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FARE RISTORAZIONE

Mangiare a tu per tu con l’arte, la bellezza, la cultura

Autrice: Giulia Zampieri

Mettere in sinergia l’arte, la bellezza, la cultura e la scienza, con il cibo e l’accoglienza, è un’impresa che vale molto. Ma è anche una sorta di flusso spontaneo da cui consegue un linguaggio armonico, speciale, coinvolgente, che però richiede un’elevata comprensibilità. È inevitabile, tirate fuori queste parole, che tornino alla mente i pensieri del Maestro Gualtiero Marchesi. Ne La mia via, la tesi presentata in occasione della Laurea Honoris causa in Scienze Gastronomiche, conseguita nel 2012 all’Università di Parma, scriveva:

“Nella cucina e nella gastronomia la bellezza dev’essere buona e l’interpretazione non deve distruggere, ma valorizzare la materia. Mai come oggi bisogna ridare alle cose il gusto che hanno pur accogliendo la cucina e la gastronomia nelle quali vige la pratica dell’artefare il naturale non tanto nel senso di produrre ciò che non vi è in natura, ma in quello di “fare arte”. La cucina e la gastronomia cosa sono se non arte, nel senso più ampio, profondo e vero del termine? Arte è sinonimo di bellezza”. Dopo aver parlato con alcuni ristoratori impe-

Scampi Liguri di Luigi Taglienti. Foto: Fausto Mazza Studio

Gli interni di Myo Elena Paci e Angiolo Barni

Il centro Pecci di Prato

gnati in in questo particolarissimo intreccio tra arte, cultura e cucina mi rendo conto che i loro progetti denotano le stesse analogie raccontate da Marchesi:

la ricerca di semplicità, il valore della bellezza,

la fruibilità dell’arte e della cucina. Li vediamo insieme.

Elena Paci e Angiolo Barni al Centro Pecci

Il Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci di Prato è un luogo che meriterebbe molta più fama. Si tratta di una struttura particolarissima, che ricorda un’astronave, composta da due parti: una progettata negli anni Ottanta dall’architetto Italo Gamberini, l’altra ideata dallo studio Maurice Nio / NIO architecten di Rotterdam. È un centro polifunzionale che ospita

attività di raccolta e valorizzazione di opere con-

temporanee e i cui spazi possono anche essere affittati per altri eventi o esposizioni. La ristrutturazione si è conclusa nel 2016 e, in concomitanza, Elena Paci e Angiolo Barni, compagni anche nella vita privata, hanno aperto al suo interno, in un’ala dedicata, il ri-

storante gastronomico Myo.

“È un nome che hanno fortemente voluto i nostri figli. Myo, nella cultura orientale, esprime un concetto di meraviglia e di vita. Come l’arte. Noi non siamo qui per caso: l’arte ci ha sempre colpiti, attratti, e svolgere il nostro lavoro a contatto con l’arte è bello e stimolante” ci racconta Elena Paci che in Myo è responsabile di sala, sommelier e si occupa di tutta la parte gestionale. Ne abbiamo approfittato, a questo punto, per chiederle cosa significhi per lei l’arte. “Bellezza prima di tutto. L’arte è bellezza. Poi direi che è un modo per rispecchiarsi, o ritrovarsi. L’arte può essere anche un elemento di aiuto. È uno spazio di sogni”. Il legame con l’espressione artistica diventa, al Myo, non solo ideale, anche materico. Da quando hanno aperto, infatti, il menu riporta alcune opere per rimarcare la connessione con il luogo ospitante. In quanto alla cucina, sono due le possibili strade gastronomiche, cioè a la carta o a degustazione, ma unica è l’idea di fondo: dare al cliente piatti comprensibili, che si rifanno alla tradizione ma trasferiscono anche un pensiero personale. Angiolo utilizza materie prime locali, molte coltivate in regime biologico o biodinamico nell’orto di proprietà, e crede nella regola del ‘senza eccessi’. “Nessun eccesso, mentre la sinergia con il contesto è fondamentale” sottolinea Elena, aggiungendo: “Il Centro Pecci può crescere molto, diventare sempre più meta anche per il pubblico straniero. Ci auguriamo che ci sia una crescita costante di visitatori e che anche il Myo con la sua proposta possa dare il suo contributo”.

Luigi Taglienti. Foto: Fausto Mazza Studio Vista della cupola e del presbiterio dalla navata centrale. Foto: Fausto Mazza Studio

Luigi Taglienti a Piacenza, un nuovo progetto

Se si vuole cogliere il valore dall’incontro tra arte, cultura e ristorazione, non si può non interpellare Luigi Taglienti, dalla scorsa estate dedito ad un nuovo ambizioso progetto a Piacenza. IO, questo il nome del ristorante, nasce dal recupero della falegnameria annessa alla chiesa sconsacrata di Sant’Agostino, luogo molto sentito dai piacentini, che si allunga, nel periodo estivo, anche su un affascinante cortile. È un posto dal patrimonio storico notevole, unico per atmosfera e architettura, che si incrocia ulteriormente all’arte grazie a Volumnia, l’esposizione dedicata al design storico italiano diretta e curata da Enrica De Micheli. “Il ristorante, Volumnia e il luogo in cui ci troviamo viaggiano su piani autonomi ma paralleli, legandosi in molte affinità. La prima riguarda la ricerca: da un lato Enrica con i suoi straordinari pezzi di design storico, dall’altro il nostro progetto di ristorazione che si basa sull’interpretazione della cucina italiana, attualizzandola attraverso una visione personale. Il tutto in un contesto di bellezza assoluta, che riempie gli occhi di chi gli fa visita e di chi ci lavora” spiega Taglienti. Ci tiene, dunque, ad approfondire la particolarità del rapporto arte-cucina. “Arte e cucina unendosi danno vita ad un nuovo format di accoglienza e ristorazione. Penso che in realtà si tratti di una genesi spontanea: è difficile che se si parla di bellezza e cultura non si voglia allungare il passo sulla cucina. Così come la cucina ha netti rimandi all’arte, alla bellezza”. Dopo aver visitato la mostra è spontaneo che molti decidano di fermarsi a pranzo o a cena; o, viceversa, che si decida di visitare la mostra dopo aver apprezzato la cucina di Taglienti. La proposta gastronomica, un po’ come lo sono le esposizioni artistiche, conferisce totale libertà all’ospite: si può scegliere da un menu a la carta oppure affidarsi al menu degustazione. L’italianità, però, è il centro. “Abbiamo pensato a una cucina italiana più schietta, non banale, che racconti il mio percorso professionale attraverso la mia interpretazione, ma rimanga comunque sia, di facile lettura per l’ospite che si siede alla nostra tavola. La démarche è di rendere attuale la memoria gustativa e il patrimonio gastronomico italiano. Credo fortemente che proporre in carta una lasagna o un filetto alla salsa Rossini sia per un cuoco un banco di prova notevole. Questa sin dall’inizio ci è sembrata la

L’esperienza di Stefano Cerveni

La Triennale è uno dei perni culturali del capoluogo lombardo. Qui “accadono” settimanalmente le cose: mostre, eventi e convegni che abbracciano l’arte, la moda, il design, il cinema… La versatilità di questo luogo, trasferitosi a Milano nel 1933 (dieci anni prima è stata fondata a Monza), è uno degli elementi da tenere subito in considerazione,. Lo sa bene Stefano Cerveni, chef bresciano titolare del ristorante Due Colombe, che dal 2015 si occupa del comparto food per gli spazi di ristorazione della Triennale. Da poco, per cambio stagionale, hanno chiuso Caffè in Giardino - uno spazio verde davvero incantevole, attiguo allo stabile, aperto a pranzo e a cena - e attualmente la proposta di ristorazione della Triennale è concentrata su Design Cafè. “Lavorare in un museo, in un teatro o in una mostra, richiede un impianto completamente diverso, dire quasi opposto rispetto alla ristorazione tradizionale. Innanzitutto bisogna essere reattivi, capaci di recepire gli stimoli e di lasciare andare alcune abitudini da ristorazione classica” - spiega subito Cerveni. “I tempi, i modi, le scelte sono diverse. Vi faccio l’esempio pratico: chi vuole fare sosta in un luogo come questo difficilmente ordina più di due piatti. Con tutta probabilità dopo aver già impiegato molta concentrazione nella visita non ha voglia di impegnarsi mentalmente anche a tavola. Vuole qualcosa di buono, accomodante, con una porzione giusta, soddisfacente, a un prezzo accessibile. L’altra considerazione necessaria riguarda il servizio: deve essere veloce, anch’esso reattivo, non macchinoso né lezioso. In altre parole ‘dinamico”. Sottolineavamo prima la versatilità della Triennale di Milano, una struttura che si modula in funzione dell’evento ospitante. E, anche di questo, la ristorazione deve tener conto. “Da quando lavoro per la Triennale ho capito che flessibilità qui è la parola chiave. Flessibilità nei piatti proposti, negli orari di apertura, nella modalità di gestione delle richieste degli ospiti. Il menu cambia ogni mese. Accoglie le fondamenta della tradizione come il risotto alla Milanese, i ravioli del plin, il baccalà alla veneziana ma anche svariate proposte per vegetariani o vegani. A volte proponiamo dei piatti speciali per accompagnare alcuni eventi”. Non siamo i primi a parlare di ristorazione all’interno di musei, gallerie d’arte e luoghi di grande valenza storica e culturale. Ed è importante che si faccia, che se ne parli. Investire in questo dialogo può garantirci

una grande riconoscibilità, anche a livello internazionale, e aiutarci a promuovere forme di bellezza pressoché inarrivabili.

Stefano Cerveni Gli interni di Design Cafè

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