Saggi di commento a testi greci e latini, 2

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università degli studi di salerno Dipartimento di Scienze dell’Antichità Quaderni del Dottorato di Ricerca in Filologia Classica

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SAGGI DI COMMENTO A TESTI GRECI E LATINI 2 a cura di Clara Talamo

Pisa 2010


Comitato Scientifico paolo esposito clara talamo paola volpe aurelio pérez Jiménez pierre Judet de la combe edith parmentier

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piazza carrara, 16-19, i-56126 pisa info@edizioniets.com www.edizioniets.com distribuzione pde, via tevere 54, i-50019 sesto Fiorentino [Firenze] isBn 978-884672717-6


Premessa

Per questa raccolta di saggi si ripropone lo stesso titolo, con l’aggiunta della indicazione 2, di un volume pubblicato nel 2008, in quanto, come in quello, i contributi che ne fanno parte nascono dai lavori del dottorato di ricerca in Filologia classica, e il dottorato negli anni 2008 e 2009 si è ancora occupato, fondamentalmente, di commenti. In larga parte, infatti, i dottorandi sono impegnati in tesi che elaborano edizioni critiche, con commenti di tipo letterario e storico, di testi greci e latini, con attenzione anche, negli ultimi anni, alla scoliastica. Su questi temi docenti e dottorandi hanno tenuto seminari, e questa raccolta dà conto di alcuni di essi. Come nel volume precedente, pubblichiamo qui anche lavori di alcuni studiosi che hanno conseguito il dottorato negli anni scorsi. Sono presi in esame: testi tramandati su papiri, che sono commentati dal punto di vista letterario e storico e cioè Ctesia (R. Giannattasio), Iperide (L. Petruzziello), componimenti di età tolemaica (A. Tepedino); testi scoliastici e di grammatici in riferimento all’epica latina, a Virgilio (E. Mastellone, D. Nasti ), a Stazio (A. Sau); testi quali Strabone (M. Polito) e Plutarco (F. Ferraioli), con commento di tipo fondamentalmente storico, come anche Plutarco (F. Tanga), con commento di tipo letterario; in continuità con i lavori pubblicati nel volume del 2008, i testi di Dione di Prusa (R. Scannapieco) e di Giuliano imperatore (C. De Vita); per il tardo antico un testo di Corippo, nei suoi rapporti con la tradizione epica (G. Caramico). Fisciano, 21 ottobre 2009 Clara Talamo



Ctesia di Cnido nel POxy. 2330: una riconsiderazione

1. ctesia di cnido, un autore tutto sommato di secondo piano nella storia della letteratura greca, continua a far discutere ed a richiedere qualche attenzione. nonostante si sia ormai accumulata una cospicua bibliografia e dopo la pubblicazione di una nuova edizione complessiva dell’opera di ctesia, a cura di dominique lenfant1, uno studio abbastanza recente di J.p. stronk si propone ancora una riconsiderazione2. sullo storico di cnido sembra tuttora pesare come un macigno il giudizio tranciante di un’autorità come Felix Jacoby, che riteneva pressoché nullo il suo valore come storico3. una tale valutazione è fondamentalmente connessa alla perdita generale dell’opera di ctesia, che ci è nota in massima parte per tradizione indiretta, attraverso la sintesi, le riprese o le citazioni di altri autori, con la sola eccezione, finora, di un piccolo frammento contenuto nel POxy. 2330, che con buone ragioni si ritiene derivi direttamente dai Persikà4. in effetti nessuna delle fonti, anche quelle più importanti, ci offre testimonianze inoppugnabili, che consentano di formulare un giudizio sufficientemente netto sullo storico, ed è perciò condivisibile, a mio avviso, il richiamo di stronk a considerare con attenzione le peculiarità e le finalità delle fonti tralatrici ed il loro atteggiamento nei confronti di ctesia. proprio per questo mi sembra tanto più necessario tenere in maggior conto l’unico frammento testuale di questo autore a noi pervenuto, rappresentato, come ho detto, dal POxy. 2330. 1

lenfant 2004. stronk 2007. 3 Jacoby 1922. 4 il papiro conserva una parte dell’infelice storia dell’amore del medo stryangaios per la regina dei saci, zarinaia, e precisamente l’inizio della lettera che stryangaios, deciso a darsi la morte, scrive alla donna per rivelarle tutta la sua disperazione. che ctesia avesse narrato tale storia era già noto dalle testimonianze di [dem.] de eloc. 213; nic. dam. FGrHist 90 F 5, tzetz. Chil. 12, 893-898; anon. de mulier. 2; inoltre diodoro siculo, che utilizza ctesia come fonte, in ii 34.3 si sofferma su zarinaia e, pur senza far cenno della storia d’amore, ci fornisce una ulteriore conferma che lo storico cnidio aveva trattato tale vicenda. dal complesso di queste testimonianze e sulla base del confronto con [demetrio] risulta pressoché certa l’attribuzione a ctesia del frammento papiraceo ossirinchita, accolta unanimemente a partire dall’ed. pr., in cui il papiro è definito «the longest continuous piece of ctesias’ ipsissima verba extant» (roberts 1954, p. 82), con l’eccezione di giangrande 1976. 2


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ctesia di cnido nel POxy. 2330: una riconsiderazione

poiché di questo frammento ho effettuato, qualche tempo fa, una nuova collazione, che ha permesso di stabilire il testo in maniera più completa e con letture in qualche punto più persuasive rispetto all’editio princeps5, lo ripresento qui perché, anche se il mio interesse è essenzialmente linguistico e letterario, penso che il testo del papiro sia un punto di partenza imprescindibile per approfondire la discussione degli aspetti più importanti e dare un contributo alla valutazione complessiva dell’autore. 2. POxy. 23306

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. a. s . . . le. apany. t≥e≥~ dæ ªejs< t≥in o{ti a[go≥~ ejnevleipe~. oJ dæ ei\< pen: fevre to; gou`n prw`ton ªgºravmmata ªgºravyw pro;~ Zarei< naivan : kai; gravfei : Struag< gai` ≥ o~ Zareªinºaiva/ ou{tw levgei: ejgw; me;n se; e[swsa, kai; su; diæ ej< me; ejswvqh~, ejgw; de; dia; se; aj< pwªlovºmhn kai; ajpevkteina aujto;~ ejmautovn: ouj gavr moi su; ej< b≥ouvlou carªivºsasqai. ejgw; de; tau`< t≥a ta; kaka≥; kai; to;n e[rwta tovn< de oujk aujto;~ eiJlovmhn, ajllav m≥e [Erw~ ajpwvlesen: oJ de; qeo;~ ou|tovª~º ejstin koino;~ kai; soi; kai; a≥{pas≥i ≥n ajnqrwvpoisin. o{tw/ m≥e;n ou\n ei{lew~ e[lqh/, pleiv< s≥t≥a~ ≥ ge≥ hJdona;~ divd≥w≥s≥in, kai; a[l< l≥a plei`sta ajgaqa; ejpoivhsen auj< t≥ovn, o≥{tan de; ojrgizovmeno~ e≥[lqh/ w{ªsºper ejmoi; nu`n, plei`< sta kªaka; ejrºgasavmeno~ to; teleu< tai`on provrrizon ajpwvlesen kai; ejx ev≥ tªrºeyen. tekmaivromai de; tw/` ejmw/` qanavtw/. ªejºgw; gavr soi ka≥taravsomai me;n ouj< devn, ejpeuvxomai dev soi th;n

giannattasio 2003; il testo del frammento da me stabilito è accolto in lenfant 2004, p. 91 (F8b), con una sola variazione, su cui mi soffermo più avanti; cfr. pure stronk 2007, pp. 52-54. 6 per la descrizione del papiro e le sue caratteristiche papirologiche e paleografiche rinvio, oltre che all’ed. pr. (roberts 1954), a giannattasio 2003, con bibliografia essenziale sull’argomento.


Rosa Giannattasio Andria

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dikaioªtºavªtºhn eujchvn: eij me;n su; ejme; ªdivkaºia ejpoivhsa~, pol 4 s. Zarei∕e ;n vaian legit ed. pr. 6 Zareªienºaiai ed. pr. 13 s. alla me erw~ apwlesen vidi, haec verba in ed. pr. desiderantur 18 ge Ú te maas ap. Jacoby 20 otan legi, otwi roberts, sed vestigiis nullo modo congruenter de orgizomeno~ vidi, diorgizomeno~ perperam legit roberts 21 e[lqhãià Jacoby wªsºper legi, oªionºper ed. pr. 23 prorizon p (rr. in mg.) 24 ejxevtriyen lenfant, acc. stronk 29 ªdºikªaºia ed. pr., coll. nic. dam., ªpºoªlºla ex.gr. maas ap. roberts fin. pol¬ªlw`n ex. gr. con. gigante traduzione ……… egli disse: «ebbene, per prima cosa scriverò una lettera a zarinaia». e scrive: «stryangaios indirizza a zarinaia questo messaggio: io ti salvai e tu fosti salvata per mano mia, ma io per causa tua fui rovinato e mi diedi la morte di mia mano, perché tu non volevi compiacermi. non scelsi io questi mali e questo amore, ma eros mi ha perduto. Questo dio è comune a te e a tutti gli uomini: a colui al quale si accosta con benevolenza concede moltissimi piaceri e moltissimi altri benefici gli rende, quando invece giunge adirato, come per me ora, procura moltissimi mali e alla fine lo rovina alla radice e lo getta via. ne sono prova con la mia morte. io contro di te non scaglierò alcuna maledizione, anzi farò per te la preghiera più giusta: se tu ti comportasti in modo giusto verso di me…». 3. prima della pubblicazione del papiro era convinzione diffusa che la lingua usata da ctesia fosse il dialetto ionico, principalmente sulla base della testimonianza di Fozio Bibl. 72, 45a 5 ss. kevcrhtai de; th`/ ∆Iwnikh`/ dialevktw/, eij kai; mh; diæ o{lou, kaqavper ÔHrovdoto~, ajlla; katæ ejniva~ tina;~ levxei~7. a ciò si aggiungeva la considerazione che il dialetto ionico era la lingua tradizionale della storiografia, usata dai logografi e da erodoto, al quale ctesia innegabilmente si riferisce per distinguersi e/o criticarlo8. il POxy. 2330 ha restituito un frammento testuale, sia pure di estensione limitata rispetto ad un’opera di consistente lunghezza, in cui, come affermava l’ed. pr., «ionic influence is noticeable for its absence»9, e ciò spiega il grande rilievo dato da tutti gli studiosi a questo aspetto. nel testo offerto dal papiro infatti si riscontrano alcuni precisi elementi che si possono linguisticamente definire attici: la conservazione di a– “puro”, laddove in 7

FGrHist 688 t 13; cfr. anche 45 a 20-21 (= FGrHist 688 t 10) ajnegnwvsqh de; aujtou` kai; ta; ∆Indika; ejn eJni; biblivw/, ejn oi|~ ma`llon ijwnivzei. 8 sul rapporto di ctesia con erodoto e soprattutto per un confronto dei due autori dal punto di vista storiografico cfr. lenfant 1996, lenfant 2004, pp. xxvii-xxxii. 9 roberts 1954, p. 82.


Nota a Iperide, Epitafio 27: sul problema della dote pubblica alle ‘orfane’ di guerra

i lovgoi ejpitavfioi pronunciati nell’atene di v e iv sec. a.c. in onore dei caduti in guerra e a noi noti, nella sezione dedicata alla paraivnesi~ e alla paramuqiva per consolare i parenti della grave perdita subita e suggerire la giusta condotta da tenere per il futuro, indicano tra gli onori concessi alle famiglie di chi ha sacrificato la propria vita per il bene della patria l’impegno della povli~ a prendersi cura degli orfani, provvedendo alla loro crescita e alla loro formazione1. Benché non sia chiaro a quando risalga tale provvedimento, se alla legislazione soloniana che affida all’arconte la cura delle vedove e degli orfani2 o se sia successivo, è comunque certo che ai figli dei caduti in guerra, allevati sotto la tutela economica della città, nel corso di una cerimonia inserita nelle grandi dionisie veniva donata una panoplia, mentre l’araldo annunciava ciò che la povli~ aveva fatto per loro e ciò che essi sono ora chiamati a fare per la povli~. nel lovgo~ ejpitavfio~ iperideo vi è, però, un riferimento al destino che attende le sorelle dei caduti che, a mio avviso, merita di essere riconsiderato al fine di esaminare il complesso problema della dote alle orfane e/o discendenti degli eroi di guerra e dei benefattori della città. iperide, a col. X 37-Xi 13, afferma: Dia; touvtou~ patevre~ ∕ e[ndoxoi, mhtevre~ perivbleãpÃtoi toi'~ ∕ polivtai~ gegovnasi, ajdelfai; gavmwn ∕ tw'n proshkovntwn ejnnovmw~ tetu∕chvkasi kai; teuvxontai, pai'de~ ejfov∕dion eij~ th;n pro;~ to;n dh'mon e[u[noia]n ∕ th;n tw'n oujk ajpolwlovtwn ∕∕ ajrethvn «grazie a loro i padri sono diventati famosi e le madri sono guardate con ammirazione dai cittadini, le sorelle hanno conseguito e conseguiranno nozze adeguate secondo la consuetudine, i figli avranno come risorsa per ottenere la benevolenza del popolo il valore di questi uomini che non si devono definire morti»

per il momento traduco gavmwn tw'n proshkovntwn ejnnovmw~ «nozze adeguate secondo la consuetudine», perché permette di evidenziare il problema esegetico connesso al passo; l’uso di ejnnovmw~, infatti, dà adito a due interpretazioni: a)

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vd. thuc. ii 46.1; lys. ii 75; demosth. lX 36; hyp., Ep. 42. la fonte è in d.l. i 55-6; a favore di tale ipotesi si sono schierati martin 1886, p. 22; gossman 1908, p. 35; schneider 1912, p. 73; Wenz 1913, p. 7; anche hammond 1969, pp. 118-119, non esclude questa possibilità. 3 il testo e la numerazione delle colonne e dei paragrafi sono quelli della mia edizione dell’orazione, vd. petruzziello 2009. il verbo di cui pai'de" è soggetto, e{xousi, è alla successiva l. 7 del testo. 2


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nota a iperide, Epitafio 27

nozze degne del loro status di parenti di caduti in guerra e, quindi, ambite dagli uomini migliori della città, oppure b) nozze adeguate a quelle fanciulle di cui, secondo il novmo~, la città si prende cura conferendo loro una dote congrua al prestigio familiare. riporto le precedenti traduzioni nelle edizioni dell’orazione; colin traduce «leurs soeurs ont trouvé ou trouveront des unions dignes d’elles dans le cadre de nos loi», Burtt «sisters, through the benefit of law, have made, and will make, marriage worthy of them», marzi «le loro sorelle hanno conseguito o conseguiranno legittimamente nozze degne di loro», e, infine, la coppola scrive «le sorelle hanno ottenuto e otterranno nozze degne nel rispetto della legge». tutte le traduzioni sembrano orientate a un’interpretazione dell’avverbio ejnnovmw~ con uno specifico valore di ‘conformemente alla legge’, ma poiché sulla normativa ateniese in merito alla dote pubblica siamo del tutto privi di testimonianze fino alla seconda metà del iii sec. a.c., può essere utile esaminare le disposizioni adottate in situazioni analoghe da altre città; due testi provenienti rispettivamente da taso e rodi possono offrire un adeguato confronto. Taso pouilloux 1954 i 141, ll. 7-22 ajnagravfein de; ∕ aujtw'n ta; oJnovmata patrovqen eij~ tou;~ jAgaqou;~ tou;~ ∕ polemavrcou~ kai; to;n grammateva th'~ boulh'~ kai; kalei'sqai ∕ aujtw'n tou;~ patevra~ kai; tou;~ pai'da~ o{tan hJ povli~ ejntevmnhi ∕ toi'~ jAgaqoi'~.....didovnai d’uJpe;r aujtw'n eJkavstou to;n ∕ ajpodevkthn o{son uJpe;r timwvcwn lambavnousi: kalei'sqai ∕ d’aujtw'n tou;~ patevra~ kai; tou;~ pai'da~ kai; ej~ ∕ proedrivhn ej~ tou;~ ajgw'na~ cwrivon de; ajpodeiknuvnein ∕ aujtoi'~ kai; bavqron tiqevnai touvtoi~ to;n tiqevnta tou;~ ajgw'na~: ∕ oJpovsoi d’ a[n aujtw'n pai'da~ katalivpwsi, o{tan ej~ th;n ∕ hJlikivhn ajfivkwntai, didovtwsan aujtoi'~ oiJ polevmarcoi, ∕ a]m me;n a[rsene~ e[wsin, eJkavstwi knhmi'da~, qwvrhka, ∕ ejgceirivdion, kravno~, ajspivda, dovru, mh; ejlavssono~ a[xia ∕ [t]riw'n mnw'n, JH[r]akleivoi~ ejn tw'i ajgw'ni kai; ajnagge[il]avtw[san] ∕ [ta; oJnovmata]: a]n de; qugatevre~ w|sin, eij~ penqevrio[n ∕ o{tanî tessevrwn kai; devka ejtw'n gevnwn[tai «i polemarchi e il grammateuv~ della boulhv iscrivano i loro nomi e i patronimici tra quelli degli jAgaqoiv e convochino padri e figli qualora la città offra un sacrificio commemorativo per gli eroi… l’esattore versi a ciascuno di loro quanto si riceve per la carica di timuchi. i genitori e i figli siano invitati a sedere ai posti d’onore ai giochi, il cui organizzatore assegna un seggio per loro e indica i posti. per quanti di loro hanno lasciato figli, quando essi raggiungeranno la maggiore età, i polemarchi diano a ciascuno di loro, se sono maschi, scrinieri, una corazza, un pugnale, un elmo, uno scudo, una lancia, il cui valore non deve essere inferiore alle tre mine nella gara durante gli eracleia e proclamino anche i loro nomi; se, invece, sono femmine, per la loro dote, quando (?) avranno quattordici anni»


Luisa Petruzziello

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l’iscrizione che pouilloux datava tra il 360 e il 340 a.c.4 regolamenta i funerali degli jAgaqoiv: l’espressione a[ndre~ ajgaqoiv, riferita ai caduti in guerra, è frequentissima nelle orazioni funebri ateniesi5 e risale all’elegia parenetica di tirteo (12. 15, 20 W. = 9 g.-pr.) che definisce ajnh;r ajgaqov~ il suo modello di eroe, il quale compie il proprio dovere di cittadino assicurando la salvezza alla sua patria e ricorre in simonide (531 PMG = 26p.), che chiama a[ndre~ ajgaqoiv i caduti delle termopili perché con il loro coraggio resero la grecia gloriosa; le norme riportate dall’epigrafe si riferiscono, dunque, ai caduti in guerra e ai loro discendenti. il testo dell’iscrizione prescrive una serie di riti e norme funebri che presentano significative similitudini con quelli istituiti e celebrati per gli eroi di guerra ad atene, sia in merito alla disciplina civica del dolore, sia per il sacrificio compiuto in loro onore, la pratica dell’ajgw;n ejpitavfio~6, il ruolo del polemarco e il mantenimento a spese della città degli orfani. il decreto di taso dispone di limitare le manifestazioni pubbliche di dolore ai cinque giorni successivi alla sepoltura (ll. 3-4): penqiko;n de; mhde;n poieivtw mhdei;~ ejpi; toi'~ ajgaqoi'~ ajndravsi plevon h] ejn pevnte hJmevrai~ e in modo ancora più perentorio: khdeuvein de; mh; ejxevstw, dove khdeuvein va inteso nel senso di «celebrare i funerali». tale prescrizione richiama il superamento del qrh'no~ promosso nelle orazioni funebri ateniesi per esaltare gli aspetti positivi e consolatori della gloriosa morte di coloro che si sacrificano per la patria, da considerare fortunatissimi, perché sono morti lottando per gli ideali più splendidi e, scegliendo la fine più nobile, hanno ottenuto un ricordo eterno e onori invidiati da tutti7. gli a[ndre~ ajgaqoiv, in quanto benefattori della patria, non partecipano più alla

4 sono state avanzate altre proposte di datazione: F. sokolowski, Lois sacrées des cités grecques, paris 1969, n. 64 ipotizza che l’iscrizione risalga alla fine del v o all’inizio del iv sec. a.c., mentre nell’edizione del testo a cura dell’institut Fernand courby, Nouveau Choix d’inscriptions grecques: text, traductions, commentaires, paris 1971, n. 19 viene datata intorno al 350 a.c. 5 thuc. ii 35.1; lys. ii 5, 27, 51; pl., Mx. 237a, 238c, 242b, 243c, 245e, 246b,d; hyp., Ep. 1, 8, 29. 6 le fonti (diod. Xi 33. 3; lys. ii 80; pl., Mx. 249b; demosth. lX 36) presentano molti aspetti problematici in relazione alla celebrazione dell’ajgw;n ejpitavfio~; a mio avviso, il tavfo~ era una cerimonia distinta dall’ajgwvn, in quanto il rito funebre era una cerimonia occasionale, vincolata alle esigenze e alle circostanze della guerra e, quindi, non celebrata a una data fissa, mentre l’ajgwvn era molto probabilmente una festa commemorativa, di ricorrenza annuale. se è verosimile che i giochi funebri fossero diventati una celebrazione pubblica all’indomani delle guerre persiane, diverse sono le ipotesi sulla data della festa nel calendario ateniese: Jacoby 1944 ritiene che l’ajgwvn si svolgesse, almeno per il periodo classico, durante i genesia, mentre martin 1886, pp. 31-32 e clairmont 1983, pp. 26-28, lo collegano ai theseia. alcune epigrafi risalenti al ii/i sec. a.c. (IG ii2 1006, 1011, 1028, 2997, 2998, 2999) evidenziano il ruolo predominante degli efebi e lo svolgimento della lampadodromia e della melevth ejn o{ploi~. 7 lys. (ii 77) ajlla; ga;r oujk oi\dæ o{ ti dei' toiau'ta ojlofuvresqai; thuc. (ii 44. 1) oujk ojlofuvromai ma'llon h] paramuqhvsomai; pl. (Mx. 248c) w{ste prevpei aujta; ma'llon kosmei'n h] qrhnei'n; hyp. (Ep. 41-2) ouj ga;r qrhvnwn a[xia pepovnqasin, ajll’ejpaivnwn megavlwn pepoihvkasin. eij de; ghvrw~ qnhtou' mh; metevscon, ajll’eujdoxivan ajghvraton eijlhvfasin, eujdaivmonev~ te gegovnasi kata; pavnta.


Cultura femminile e libri nell’Egitto greco-romano dalle lettere su papiro a clara talamo e alla sua dedizione all’insegnamento e alla ricerca

1. la vita delle donne comuni di città e di campagna che vissero nell’egitto greco-romano culturalmente eterogeneo è testimoniata in numerosi documenti su papiro. il saper leggere e scrivere in greco a vari livelli era talvolta possibile anche per le ragazze di ceto medio-basso, ma privilegio soprattutto di donne di classe elevata e tra gli stessi uomini l’abilità di scrivere si riduceva rapidamente nella scala sociale1, mentre la gran parte della popolazione era assolutamente analfabeta. naturalmente le competenze dello scrivente si adattavano alle esigenze dei contesti nei quali era impiegata la scrittura: dagli studiosi che annotarono opere letterarie agli scrittori “lenti” che apposero la loro firma in calce a documenti dei quali forse non capivano neppure contenuto e forma. È noto infatti che era normale anche per chi fosse capace di scrivere, il servirsi di scribi che preparavano i documenti o stendevano sotto dettatura le lettere, talvolta rielaborate dagli stessi e in calce alle quali erano apposti generalmente saluti e firma. nell’egitto, come in tutta l’antichità, le donne erano escluse da posizioni e funzioni pubbliche e i papiri documentano il ruolo che esse svolgevano nella conduzione della casa: dalla cura dei figli, la preparazione quotidiana del cibo, la raccolta dell’acqua dal pozzo, la cottura del pane, la filatura e la tessitura, anche in case ricche con schiavi e personale a pagamento, fino al governo della servitù e all’amministrazione delle proprietà. i testi, tuttavia, non testimoniano le modalità del tradizionale apprendimento delle abilità domestiche dalle loro madri, perché, allora come oggi, questo tipo di lavoro era “invisibile”. infatti l’addestramento delle schiave nei vari mestieri, come la lavorazione della lana e di altre fibre tessili, è conosciuto più e meglio di quello delle ragazze libere, poiché la formazione di una schiava era un investimento economico molto produttivo per i padroni2. sono soprattutto gli archivi a presentare in un quadro completo le vicende di più generazioni di una stessa famiglia e il ruolo delle donne al suo interno, perché abbracciano vari livelli sociali, da quelli dei ricchi e possidenti ai sacerdoti del tempio, agli umili contadini, commercianti e burocrati di basso livello. in parti-

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alcuni documenti, soprattutto ricevute, affitti, contratti di vendita e di prestito recano una formula nella quale si dichiara di scrivere per conto di qualcuno che non sa farlo o che «scrive lentamente». 2 cfr. rowlandson 1996, p. 299.


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cultura femminile e libri nell’egitto greco-romano

colare, le lettere private ci mettono di fronte agli eventi quotidiani e ci svelano che soprattutto donne ricche e di alto rango sociale avevano possibilità di imparare a leggere e a scrivere e, tra le lettere femminili, ci sono alcune autografe di donne normalmente in grado di apporre di loro pugno i saluti finali. per il periodo tolemaico, sia le poche lettere di donne dell’archivio privato di zenone di cauno3 agente di apollonio, ministro delle finanze di tolomeo ii, sia le altre al di fuori di quell’àmbito non documentano specifici interessi culturali femminili; infatti le prime sono petizioni di donne dipendenti di apollonio scritte per chiedere riparazioni di torti subiti, le seconde provengono dall’interno o intorno ai quadri del potere, come conferma l’alta qualità della scrittura. il dato che emerge chiaro, tuttavia, da alcune lettere isolate e di provenienza sconosciuta, è la preoccupazione e l’interesse delle donne per l’educazione dei figli. in una lettera4 (ii sec. a.c.), una donna della quale non si conosce l’identità, si mostra orgogliosa dei progressi del figlio5, evidentemente greco, nell’imparare gli aijguvptia gravmmata, il demotico, che poteva essere per il giovane fonte di guadagno e un investimento per il futuro: punqanomevnh manqav∕nein se aijguvptia ∕ gravmmata sunecavrhn soi∕ kai; ejmauth'i, o{ti∕5 nu'n ge paragenovmeno" ∕eij" th;n povlin didavxei" ∕ para; Falou..h'ti ijatrokluvsthi ta; ∕ paidavria kai; e{xei" ∕ ejfovdion eij" to; gh'ra". «so che stai imparando le lettere egizie e mi rallegrai con te e con me del fatto che, ritornato in città, insegnerai ai piccoli schiavi di phalos, medico specialista in clisteri, e avrai sostentamento per la vecchiaia».

un’altra lettera più tarda6, scritta con semplicità in vece della madre malata e lontana, da apollonia e eupos, alle sorelle più piccole, rasion e demarion, ci svela insieme alla preoccupazione delle due donne ad esortare al filomaqei`n, il tipo di vita delle fanciulle nell’egitto del i sec. a.c.: …kaªlw'"º∕5de; poihvsei" toi'" iJeroi'" luv∕cnon a{ptousa kai; ejkti∕navssousa ta; proskefavlai∕a. filomavqei de; kai; mh; lupou` ∕ peri; th'" mhtrov": h[dh ga;r∕10 komyw'" e[cei. Prosdevcesqe ∕de; hJma'". e[rrwsqe. ∕kai; mh; pai'ze ejn th'/ aujlh'/, ajlla; ∕ e[sw eujtavktei: ejpimevlou de; ∕Titova" kai; Sfaivrou. «… fai bene ad accendere la lampada nel tempietto e a sbattere i cuscini. ama l’istruzione e non preoccuparti della mamma: infatti sta già bene. aspettateci. state bene. e non giocare in cortile, ma comportati bene in casa; prenditi cura di titoas e sphairos».

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rowlandson 1996, pp. 95-98; Bagnall-cribiore 2006, pp. 97-104. UPZ i 148,1-9. 5 È discusso se la lettera sia di una moglie al marito o di una madre al figlio: cfr. Bagnall-cribiore 2006, p. 113 e r. scholl, Corpus der ptolemaeischen Sklaventexte, stuttgart 1990, iii.2, pp. 695-697. 6 P.Athen. 60: cfr. Bagnall-cribiore 2006, pp. 77, 374-375. 4


Adele Tepedino Guerra

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in età romana, apollonous scrive al marito terentianus, che militava nell’esercito romano, rassicurandolo della salute e dell’educazione dei figli, affidati a un’insegnante7: …kai; mºh; loupou` peri; tw`n ∕ ªtºevknwn: kªalºw`ª"º diavkentai kai; eij" ∕10 deskavlhn ªpºaredreuvousi8. «… e non preoccuparti per i bambini. stanno bene e vanno da una maestra».

Questa lettera è interessante anche per la presenza del termine deskavlh, usato indifferentemente in altri rarissimi testi al posto di devskalo"9, abbreviazione di didavskalo"10 che è riferito anche all’uomo, come appare in una lettera cristiana del iv sec.11, indirizzata «all’ottimo philoxenos maestro» – tw/º` panarivstw/ Filoxevnw/ did(askavlw/) –, ma che alla l. 5 menziona Kurivan th;n didavskalon. se per le donne si esclude l’insegnamento di dottrine religiose affidate, in àmbito cristiano, al clero e agli uomini, bisogna pensare che qui ci si muova in un ambiente gnostico, nonostante l’assenza di tali testi nel iv sec. che possano testimoniare donne con il titolo di hJ didavskalo". Forse Kuriva poteva essere un’insegnante elementare12, anche se non si può essere certi a quale materia d’insegnamento fosse collegato tale titolo. infatti un altro papiro del i sec. d.c.13 rivela soltanto che serapias è una devskalo" (ªSaºrapia;" devskalo") e, similmente, da alessandria una madre14 scrive ai due figli ptolemaios e apollinaira una lettera piena di affetto e, alla fine, tra gli amici che li salutano (ll. 9-10), cita la nutrice e l’insegnante, E J rªmºanou'bi" hJ trofov", A j qhnai;" hJ devskalo". origenes15, nel iii sec d.c., conclude la sua lettera a serenos salutando tutti gli amici e th;n deskavlhn, mentre la lacunosità della lettera cristiana del iv sec. d.c., conservata in P.Iand. vi 101,5,8 non permette di capire se il destinatario sia o meno una donna: ªkuvºriev mou dev<s>kale. un contratto di apprendistato (iii sec. d.c.)16, tuttavia, nel cui àmbito sono soltanto uomini a essere indicati come “insegnanti”, riferisce – testimonianza unica – il titolo hJ didavskalo" ad una donna, aurelia libouke, per l’insegnamento dell’arte della tessitura che ella per un anno impartì nella sua casa ad un fanciulla, forse una schiava17, ritornata in

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P.Mich. viii 864, 8-10 del 99 d.c. cfr. infra. 9 cfr. cribiore 1996, pp. 22-24. 10 cfr. n.a. iannaris, An Historical Greek Grammar, Chiefly of the Attic Dialect, london 1897, p. 737. 11 SB Xiv 11532; cfr. tibiletti, pp. 192-193. 12 cfr. cribiore 2001, pp. 80-81. 13 P.Mich. ii 123, 21, 9. 14 BGU i 332 del ii/iii sec. d.c. 15 P.Oxy. XXXi 2595. 16 SB Xviii 13305. 17 p. van minnen, «zpe» cXXiii, 1998, pp. 201-203 propone a l. 8 non paidivskhºn≥ ma quºg≥a≥ªtºe≥vra. il papiro, però, nelle prime 22 linee, è molto lacunoso. 8


Una nota a Strabone XII 3, 4: sulla fondazione di Eraclea Pontica ad opera dei Milesi*

la fondazione di eraclea pontica è attribuita dalle fonti o a megaresi e Beoti1 o ai soli megaresi2 o anche, isolatamente, ai soli Beoti3. su una linea totalmente a sé sta strab. Xii 3, 4: tou;" de; Mariandunou;;" kai; tou;;" Kauvkwna" oujc oJmoivw" a[pante" levgousi: th;n ga;r dh; JHravkleian ejn toi'" Mariandunoi'" iJdru'sqaiv fasi Milhsivwn ktivsma tivne" de; kai; povqen oujde;n4 ei[rhtai. oujde; diavlekto" oujd’a[llh diafora; ejqnikh; peri; tou;;"

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Questo contributo nasce da una lezione, tenuta al dottorato di ricerca in Filologia classica il 21 gennaio 2008, in cui rielaboravo e discutevo, in rapporto al passo in esame, quanto stava emergendo dallo studio sui frammenti della storiografia locale milesia. alla prof. clara talamo, coordinatore del dottorato, va il mio ringraziamento per avermi offerto, tutti gli anni, l’opportunità di tenere lezioni al dottorato e discutere in quella sede diversi argomenti della mia ricerca; a lei, che fin dagli anni della tesi di laurea è guida e punto di riferimento della mia ricerca e poi della mia attività universitaria, desidero esprimere i più sinceri sentimenti di gratitudine, riconoscenza e affetto. 1 ephor., FGrHist 70 FF 44a (Schol. in Ap. Rhod. ii 845), 44b (Schol. in Ap. Rhod. ii 351 = euphor., fr. 177 powell, che conserva anche il nome dell’ecista, gnesioco, probabilmente da leggere anche nella lezione ..nhvsicon dei manoscritti di plut., Pyth. or. 27 = Mor. 408a: l’integrazione/correzione Gnhvsiocon è proposta da paton 1929 ed accolta da Babbit 1936, Flacelière 1974, schröder 1990 e valgiglio 1992); ap. rhod. ii 846 s.; [skymn.], fr. 31 marcotte (= vv. 972-975 GGM, che ci fornisce la data della fondazione: kaq’ ou}" crovnou" ejkravthse Ku'ro" Mhdiva"); paus. v 26, 7. 2 Xen., An. vi 2, 1, donde probabilmente arrian., Peripl. P. Eux. 18 (GGM i 383) e diod. Xiv 31, 3; ap. rhod. ii 747 s. per una lettura dell’esistenza di un racconto solo ‘megarese’ e di uno ‘megaresebeotico’ cfr. asheri 1972, pp. 23-28. dubbi circa la storicità della tradizione sulla partecipazione dei Beoti sono stati espressi da ehrhardt 1995, p. 38 s.; 1996. 3 iustin. Xvi 3, 4-7, il cui intero excursus su eraclea, secondo desideri 1967, p. 391, nota 123, dipenderebbe da nymphys (vd. anche suid. s.v. JHrakleivdh~). in ogni caso, ad eraclea la sola impronta ‘visibile’ è quella megarese (cfr., tra gli altri, recentemente avram 2009, p. 221). 4 dove i codici danno concordemente oujdevn (e già Xylander 1571 emendava in oujdev), meineke 1853 corresse in oujdeniv e la sua correzione è stata recentemente riproposta da s. radt, il quale ha sentito il bisogno di intervenire ulteriormente integrando un <d’> dopo diavlekto". tuttavia, il testo tràdito, così come è, ha un suo senso e non dà particolari problemi che giustifichino un intervento, né la congettura risponde ad un uso attestato nel geografo: per questa ragione nel testo ho mantenuto la lezione oujdevn. È da osservare che l’emendamento avrebbe serie ripercussioni sul significato delle parole di strabone, il quale sta denunciando una mancanza di informazioni: se la denuncia del geografo è «non viene detto niente (oujdevn)», egli può avere dinanzi a sé una o più fonti in cui non trova nessun cenno alla cosa; se invece la denuncia del geografo fosse «non viene detto da nessuno (oujdeniv)», egli avrebbe davanti necessariamente più fonti o una fonte che fa un ampio status quaestionis sull’argomento. l’oujdeniv congetturato da meineke introdurrebbe nel testo il riferimento ad una pluralità di fonti direttamente od indirettamente disponibili a strabone; l’oujdevn


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una nota a strabone Xii 3, 4

ajnqrwvpou" faivnetai, paraplhvsioi d’eijsi; toi'" Biqunoi'": e[oiken ou\n kai; tou'to Qravikion uJpavrxai to; fu'lon. Qeovpompo" (theop., FGrHist 115 F 388) de; Mariandunovn fhsi mevrou" th'" Paflagoniva" a[rxanta uJpo; pollw'n dunasteuomevnh" ejpelqovnta th;n tw'n Bebruvkwn katascei'n, h}n d’ejxevlipen ejpwvnumon eJautou' katalipei'n. ei[rhtai de; kai; tou'to o{ti prw'toi th;n JHravkleian ktivsante" Milhvsioi tou;;" Mariandunou;;" eiJlwteuvein hjnavgkasan tou;;" prokatevconta" to;n tovpon w{ste kai; pipravskesqai uJp∆ aujtw'n, mh; eij;" th;n uJperorivan dev (sumbh'nai ga;r ejpi; touvtoi"), kaqavper Krhsi; me;n ejqhvteuen hJ Mnw/va kaloumevnh suvnodo", Qettaloi'" de; oiJ Penevstai5.

il passo in esame attribuisce senza possibilità di dubbio in un primo momento la fondazione (Milhsivwn ktivsma), in un secondo la prima fondazione (prw'toi th;n JHravkleian ktivsante" Milhvsioi) della città ai milesi. la discrepanza tra la posizione del geografo e quella delle altre fonti6 veniva evidenziata già nel Xii secolo dal patriarca eustazio7 e, a partire dal XiX, gli studiosi moderni hanno assunto posizioni diverse verso la questione, che ha chiaramente a che fare con i rapporti tra mileto e megara nella colonizzazione del ponto eusino e della propontide8. alla fine dell’ottocento J.h. schneiderwirth proponeva di leggere la notizia del geografo nel senso che ad un antico insediamento milesio fosse subentrata una successiva ktivsi" ad opera di megaresi e Beoti9; la stessa ipotesi veniva formulata da K. hanell10 e, negli anni ottanta, è stata riproposta da F. lasserre11: l’elemento ‘forte’ in tal senso sarebbe costituito dal fatto che anche per callati e chersoneso, subcolonie di eraclea, si ripropone l’ipotesi di un rapporto con mileto (per la prima ritorna l’espressa attribuzione a mileto da parte di una fonte isolata12, per la seconda la considerevole presenza di onoma-

tràdito, invece, non implica necessariamente tale pluralità (se sulla cosa «non viene detto nulla», la ricerca da parte del geografo può essere stata fatta in più fonti come pure in un unico testo che ha a disposizione sull’argomento). 5 la punteggiatura utilizzata nel passo rispecchia l’esegesi proposta nelle pagine seguenti: cfr. infra. 6 in particolare di senofonte: cfr. nota seguente. 7 eust., ad Dion. Per. 787: … kai; oiJ Mariandunoi;, o{pou kai; hJ kata; to;n Povnton ÔHravkleia, ejpwvnumo" me;n ÔHraklevo", Milhsivwn de; ktivsma kata; to;n Gewgravfon. Xenofw'n mevntoi fhsi;n o{ti hJ ejn tw/' Povntw/ ÔHravkleia Megarevwn a[poiko" ... . È da ricordare altresì il tentativo di alcuni moderni di correggere nel nostro passo del geografo il tràdito Milhsivwn in Megarevwn entrambe le volte che ricorre: cfr. apparato radt 2004. 8 su questo argomento gli studiosi sono divisi, alcuni sostenendo l’ipotesi dell’alleanza (cfr. hanell 1934, pp. 128-133; legon 1981, p. 83; graham 1982, p. 124; malkin-shmueli 1988, p. 32; hind 1998, p. 134; antonetti 1996, p. 84 s.; vinogradov 2007, p. 470 ss.) altri quella dell’antagonismo tra le due città per la politica coloniale nella zona (cfr. loukopoulou 1989, pp. 57-61). 9 schneiderwirt 1882, p. 8 (non vidi). 10 hanell 1934, p. 135 (sembrerebbe indipendentemente da schneiderwirt, che egli non cita). 11 lasserre 1981, p. 156 s. 12 pompon. mel., Chor. ii 2, 2 (22).


Marina Polito

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stica milesia13), il punto di debolezza l’assenza di elementi ionici ad eraclea dal punto di vista sia linguistico sia istituzionale sia religioso. diversamente un gran numero di studiosi, a partire da W. ruge14, ha preferito pensare ad un errore, una confusione da parte di strabone, che sarebbe stato tratto in inganno dal ‘monopolio’ milesio del ponto eusino (in esso, prima della fondazione di eraclea, tutte le colonie erano milesie)15, e considera pertanto la fondazione milesia di eraclea una notizia priva di valore: è questa la posizione, tra gli altri, di d. magie16, F. Jacoby nel commento al F 44 di eforo17, s. mazzarino18, a.J. graham19, J. hind20. lo stesso Jacoby, che nel commento a eforo aveva creduto all’errore da parte di strabone, tuttavia nel commento al F 1 di promathidas di eraclea, sia pur cursoriamente, faceva riferimento al nostro passo come ad un tentativo di rivendicazione della colonia megarese da parte di mileto e si domandava se la cosa andasse letta in rapporto ad un frammento dello storico milesio meandrio dove pure intravedeva una simile possibilità21; l’ipotesi dell’esistenza di rivendicazioni milesie di un primo insediamento ad eraclea veniva più espressamente formulata da d. asheri, per il quale «l’affermazione di strabone, presa alla lettera, può essere respinta come falsa» ma responsabile di tale errore non è lui stesso bensì uno «scrittore di iv-iii secolo che riflette la tradizione milesia»22. più in generale l’ipotesi che esistesse una pretesa di mileto di essere la prima fondatrice di eraclea, in seguito, era riconosciuta almeno in parte, anche se su posizioni diverse, da s. Burstein23. più recentemente s.J. saprykin e poi J. vinogradov e m.i. zolotarev, in un contesto di studi che oggi tende a rivalutare l’ipotesi di una effettiva

13 la

presenza di ceramica milesia già nel vi secolo non costituisce un elemento determinante nella direzione di una fondazione milesia: cfr. saprykin 1997, p. 23, nota 8. sull’onomastica milesia negli ostraka di chersoneso cfr., da ultimo, vinogradov 2007, p. 466. 14 ruge 1912, col. 433 s. 15 sul ruolo dominante, se non esclusivo, che le fonti attribuiscono ai milesi nella colonizzazione del ponto eusino, cfr. loukoupoulou 1989, p. 49 s., nota 3, con raccolta delle fonti; sull’argomento anche asheri 1972, p. 17; Burstein 1974, p. 14; graham 1982, p. 124. 16 magie 1950, p. 1191, nota 23. 17 FGrHist iii c, Kommentar, p. 52. 18 mazzarino 1964, p. 81. 19 graham 1982, p. 124. 20 hind 1998, p. 134. 21 «la tradizione conosce tizia prima di tutto presso i mariandini. ci si domanda allora se esista una connessione [scil. del tizia dattilo ideo a mileto in FGrHist 491 F 3 = FStGr F 6: cfr. infra] con la pretesa di mileto di essere la città madre di eraclea (strab. Xii 3,4)?» (Jacoby, FGrHist iiib, Kommentar, p. 257; noten, p. 168, nota 13). 22 asheri 1972, p. 17. per lo studioso si tratta di rivendicazioni prive di fondamento dal momento che contatti ed anche momentanee occupazioni intervenuti in quella zona principalmente a fini commerciali non condussero alla costruzione di reali poleis. in ogni caso, continua asheri, la ellenizzazione della mitologia mariandina, strumento di tali rivendicazioni (cfr. infra), non è anteriore al vii secolo, dal momento che tale mitologia è conosciuta ad esiodo ma sconosciuta ad omero (ibid., pp. 17, 20). 23 Burstein 1974, p. 15. dove già lotze 1959, p. 75, aveva ipotizzato nel geografo un’intenzionale critica alla narrazione di posidonio (FGrHist 87 F 8, che parlava di una sottomissione volontaria dei mariandini agli eracleoti), Burstein evidenzia l’accoglimento da parte di strabone di una versione diversa e pensa che «una più tarda situazione sia stata retrodatata alla supposta prima colonizzazione per aggiungere sostanza alla pretesa che mileto fosse l’originale fondatrice di eraclea».


La ‘degenerazione’ di Neottolemo tra paradigmi retorici e culturali. Da Virgilio agli scoliasti l’epiteto degener rientra, per quel che è a noi noto, tra i neologismi virgiliani occorrenti nell’Eneide1. retroformazione da degenerare2, il denominativo di genus già attestato nella prosa di cicerone3, è impiegato dal poeta con una frequenza molto ridotta: due presenze (Aen. ii 549; iv 13), che sembrano, tuttavia, confermare la sua attenzione per il vocabolo. ogni volta degener ricorre in posizione enfatica e nell’aspetto prosodico valido a garantire una tendenza dell’esametro privilegiata nel poema: il dattilo con discordanza piede-parola in prima sede. inoltre, nei limiti dell’esigua incidenza è già polisemico. equivale a vilis in Aen. iv 13 (Degeneres animos timor arguit…)4; in unione con Neoptolemus (Aen. ii 549) è, invece, nell’accezione etimologica: denota il crudele figlio di achille come recedens dal proprio gevno~5. in tale valenza rappresenta l’antonimo di generosus6 e appartiene ad un campo semantico che traduce un arcaico paradigma culturale, la cui ininterrotta vitalità è documentata dalle fonti non solo letterarie. il principio di ascendenza aristotelica, secondo cui il generare è funzione biologica propria del maschio7, trova, infatti, nella tarda latinità ancora un’inalterata affermazione, 1

hofmann-szantyr 1965, p. 767; pascucci 1987, p. 699; cfr. Th.l.L., s.v. degener, 379, 65. sommer 1948, p. 369; leumann 1963, p. 196; Walde-hofmann, i, 1938, s.v. gigno, 599. 3 sembra, però, che sia proprio virgilio ad introdurre degenerare nella lingua poetica (Th.l.L., s.v. degenero, 381, 78): due le occorrenze (georg. i 198; ii 59), che convalidano a contrario la valenza tecnica del verbo semplice. a differenza di genero, che denota l’inserzione nella linea del genus, degenero ha un deciso significato negativo: cfr. Büchner 1963, pp. 326 ss.; mazzoli 1985, p. 655. già in relazione al mondo vegetale e animale degenerare non indica la mera ‘deviazione’ quanto la modificazione dell’essenza stessa dell’elemento coinvolto nel fenomeno degenerativo. È supponibile che degenerare / degener fossero in origine vocaboli del linguaggio dell’agricoltura, successivamente applicati alla sfera umana: la coppia rappresenterebbe una delle tante «metafore arboricole», che palesano l’assimilazione della stirpe ad una pianta: Bettini 1986, pp. 180 ss.; Beltrami 1998, pp. 27 ss.; lentano 2007, pp. 220-221. 4 Th.l.L., s.v. degener, 380, 69-70; cfr. mart. cap. v 494, ad l.; conington-nettleship 18844 (= 1979), ad l. il nesso degeneres animi è ripreso da lucan. vi 417 e l’epiteto sembra piuttosto nel valore timidi (gloss. v 88, 29, ad l.). 5 Th.l.L., s.v. degener, 379, 68 ss. la pluralità delle valenze di degener sono illustrate da isid., orig. X 73. 6 Th.l.L., s.v. generosus, 1802, 45; cfr. serv., ad Aen. i 359: a genere generosus. l’antinomia è resa chiara da ov., epist. Xvi 173 (Non ego coniugium generosae degener opto) e da colum. iX 8, 5, che mettono in contatto i due epiteti. 7 arist., gen. anim. iv 3, 767b. per il filosofo il concorso materno alla generazione non è, invero, inesistente. È, però, ridotto a fornire la semplice ‘materia’ su cui si innesta il seme maschile, dotato di principio attivo. la predominanza maschile nella generazione è assunta, in ambito letterario, fin da aesch., Eum. 658 ss. 2


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la ‘degenerazione’ di neottolemo tra paradigmi retorici e culturali

come testimonia isidoro: generare masculos dicimus, parturire feminas (diff. i 275). la prospettiva maschile e maschilista, che, caratteristica di una società patriarcale, esclude dalla generazione biologica la donna e la relega ad un livello di mediazione ‘strumentale’ per la perpetuazione della specie, implica per ovvia conseguenza che la lignée sia nella direzione patrilinea ed agnatizia. l’identità del nuovo nato, in particolare maschio, nonché la sua legittimità è data dall’appartenenza ad una linea sanguinis8 che non può essere se non maschile. oltremodo remota è, d’altronde, la teoria emogenetica del seme9. la continuità del genus non è, tuttavia, mera prosecuzione biologica, certificata dalla riconosciuta rassomiglianza fisica del filius con il pater e riflesso della pudicitia della mater. l’assunto della prosecuzione altresì morale informa l’ethos aristocratico. norma per il filius, anello di una progenie nobiliare, è l’emulazione dei facta paterni attraverso cui deve perpetuare ed incrementare il patrimonio di virtutes, essenza della stirpe e cifra della peculiare individualità della stessa10. l’esaltazione dell’importanza della continuità genealogica, in senso morale ed ‘eroico’, già propria dell’epos omerico11, è confermata nell’Eneide: è sottesa all’ideologia del poema che celebra il gevno~ e i valori collegati quale presupposto mitico della genesi di roma12. la rilevanza del paradigma culturale, che nella tradizione letteraria latina trova, come è naturale, un’attestazione privilegiata all’interno dell’epica e della tragedia, è altresì comprovata dalla ‘degenerazione’ del filius13. al motivo virgilio conferisce un’enfasi particolare, esaltata dalla sperimentazione linguistica, nel contesto dell’eccidio di polite, inci-

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il valore del sangue nella cultura e nella mentalità romana è messo in luce dall’esaustivo contributo di guastella 1985, pp. 76 ss.: l’elemento assurge ad ‘identificante’ del ‘gruppo’, in quanto trasmette caratteri somatici e psicologici. sulla problematica, in particolare, Bettini 1986, pp. 177-193; mencacci 1986, pp. 55 ss.; Beltrami 1998. 9 in ambito greco la teoria è diffusa ed antica: lesky 1951, pp. 120-193. secondo manuli-vegetti 1977, p. 83 e pp. 216 ss., rimonterebbe addirittura alla cerchia di empedocle. per la dottrina aristotelica del seme come residuo dell’elemento sanguigno (gen. anim. i 726 b5 ss.) loyd 1983, pp. 97 ss., e soprattutto sissa 1983, pp. 133-145. isidoro ancora convalida che seme e sangue sono coincidenti: Consanguinei vocati eo quod ex uno sanguine, id est ex uno patris semine sati sunt. Nam semen viri spuma est sanguinis… (orig. iX 6, 4). nelle fonti letterarie latine effettiva è la corrispondenza ‘seme’ / ‘sangue’ così come marcata l’interrelazione tra ‘generazione’ e adulterio, che comporta la contaminatio sanguinis. lentano 2007 evidenzia il carattere cruciale della categoria della paternità nel sistema socio-culturale romano; sulla tematica, altresì, mencacci 1986, p. 54, nota 55 e p. 199; Bettini 1992, pp. 211 ss.; Beltrami 1998; lentano 1998, pp. 71 ss. 10 il manifesto, per così dire, del genus e della continuità genealogica, secondo la concezione nobiliare, è rappresentato dall’elogium di scipione ispano, risalente alla fine del ii sec. a.c. (Virtutes generis mieis moribus accumulavi, / progeniem genui, facta patris petiei. / Maiorum optenui laudem, ut sibei me essem creatum / laetentur: stirpem nobilitavit honor): cfr. traina 20005, p. 169. 11 approfondisce il tema arrighetti 1991, pp. 133-147; per l’Iliade, vd., in particolare, alden 2000, pp. 153-178. 12 Fasce 1985, p. 658. servio stesso nella praefatio all’Eneide (p. 4, 10-14 th.) individua tale fattore come peculiare dell’intentio Vergilii. cfr. isid., orig. iX 3, 13. 13 cfr. lentano 2007, pp. 242 ss.


Eugenia Mastellone

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so drammatico e suscettibile di dare propulsione alla tragica morte di priamo, acme della caduta di troia14. l’episodio, che sembra incentrato sul rapporto tra padri e figli, ha il carattere della rappresentazione. la spasmodica fuga di polite, che, trafitto e inseguito dall’ardens Pyrrhus, alla fine stramazza presso l’altare e muore ante ora parentum, è rievocata dalla persona loquens, enea, che riproduce, altresì, il dialogo diretto dei protagonisti: il vecchio re e il carnefice del figlio. in rapporto alla soluzione narrativa di chiara cifra retorica15, il fulcro stesso del dialogo, il parallelo parentes / filii, acquista una decisa e patetica evidenza. Fiera l’invettiva con cui priamo esordisce, non esitando a rinfacciare al nemico il suo inaudito scelus: ha costretto il genitore ad assistere al letum del suo natus e ne ha macchiato i vultus con un simile funus16. l’invettiva non è, però, risolta nel vibrante rilievo e nell’accorato auspicio del castigo divino; è suggellata dalla censura del personaggio, tradotta da un’emblematica argomentazione: l’atteggiamento antitetico tenuto dal padre di neottolemo nei confronti del medesimo hostis, priamo. achille rispettò quasi con ritegno iura e fides dell’inerme supplice, a cui rese il corpus exangue del figlio ettore per la sepoltura e concesse il ritorno nei suoi regna (At non ille, satum quo te mentiris, Achilles / talis in hoste fuit Priamo; sed iura fidemque / supplicis erubuit corpusque exangue sepulcro / reddidit Hectoreum meque in mea regna remisit’ (Aen. ii 540-543). il richiamo, per antitesi, al genitore lascia emergere l’effetto primario dell’importanza che il genus riveste nella cultura latina: l’identità dell’individuo è fissata non tanto in riferimento alla sua soggettività quanto per relationem o, meglio, attraverso la relazione elettiva, che è con il padre e con i maiores. inoltre, nel richiamo appaiono sintetizzati ma anche contraddetti i topoi dell’aristocratico codice che regola il rapporto agnatizio: la derivazione biologica di neottolemo, resa perspicua dalla scelta del verbo sero, in cui l’idea del seminare è combinata a quella del piantare17, è prospettata sia rispetto all’esclusiva linea maschile sia riguardo al solo figlio che conta, il maschio. tale ascendenza, l’unica provvista di valore, risulta, però, nella recriminazione di priamo, non comprovata: il satus non dimostra di riprodurre i mores di colui che costituisce il suo modello, il pater biologico. la dissimiglianza comportamentale di Pyrrhus 14 polite, personaggio secondario nell’Iliade (ii 791; XXiv 250), acquista nell’Eneide un’evidenza tragica. per la mancanza di fonti post-omeriche è difficile definire la genesi del personaggio virgiliano, il cui breve episodio (ii 526-532) assume una funzione decisiva per lo sviluppo della narrazione. dopo virgilio esigua la tradizione relativa a polite. il giovane muore in combattimento, come attestano igino (fab. 90), ditti cretese (ii 43, 20) e Quinto smirneo (Xiii 214), il solo che, al pari di virgilio, ne attribuisce l’uccisione a neottolemo. in ogni caso, nessuno dei tre testimoni raccorda la sua fine alla morte di priamo: caviglia 1988, pp. 167-169. 15 cfr., in particolare, pennacini 1988, p. 458. 16 Aen. ii 535-539: ‘At tibi pro scelere’ exclamat, ‘pro talibus ausis / di, si qua est caelo pietas, quae talia curet, / persolvant grates dignas et praemia reddant / debita, qui nati coram me cernere letum / fecisti et patrios foedasti funere vultus. 17 Sero condensa i due significati, che il greco, invece, distingue ed esprime con i verbi speivrw / futeuvw: Bruno 1969, p. 31. danesi marioni 1988, pp. 795-798, indaga l’usus virgiliano di sero.


Gli esegeti virgiliani e i grammatici antichi a proposito del verbo facesso

molto raro nella poesia di virgilio il verbo facesso, che, unito a iussa (Aen. iv 295) ed a praecepta (georg. iv 548; Aen. iX 45), ricorre sempre in clausola1. le iuncturae, in quanto variazioni dell’espressione enniana dicta facessunt (Ann. 59 v.2)2, si configurano come formule solenni dell’epos. sull’usus virgiliano di facesso si soffermano sia servio sia il Servius auctus. del problema di facesso si interessano anche i grammatici. l’analisi del verbo, costante ed articolata nella tradizione artigrafica, lascia emergere una controversia per quel che riguarda la sua classificazione. donato mostra di includere facesso tra i verba defectiva per formas3. diversamente lo ps.probo4 e servio lo annoverano tra i frequentativa5. perspicua si rivela, in 1

attestato nella lingua letteraria a partire da ennio e da plauto, facessere è verbo desiderativo, derivato da facio. l’etimo è incerto: thurneysen lo riconduce a facesco da cui si sarebbe formato per dissimilazione: cfr. Th.l.L., s.v. facesso, 39, 3 ss. 2 sulle imitazioni o reminescenze enniane in virgilio, tra gli altri, regel 1907, pp. 52-65; norden 1915; norden 1984, pp. 365-372; Bowra 1929; Wiemer 1933; richardson 1942; Knecht 1963; Jocelyn 1964; Wigodsky 1972; Bejarano 1983. 3 don., glK iv, p. 385, 4-8: Sunt verba defectiva alia per modos, ut cedo, alia per formas, ut facesso, alia per coniugationes, ut adsum, alia per genera, ut soleo, alia per numeros, ut faxo, alia per figuras, ut impleo, alia per tempora, ut fero, alia per personas, ut edo. holtz 1981 (pp. 513, 559, 639 e passim) ha ristabilito il testo donatiano, segnalando quali interpolazioni di natura pedagogica, databili al iv-v sec. d.c., le varianti di alcuni codici (sangall. 877, oxon. t. ii 20, vatic. regin. lat. 2024), che segnalano facesso anche tra i verba defectiva per personas. donato individua quattro formae verborum (glK iv, p. 381, 28-30: formae igitur sunt quattuor, perfecta meditativa frequentativa inchoativa: perfecta, ut lego; meditativa, ut lecturio; frequentativa, ut lectito; inchoativa, ut fervesco calesco […]). in nessuna di esse include facesso. il verbo risulta annoverato soltanto tra i verba defectiva per formas. più esaustiva la spiegazione del Comm. Eins. in Don. Art. maior. (glK viii, p. 257, 32-33; p. 258, 1): facesso deficit per formas perché si flette secondo la terza coniugazione e non può, pertanto, rientrare tra i frequentativa; è ascritto, altresì, ai verba defectiva per personas (glK viii, p. 258, 10-11). 4 sono oggi riconosciute come pseudo probiane le cinque opere di contenuto grammaticale attualmente comprese nel iv volume dei Grammatici Latini del Keil (Catholica, Instituta artium, Appendix, De nomine excerpta, De ultimis syllabis liber ad Caelestinum). l’attribuzione dei trattati ad una pluralità di compilatori è ormai opinione prevalente tra gli studiosi: della casa 1973, pp. 151 ss.; pascucci 1976, pp. 25-26. 5 Ė interessante notare che lo ps.probo (glK iv, p. 158, 5-13) parla di verbi generis sive qualitatis frequentativae, quae a propria verbi significatione derivantur et indicativo sive pronuntiativo modo temporis praesentis sive instantis ex prima persona numeri singularis non sco litteris, sed aliis quibuslibet definiuntur, ut puta a iacto iactito, ab scribo scriptito, a curro cursito, a volo volito, a facio facesso et factito […]. lo ps.probo sembra identificare genus e qualitas quali sinonimi di forma, termine che, dal iv


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gli esegeti virgiliani e i grammatici antichi a proposito del verbo facesso

particolare, la spiegazione dello scoliasta. nel commento all’Ars di donato servio definisce frequentativa la forma verborum quae nos aliquid saepe agere ostendit6: riferisce a lectito, addotto come esempio, il valore saepe lego (glK iv, p. 412, 36; p. 413, 1). puntualizza che i frequentativi con il suffisso -to, come lectito e cursito, sono solo di prima coniugazione, quelli terminanti in -so, categoria in cui include lacesso e facesso, possono essere di prima ma anche di terza coniugazione7. inoltre, nel commento ad Aen. ii 63 (Visendi: frequentativum est ‘viso’, ut ‘verso’ ‘facesso’, licet rarum sit; nam in ‘to’ exeunt frequentativa) identifica viso, verso e facesso quali frequentativa, e ne sottolinea la particolarità: riconosce che si tratta di formazioni sigmatiche meno comuni rispetto a quelle uscenti in -to, ritenute evidentemente regolari. a sua volta pompeo individua facesso, ma anche lacesso, tra i frequentativa defectiva per formas, in quanto non habent principales formas. il grammatico afferma che dal primitivo facio si formano i derivati regolari facto e factito, non già facesso ed enuncia la ratio: si dicas facesso, iam contra artem ascendit, et nullum verbum invenitur <in> quartum gradum ascendens8. consenzio sembra sulla stessa linea: classifica facesso come un frequentativum defectivum perché, contra regulam,

al iX sec. d.c., indica per i grammatici la significatio, il sensus del verbo. ne vengono classificati quattro tipi: meditativa, inchoativa, perfecta, frequentativa: vitale 1979. 6 tale definizione trova una diffusa formulazione non solo nella teorizzazione grammaticale ([aug.], glK v, p. 516, 11-15; char., p. 335, 4-7 B.; diom., glK i, p. 344, 28-35; p. 345, 1-14; serv., Comm. in Don., glK i, p. 412, 36; p. 413, 1; macr., glK v, p. 626, 10-11; p. 650, 4-6; [serg.], glK iv, p. 505, 21-22; p. 506, 13; p. 548, 19-20; pomp., glK v, p. 220, 11-12; 23-24; p. 221, 16-18; cled., glK v, p. 16, 28-29; cons., glK v, p. 376, 3-4; [asp.], glK viii, p. 48, 24; prisc., glK ii, p. 429, 19-20; iul. tol., Ars gramm., poet., rhet. 3, 45; verg. gramm., Epist. 7, p. 56; Anon. Bob., glK i, p. 561, 19-20; 22; p. 563, 4-5; aud., glK vii, p. 345, 9-10; Comm. Eins. in Don. Art. min., glK viii, p. 207, 35-36; Comm. Eins. in Don. Art. mai., glK viii, p. 253, 5-6), ma altresì nella scoliastica (ad es., don., Ter. ad Hec. 743). una puntualizzazione complessiva a proposito dei verba frequentativa nei grammatici antichi è prospettata da Jeep 1893, pp. 187-194 nonché da lambert 1908, pp. 122-127. approfondisce la problematica vitale 1984, che rivolge speciale attenzione all’esame dei verbi frequentativi-intensivi nella poesia virgiliana. 7 serv., glK iv, p. 413, 10-13: frequentativa forma in to quando exit, semper primae coniugationis est, ut lectito lectitas, cursito cursitas, scriptito scriptitas. si autem in so exeat, etiam tertiae esse potest, ut lacesso lacessis et facesso facessis. cfr. [serg.], glK iv, p. 506, 14-18: haec verba frequentativa quotiens in to exeunt, primae coniugationis sunt. si non in to exeunt, possunt cuiuscumque coniugationis esse, id est primae vel tertiae; nam secundae numquam invenies: primae, ut curso cursas, tertiae, ut lacesso lacessis. 8 pomp., glK v, p. 240, 7-17: puta per qualitates invenis verbum defectivum, ut sit frequentativum, et non sit modus. qualitas enim aut in modis aut in formis est constituta. lacesso facesso: non potest inveniri primum ipsius, id est principale. ne dicas mihi ab eo quod est facio facit facto, facit factito, facit facesso; non potest. novimus autem quoniam frequentativa saepe per unum gradum ascendunt, raro per duos, per tres numquam. ergo habes facio, inde facto, inde factito. si dicas facesso, iam contra artem ascendit, et nullum verbum invenitur <in> quartum gradum ascendens. ergo lacesso facesso defectiva sunt per formas, id est sunt frequentativa et non habent principales formas. la teoria è comune anche ad altre fonti grammaticali: i verbi frequentativi si formano attraverso due o tre gradi (sacerd., glK vi, p. 431, 12-22; don., glK iv, p. 382, 4-6; diom., glK i, p. 345, 20-21; cons., glK v, p. 376, 20-22; Comm. Eins. in Don. Art. maior., glK viii, p. 253, 30-33).


Danila Nasti

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segue la terza e non la prima coniugazione9. singolare, invece, la tesi di cledonio, che considera facesso un verbum defectivum per formas e quasi frequentativum, in quanto nega che ne esista il principale (glK v, p. 61, 32-34; p. 62, 1)10. carisio e diomede ascrivono il verbo alla categoria dei paragoga, quae ex primitivi verbi declinatione et mutationem et adiectionem litterarum capiunt11. analogo è l’assunto dello ps.aspro (glK v, p. 551, 23-24). una visione ben diversa del problema palesa prisciano, che introduce la definizione, tuttora valida, di desiderativum12, comune tanto a facesso, a capesso, a lacesso, ad arcesso, quanto a viso ed a quaeso13.

9 cons., glK v, p. 377, 13-16: in forma autem frequentativa defectivum est quod paulo ante iam diximus, facesso vel capesso: quoniam regulariter prima coniugatio inveniri debeat in frequentativo, potest videri defectione quadam frequentativae formae regula non teneri. 10 cfr. infra, in part. nota 30. 11 char., p. 335, 13-19 B.; diom., glK i, p. 379, 5-10. la determinazione di questa tipologia di verbi risale ai grammatici greci e non sembra attestata, nella tradizione artigrafica latina, prima di carisio e di diomede. la fonte è verisimilmente identificata in dionisio trace: steinthal 1890-1891 (= 1971), pp. 297 ss.; Bartalucci 1963, p. 345. 12 il medesimo vocabolo compare nelle Regulae dello ps.agostino (glK v, p. 516, 15-19), in riferimento alla serie dei verbi in -urio (come esurio, parturio, morturio) nonché nella trattazione dello ps.aspro (glK v, p. 551, 22), a proposito del verbo dormito. con tale termine si definiscono oggi i verbi in -(s)so ed in -urio aventi valore volitivo o conativo: Wölfflin 1884. non è ancora considerata del tutto chiara la loro formazione. i linguisti hanno in particolare indagato il complesso problema dell’origine del suffisso -ss-. dall’esame comparativistico sono scaturite diverse ipotesi, che ricollegano il morfema -ss- al -sya- del futuro sanscrito (Bopp 1857-1863) nonché al formans del desiderativo sanscrito in -sa-, a -seivw del tipo greco brwseivw, draseivw ed, addirittura, a -skw, -sco degli incoativi greci e latini (salvesberg 1867, pp. 362 ss.). anche l’insieme suffissale -ess- è stato ampiamente dibattuto: gli studiosi sono in genere orientati ad accostarlo a forme di congiuntivi aoristi sigmatici, paralleli ai tipi arcaici faxo, amasso (osthoff 1884, pp. 270 ss.; lindgren 1890; traina-Bernardi perini 1995, pp. 179-180). alle forme osche in -t- si riferisce, invece, Brugmann 1903-1904, pp. 77-80 per spiegare sia il tipo indicāsso sia i verbi in -esso. la sua teoria di un -isso primitivo, sul quale avrebbero giocato complesse azioni analogiche (Brugmann 1906, p. 1202) è confutata da thomas 1935, che postula, alla base dell’innovazione capesso, facesso, un rapporto con gli infiniti a valore di futuro impetrāssere, oppugnāssere, reconciliāssere. sommer 1902 (= 1977), p. 585, partendo da *capissere come forma originaria, la pone in relazione, sia per la formazione sia per il semantismo, con i tipi impetrassere, reconciliassere. l’antichità della forma in -ı˘sso, formatasi sui temi dell’infectum, è sostenuta anche da Bartalucci 1963, in part. pp. 365-370. leumann 1977, pp. 555-556 ritiene che le forme incipisso, facesso, expetesso si siano formate per imitazione di occeptāsso, impetrāsso. palmer 1977, p. 327 collega il suffisso -sse/o riscontrabile in petesso, lacesso, capesso al suffisso desiderativo -so ravvisabile in quaesso. per una disquisizione dettagliata della questione ed un riesame puntuale delle posizioni critiche, si veda Bartalucci 1963, pp. 350-353. 13 prisciano esclude che facesso possa essere considerato un frequentativum, perché segue la terza e non la prima coniugazione: glK ii, p. 431, 16-18 (Sunt praeterea aliae species derivativorum variae tam terminationis quam significationis, ut a ‘video’ ‘viso visis’, id est ‘cupio videre’. […] simile est ‘facio facesso’, ‘capio capesso’, ‘lacero lacesso’, ‘arceo arcesso’, ‘accio accerso’, quae non esse frequentativa coniugatio ostendit. possumus tamen ea non incongrue desiderativa nominare); glK ii, p. 535, 9-12 (‘facesso’ vero et ‘capesso’ et ‘viso’, quae possumus desiderativa dicere – significat enim ‘facesso’ ‘desidero facere’ et ‘capesso’ ‘desidero capere’ et ‘viso’ ‘desidero videre’; frequentativa enim esse non possunt, cum primae coniugationis non sunt […]).


Una nota di A. Brelich a proposito della guerra rituale (Plut., Quaest. gr. 17)

nel 1961 angelo Brelich1 accomunò in una nota tre episodi di guerra rituale2 (plut., Quaest. gr. 17, paus. iii 16,9 e plut., Mul. Virt. 16), definendoli «guerre combattute tra genti affini, regolate da norme restrittive»3. il concetto di affinità fa riferimento al termine suggenikw'" usato in proposito da plut., Quaest. gr. 17. gli altri due casi sono citati da Brelich a confronto. il concetto accomuna i tre casi e nello stesso tempo li distingue dagli altri pure esaminati nel volume. È forse possibile sviluppare questa intuizione di Brelich, e per fare ciò è opportuno procedere innanzitutto ad una analisi dei tre passi. Questo è il primo episodio, Quaest. gr. 17: tw'n de; Korinqivwn povlemon aujtoi'" ejxergasamevnwn pro;" ajllhvlou" (ajei; ga;r ejpebouvleuon uJf∆ auJtoi'" poihvsasqai th;n Megarikhvn), o{mw" di∆ ejpieivkeian hJmevrw" ejpolevmoun kai; suggenikw'". tou;" me;n ga;r gewrgou'nta" oujdei;" hjdivkei to; paravpan, tou;" d∆ aJliskomevnou" luvtron ti tetagmevnon e[dei katabalei'n, kai; tou't∆ ejlavmbanon ajfevnte". provteron d∆ oujk eijsevpratton, ajll∆ oJ labw;n aijcmavlwton ajph'gen oi[kade, kai; metadou;" aJlw'n kai; trapevzh" ajpevpempen oi[kade. oJ me;n ou\n ta; luvtra komivsa" ejph/nei'to kai; fivlo" ajei; dietevlei tou' labovnto" ejk dorualwvtou, doruvxeno" prosagoreuovmeno": oJ d∆ ajposterhvsa" ouj movnon para; toi'" polemivoi" ajlla; kai; para; toi'" polivtai" wJ" a[diko" kai; a[pisto" hjdovxei. «sebbene i corinzi4 fomentassero tra loro (scil. gli abitanti dei mere) lotte vicendevoli (infatti tramavano sempre per porre sotto il loro dominio la megaride), tuttavia per moderazione combattevano con dolcezza e come tra consanguinei. infatti e nessuno danneggiava del tutto i contadini, e era necessario che chi fosse stato preso pagasse un riscatto fissato, che il vincitore riceveva dopo aver rimesso in libertà il prigioniero. prima non lo potevano riscuotere, ma colui che aveva catturato l’ostaggio lo conduceva a casa propria, e, avendo condiviso con

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cfr. Brelich 1961, p. 74 s. n. 17. per il concetto di guerra rituale si rimanda a Brelich 1961. accettano le tesi di Brelich lonis 1979, p. 28 s., garlan 1985, pp. 23-27, hölkeskamp 1997, pp. 494-501 e nicolai 2007, p. 3 s. una trattazione più generale su tali tipi di guerra è in huizinga 1948, pp. 118-138. per una riflessione sulle guerre rituali in contesti antropologici extraeuropei si veda invece massenzio 1994, pp. 166179; una descrizione dettagliata di uno di questi casi, proveniente dalla nuova guinea, è infine in rappeport 1980, soprattutto pp. 130-183. 3 cfr. Brelich 1961, p. 74. 4 sul confine tra megara e corinto cfr. daverio rocchi 1989, pp. 53 e 232, la quale però non accenna alla guerra rituale. 2


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una nota di a. Brelich a proposito della guerra rituale

lui il sale e la tavola, lo rimandava a casa. pertanto chi portava il prezzo del riscatto era lodato e continuava sempre ad essere amico di chi lo aveva catturato ed era chiamato “ospite di spada” anziché “prigioniero di spada”. ma chi veniva meno al pagamento del riscatto era ritenuto individuo senza giustizia e senza fede, non solo presso i nemici, ma anche fra i concittadini.»

plutarco, dopo aver trattato della divisione in antico della megaride in cinque mere, espone un caso di guerra rituale fra gli abitanti dei cinque mere, nei quali si articola la popolazione della megaride5. K. giesen6 propose che la fonte di questo testo potesse essere la perduta Costituzione dei Megaresi di aristotele. gli elementi più rilevanti utilizzati dallo studioso tedesco per sostenere la dipendenza da aristotele della quaestio 17 derivano dalla comparazione di essa con le altre quaestiones di argomento megarese, cioè la 16, la 18 e la 597, che, secondo il parere dello studioso8, derivano tutte da una unica fonte comune, appunto la Megar. Pol. di aristotele. in tale direzione giesen9 aggiunge che le quaestiones 18 e 59 riguardano la cosiddetta “democrazia arcaica di megara”, tema che ricorre anche in Pol. 1305 a 24-26. Questa ipotesi fu accettata anche da halliday10. più cauti nell’accettazione sono stati Jones, che definisce il materiale contenuto nella quaestio 17 soltanto come «possibly derived ultimately from aristotle’s constitution of megarians»11 e lane Fox, per il quale è dubbio se anche in questo caso plutarco stia «again using aristotle’s lost constitution»12. nel passo sono presenti le caratteristiche che secondo Brelich sono proprie della guerra rituale: lo stato di guerra combattuta con dolcezza (hJmevrw" ejpolevmoun), la volontà di non distruggere del tutto il raccolto altrui (tou;" me;n ga;r gewrgou'nta" oujdei;" hjdivkei to; paravpan) e di pagare dei riscatti fissati in caso che qualcuno venisse preso in ostaggio (tou;" d∆ aJliskomevnou" luvtron ti tetagmevnon e[dei katabalei'n). da segnalare è anche l’usanza della “comunione” del sale fra catturatore e catturato: essa è presente anche nei poemi omerici (Od. Xvi 455), ove rappresenta il minimo dell’ospitalità che può essere offerta ad una persona13. particolarmente interessante è l’uso dell’avverbio suggenikw'"14, su cui Brelich si fonda e che egli spiega nel senso che la guerra rituale è combattuta da genti affini. 5

per i problemi relativi ai mere cfr. tra gli altri moggi 1976, pp. 29-34 e legon 1981, pp. 46-48. cfr. giesen 1901, p. 464. 7 cfr. Ibid., p. 461. 8 cfr. Ibid., pp. 461-462. 9 cfr. Ibid., pp. 462-463. 10 cfr. halliday 1928, pp. 92, 95-97. 11 cfr. Jones 1987, pp. 95 e 123-124 n. 7. 12 cfr. lane Fox 2000, pp. 42-43. 13 per un commento cfr. halliday 1928, p. 89. 14 non intendo qui, come anche per i successivi termini mere, obai e hekatostys, intervenire nel dibattito odierno sul termine genos, ma mi limito a rilevare l’uso che Brelich fa di queste parole. 6


Ferdinando Ferraioli

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nel secondo passo, paus., iii 16,9, si parla del contrasto rituale fra le quattro obai di sparta durante la festa di Arthemis Orthia15: martuvria dev moi kai; tavde, th;n ejn Lakedaivmoni ∆Orqivan to; ejk tw'n barbavrwn ei\nai xovanon: tou'to me;n ga;r ∆Astravbako" kai; ∆Alwvpeko" oiJ “Irbou tou' ∆Amfisqevnou" tou' ∆Amfiklevou" tou' “Agido" to; a[galma euJrovnte" aujtivka parefrovnhsan: tou'to de; oiJ Limna'tai Spartiatw'n kai; Kunosourei'" kai; ãoiJÃ ejk Mesova" te kai; Pitavnh" quvonte" th'/ ∆Artevmidi ej" diaforavn, ajpo; de; aujth'" kai; ej" fovnou" prohvcqhsan, ajpoqanovntwn de; ejpi; tw'/ bwmw'/ pollw'n novso" e[fqeire tou;" loipouv". «e ho prove che l’orthia di sparta sia la statua lignea originaria proveniente dai barbari. infatti astrabaco e alopoco, figli di irbo, figlio di anfistene, figlio di anficle, figlio di agide, avendo trovato la statua subito impazzirono. inoltre gli spartani di limne, i cinosurei, e la gente di mesoa e pitane, mentre sacrificavano ad artemide, litigarono e si spinsero fino al sangue, perdendo molti la vita sull’altare, mentre i restanti li uccise una malattia.»

va innanzitutto sottolineata l’antichità della tradizione riportataci da pausania, che si riscontra già dal fatto che vengono presentate solo quattro obai, e la quinta, amicle, non viene citata16. Brelich le pone in corrispondenza con i mere, così come segnala la presenza di artemide17, che compare spessissimo in relazione alle guerre rituali, in quanto divinità legata alla frontiera. proprio Arthemis Orthia è inoltre divinità particolarmente importante per sparta, in quanto ha, come afferma d. musti, «una forte funzione unificante per la polis spartana»18. Brelich19 poi ricorda che le obai hanno mantenuto fino ad epoca tarda una certa autonomia in ambito religioso e come siano per certi versi anche in questo affini ai mere megaresi, i quali ebbero forse una sopravvivenza nell’organizzazione delle hekatostyes20. È da notare infine che questa guerra fra obai, a differenza di quelle fra mere, non sia condotta con mitezza, ma invece in maniera piuttosto violenta e con spargimento di sangue. nel terzo passo, plut., Mul. Virt. 16, viene descritta la contesa rituale tra mileto e miunte: 15 per

maggiori informazioni di tipo archeologico sul culto di Arthemis Orthia si veda musti-torelli 1991, p. 226 s. 16 sulla presenza di solo quattro obai nell’ambito del culto di Arthemis Orthia cfr. moggi 1976, p. 20 s. sull’annessionc di amicle a sparta, avvenuta nel 720 a.c. circa, è ancora fondamentale cartledge 1979, pp. 106-108. 17 cfr. Brelich 1961, pp. 75-77. È interessante anche notare la presenza di danze pirriche armate in onore di Arthemis Soteira a pagai nella megaride su cui si veda ceccarelli 1998, pp. 95-97. 18 cfr. musti-torelli 1991, p. 227. 19 cfr. Brelich 1961, p. 74 s. n. 17. 20 in IG iv2 1 42, databile al 221/220 a.c., un’hekatostys è chiamata kunosouriv[~], con lo stesso nome cioè di uno dei mere. secondo legon 1981, p. 46-48 ciò mostrerebbe la presenza di un rapporto diretto fra mere ed hekatostyes, che però secondo Jones 1987, p. 95 s., non vi sarebbe.


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una nota di a. Brelich a proposito della guerra rituale

Tw'n eij" Mivlhton ajfikomevnwn ∆Iwvnwn stasiavsante" e[nioi pro;" tou;" Neivlew pai'da" ajpecwvrhsan eij" Muou'nta kajkei' katwv/koun, polla; kaka; pavsconte" uJpo; tw'n Milhsivwn: ejpolevmoun ga;r aujtoi'" dia; th;n ajpostasivan. ouj mh;n ajkhvrukto" h\n oujd∆ ajnepivmikto" oJ povlemo", ajll∆ e[n tisin eJortai'" ejfoivtwn eij" Mivlhton ejk tou' Muou'nto" aiJ gunai'ke". h\n de; Puvqh" ajnh;r ejn aujtoi'" ejmfanhv", gunai'ka me;n e[cwn ∆Iapugivan, qugatevra de; Pierivan. ou[sh" ou\n eJorth'" ∆Artevmidi kai; qusiva" para; Milhsivoi", h}n Nhlhivda prosagoreuvousin, e[pemye th;n gunai'ka kai; th;n qugatevra, dehqeivsa" o{pw" th'" eJorth'" metavscwsi: tw'n de; Neivlew paivdwn oJ dunatwvtato" o[noma Fruvgio" th'" Pieriva" ejrasqei;" ejnenovei, tiv a]n aujth'/ mavlista gevnoito par∆ aujtou' kecarismevnon. eijpouvsh" d∆ ejkeivnh", eij diapravxaiov moi to; pollavki" ejntau'qa kai; meta; pollw'n badivzein, sunei;" [ou\n] oJ Fruvgio" deomevnhn filiva" kai; eijrhvnh" toi'" polivtai" katevpause to;n povlemon. h\n ou\n ejn ajmfotevrai" tai'" povlesi dovxa kai; timh; th'" Pieriva", w{ste kai; ta;" Milhsivwn eu[cesqai gunai'ka" a[cri nu'n ou{tw" ejra'n ãtou;" a[ndra"Ã aujtw'n, wJ" Fruvgio" hjravsqh Pieriva". «alcuni degli ioni arrivati a mileto, trovandosi in situazione di stasis nei confronti dei figli di neleo, andarono a miunte e lì si stabilirono, subendo molti mali da parte dei milesii: questi infatti facevano loro guerra a causa della loro ribellione. la guerra non era né senza dichiarazione né senza relazioni fra le parti, ma durante alcune feste le donne andavano da miunte a mileto. tra loro vi era un uomo illustre di nome pythes, che aveva una moglie chiamata iapygia e una figlia chiamata pieria. ora in occasione della ricorrenza presso i milesii di una festa in onore di artemide che chiamano neleis e che prevede una cerimonia sacrificale, pythes vi mandò la moglie e la figlia, che avevano chiesto di poter partecipare alle celebrazioni. il più potente dei figli di neleo, di nome Frigio, innamoratosi di pieria, pensava continuamente al modo in cui potesse conquistare il cuore della sua amata. Quando quella gli disse: “se farai in modo che io possa venire da te spesso e con molti”, Frigio, compreso che ella stava chiedendo amicizia e pace per i cittadini, fece cessare la guerra. e quindi in entrambe le città vi fu una tale fama e gloria per pieria, tanto che ancora ora le donne di mileto pregano gli dei di essere amate come Frigio amò pieria.»

anche nel passo, in cui è narrato l’aition di Frigio e pieria, è descritta una guerra rituale, condotta ouj mh;n ajkhvrukto" oujd∆ ajnepivmikto" (né senza dichiarazione né senza relazioni fra le parti). tale guerra avviene anche qui tra genti affini, tra due comunità che poi, tra iii e ii sec. a. c., si troveranno riunificate nella polis milesia21. 21 paus.

vii 2,11 afferma che, avendo il meandro reso paludosa e malsana la regione di miunte, gli abitanti emigrarono a mileto. ciò è sostenuto anche da vitruvio (vi 1), mentre strabone (Xiv 1,10) dice che gli abitanti di miunte decisero la sympoliteia con i milesii a causa dell’oligandria. un decreto del 228/227 a.c. (rehm Milet i.3 33e) ci informa che in tale data i milesii insediarono nel loro territorio alcuni cretesi e disposero che gli abitanti di miunte li ospitassero. ciò si spiega solo se vi era già a quella data un accordo di sympoliteia tra le due poleis. tracce di tale accordo possono forse ritrovarsi in un’epigrafe milesia (herrmann Milet vi.3 1040, databile tra il 165 e il 158 a.c.), ove si fa riferimento ad un corpo di leggi relativo agli abitanti di miunte. È certo che miunte rimase ancora una polis a se stante almeno fin verso la fine del iii sec. a.c., come è testimoniato da un decreto della città in onore di apollodoros di mileto (herrmann Milet vi.3 1027). sembra perciò condivisibile


Ferdinando Ferraioli

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una peculiarità accomuna questi tre casi, e li distingue così da pressoché tutti gli altri esempi a noi noti di guerra rituale. Brelich ha accostato i tre episodi e come si è detto ha sottolineato il fatto che queste guerre avvengano tra genti affini (suggenikw'"). ma sull’aspetto di queste tre guerre si può dire altro. negli altri casi presi in esame nel volume di Brelich la guerra rituale avviene infatti fra due comunità contigue, che, tramite essa, per così dire delimitano il proprio territorio e finiranno col definire due poleis diverse22 (ad es. calcide ed eretria23, argo e sparta24); nei passi appena esaminati di plutarco e pausania la guerra invece avviene tra comunità che prima (i mere di megara, le obai di sparta) o poi (mileto e miunte) confluiranno in un’unica comunità politica. per questo forse Brelich, pur ricordando che a suo parere un residuo di autonomia nei mere e nelle obai permane fino ad età tarda, accomuna i casi di sparta, di mileto e quello di megara, per cui è usato esplicitamente l’avverbio suggenikw'". Abbreviazioni bibliografiche Brelich 1961 = a. Brelich, Guerre, agoni e culti nella Grecia arcaica, Bonn 1961. cartledge 1979 = p. cartledge, Sparta and Lakonia. A Regional History 1300-362 BC, london-Boston-henley 1979. ceccarelli 1998 = p. ceccarelli, La pirrica nell’antichità greco-romana: studi sulla danza armata, pisa 1998. daverio rocchi 1989 = g. daverio rocchi, Frontiera e confini nella Grecia antica, roma 1989. ehrhardt 2003 = n. ehrhardt, Poliskulte bei Theokrit und Callimachos: das Beispiel Milet, in «hermes» 131, 2003, pp. 268-289. garlan 1985 = Y. garlan, Guerra e società nel mondo antico, Bologna 1985 (trad. it. da La guerre dans l’antiquité, paris 1972). giesen 1901 = K. giesen, Plutarchs Quaestiones Graecae und Aristoteles’ Politien, in «philologus» 60, 1901, pp. 446-471.

l’opinione di herrmann 1965, pp. 90-103 e soprattutto pp. 93-95, secondo il quale in un periodo precedente al 228/227 a.c. avvenne il trattato di sympoliteia, con il quale miunte rimase ancora un’unità autonoma e in seguito, in data non meglio precisabile fra iii e ii sec. a.c., giunse a compimento il processo sinecistico vero e proprio. sulla questione si vedano tra gli altri stadter 1965, p. 92, herrmann 1965, pp. 90-103, mastrocinque 1979, pp. 138-139, ragone 1986, p. 187 n. 2 e pp. 203-204, ehrhardt 2003, pp. 282-284 e ragone 2006, pp. 14-17. 22 alcune caratteristiche proprie di questo tipo di guerra rituale sono presenti anche nel conflitto che oppose atene e megara per il possesso di salamina, come è stato notato da robu 2004-2005, p. 171 s. e da nicolai 2007, pp. 4-19. 23 cfr. Brelich 1961, pp. 9-21. 24 cfr. Brelich 1961, pp. 22-34.


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una nota di a. Brelich a proposito della guerra rituale

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Plutarco e le donne nel Mulierum Virtutes

nella sezione introduttiva del Mulierum Virtutes plutarco afferma di aver messo per iscritto ta; uJpovloipa di una conversazione precedentemente avuta con clea eij~ to; mivan ei\nai kai; th;n auJth;n ajndrov~ te kai; gunaiko;~ ajrethvn, aggiungendovi una ricca e varia appendice a carattere iJstoriko;n ajpodeiktikovn ma senza avere come obiettivo principale il mero piacere dell’ascolto1. poi il cheronese, riconoscendo che tw/` peivqonti kai; to; tevrpon e[nesti fuvsei tou` paradeivgmato~, dichiara di non rifuggire dall’adoperare l’amabilità dell’esposizione e del contenuto in supporto alla dimostrazione2. Quindi di fatto l’autore si serve di un grande e composito serbatoio di effetti speciali3 e digressioni di diversa entità4 che contribuiscono ad alimentare l’interesse ed il coinvolgimento del fruitore e nel contempo a spogliare l’opera dalle sembianze di un arido e ripetitivo catalogo. e proprio in questa ottica vanno osservate le molteplici peripezie in cui incorrono le donne narrate nell’opuscolo, che mettono spesso le protagoniste in condizione di agire in disparati contesti ed affrontare situazioni di difficoltà o pericolo, estrinsecando al meglio le proprie qualità migliori. inoltre le condotte meritorie, oltre che per il coraggio, l’eroismo, il senso di responsabilità, la dignità e l’onore femminili5, spesso si trovano a passare anche attraverso sotterfugi, tradimenti, delazioni, inganni, falsità e vendette6 la cui orchestrazione desta senza dubbio un particolare scalpore. K. Blomqvist7 e p.a. stadter8 riconoscono un ruolo fortemente marginale alle donne descritte in varie sedi da plutarco, ma, come si vede in questa opera, i personaggi femminili rivestono nelle varie circostanze un ruolo di protagonista assoluto la cui importanza risulta talora attenuata solo dalle ridotte dimensioni dell’episodio o dall’esigenza di trattare in maniera approfondita ed esaustiva intrecci sempre differenti e ricchi di personaggi ed eventi di rilievo.

1

plut., Mul. Virt. 242 F 5 - 243 a 2. inoltre plutarco afferma anche: ouj feuvgei cavrin ajpodeivxew~ sunergo;n oJ lovgo~ oujd’ aijscuvnetai “tai`~ Mouvsai~ ta;~ Cavrita~ sugkatamignu;~ kallivsthn suzugivan” wJ~ Eujripivdh~ fhsivn. cfr. plut., Mul. Virt. 243 a 3 - 243 a 6. 3 cfr. Mul. Virt., 1, 2, 3, 4, 5, 7, 8, 9, 14, 15, 16, 17, 19, 20, 22, 24, 25, 27. 4 cfr. Mul. Virt., 1, 3, 4, 8, 9, 14, 15, 19, 24, 25, 26, 27. 5 cfr. Mul. Virt., 2, 3, 4, 5, 6, 9, 11, 12, 13, 14, 15, 16, 21, 23, 27. 6 cfr. Mul. Virt., 1, 7, 8, 10, 17, 18, 19, 20, 22, 24, 25, 26. 7 cfr. Blomqvist 1997, pp. 73-97. 8 cfr. stadter 1999, pp. 173-182. 2


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plutarco e le donne nel Mulierum Virtutes

inoltre le donne artefici di atti virtuosi individuali o di gruppo non costituiscono un fenomeno di portata eccezionale9 ma danno prova della normalità di figure femminili che, seppur tra alti e bassi, in silenziosa e quotidiana operosità portano il proprio contributo alla risoluzione delle più disparate ed intricate questioni. Quando infatti entrano in gioco la difesa dell’onore e della libertà personale, l’interesse della patria e della famiglia, il benessere dei concittadini, il rispetto del culto religioso e la salvezza dell’uomo amato, scende in campo la donna ad esercitare una funzione pienamente attiva e propulsiva e a condizionare in modo decisivo l’ambiente circostante attraverso la propria capacità di agire con autonomia e senza inibizioni di sorta. i palcoscenici dell’azione sono rappresentati da momenti di crisi10 in cui l’intervento femminile porta un soccorso salvifico in contesti di violenza e soprusi, contribuendo ad apportare armonia e svolgendo un compito che plutarco riconosce alla dignità femminile e in particolare nell’ambito del rapporto di fecondo interscambio non solo affettivo con il mondo maschile. dunque l’onere di supplire alle negligenze dell’uomo e l’operare sempre in favore della decenza, della semplicità, della pace e della libertà, rende merito, in plutarco, all’essere femminile e la fondamentale complementarità della donna si estrinseca in una sostanziale e paritaria comunanza di potenzialità trovando una realizzazione scevra da vicendevoli invasioni di campo e financo priva di vincoli di inferiorità legati a problematiche di natura prettamente fisica11. l’evidenza fornita da un simile contesto sembra negare recisamente una posizione secondaria e marginale della donna

9 come ritiene p. Walcot, (cfr. Walcot 1999, pp. 163-183) che riconosce nelle donne del Mulierum Virtutes degli esempi tanto eccezionali quanto inspiegabili di virtù femminile. plutarco piuttosto sembra limitarsi ad osservare la molteplice realtà del mondo femminile narrandone e contemplandone di volta in volta comportamenti a carattere positivo o negativo senza che questo implichi una pregiudiziale ed univoca visione della donna quale un essere «deceitful, savage, sexually insatiable, frivolous and gossips» (cfr. Walcot 1999, pp. 163-164), capace solo di rari slanci virtuosi. inoltre, una testimonianza chiara ed attendibile di una osservazione esente da pregiudizi della varietas del mondo femminile nella sua interezza da parte del cheronese, è costituita anche dall’ampia ricognizione effettuata da F. le corsu sulle donne descritte nelle Vite Parallele di plutarco, che presenta una nutrita gamma di lodevoli e virtuosi personaggi femminili. cfr. le corsu 1981, pp. 11-24; 25-84; 99-128; 270-274. sull’argomento, se p. stadter afferma: «plutarch had a low opinion of women» e J. Boulogne parla di «égalité dans la dissemblance» tra uomo e donna riconoscendo che plutarco nutriva grande stima e rispetto per la preparazione culturale di clea e leontis, K. ziegler riteneva impossibile negare la virtù delle donne, così come si rivela molto opportuna l’analisi di W. lee odom, che mostra plutarco intento a narrare indifferentemente potenzialità, peculiarità ed errori delle donne. cfr. lee odom 1961, pp. 101-118; ziegler 1964, pp. 163; 196; 304; stadter 1965, p. 5; Boulogne 2005, pp. 225-234. 10 cfr. plut., Mul. Virt., storie 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 14, 15, 16, 17, 18, 19, 23, 25, 27. 11 il Mulierum Virtutes mette ripetutamente in discussione proprio quella inferiorità fisica femminile spesso ritenuta elemento decisivo nel dimostrare la misoginia di plutarco. un contesto simile, che mostra donne capaci anche di realizzare valorose azioni belliche, proprio in base alle direttive fornite dal cheronese nell’introduzione dell’opuscolo rientra a pieno titolo in una situazione di normalità in cui la virtù maschile e femminile è unica ed identica. plut., Mul. Virt. 242 F 5 - 6 to; mivan ei\nai kai; th;n aujth;n ajndrov~ te kai; gunaiko;~ ajreth;n.


Fabio Tanga

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e plutarco, trovandosi ad affrontare in maniera specifica la questione all’interno di questa opera, la risolve lasciando trasparire chiaramente una virtù che si manifesta in modi e secondo sfumature diverse a causa dei differenti ruoli e delle relative posizioni consolidate nel corso del tempo e anche nell’ambito dei rapporti di interazione sociale e familiare tra uomo e donna12. i presupposti metodologici enunciati da plutarco nella parte iniziale dell’opuscolo in merito al riconoscimento e alle manifestazioni di una virtù unitaria in uomini e donne13, uniti alla estrema varietas di personaggi, luoghi, epoche ed eventi narrati nel Mulierum Virtutes, permettono di riconoscere alla donna un ruolo di primo piano che riesce anche a travalicare i confini di un’opera composta proprio allo scopo di narrare e celebrare la virtù dimostrata da personaggi femminili. in primo luogo nell’introduzione il cheronese chiama in causa il talento pittorico e le arti divinatorie a testimonianza delle eguali capacità di uomini e donne14, mentre successivamente prova ad istituire un paragone mettendo su uno stesso piano illustri personaggi maschili e femminili15 e spiegando come la virtù assuma delle particolari sfumature conformandosi di volta in volta a costumi, temperamento, alimentazione e stile di vita di ogni individuo senza perdere la propria connotazione generale e di conseguenza senza implicare per questo una palese od occulta ma tacita inferiorità femminile16. inoltre risultano molto frequenti le occasioni in cui singoli regnanti, gruppi di personaggi rappresentativi di comunità o intere popolazioni di città decidono di conferire a donne meritevoli, in qualità di riconoscimento pubblico ed ufficiale, degli attestati di benemerenza quali statue17, lodi18 ed ossequi19, cariche onorifi-

12 plut.,

Mul. Virt. 243 B 9 - 243 d 6. Mul. Virt. 243 a 9 - 243 d 3. 14 plut., Mul. Virt. 243 a 8 - 243 B 9. 15 trattasi di sesostri, servio, Bruto, pelopida, achille, aiace, odisseo, nestore, catone ed agesilao e di semiramide, tanaquil, porzia, timoclea, eirene, alcesti, cornelia ed olimpiade. plut., Mul. Virt. 243 B 9 - 243 d 3. 16 plut., Mul. Virt. 243 d 3 - 243 d 6. 17 plut., Mul. Virt. 250 F 3 - 5 ajnevkeito gou`n e[fippo" eijkw;n gunaiko;" ejpi; th`" oJdou` th`" iJera`" legomevnh", h}n oiJ me;n th`" Kloiliva" oiJ de; th`" Oujaleriva" levgousin ei\nai. 18 plut., Mul. Virt. 254 e 2 - 254 e 8 Aujth; de; pro;" tai`" puvlai" genomevnh tou;" polivta" ajpantw`nta" aujth`,/ meta; cara`" kai; stefavnwn uJpodecomevnou" kai; qaumavzonta", oujk h[negke to; mevgeqo" th`" cara`", ajll’ ajpevqanen aujtou` pesou`sa peri; th;n puvlhn, o{pou tevqaptai, kai; kalei`tai baskavnou tavfo", wJ" baskavnw/ tini; tuvch/ th;n Polukrivthn fqonhqei`san ajpolau`sai tw`n timw`n. 19 plut., Mul. Virt. 247 a 1 - 247 a 3 JH de; Kafevnh tw/` Numfaivw/ gamhqei`sa timh;n kai; cavrin e[sce tai`" eujergesivai" prevpousan; 257 e 7 - 257 F 3 |Wn oJ Sinavto" gunai`ka parqevnon e[sce Kavmman o[noma, perivblepton me;n ijdeva/ swvmato" kai; w{ra/ qaumazomevnhn de; ma`llon di’ ajreth;n: ouj ga;r movnon swvfrwn kai; fivlandro", ajlla; kai; suneth; kai; megalovfrwn kai; poqeinh; toi`" uJphkovoi" h\n diaferovntw" uJp’ ejumeneiva" kai; crhstovthto": ejpifanestevran d’ aujth;n ejpoivei kai; to; th`" jArtevmido" iJevreian ei\nai, h}n mavlista Galavtai sevbousi periv te pompa;" ajei; kai; qusiva" kekosmhmevnhn oJra`sqai megaloprepw`"; 260 d 1 - 260 d 8 OiJ me;n ou\n ejpieikevstatoi tw`n parovntwn ejdavkrusan jAlexavndrw/ d’ oijkteivrein me;n oujk ejph/vei th;n a[nqrwpon wJ" meivzona: qaumavsa" de; th;n ajreth;n kai; to;n lovgon eu\ mavla kaqayavmenon aujtou` toi`" me;n hJgemovsi 13 plut.,


Donato, Servio e Stazio, Tebaide V 78* Parum feliciter criticam artem exercuit (scil. Donatus) eis certe locis, de quibus traditum est. o. ribbeck, Prolegomena critica

nel libro quinto della Tebaide di stazio giganteggia la figura di ipsipile che, profuga dalla natìa lemno, vive come schiava presso la corte di licurgo, re di nemea, facendo da nutrice al piccolo ofelte, figlio del re. le truppe argive, mentre attraversano i territori nemei alla volta di tebe, sono colte da un’arsura provocata da Bacco per rallentarne l’avanzata e ipsipile, che si trova nei paraggi, offre loro indicazioni sulla fonte più vicina: dopo averla quasi prosciugata, l’esercito argivo chiede quale sia l’identità della donna e ipsipile narra così le sue vicende. ipsipile rivive nel suo racconto il suo dolore più grande, che costituisce l’origine del suo esilio da lemno: venere ha punito tutte le donne dell’isola, perché non era più adorata, e gli uomini di lemno, lontani per la guerra contro i traci, saranno uccisi dalle loro stesse mogli, madri e figlie secondo la volontà crudele della dea. il momento della lontananza e dell’attesa è rivissuto con accenti patetici, così come la noncuranza, per le lemnie dolorosissima, con cui i loro mariti e padri rimangono in tracia: cumque domus contra stantesque in litore nati, dulcius edonas hiemes arctonque prementem excipere, aut tandem tacita post proelia nocte fractorum subitas torrentum audire ruinas (Theb. v 77-80)1

si intende qui esaminare nel dettaglio il problema che il v. 78 pone nella costituzione del testo staziano e nella fortuna dello stesso nella scoliastica virgiliana e lucanea, poiché le relazioni fra i vari materiali esegetici suggeriscono interessanti e complessi rapporti di dipendenza reciproca. al v. 78, dunque, secondo l’edizione Klotz-Klinnert, pw leggono Edonias, evidentemente non accolto nel testo, così come non lo accolgono garrod, mozley e lesueur. altrimenti si comportano hill e shackleton Bailey, che leggono Edonias attenendosi alla lezione dei codici2. * un sentito ringraziamento va a giuseppe ramires, cui si devono le notizie in merito alla tradizione manoscritta serviana. naturalmente tutte le conclusioni sono da imputare all’autore. 1 per stazio si segue l’ed. Klotz-Klinnert 1973. le altre edd. di stazio sono garrod 1908, mozley 1928, lesueur 1990, hill 1996 e shackleton Bailey 2003. 2 hill ad loc. rileva in app. che t (Bruxellensis 5337, saec. Xi) attesta Edonias corretto in Edonas. riguardo ad alcune scelte editoriali di hill, cfr. mayer 1985, p. 290 che a proposito di stat. Theb. v


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donato, servio e stazio, Tebaide v 78

servio (ad Aen. Xii 365) tiene presente stat. Theb. v 78, in merito ad una questione di carattere metrico-prosodico riguardante l’aggettivo Edonus. il passo virgiliano che ci interessa è costituito da una similitudine: durante uno degli scontri così frequenti nel libro dodicesimo, turno avanza incontrastato fra le file dei nemici, abbattendoli simile a Borea, quando soffia da nord spazzando le nubi sul mar egeo, che si increspa: ac uelut edoni Boreae cum spiritus alto insonat aegeo sequiturque ad litora fluctus, qua uenti incubuere, fugam dant nubila caelo: sic turno, quacumque uiam secat, agmina cedunt, conuersaeque ruunt acies… (verg. Aen. Xii 365-369)

così commenta servio, costruendo intorno al v. 365 una polemichetta metrica, che ha come obiettivo la demolizione di una variante ‘inaccettabile’ difesa da donato: edoni Boreae ‘edoni’ thraci. nam edon mons est thraciae. sane sciendum est hoc loco errasse donatum, qui dicit ‘edonii’ legendum, ut ‘do’ breuis sit, secundum lucanum, qui dicit <i 675> e d o n i s o g y g i o d e c u r r i t p l e n a ly e a e o : namque certum est systolen fecisse lucanum: unde ‘edoni’ legendum est, ut sit ‘hic edonus, huius edoni’. statius et vergilium et artem secutus ait t r i s t i u s e d o n a s h i e m e s h e b r u m q u e n i u a l e m , non ‘edonias’.

prima di procedere all’analisi dello scolio serviano, è bene precisare morfologia e significato di Edonus, poiché né l’una né l’altro sono pacifici. Quanto all’etimologia, Edōnus è la forma latina dell’etnonimo greco jHdwnov~, noto anche in due allotropi ( jHdw'ne~ e [Hdwne"): è chiara l’irregolarità della declinazione e, quindi, dell’accentazione3. servio fornisce un’etimologia e fa derivare dal toponimo

78 commenta aspramente: «h. is right to fault āriētı˘bu˘ s at 2.492 but he prints forms of Ēdo˘nı˘ūs at 5.78 and 12.733. Why? a moment’s reflection, and you see that form is uneconomical (as lucan’s Edo˘nis was not), and it costs a correption. again the reader’s is quandary. does the editor understand prosody?». 3 a quanto detto da rocca 1985 limitatamente a virgilio, si può aggiungere che sulla profonda irregolarità del lemma si sofferma herod. iii 1, p. 25 lentz, iii 2 e p. 729 lentz = schol. thuc. ii 99, che nota in entrambi i casi la pluralità delle forme; speciosamente lo scolio di giovanni tzetze ad lycophr. Alex. 417-418 contempla una differenza fra jHdw'ne" ed jHdwnoiv: i primi abiterebbero le zone costiere, gli altri nell’entroterra. storicamente localizzati in tracia (strab. vii 1, 11; diod.sic. Xi 70, Xii 78), gli edoni furono coinvolti nelle guerre persiane (hdt. v 11, 124, vii 110, 114; Johann. tzetzes Chil. iii 96, 509-513 e iX 262, 211-215) e nella campagna di Brasida e nel tentativo abortito della fondazione di una colonia ateniese presso anfipoli, sita proprio in territorio edono (thuc. i 100, 3; ii 99, 4; iv 109, 4; v, 6, 4; herod. iii 1, p. 130, 24-25). gli edoni erano noti per i loro culti dedicati a dioniso (strab. X 3; Xv 1; philostr. VA vi 11), sulle cui stranezze cultuali si interroga


Alessandro Sau

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Edon, un monte di tracia, il nome di questo popolo: plinio il vecchio conosce tale notizia (nat. iv 50 montes extra praedictos Thraciae Edonus, Gygemeros, Meritus, Melamphyllos4), mentre altrove egli fa chiaro riferimento agli edoni come una delle popolazioni stanziate in tracia (nat. iv 40)5. l’attenzione di servio si concentra sulla prosodia dell’aggettivo Edōnus: lo scoliasta riporta polemicamente l’opinione di elio donato, che in luogo di Edōni legge Edo˘nii: dovendo difendere una variante che si presta bene a essere scartata perché contra metrum oltre che piuttosto banale, donato si poggia sull’auctoritas di lucan. i 675 e afferma che il virgiliano Edōni sarebbe soggetto ad una systole quale è quella di lucan. i 675. d’altronde, la forma Edonius6 è nota in età tardoantica anche a diverse fonti (tib. donat. interpr. Verg. ad Aen. Xii 365 ac uelut Edonii boreae cum spiritus alto; porph. ad hor. carm. ii 7, 26 Edonii Thraces sunt, quos solet ebrietas ferociores reddere; mart. cap. vi 655 haec tamen Macedonia populos, qui Edonii dicebantur, totamque Mygdoniam, Pieriam Emathiamque recepit in nomen), contesti che, però, non possono dirimere la corretta prosodia dell’aggettivo. servio, invece, sicuro della corretta prosodia Edōnus, si oppone fermamente alla posizione donatiana e invoca a conforto della sua posizione proprio stat. Theb. v 78, di cui è ribadita la correttezza metrico-prosodica sia sul piano dell’aemulatio sia su quello morfologico (et Vergilium et artem secutus). la systole in lucan. i 675 non è certo in discussione, tanto che l’aggettivo Edo˘nis è stato oggetto di imitazione in sil. iv 775 proprio in virtù dell’artificio metrico7; quanto a lucano, donato correla, sulla base del tema comune, l’aggettivo usato dal poeta ad un altro, vale a dire Edōnis, un femminile grecizzante rifatto su jHdwniv"8 (la particolare attenzione riservata dall’aemulatio siliana accentua il carattere di unicum dell’aggettivo Edo˘nis). Quindi, donato si serve in plutarco (Alex. ii 7); hanno legami ricorrenti con licurgo, che sarebbe stato loro re (strab. X 3; Xv 1; ps.apoll. iii 35), relazione evidente anche nella frammentaria tragedia eschilea jHdwnoivv (frr. 57-67 radt) nella trilogia Lukourgeiva. rarissime attestazioni (georg.choer. p. 200, 10 valckenaer; schol. ad aesch. Pers. 495; solin. Xi 1) vogliono che per jHdw'ne~ si intenda «macedoni». nessuna relazione in questo caso con un’altra popolazione tracia dal nome affine, gli [Wdwne~, noti solo a stefano Bizantino (s.u. p. 706 meineke), che cita una testimonianza dei Bassarikav di dionisio (fr. 8 heitsch). 4 in realtà è nota una ulteriore etimologia di ascendenza mitografica in prob. comm. in Verg. georg. iv 462 hagen: Pangaeus mons est et Rhodope Thraciae: ‘Rhesi tellus’ Thracia, quae prius dicta est Aria ab Areo rege, patre Thracis et Edoniae, a quo Thracia dicta est, et quaedam gens est Edoniae. 5 solin. iX 1 e mart.cap. vi 655, pur dipendendo da plinio, localizzano gli edoni in macedonia. 6 timpanaro 1986, p. 151 sottolinea la diffusione maggioritaria di Edonii come comune banalizzazione. 7 lo aveva già notato lejay 1894 ad i 675: «conformement à cette étymologie, lés poètes classique ne connaissent que “edōnis” […]; “edo ˘ nis” est une innovation de lucain, adoptée ensuite par sil., iv, 775». 8 cfr. hdt. v 11; aesch. Pers. 495. nessuna relazione fra il lat. Edonis col gr. jHdwniv", città tracia (suida s.u.; ps.plut. de fluuiis Xi 1; steph.Byz. ethn. p. 97, 18; claud.ptol. iii 12, 7 e 28).


Retorica vs Atletica nel discorso Olimpico di Dione di Prusa: riflessioni su una possibile dislocazione testuale in or. XII 17

1. nella accidentata trasmissione dei testi antichi sono tutt’altro che infrequenti i casi di integrazioni e manipolazioni dei dati offerti dalla tradizione; talvolta ci si può trovare di fronte a un intervento dotto e normalizzante o a glosse esplicative scivolate nel testo o che addirittura sostituiscono ciò che in principio aveva prodotto quell’intervento esegetico1. spesso anche fattori extratestuali come le mutate esigenze dei fruitori e particolari indirizzi della politica culturale da parte delle classi dirigenti hanno avuto non poca influenza sulla lettura, sull’esegesi e, quindi, sulla trasmissione dei testi. nel caso delle orazioni di dione di prusa, il rischio di trovarsi di fronte ad un testo molto compromesso aumenta sensibilmente, data la natura stessa delle sue opere, discorsi tenuti in più luoghi dell’impero e quindi adattati al contesto della performance2. le sue orazioni, inoltre, godevano di una «microamplificazione diffusa»3 dal momento che, come lo stesso autore ricorda, di esse si appropriavano altri individui diffondendole, ma probabilmente, anche distorcendone il senso4. non è dato poi sapere quale fosse il metodo di lavoro di dione e le condizioni in cui ci è giunto il suo corpus-‘archivio’ possono fornire solo qualche indicazione sul ‘laboratorio’ dello scrittore: il materiale poteva rimanere allo stadio di abbozzo ed essere utilizzato a distanza di tempo anche per discorsi diversi e la fase della composizione scritta (destinata alla pubblicazione?5) non doveva comunque porre fine alla possibilità di rimaneggiamento6, soprattutto perché dione faceva un uso innanzi tutto ‘politico’ dei suoi discorsi7, pur senza trascurare la dimensione più

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per il ruolo del copista nella trasmissione del testo cfr. canfora 2002, in part. pp. 15-24. cfr. orr. iii 26; Xi 6; Xvii 6; Xlv 1; Brancacci 1985, p. 21; Korenjak 2000, pp. 166-167. 3 cfr. desideri 1991, pp. 3915-3916. 4 cfr. or. Xlii 4-6. 5 cfr. Brancacci 1985, p. 24. per il concetto di ‘pubblicazione’ nel mondo antico cfr. dorandi 2007, pp. 65-101. dione non fu oggetto di una iniziativa editoriale che fornisse un testo canonico, come è avvenuto per isocrate e demostene, il che complica la situazione della trasmissione dei suoi testi che continuarono a rimanere in uno stato piuttosto fluido (cfr. cavallo 1987). per un quadro molto puntuale ed esaustivo sulla tradizione manoscritta dionea e sulla formazione dei corpuscula di orazioni, in particolare per le orr. Sulla regalità (i-iv), cfr. menchelli 2008, pp. 47-122; 257-262. sul PBrLibr 2823 che trasmette passi delle orr. Xiv e Xv in un ordine inverso rispetto a quello testimoniato dai codici cfr. luzzatto 1992. 6 sulle modalità di composizione e trasmissione, come pure sulla possibilità di ‘pubblicare’ o intervenire per correzioni nell’ambito dell’oratoria classica cfr. nicolai 2004, pp. 13-29. 7 cfr. desideri 1991, p. 3904. 2


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retorica vs atletica nel discorso Olimpico di dione di prusa

strettamente letteraria, che per alcuni discorsi come l’Euboico o l’Olimpico, solo per citare qualche esempio emblematico, appare indubbia8. chi si accosta ai testi dionei deve dunque fare attenzione alla possibilità che in alcuni casi quel che legge non sia il dione autentico e, tuttavia, non è neppure auspicabile che ogni qualvolta il testo presenti incongruenze o una struttura formale sospetta secondo criteri linguistici e stilistici moderni troppo rigidi esso debba essere considerato frutto di interpolazione9; si potrebbe piuttosto pensare a materiale di lavoro o, addirittura, a ‘varianti d’autore’10 compresenti nel testo, come dimostra il caso, ad esempio, delle doppie redazioni testimoniate dalla tradizione manoscritta nel Troiano11. 2. la sua natura ‘fluida’ e, se si vuole, in fieri, sottoponeva così il testo dioneo al rischio di possibili traslazioni di sequenze o perché esse erano già in posizioni ambigue nelle carte dell’autore, accompagnate da segni che ne indicavano la corretta collocazione nella versione ‘definitiva’, o in seguito a collazione con esemplari diversi, frutto di ‘edizioni’ alternative, o anche soltanto per errori materiali avvenuti per sviste o interventi volontari dei copisti. un esempio interessante di questo fenomeno può essere fornito dal § 17 dell’Olimpico (or. Xii) che riproduco qui di seguito12: 17. h\lqon de; ouj crhmavtwn e[mporo" oujde; tw'n pro;" uJphresivan tou' stratopevdou skeuofovrwn h] bohlatw'n, oujde; presbeivan ejprevsbeuon summacikh;n h[ tina eu[fhmon, tw'n ajpo; glwvtth" movnon suneucomevnwn, ªa[llo de; oujde;n crh; polupragmonei'n oujde; ajkouvein oujjdeno;" ajllæ h] movnon savlpiggo" iJera'" kai; tw'n makarivwn khrugmavtwn, wJ" o{de me;n nika/' pavlhn paivdwn, o{de de; ajndrw'n, o{de de; pugmhvn, o{de de; pagkravtion, o{de de; pevntaqlon, o{de de; stavdion ejni; bhvmati scedo;n eujdaivmwn genovmeno" aujtov" te kai; th;n patrivda kai; to; suvmpan ajpofhvna" gevno" ajoivdimonº gumno;" a[ter kovruqov" te kai; ajspivdo", oujd∆ e[con e[gco", ouj mh;n oujde; ajpobalw;n o{plon oujqevn.13

il testo fa parte dell’exordium (§§ 16-20) che segue la lunga prolalià (§§ 1-15)14 con cui si apre l’orazione e di cui occorre delineare sinteticamente il contenuto per meglio contestualizzare le affermazioni dionee: dione si rivolge al suo

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cfr. sonny 1896, pp. 163-164. cfr. de Budé 1920. 10 in generale per la presenza di possibili ‘varianti d’autore’ negli oratori classici come isocrate, cfr. pinto 2003, pp. 158-160, 166; nicolai 2004, pp. 168-172 e in altri testi greci e latini dorandi 2007, pp. 123-139. in generale sul problema delle ‘varianti d’autore’ cfr. pasquali 1952, pp. 395 ss. 11 cfr. vagnone 2003, pp. 119-120. sulla presenza di dissografouvmena nel testo dioneo cfr. sonny 1896, p. 164. per ‘varianti d’autore’ individuabili nelle orr. lXvi e Xii cfr. lemarchand 1929. 12 per un altro esempio cfr. menchelli 1997. 13 il testo di riferimento è torraca-rotunno-scannapieco; tutti i passi del discorso sono citati secondo questa traduzione. 14 si segue la suddivisione del testo proposta dal Klauck, in Klauck-Bäbler, pp. 28-30. 9


Rosario Scannapieco

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pubblico raccolto ad olimpia mostrando tutta la sua incredulità e paragonandosi ad una civetta che, pur non essendo un uccello d’aspetto piacevole, raccoglie torme di altri volatili intorno a sé, più del pavone di cui fornisce un’accurata e raffinata descrizione (§§ 1-3), dell’usignolo e del cigno (§ 4); allo stesso modo il pubblico, pur potendo godere di quanto offrono sofisti e poeti, preferisce ascoltare l’oratore, anche se non è sapiente ed afferma di non esserlo (§ 5). l’antica saggezza della civetta è ricordata da una favola di esopo15, secondo cui un tempo essa pronunciava delle profezie per aiutare gli altri animali, ma come una cassandra, non era creduta; per questo da quando la civetta è diventata muta gli altri uccelli si assiepano intorno a lei ad ogni sua apparizione, sperando ancora una volta – ma inutilmente – di ascoltare qualche consiglio positivo (§§ 6-8). allo stesso modo l’antica sapienza ellenica da tempo tace e tutti gli uomini per questo si accalcano intorno a dione sperando di sentire di nuovo la libera voce dei filosofi (§ 9). l’oratore, però, tiene a sottolineare socraticamente di non essere in grado di fornire insegnamenti, come fanno invece i sofisti che a pagamento possono dare la felicità ed ottenere così gloria e ricchezza (§§ 10-11). dione, vecchio e debole, non è depositario se non delle briciole di sapienza lasciate dagli antichi (§ 12); la sua somiglianza con la civetta sta dunque anche nel fatto che egli, proprio come il volatile, è in grado di attirare gli altri uccelli per poi permettere al sofista/cacciatore di fare di loro quello che vuole (§ 13). l’oratore, dopo aver osservato di nuovo con ironia che il pubblico è certamente in grado di credere alle sue parole, come avrebbero creduto a quelle di socrate (§ 14), torna a ribadire la sua diversità dal modello vincente fornito dai sofisti: mentre costoro sono in possesso di un sapere infinito, dione non può insegnare nessuna disciplina, né la mantica, né la scienza dei sofisti, né la retorica, né l’adulazione; incapace di scrivere e intento solo a curare la capigliatura come i cinici (§ 15), si impegnerà tuttavia nel suo discorso, malgrado la propensione alle digressioni e alla chiacchiera. dione del resto ha molto viaggiato e non solo con le parole; ad esempio, come egli riferisce in apertura dell’exordium, è appena tornato da un viaggio presso i geti (§ 16). È a questo punto che si legge il testo su riportato di cui qui riproduco la traduzione: mi sono recato in quei luoghi non per vendere le mie mercanzie né per assistere l’esercito come addetto ai bagagli o al bestiame; e non portavo un messaggio d’alleanza o di buon augurio, come uno di quegli ambasciatori abituati a formulare voti solo a parole: [“ma ora non dobbiamo occuparci di nient’altro e nient’altro dobbiamo ascoltare se non il suono delle sacre trombe e il lieto annuncio che il tale ha vinto nella lotta dei ragazzi, il tale altro in quella degli adulti e un altro atleta ancora nel pugilato; che al pancrazio si è classificato primo tizio e al pentathlon caio, mentre sempronio è risultato vincitore nella

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cfr. CFA 39b.


Cibele neoplatonica: alcune osservazioni sull’inno giulianeo Alla Madre degli dèi (or. 8 Rochefort)

È cosa nota quanto sia difficile fornire una ricostruzione coerente del pensiero filosofico-religioso di giuliano imperatore1. l’organigramma divino che, in sintonia con l’orientamento teologizzante della speculazione neoplatonica nei secoli iv-v2, riflette l’articolazione gerarchica della sua visione del reale, si presenta infatti come qualcosa di profondamente diverso da un “sistema” strutturato di principi dalle caratteristiche stabilmente definite. passando dai discorsi alle lettere e al trattato Contro i Galilei esso si configura, piuttosto, come un insieme “fluido” e “malleabile”, suscettibile di adattamenti e variazioni, in funzione delle diverse tipologie di destinatari cui l’imperatore si rivolge3 e soprattutto dell’obiettivo pratico che guida la sua azione politico-religiosa: realizzare una teologia ellenica globale, comprensiva delle varie tradizioni pagane e dotata di un valido apparato liturgico, in concorrenza con l’avanzata dilagante della nuova religione cristiana4. negli ultimi anni, i tentativi più interessanti di stabilire la genuina qualité philosophique5 della riflessione giulianea hanno avuto come principale punto di

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per un bilancio degli studi più recenti su giuliano filosofo neoplatonico mi permetto di rinviare a de vita 2008 (a). 2 sui fattori determinanti di questa significativa evoluzione, cfr. saffrey 1981, saffrey 1984 (a) e saffrey 1984 (b). 3 a colpire l’attenzione degli esegeti del pensiero giulianeo è soprattutto l’evidente semplificazione del sistema metafisico che si registra passando dalle orr. 8 e 11 al trattato Contra Galilaeos. per giustificare tale dissonanza, particolarmente stridente ove si consideri che gli scritti risalgono all’incirca allo stesso periodo (autunno-inverno 362-363), è stata avanzata l’ipotesi che fossero diversi i tipi di pubblico cui l’autore intendeva rivolgersi: egli cioè avrebbe composto gli inni, concettualmente più impegnativi, per i sacerdoti del nuovo clero ellenico, individui di sicura formazione filosofica, per fornire loro precise direttive in materia di culto, mentre avrebbe redatto il Contra Galilaeos, opera dall’impianto retorico più che filosofico, a beneficio della massa dei fedeli, per metterli in guardia dalla pericolosa minaccia cristiana; cfr. Bouffartigue 1992, pp. 396-397; masaracchia 2000, pp. 95-98. 4 secondo l’opinione di polymnia athanassiadi, autrice di una delle più importanti biografie di giuliano, il princeps, probabilmente condizionato dall’educazione cristiana ricevuta, avrebbe voluto dotare l’ellenismo della stessa «metaphysical oecumenicity» che il cristianesimo contemporaneo rivendicava a sé (cfr. athanassiadi-Frede 1999, p. 6). molto è stato scritto sulle origini e gli sviluppi dell’ellenismo in giuliano, quale elemento caratterizzante del suo pensiero filosofico e principio ispiratore della sua azione di governo: in esso l’apostata fece confluire tutta una serie di esperienze culturali e spirituali, l’amore per la grecia e la sua cultura, l’adesione al neoplatonismo mistico, un’altissima concezione di ajrethv, improntata agli exempla di alessandro magno e di marco aurelio, precise scelte in campo politico; cfr. huart 1978; Fouquet 1981; corsini 1983; criscuolo 1986. 5 l’espressione è di Foussard 1978, p. 193.


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alcune osservazioni sull’inno giulianeo Alla Madre degli dèi

riferimento l’or. 11, l’inno A Helios re. in questo “sermone pagano”, scritto seguendo le «tracce»6 del «divino» giamblico7, l’autore attua un’operazione fortemente innovativa: egli realizza, cioè, un superamento dialettico delle tradizioni religiose greco romane ed orientali sotto il segno del monoteismo solare, ricorrendo a strumenti concettuali e linguistici propri del neoplatonismo coevo. sarebbe però affrettato ridurre tout court la filosofia di giuliano al sistema metafisico esposto nell’or. 11, riconoscendo nella riflessione del princeps solo una forma intellettualizzata, pur se particolarmente complessa, di religione solare. non si può, infatti, fare a meno di sottolineare come il rilievo straordinario attribuito a helios nell’inno omonimo non trovi riscontro negli altri discorsi giulianei, ove sono piuttosto altre divinità, più o meno collegate al sole, a godere di una posizione di assoluta centralità metafisica. Basti pensare alla figura del demiurgo del cosmo, “antagonista” del dio ebraico-cristiano nel trattato Contro i Galilei8, o a quella della Mhvthr Qew'n cibele, nell’inno ad essa dedicato. Quest’ultimo testo, già esaminato sotto il profilo storico-religioso come fonte di informazioni sui vari aspetti del rituale metroaco9, non ha finora suscitato molto interesse presso gli studiosi del neoplatonismo tardoantico e, in particolare, del pensiero giulianeo: ciò, senza dubbio, in considerazione della natura formale dello scritto (parzialmente differente da quella dell’inno A Helios re) e dell’eterogeneità dei contenuti affrontati dall’autore, che spaziano dall’esegesi mitica alle informazioni sulle pratiche rituali e dalle riflessioni di natura filosofico-teologica alle digressioni cosmologiche. il presente contributo si propone di gettare luce sullo spessore filosofico del discorso, analizzando, in particolare, la figura della dea cibele cui giuliano si riferisce con l’appellativo di «madre degli dèi»: essa non solo svolge una funzione definita nell’ambito dell’onto-teologia dell’apostata, ma assume anche – nella presentazione dell’autore – dei tratti di una certa originalità che rinviano ai due “poli tensionali” della filosofia giulianea: ossia, la rielaborazione di spunti neoplatonici, da un lato, il rapporto di opposizione/emulazione con il cristianesimo, dall’altro. perché questi due aspetti vengano messi debitamente in luce nel corso dell’analisi sarà necessario fornire, in via preliminare, qualche delucidazione sulla

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cfr. iul. or. 7, 217a; or. 11, 157c-d. l’appellativo è frequentemente attribuito da giuliano al filosofo di calcide; cfr., a titolo di esempio, iul. or. 7, 222b; or. 9, 188b; or. 11, 157c; ep. 12; ep. 198, 401c. 8 cfr. iul. c. Gal. frr. 6, 8, 9, 10 masaracchia. sulla contrapposizione o ajntiparabolhv che in questi frammenti viene realizzata fra il testo del Timeo platonico e quello del libro della Genesi, cfr. de vita 2008 (b). 9 Fra gli studi più recenti sull’inno giulianeo e sul cap. iv del trattato salustiano De diis et mundo, che riprende dall’apostata le linee portanti dell’esegesi del mito di attis, segnalo soprattutto sfameni gasparro 1981, cosi 1982 e cosi 1986, näsström 1990, ugenti 1992 (a), ugenti 1992 (b), ugenti 1993, ugenti 1996, Bouffartigue 1992, pp. 359-379; turcan 1992, pp. 35-75; turcan 1996; smith 1995, pp. 163-178; criscuolo 2001. 7


Maria Carmen De Vita

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composizione e sulla struttura dell’inno, sul background di fonti filosofiche utilizzate dall’autore, per poi passare, in un secondo momento, ad uno studio più dettagliato sul ruolo metafisico-soteriologico attribuito da giuliano alla dea. L’inno Alla Madre degli dèi: struttura retorico-letteraria e fonti filosofiche la redazione del discorso Alla Madre degli dèi, risalente alla primavera del 362, è legata alla ricorrenza, nel calendario liturgico pagano, delle grandi feste annuali in onore di attis e di cibele, celebrate solitamente alla fine del mese di marzo10. più esattamente, la stesura del testo può essere ricondotta ad una sorta di «veglia pasquale metroaca»11: giuliano dichiara di aver composto l’inno nell’arco di una sola notte, allo scopo di proporre ai fedeli una sorta di meditazione orante sul significato dei riti celebrati e del mito su cui essi si fondano. l’atteggiamento dell’imperatore è dunque quello del pontifex maximus12, il garante e l’interprete dei pavtrioi novmoi religiosi, di cui intende dimostrare la perenne “attualità” a livello liturgico e la plausibilità a livello metafisico-teologico. non è facile stabilire il modello retorico dello scritto giulianeo, che, a differenza dell’inno A Helios re, non trova riscontro nella manualistica retorica diffusa in età tardoantica13. Forse solo l’ampia preghiera conclusiva, rivolta alla madre degli dèi, che copre gli ultimi tre capitoli del testo, potrebbe essere accostata alla cate-

10 cf. iul. or. 11, 156b. sulla datazione dell’or. 8, dalla tesi tradizionale (primavera del 362) divergono negri 1954 (pp. 107 e 196), vermaseren 1977 (p. 86) e cosi 1986 (pp. 77 ss.), che datano l’opuscolo all’inizio dell’estate dello stesso anno, collegando la composizione dell’inno Alla Madre degli dèi alla visita al santuario di pessinunte, cui giuliano volle rendere omaggio durante il trasferimento da costantinopoli ad antiochia. la devozione di giuliano per cibele è attestata, oltre che dalla composizione di un intero inno in suo onore, da vari riferimenti presenti nelle epistole: in ep. 81 (389a) conferisce a callissena il sacerdozio della gran madre degli dèi di Frigia, in ricompensa dell’attività da lei svolta, per quarant’anni, come sacerdotessa di demetra; in ep. 84 (431d) impone ai cittadini di pessinunte, come condizione per ottenere la benevolenza imperiale, di rendersi propizia la madre degli dèi. 11 l’espressione è di Fontaine-marcone-prato 2000, p. xlvii. 12 in ep. 88, 451b giuliano si dichiara mevga~ ajrciereu;~ kata; ta; pavtria; e anche in ep. 89b, 298d garantisce il suo appoggio, come «pontefice massimo per volere degli dèi (dokou'ntav ge ei\nai dia; tou;~ qeou;~ ajrciereva mevgiston)», al destinatario della lettera. sulla rivendicazione, da parte di giuliano, di un’autorità suprema in campo religioso, insistono quanti, a partire da Bidez 1914, accentuano le connotazioni teocratiche dell’ultima fase del regno dell’apostata. occorre tuttavia sottolineare che il titolo di ajrciereuv~ faceva parte della tradizionale titolatura imperiale, e in quanto tale fu rivestito da costantino e dai suoi successori fino all’abbandono di graziano, nel 381; cfr. mazza 2000, p. 33, nota 84. 13 l’or. 11, A Helios re, celebrando in successione le origini, l’essenza della divinità e i benefici concessi al genere umano, è infatti parzialmente riconducibile al genere retorico del balisiliko;~ lovgo~, descritto da menandro nel primo trattato Peri; ∆Epideiktikw'n; cfr. men. rhet. i 337, 23; smith 1995, pp. 144-145.


Corippo, Iohannis V 22-31 [= V 70-79] tra tradizione epica e civilizzazione rituale*

nel libro quinto della Iohannis1, attraverso la combinazione di quadretti epici, più o meno topici, che rendono l’esposizione spesso faticosa, è ricostruita una battaglia equestre che si sostanzia di non poche riprese soprattutto dai libri di guerra di virgilio (Aen. vii-Xii) e da lucano. già le apostrofi, che il troglita rivolge ai suoi e il riferimento al mito dei giganti quale esempio di u{bri" punita2, consentono di rintracciare il Leitmotiv del libro v, incipit della seconda metà del poema, e definiscono in maniera precisa il significato che il poeta vuole sia nella Iohannis attribuito alla guerra contro i Berberi3. * alla citazione secondo la numerazione tradizionale (dall’edizione petschenig 1886) segue tra parentesi quadre la nuova numerazione, che fa riferimento al vero incipit del libro v della Iohannis: cfr. g. caramico - p. riedlberger, New evidence on the beginning of iohannis, book V, in «md» 63, 2009, pp. 203-208, venuto a stampa quando questo contributo era già in bozze. 1 «ultimo epos latino» (romano 1968, p. 5), unica «secular latin poetry in Byzantine africa» (cameron 1983, p. 167), «épopée chretienne originale» (zarini 2003a, p. 122), la Iohannis di Flavio cresconio corippo narra di un bellum iustum, ovvero della felice spedizione (546-548 d.c.) di giovanni troglita nei territori nord-africani dell’antico reame vandalico contro le tribù di mauri ribelli all’esercito giustinianeo (riferimenti storici imprescindibili rimangono diehl 1896; courtois 1955, pp. 325-359; modéran 2003). argomento della Iohannis è per cesa 1985, p. 88 «la pacificazione» delle scorrerie dei Berberi e per cameron 1983, p. 173 l’opposizione intransigente dei mauri (violenti, rozzi e soprattutto non cristianizzati) ai Bizantini (buoni e virtuosi) è «necessary counterpart» in un’opera che, attraverso il dichiarato modello virgiliano, intende restaurare l’ideale della Neva JRwvmh. la solida presenza di virgilio in corippo, già evidenziata dalle note di mazzucchelli 1820, si è arricchita nel tempo di una circostanziata bibliografia (romano 1968 e Bländsorf 1975 sottolineavano il continuum ideologico della Iohannis rispetto all’Aeneis), ma il ‘superamento’ dell’epica antica attraverso la nuova concezione cristiana è messo in luce da consolino 1999, p. 86. notevoli spunti, in tal senso, provengono dagli studi di tommasi moreschini (in particolare cfr. 2001b e 2008), e di zarini (2003a e 2008). 2 alcuni esempi in coripp. Ioh. iv 124-125 (gentesque superbas / frangite), 441-442 (gentesque malignas / rumpite); v 97 [= 145] (gentes superbas), ma è una tendenza rintracciabile anche in altri libri, cfr. modéran 2003, pp. 418-419. allusioni alla gigantomachia ricorrono in Ioh. i 450-459; v 156157 [= 204-205]; vi 658-660, per cui cfr. andres 1997, pp. 23-26 e tommasi moreschini 2007, pp. 187-189 che parla di «conflict of savagery against civilization» e «opposition between the forces of chaos and kosmos». 3 il troglita è eroe cristiano e la causa dei Bizantini è giusta perché sostiene la ‘vera’ religione contro la ‘vana’ idolatria; zarini 1997b, pp. 222-224 e id. 2006, p. 59 intravede nella «présence de forts contrastes et la quasi-absence de nuances» una delle più interessanti caratteristiche della poesia di corippo. sulla caratterizzazione del nemico nella Iohannis hanno fatto il punto opelt 19821983; mantke 1996; zarini 1997a, pp. 22-25; castronuovo 1997; tommasi moreschini 2001a, pp. 29-37.


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corippo, Iohannis v 22-31 [= v 70-79]

in particolare, nei versi 22-31 [= 70-79] del libro v, un episodio si presta ad essere letto quale deliberato exemplum del messaggio ideologico della Iohannis. Quando già gli eserciti sono schierati e pronti a combattere, un toro viene lanciato (dimittitur) verso il campo di battaglia dalla parte in cui sono disposti i mauri; la furia del toro, che rappresenta la volontà di gurzil, divinità dei Berberi dalle sembianze taurine, è determinata da una magica ars compiuta da un sacerdos, ierna4, alla cui dignità religiosa si unisce il potere di capotribù; la corsa del toro infuriato termina con la sua uccisione per mano di un cavaliere romano. non è qui mia intenzione indagare sull’origine e la natura del culto di gurzil5, ma, proponendo un’analisi linguistica e contestuale di singole iuncturae, mi interesserò al valore metaforico e scenico di questo «curieux passage»6, proponendo una lettura che ne dimostri la coerenza concettuale con l’intreccio narrativo del libro quinto. per chiarezza riporto i versi in esame, Ioh. v 22-31 [= 70-79], secondo l’edizione diggle-goodyear7. il passo è lacunoso in un punto, v. 22 [= 70]8, e il verso 25 [=73] presenta una difficoltà testuale9: 4 sacerdote del culto di gurzil, ierna è presentato in Ioh. ii 109-12 (Ierna ferox his ductor erat Gurzilque sacerdos. / huic referunt gentes pater est quod corniger Ammon, / bucula torua parens: tanta est insania caecis / mentibus! ah, miseras fallunt sic numina gentes!), dove il poeta condanna il politeismo mauro con un intervento diretto dai toni lucreziani (lucr. ii 14 o miseras hominum mentes, o pectora caeca!). e il termine gens, con accezione dispregiativa (cfr. ThlL vii. 2, 1864, 43 «de iis qui ueram religionem omnino non confitentur» e zarini 1997, p. 169), è spia del «paganisme cultuel intense» dei mauri, espresso nella Iohannis anche attraverso aggettivi quali gentilis (iii 410 e viii 646), profanus (iii 83 e viii 314) e impius (zarini 2006, p. 55). 5 sulla natura umana e taurina del dio gurzil, generato nella credenza dei Berberi dall’unione del dio ammone con una giovenca (Ioh. ii 109-112) cfr. già tauxier 1877, p. 194 e elmayer 1982, p. 42. imprescindibili, quanto a dettagli bibliografici sulla figura di gurzil, rimangono partsch 1896, pp. 31-33; riedmüller 1919, pp. 42-43; Bénabou 1976, p. 277; decret-Fantar 1981, pp. 255-257; camps 1980 p. 104, 126, 206, 232; id. 1995, pp. 23-27; id. 1999, p. 3258 s., modéran 2003, pp. 285-286 e in particolare nota 118 per la problematica identificazione di gurzil con altre divinità, di cui si occupa anche tommasi moreschini 2000 e ead. 2002. 6 modéran 2003, p. 283. 7 diggle-goodyear 1970. 8 mazzucchelli 1820 pensa a cum magica <subito> a enfatizzare la repentinità del fatto (cum subito, ricorre in Ioh. iii 424; iv 161; vii 320; e tre volte all’inizio del verso in verg. Aen. i 509, 535; iii 590); goodyear 1970 in apparato propone magnus (dal confronto con Ioh. v 422 [= 470] castra petens primus magnum ferit ense camelum). 9 Numina è congettura di petschenig 1886 (cfr. Ioh. vi 116 non iam qui numina Gurzil), accolta da diggle-goodyear 1970, rispetto a munine, uox nihili del manoscritto (t686, codex unicus del Xiv sec.), già corretta da mazzucchelli 1820 (e partsch 1879) in numine, voce paleograficamente più vicina alla lezione tràdita e forse preferibile. leggendo numine, il termine, senza virgola dopo gurzil, va inteso come ablativo strumentale (sc. «in virtù del potere» di gurzil ammonio) e tradotto nel senso di oraculo, come si legge in serv. ad Aen. iii 363 (cuncti suaserunt numine diui). se invece si legge numina, si ha un accusativo plurale oggetto di signo, da intendersi nell’accezione di «cenno» e dunque «volere» della divinità, come generalmente in corippo e già in verg. Aen. i 666 (ad te confugio et supplex tua numina posco) e iii 543-544 (numina sancta… / Palladis), secondo la definizione varroniana (in ling. Lat. vii 5, 85 si legge: numen dicunt esse imperium, dictum ab nutu, <quod


Giulia Caramico

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cum * * * magica taurus dimittitur arte maurorum e medio, taurus, quem ierna sacerdos atque idem gentis rectorum maximus auctor finxerat ammonii signantem numina gurzil, omina prima suis. celsis tunc cornibus ille inter utrosque furit, dubius qua rumperet hostes. agmina dum trepidant, cursus per syrtica rupit ingrediens iterumque ferox sua castra poposcit. hunc sequitur romanus eques tremulumque <sub>armo missile contorquens mediis prostrauit harenis.

Forse perché sintesi perfetta di tradizione epica e componenti antropologiche l’episodio del «taureau magique»10 ha interessato archeologi11, storici12 e filologi13, che ne hanno dato interpretazioni differenti, soffermandosi in particolare sulla natura animata / inanimata del toro. nella poesia epica l’omen che precede la battaglia è motivo ricorrente14; e talora la fuga di animali dall’altare del sacrificio anticipa l’esito infausto dello scontro. accade ad esempio in virgilio Aen. ii 223-224 (qualis mugitus, fugit, cum saucius aram / taurus et incertam excussit ceruice securim) e in lucano Phars. vii 165-167 che, ispirandosi al passo virgiliano, illustra una scena simile (Admotus superis discussa fugit ab ara / taurus et Emathios praeceps se iecit in agros, / nullaque funestis inuenta est uictima sacris), poi riproposta da silio italico in Pun. v 63-65 (nec rauco taurus cessauit flebile ad aras / immugire sono, pressamque ad colla bipennem / incerta ceruice ferens, altaria liquit)15. dalla Iohannis si ha notizia di sacrifici animali compiuti dai mauri16, ma, senza allusione alcuna ad un rito sacrificale17, in v 22 [= v 70] al toro è soltanto riferito dimittitur, «è lanciato», con lo scopo di scompigliare i nemici e galvanizzare i mauri. ho motivo di credere, con modéran, che «il s’agit d’un véritable taureau», soprattutto in quanto gli è riferito l’aggettivo dubius, che nel designare un’esitazione è detto «de animantibus» (cfr. ThlL v. 1, 2103, 75)18. È inoltre noto che presso le tribù berbere fosse consuetucuius nutu> omnia sunt, eius imperium maximus esse uideatur). in tal caso l’espressione omina prima è apposizione di numina. nella Iohannis il termine numen ricorre nell’uno e nell’altro senso, come nota andres 1994, p. 66. 10 zarini 2003a, pp. 44-45. 11 Brouquier-reddé 1992, p. 218. 12 modéran 2003, p. 283. 13 andres 1997, pp. 129-140 e tommasi moreschini 2002, p. 284. 14 sul topos epico e storiografico di omina precendenti la battaglia è tutt’ora utile moore 1921. 15 le Bonniec 1980, pp. 200-201. 16 riti sempre sanguinari, in particolare in Ioh. viii 300-310, su cui cfr. modéran 2003, p. 282, nota 104. 17 modéran 2003, pp. 284-286 non esclude che il toro possa qui essere vittima sacrificale. 18 modéran 2003, p. 283 nota 113. l’indecisione sulla direzione da prendere richiama concettualmente verg. georg. ii 283 (dubius mediis Mars errat in armis). Dubius = dubitans seguito da un’interrogativa indiretta è anche in coripp. Ioh. ii 293 e iii 223, ma è un costrutto molto attestato in poesia


Indice

Premessa

5

Ctesia di Cnido nel POxy. 2330: una riconsiderazione Rosa Giannattasio Andria

7

Nota a Iperide, Epitafio 27: sul problema della dote pubblica alle ‘orfane’ di guerra Luisa Petruzziello

25

Cultura femminile e libri nell’Egitto greco-romano dalle lettere su papiro Adele Tepedino Guerra

37

Una nota a Strabone XII 3, 4: sulla fondazione di Eraclea Pontica ad opera dei Milesi Marina Polito

51

La ‘degenerazione’ di Neottolemo tra paradigmi retorici e culturali. Da Virgilio agli scoliasti Eugenia Mastellone

71

Gli esegeti virgiliani e i grammatici antichi a proposito del verbo facesso Danila Nasti

89

Una nota di A. Brelich a proposito della guerra rituale (Plut., Quaest. gr. 17) Ferdinando Ferraioli

99

Plutarco e le donne nel Mulierum Virtutes Fabio Tanga

105

Donato, Servio e Stazio, Tebaide V 78 Alessandro Sau

115


Retorica vs Atletica nel discorso Olimpico di Dione di Prusa: riflessioni su una possibile dislocazione testuale in or. XII 17 Rosario Scannapieco

127

Cibele neoplatonica: alcune osservazioni sull’inno giulianeo Alla Madre degli dèi (or. 8 Rochefort) Maria Carmen De Vita

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Corippo, Iohannis V 22-31 [= V 70-79] tra tradizione epica e civilizzazione rituale Giulia Caramico

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Finito di stampare nel mese di giugno 2010 in Pisa dalle EDIZIONI ETS

Piazza Carrara, 16-19, I-56126 Pisa info@edizioniets.com www.edizioniets.com


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