in tal senso con l’organista Baby Face Willette e il chitarrista Grant Green. Nel tempo poi il connubio chitarra-organo ha incontrato i gusti reciproci dei musicisti. Com’è avvenuto il tuo incontro con Renato Chicco e Andy Watson e la conseguente idea del disco “Standards on Guitar” Con Renato è nata la collaborazione al masterclass di Spoleto tenuto da Michele Hendricks al quale ogni anno ho l’onore di partecipare in qualità di docente. In quell’occasione è stato ospitato Jim Snidero il quale ha voluto continuare a suonare con noi, suggerendoci come batterista Andy Watson, una vecchia conoscenza anche di Renato, avendo vissuto a New York per molto tempo. Abbiamo dunque iniziato il tour la scorsa estate. Poi in una naturale evoluzione delle cose abbiamo deciso di continuare a suonare insieme e dunque entrare in sala di registrazione. Ci tengo a precisare che il disco è a mio nome per una pura formalità, non ne sono il leader ma mi sono solo occupato di scegliere il repertorio. Tant’è che presto vedrà la luce una nuova produzione discografica con la stessa band a nome di Renato Chicco, con

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brani scelti da lui. Dunque questa collaborazione non si ferma qui. Assolutamente no, abbiamo in programma altri concerti e incisioni in trio con altri ospiti del calibro di Jim Rotondi e Joe Magnarelli (entrambi trombettisti nda). Quale iter hai seguito nella scelta del repertorio? Ci sono solo alcune tipologie di musicisti jazz che conoscono la stragrande maggioranza degli standard. Ma ognuno ha un proprio repertorio di brani. Mi viene da pensare alle continue rivisitazioni di Duke Ellington da parte di Oscar Peterson o alle molteplici interpretazioni di “My Funny Valentine” da parte di Jim Hall, “But Not For Me” più volte interpretata da Chet Baker ecc. Anch’io ho dei brani che suono quasi sempre, è il caso di Nuages, Yardbird Suite o anche Old Devil Mooon. Ho portato una trentina di brani da scegliere in sala prove e come in una jam session abbiamo deciso di comune accordo quali eseguire. Proprio una sensazione di intimità e di grande coesione qual è quella della jam session è stata l’impressione immediata che l’album mi ha dato. Come è stato possibile rendere tutto ciò in studio? Innanzitutto abbiamo registrato in quattro ore con sole due take per brano. Cosa più importante è stata quella di suonare senza cuffie ma tutti contemporaneamente, vicini in un’unica stanza come in un live. E l’intenzione è proprio quella di rendere la stesso tipo di estemporaneità e purezza di una jam. L’unico brano originale è “Four Brothers in Sofia”. Sì, è una composizione recente pensata e scritta in

FOTO DI TONIO DEL VECCHIO

“Four Brothers in Sofia: una composizione recente pensata e scritta in una notte, in una stanza d’ albergo in Bulgaria “

una notte, in una stanza d’albergo in Bulgaria, mentre ero in tour con quattro amici ai quali appunto il brano è dedicato. Nell’intro scherzo inserendo l’inizio del tema di “Fuor Brothers”, uno standard di Jimmy Giuffrè, ma il brano ha poi un tema originale ed è costruito sugli stessi accordi di “Blues For Alice” di Charlie Parker Come puoi descrivere le personalità musicali di Renato Chicco e Andy Watson? Indubbiamente sono due compagni di viaggio eccellenti. Andy Watson è uno dei migliori batteristi coi quali abbia lavorato, capace di suonare diversamente su ogni solo ed evolversi continuamente durante il brano con grande partecipazione. Renato Chicco ha un sound perfetto per suonare con un chitarrista non essendo mai invadente nonostante le vaste possibilità timbriche che l’organo possa offrire. Mi ricorda Jimmy McDuff o Melvin Rhyne, l’organista di Wes Montgomery. In toto ho notato un disco semplice, poco arrangiato ma efficace e naturale. L’idea di suonare ‘in stile’, con contaminazioni e molte ricercatezze è appannaggio tipico del musicista europeo. Gli americani si pongono meno problemi. Chiaramente ho notato questa tendenza nelle mie esperienze e anche in questo caso con un batterista newyorkese e un organista che, seppur sloveno, è cresciuto nell’ambiente jazz statunitense. Lo spirito della jam session non a caso si confà al concetto di estemporaneità e coesione totale della band che esegue il brano.



a cura di Luigi Scorcia

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Inauguriamo questa rubrica fotografica con il reportage di Bruna D. Tonelli, fotografa per passione, che ha voluto mostrare la descrizione di un viaggio. È facile vedere quanto si sia immersa nel luogo che le piacerebbe descrivere meglio, scoprendo ciò che la città di Istanbul ha da mostrare. Avrebbe voluto soffermarsi di più, parlare con la gente per capire cosa avesse da raccontare. Vedere e far vedere il grande fascino del mondo istanbuliano immerso nelle sue mille contraddizioni. Nelle sue fotografie Bruna Tonelli ha cercato di immortalarne simboli e significati, mettendo a fuoco la bellezza celata della “porta d’Oriente”.

“...A PRESTO ISTANBUL” 17

di Bruna D.Tonelli

Foto di Bruna D. Tonelli


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Ricordo di aver letto qualcosa che parlava di Istanbul. Il diario di un avventuriero o di un mercante di stoffe inglesi. Dalle sue pagine si sprigionava una magia di colori e foglie orientali. Mi piace pensare che questo viaggio in Turchia sia nato così. Per caso, come tutte le più belle avventure.

18 Istanbul, agosto 2010 La nebbia sul Bosforo, alle prime luci dell’alba. Il battello che valica il Corno d’Oro. Lo stupore dei passeggeri di fronte ai primi minareti. Sono quelli della Moschea Blu. Impercettibile giunge la nenia del muezzin, la prima delle sue cinque quotidiane. L’Occidente è solo un lontano ricordo. La luce del giorno adesso rivela il luccichio dei bazar e i traffici del porto. Mentre il vociare di quei suoi dodici milioni di abitanti sembra non avere mai fine. Dal molo raggiungiamo il nostro albergo a Karakoy, tra il ponte e la torre di Galata, a bordo di un taxi. Lo guida un turco, il primo che incontriamo. Il suo inglese è semplice, il suo sguardo sereno. Sorrido mentre fuori il traffico ci fagocita


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“…dopo tutto avevamo ancora la voglia di amare e gioire anche se la noia e la sofferenza ammaravano i nostri cuori…” (di Pasquale Miccoli)

20 nel suo disordine. Per la strada ci fermiamo ad assaporare del ḉay, un tè caldo e delicato. Diverrà il nostro insostituibile compagno di viaggio. Mi guardo intorno e tutto sembra scorrere in parallelo: moschee e chiese ortodosse, vecchi ruderi e grattacieli, kebab e Sturbucks Coffee. I vicoli della città sono un labirinto disomogeneo e coloratissimo. Le mie afferenze neuronali rischiano di impazzire in quell’insieme musicale di colori e spezie, sete e prelibatissimi dolci al miele. A contendersi le strade del centro i bambini, le donne con il tὔrban e gli uomini, sempre pronti a tirar fuori dalle loro tasche del tabacco. Le ore trascorrono leggere mentre il sole si addormenta tra le acque del Bosforo. Ci fermiamo sui gradini di un’antica moschea. Osservo la sacra ritualità dei suoi fedeli. Respiro. Avrò tempo di riordinare emozioni e ricordi.


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I venditori raccolgono le loro mercanzie mentre la musica elettronica si diffonde tra i locali. Proprio come Camden Town a Londra, penso. Facciamo la conoscenza di un gruppo di ragazzi cordiali e stravaganti. Alcuni fanno i tatuatori. Sono loro a guidarci nella notte di Istanbul. Magica e dolcissima. Ci ritroviamo tra le lenzuola del nostro albergo. Le immagini si fanno parola, confidenza, ricordo. Come quello dei turchi di Sultanahmete dei mercati del Gran Bazar; degli albergatori di Karakoy e dei pescatori del Bosforo tra le urla festanti dei bambini di Fener e le note dei musicisti di Galata. Ogni loro volto racchiude una storia. Bellissima, struggente, drammatica. Non importa che siano islamici o ortodossi, cristiani o ebrei, turchi piuttosto che curdi. Ăˆ solo una pagina di un Oriente che ci ha offerto la sua amicizia. Il ritorno a casa infrange il sogno. Il mio.

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Osservo le fotografie, le sole cose che ho potuto portarmi dietro. Passerà forse del tempo prima che io la riveda. E allora chiudo gli occhi, e penso ‌ a presto, Istanbul.

brudibruna@gmail.com

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Quarta pagina a cura di Giuseppe " Corto” Ceddia

GIORNALI ADDIO di Leonardo Petrocelli Con la consueta abilità affabulatoria, George He-

FOTO DI REDAZIONE

gel l’aveva definita “la preghiera mattutina del mondo moderno”. La lettura del giornale era, in fondo, esattamente questo: un rituale laico da consumare di fronte ad una tazza di caffè fumante, meditando sugli umani fatti e misfatti in attesa dell’avvio delle attività giornaliere. Se oggi tale raffigurazione ingiallisce nell’album dei ricordi, lo si deve essenzialmente alla mancanza di un fattore indispensabile: il tempo. La suggestiva immagine hegeliana è figlia, infatti, di un modus vivendi che il sociologo barese Franco Cassano ha efficacemente imprigionato nell’espressione “andar lenti” e che la società contemporanea

ha, molti anni or sono, bandito dal vivere civile. Smarrito “il diritto alla pigrizia”, per dirla con Hannah Arendt, il giornale cartaceo si scopre privato del suo habitat naturale, nonché penosamente incompatibile, in modo quasi elefantiaco, con la leggerezza e la fugacità imperanti. La fretta è regola, le lancette corrono e l’uomo comune sa bene di essere già in ritardo prima ancora di svegliarsi. In questa fantozziana corsa contro il tempo, c’è spazio solo per un telegiornale che blatera dal salotto mentre la famiglia scalpita o per una notizia rintracciata con il cellulare andando al lavoro. E così, le vendite dei quotidiani calano drasticamente e un interrogativo si impone alla leo.petrocelli@libero.it

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collettività: per quanto ancora questi giganti prodotti con costosissima carta e distribuiti con costosissimi mezzi di trasporto riusciranno a resistere? Ross Dawson, nel suo studio “Newspaper Extinction Timeline”, fissa la data della fine nel 2017 per gli Usa, nel 2019 per l’Inghilterra e nel 2040 per il resto del mondo. Cifre che occhieggiano a quel 2043 indicato dallo studioso Philip Meyer e discussa premessa del volume L’ultima copia del New York Times (Donzelli) di Vittorio Sabadin. In questi anni di catastrofi annunciate, val forse la pena sottrarsi, almeno per una volta, al gioco delle date, pur con la consapevolezza che se i quotidiani non smetteranno di inseguire gli altri mezzi di comunicazione sul terreno suicida della velocità l’epilogo sarà inevitabile. Una credibile soluzione potrebbe consistere nel convertire la carta stampata da spazio di cronaca ad agorà di riflessione pura: ad internet il compito di fornire notizie lampo, al giornale quello di interpretarle e condirle con analisi ed elucubrazioni. D’altronde, c’è già chi sussurra che a salvarsi saranno solo le riviste di approfondimento mensile, come la nostra. Ma anche per leggere «Il Sorpasso» ci vuole tempo. Poco, ma ci vuole. Siete sicuri di averlo? leo.petrocelli@libero.it

La vita accanto

di Mariapia Veladiano letto per voi da Valeria De Bari Può un aspetto sgraziato offendere una vita intera, annichilirne i sogni, fiaccarne i desideri? Se lo domanda nel suo primo romanzo Mariapia Veladiano, teologa vicentina vincitrice con La vita accanto del Premio Calvino 2010. Rebecca è nata sfregiata da una bruttezza perturbante. Esclusa dall’affetto di una madre assente, cresce esposta alla quotidiana sopraffazione dell’umanità “normale”, prigioniera del culto dell’apparenza. La scoperta di uno straordinario talento musicale potrà segnare una speranza di riscatto per Rebecca, ma soprattutto saprà strappare il velo sul dolore muto che ha segnato la sua famiglia. Con una scrittura tersa e tesissima, che sembra pronta per la restituzione drammaturgica, la Veladiano firma un racconto cupo e doloroso, dove le donne sono universi complessi e solitari, ubbidienti a codici morali individuali più che ai legami familiari. Dove la comunione e la solidarietà affondano più che nelle radici di sangue, nel pietoso riconoscimento di un comune doloroso destino.

Il garibaldino che fece il «Corriere della Sera»

di Massimo Nava letto per voi da Luigi Bramato Questo libro è dedicato ai giovani giornalisti. Un racconto appassionato, come non se ne vedevano da tempo, sulla vita e le avventure di Eugenio Torelli Viollier, il garibaldino che fece il «Corriere della Sera». Tutto, della sua vicenda umana e professionale, ha dello straordinario. La nascita a Napoli durante gli anni dello sgretolamento borbonico. La causa risorgimentale sostenuta tra le fila dei garibaldini. L’incontro con Alexander Dumas. La fortuna di parlare francese e l’avventura de «L’Indipendente». Il viaggio a Parigi, capitale del progresso europeo, e il soggiorno a Milano, nel fascino dissoluto degli Scapigliati. Il lavoro serrato di giornalista, critico e scrittore. Fino al coronamento del suo grande sogno: la creazione di un quotidiano “al servizio del lettore”. Semplicissimi gli ingredienti: chiarezza e obiettività. Il 5 marzo 1876, giorno di Quaresima, gli strilloni annunceranno l’uscita del «Corriere della Sera». La borghesia milanese, seduta ai caffè della Galleria, ne sarà subito conquistata e il successo imminente. Le intuizioni di Torelli Viollier avranno la meglio sui suoi detrattori. Come quella di allevare e crescere un giovane e promettente giornalista, Luigi Albertini, che consegnerà il «Corriere» alla posterità.


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Tonio Kröger: passato e presente di una cultura in tensione di Giuseppe “Corto” Ceddia

“L’eroe in tensione alla fine si arrende per scansare il tanto odiatoamato trittico arte-follia-morte“

28 Dobbiamo tristemente ammettere forse che, al giorno d’oggi, la cultura che partorisce menti pensanti fa paura? Un fatto è certo: un tempo l’individuo intriso di cultura era intellettuale organico al sistema, ora non lo è più. Oggi probabilmente a pochi interessa un parere intellettuale su un determinato caso politico, sociale, storico. A pochi ma buoni, aggiungiamo. Essere costantemente affamati di curiosità è pane prelibato di certi soggetti, di certe menti, nutrirsi di cultura è un modus vivendi, con tutti i pro e i contro che questo comporta. La fame di curiosità rende l’animo pieno ma lo rende anche perennemente teso, si ricerca il proprio simile, verrebbe quasi da dire che si instaura una caccia per confrontarsi con persone con le quali discutere di un proprio gusto letterario, cinematografico, musicale. La cultura destruttura la mente e la rende assai fertile, porta l’individuo a spaccare in mille il sottile capello, crea ansia a volte. È la cultura bellezza! verrebbe da chiosare. Quelli dell’intellettuale in tensione, della voglia di sapere onnivoro che se-

duce le menti, della conseguente “malattia” che si sviluppa nel genio, del malessere che prende piede nell’intimo del soggetto che irriducibilmente è scisso tra ansia di prestazione intellettiva e terrore di non essere compreso dagli altri, sono temi che la letteratura quasi sempre e in più contesti ha affrontato nei secoli. Il male di vivere destato da troppa curiosità e conoscenza non è novità nel panorama letterario, ma sicuramente un’opera a proposito va ripescata e parliamo del Tonio Kröger di Thomas Mann, anno di grazia 1903. È da qui che la critica fa risalire il concetto di “eroe in tensione”, è qui che le parole di Mann dicono che le buone opere sorgono sotto la pressione di una vita tribolata e che uno deve essere morto per essere davvero un creatore. La contraddizione arte-vita nel personaggio di Mann sarà poi anch’essa decisa dal protagonista in favore della leggerezza e non della severità creativa, l’eroe in tensione alla fine si arrende per scansare il tanto odiato-amato trittico arte-follia-morte. La società non mancherà di condannarlo, perché risulta


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strano che un artista si conceda una vacanza, come prima era strana la sua perenne tensione tra arte e vita. Malattia della società che sempre condanna l’intelletto. E allora la nostalgia dell’adolescenza felice si fa acqua della vita al presente nell’intimo del personaggio. La tensione, insomma, produce grandezza solo nel breve termine, poi bisogna salvarsi, il “fare” borghese deve essere snervato di questa tensione, altrimenti non produce. Se questa figura poi troverà un ruolo nella società, quest’ultima se la mangerà per sempre e senza pietà. Un racconto straordinario quello di Mann, un manifesto che andrebbe letto da tutti coloro che pensano che la creazione a volte vada a braccetto col dolore, sfiorando la vita che dell’eroe si nutre come ape del miele. L’eroe poi dalla vita prenderà luci e ombre per partorire l’embrione dell’ opera, quella “struggente di un formidabile genio”, citando l’autore contemporaneo Eggers. ordet7768@libero.it

Otto. L’abisso di Castel del Monte di Alfredo De Giovanni letto per voi da Leonardo Petrocelli

Guardare e non riuscire a vedere niente, perché la verità non è fra le stelle, ma nemmeno di fronte agli occhi di chi cerca. È sepolta, celata nel luogo più insospettabile, sulla soglia di casa nostra. Otto. L’abisso di Castel del Monte, romanzo d’esordio del geologo e musicista barlettano Alfredo De Giovanni, dispiega il fascino senza tempo dell’occulto in un gothic-thriller dai sapori noti e dalle scenografie familiari. Al resto del mondo - Parigi, Chartres, gli Stati Uniti - sono riservate solo pennellate fugaci, divagazioni a corto respiro. Il mistero si prepara ad inghiottire la Murgia e saranno quattro ragazzi, nella notte mondiale della finale di Usa ‘94, ad attraversare le otto colonne d’Ercole del castello, precipitando così il lettore in un verosimile universo popolato da misteriosi rituali, passaggi segreti, antichi enigmi, sedute d’ipnosi, sette occulte. Con buona pace di Dan Brown e del suo Codice, questa volta l’arcano abita in Puglia.

Giorni di neve, giorni di sole di Fabrizio e Nicola Valsecchi letto per voi da Italo Cinquepalmi

Giorni di neve, giorni di sole è il nuovo romanzo dei fratelli Fabrizio e Nicola Valsecchi. Una storia realmente accaduta, quella di Alfonso Dell’Orto, che nel 1935, in pieno regime fascista, parte in Argentina con la madre e la sorella per raggiungere suo padre, emigrato anni prima per motivi politici e lavorativi. Oltreoceano, tra sforzi, rinunce e sacrifici, Alfonso riesce a costruirsi una famiglia ed una posizione. Purtroppo, dopo essere scappato dall’Italia del Duce, altre dittature si frappongono sul suo cammino. È il 1976, quando il regime militare dei generali e di Videla apre il periodo del terrorismo di stato, che ha provocato quei trentamila desaparecidos su cui è sceso il silenzio. Tra questi, ci sarà anche la figlia del protagonista … Difficoltà (giorni di neve) e momenti di speranza (giorni di sole). Al centro del racconto il valore della famiglia ed il ritorno a casa, quell’Italia che Alfonso ritroverà dopo 70 anni in Argentina e che lo farà sentire fortemente vicino alla figlia. Emozionante e pieno di pathos, il libro vanta la prefazione di Adolfo Perez Esquivel, Premio Nobel per la Pace nel 1980 “per la sua attività a favore dei poveri e dei non violenti” e la postfazione di Gianni Tognoni, Segretario Generale del Tribunale Permanente dei popoli.


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Cartoline da... A Torino il salone si veste tricolore

di Mariangela Romanazzi

FOTO DI MARIANGELA ROMANAZZI

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L’ esperienza di Torino in quest’anno di celebrazioni e fanfare regala grandi eventi, sorrisi e ammirata partecipazione. Certo, la sensazione di soffocamento tricolore è accentuata per chi, come me, si trova a vivere la città per la prima volta in questo 150° anniversario dell’Unità ed a camminare per strade che a partire dalla metà di Marzo hanno letteralmente cambiato colore. Le vetrine dei negozi, le prelibate pâtisserie delle storiche cioccolaterie di via Po, le coccarde appuntate ai baveri dei passanti e, alzando lo sguardo, le bandiere dispiegate sui balconi costituiscono il leitmotiv cromatico di un calendario fitto di eventi. Cui, ahimè, si finisce col convivere senza percepirne la sensazionalità. Tutt’al più la ridondanza. Quando però tutto ciò prende parola e cerca di “spiegarsi” s’accende una scintilla. Torno da una lunga, lunghissima giornata al Salone internazionale del libro, esausta e meditabonda. Per non smentire la vocazione alla vertigine culturale, nella sola data di oggi si sono susseguiti e accavallati decine di interventi di autori di spessore, fra le piccole e grandi case editrici. Mentre mi affannavo nel tentativo di rispettare la serrata tabella di marcia, ecco accadere l’imprevedibile: sono stata rapita! L’Italia unita raccontata attraverso i suoi classici m’ha fatto rallentare il passo. Dopotutto in quella storia c’ero anche io. Ancora più rivelatore: il vociare del primo padiglione, con i suoi più o meno ravvicinati spazi di incontro non era chiassoso ma pluralistico! Ci si raccontava e ci si conosceva meglio e, forse, anche lì avrei trovato un posticino. Allora ho scoperto la straordinaria musicalità di una poesia palestinese; l’urgenza di (ri)raccontare e riscattare le battaglie di


Il Sorpasso Generazionale

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un attivista extraparlamentare degli anni Settanta; il lato rosa e meno noto del Risorgimento; il magico mondo degli eBook. Salvo poi chiedermi, alle nove e mezzo della sera, ingabbiata nelle divagazioni indignate dell’attivista che non riusciva a congedarsi dallo scarno e stanco uditorio, se non avessi scelto il posticino sbagliato...

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mariangelaromanazzi@gmail.com

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Inutilniente “Guardo lei, lei non sa” (liberamente ispirato a “Inutilniente” dei Verdena) di Elvira Buttiglione

Roberta osserva le sue scarpette da ballerina. Aveva smesso da piccola di danzare ma per lei era sempre rimasto un sogno irrealizzato. Aveva amato, odiato, danzato, scritto, fotografato. Si era anche laureata. Ma adesso aveva in mano un pugno di mosche. Di carta. Che si sbriciolano. Come si sbriciolano i sogni, e i desideri. Roberta osserva la sua pergamena di laurea. Le sue fotografie. I suoi racconti. E le sue scarpette. Roberta piange. E sa perché. Piange perché ha tanto amato. E adesso si è innamorata ancora. Piange per il suo destino, beffardo. Piange per chi non guarda dentro di lei. Piange per chi non si è mai sforzato di apprezzare il suo lato interiore. Di cui si era presa cura. A lungo. Roberta piange e le sue lacrime sanno di veleno. “Stai osservando il nulla, Roberta!” disse Andrea. “Sto osservando tutto, amore mio …” rispose, tranquillamente. “A cosa pensi?” la incalzò. “All’amore, che cambia. Roberta, io mi sto innamorando di te”. Roberta sgrana gli occhi e scappa. Torna a casa. E indossa le scarpette da danza. Roberta si posiziona davanti allo specchio. Le scarpette, ovviamente, non le entrano più. Roberta guarda con una certa malinconia il piede più grande della scarpetta. “Il mio piede è troppo grande, ormai”. Indossa comunque le scarpette. E danza. Ricorda ancora i passi. Danza da sola. Davanti allo specchio. “Qualcuno si è ancora innamorato di me – pensa – qualcuno mi ucciderà ancora. O almeno ci proverà”. Si avvicina al cofanetto che, segretamente, aveva conservato sotto al letto. Da sempre, nel cofanetto, ci sono tre oggetti. Un pugnale, una busta di droga e una scatola vuota. Già da tempo si era proposta di scegliere uno di quegli oggetti. Tre semplici oggetti che per lei, però, rappresentano una scelta di vita. Una scelta che non ha mai fatto. Osserva la scatola e i tre oggetti in essa riposti. E sorride. Anzi ride. Ride senza fermarsi. Folle è chi crede che io non abbia da sempre fatto la mia scelta! Compone sul cellulare frettolosamente il numero di telefono di Andrea. Andrea, anche io mi sto innamorando di te. Ma ho paura. “Roberta! Roberta!”. Roberta chiude il telefono. E scappa verso il cofanetto. Prende in mano uno dei tre oggetti. Quella è la sua scelta.

elvira.buttiglione@hotmail.it


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“...un’ idea, un concetto, un’ idea finchè resta un’ idea è soltanto un’ astrazione” (G.G.)


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