Quel patto senza tempo

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LUCIANO FALSIROLI

Quel patto senza tempo E l’amicizia diventò farmaco dell’anima

RIZA


Quel patto senza tempo Testi di Luciano Falsiroli Progetto grafico e copertina di Roberta Marcante Illustrazione di Angelo Ruta © 2014 Edizioni Riza S.p.A. via Luigi Anelli, 1 - 20122 Milano - www.riza.it Tutti i diritti riservati. Questo libro è protetto da copyright ©. Nessuna parte di esso può essere riprodotta, contenuta in un sistema di recupero o trasmessa in ogni forma e con ogni mezzo elettronico, meccanico, di fotocopia, incisione o altrimenti senza il permesso scritto dell’editore.


Indice

Prefazione di Raffaele Morelli ................................................................... 7 Quel patto senza tempo .................................................................................. 11 La montagna .............................................................................................................. 173



Prefazione di Raffaele Morelli

Rimane l’impronta

L’

amicizia vince la morte? Ci sono periodi della vita in cui affiorano i ricordi, arrivano più intensi di altri momenti, forse vengono per chiamarci, per farci trovare le nostre radici, la nostra trama, come avrebbe detto Celine. Col passare degli anni la memoria si rinsalda sul nostro lato antico, perenne, sulle basi solide di quell’incertezza che è lo scorrere del tempo. E ricordiamo e ricerchiamo le gocce di immenso che ci abitano. Le cerchiamo fra le cose perdute, tra le ombre che non ci sono più e non torneranno. Cerchiamo così i punti nodali del nostro essere stati nel mondo, che cosa resta di noi dopo tanto peregrinare nelle vicende del mondo e della vita che abbiamo vissuto. Di chi abbiamo bisogno via via che la luce del tramonto si affaccia sempre più nitida e incerta? Non ci serve ricordare gli amori: appartengono a un altro tempo dell’essere, a un’altra dimensione che solo l’anima appassionata, infuocata, ama rievocare. Invecchiare appartiene a un altro regno e quindi ad altre certezze. È l’amicizia che chiama, che prende la scena via via che l’anima va in pensione. Ricordi lontanissimi, eppure lucidi da condividere: certezze antiche sono gli amici, che in questo libro sono i protagonisti, i compagni di viaggio della notte cosmica. Magari non li vediamo da anni, ma gli amici intimi sono certezze… Certezze del nostro essere, mat7


toni della nostra anima. Gli amici e l’ironia dell’adolescenza, della giovinezza, le risate che solo l’amicizia ci ha regalato per davvero, così sonore, irriverenti, romantiche. Non possiamo andare nei Campi Elisi senza ritrovare gli amici e neppure senza contemplare il Sacro. Magari abbiamo rimosso il tempo dell’eternità dalla nostra vita, risucchiato dall’amore; ma in certi momenti abbiamo bisogno del Divino più del pane che mangiamo. Per il protagonista la Via è l’incontro con un sacerdote che lo indirizza alla clausura, al distacco dalle cose di ogni giorno, che pure hanno arricchito l’eroe del romanzo per tutta l’esistenza. Adesso che gli anni sono passati la Mistica lo chiama. Il giornalista ha bisogno proprio adesso di amici e di essere condotto verso il Sacro: amicizie e divino sono i due capisaldi dell’ultima chiamata che il protagonista fa a se stesso. Sono le due voci che sceglie per tornare a casa… Entrambe lo chiamano, entrambe rispondono. E poi il silenzio. Da lì veniamo e lì torniamo: gli amici però hanno conservato la nostra impronta.

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eve sbrigarsi. Fra un’ora piombano a Milano e gli rimane da chiudere una pagina. L’ultima. Il video lo informa che manca solo un titolo, su tre righe. Batte sui tasti poche parole: Chi resta/ trova/ un tesoro. E chiude. Ora può correre alla Stazione Centrale. Alle 20 arriva il rapido Monaco - Milano. Afferra tre giornali dalla mazzetta, saluta l’unico superstite serale della redazione e infila il corridoio che dà al salone d’ingresso. Qui, due porte di vetro, una guidata da cellula fotoelettrica, l’altra con maniglie d’ottone, lo restituiscono per l’ennesima volta alla storica via. È una sera di fine settembre, precocemente buia. Ne è sorpreso, come sempre gli accade sulle soglie dell’autunno, quando il ritorno all’ora solare affretta il tramonto e il ricambio della luce del giorno con le luci della città. L’aria è mossa e guardando all’insù intravede un rincorrersi di nuvole scure. Avverte segnali di pioggia ma non gli odori. Una volta li accompagnava il vento. Ora non più. Si dileguano, senza farsi riconoscere, fra i gas di scarico delle automobili. Saluta un collega al primo semaforo, taglia via Moscova e risale verso i bastioni. Ha deciso di andare a piedi. Tutt’al più se la minaccia del temporale dovesse farsi seria, sa che troverà sempre un tram pronto a raccoglierlo. Il passo è lento e fa buona compagnia a pensieri, che da bizzarri padroni lo fanno saltare avanti e indietro nel tempo come una pallina da ping pong. Ma c’è quiete 11


nell’animo. Si sente protetto. Persino dai rami bassi degli ippocastani che, sbracciandosi ad altezza d’uomo, fanno da tettoia ai pedoni che scivolano via su un marciapiede di ruvido asfalto. Sfiora un passante, incrocia lo sguardo di un altro e si accorge che i rumori del traffico gli scivolano attorno senza irritarlo. Può intrattenersi persino con se stesso. Interrogarsi. Si chiede come si saranno ridotti quei due e perché mai avranno deciso di incontrarlo proprio ora, improvvisamente, dopo un silenzio di oltre vent’anni. In molto meno cambia una città, figurarsi un volto. Se le loro facce hanno ricevuto i graffi che si è preso la sua, pensa che occorrerà mettersi tutti un cartello al collo con tanto di nome bene in vista, per farsi riconoscere. E poi il modo. Come si fossero lasciati il giorno prima davanti al Bar Sport di piazza Walther. Fermo al semaforo, tira fuori dalla tasca il telegramma che da due giorni gli fa compagnia. Lo rilegge ancora una volta: “Caro Bruno, arriviamo martedì ore 20. Stazione Centrale. Piccola Roccia, niente scuse. Ciao, Massimo e Sandro.” Avrebbe potuto chiamarli al telefono, chiedere spiegazioni ma ha preferito stare all’antico gioco o meglio alla regola, in fondo mai scaduta, che non ammetteva rifiuti nemmeno alle chiamate più strane. Al lampo verde del semaforo gli scatta pure un sorriso. Sceglie d’istinto le strisce pedonali più scorrevoli, indovina i tempi degli altri semafori e d’un fiato attraversa il piazzale Principessa Clotilde. È in via Galilei. Ancora alberi, ancora ippocastani ma più spavaldi di quelli dei bastioni. Osserva i tronchi e nota che si slanciano molto in alto prima di dare via libera ai rami, 12


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anch’essi tanto lunghi da scavalcare la corsia che fiancheggia lo stradone, fino a sfiorare le facciate dei palazzi. È passato da lì tante volte ma non si è mai accorto di tutto quel verde sospeso sulla testa. Non se ne stupisce, raramente guarda all’insù. Man mano che si avvicina alla stazione, cerca di mettere a fuoco i due passeggeri del rapido Monaco-Milano. Ma stenta a ricordare persino l’ultima volta che sono stati insieme. Dove, quando? Forse davanti a una vetrina di via Museo a Bolzano, dove si sono conosciuti, oppure nella piazzetta della birreria Forst, che sbircia il Duomo e il Conservatorio, seduti a un tavolo in attesa di uno di quei gulasch di mezzanotte capaci di accenderti in un istante stomaco e cervello. O chissà, a una di quelle feste di piazza tirolesi in cui tutto diventava coro, fra spallate col vicino di tavola, boccali di birra impugnati come asce e piatti fumanti di crauti e salsicce. Andava spesso in quei borghi adagiati ai piedi della Mendola, fra gli uomini dai grembiuli verde-blu che sorridevano a donne dai seni spaziosi, cullati da nastrini rossi e a stento trattenuti dalle bianche camicette ricamate di fiori. Gli piaceva chiudere con loro le sere di fine estate, che cominciavano quasi sempre con un tuffo nelle acque del lago di Monticolo. Un’acqua che dava gioia perché ti avvolgeva di una dolcezza inattesa, accogliente come il tepore delle baite nelle notti di gelo. Non era facile uscire da quell’abbraccio. Si giocava con gli sbuffi improvvisi delle sorgenti termali, segnalate dal gorgogliare delle bolle nascoste fra le alghe che affioravano sparse nelle piccole anse, dove al primo buio si cercava di far luce con i fari dell’auto lasciata 13


sull’orlo della stradina, zigzagante lungo l’intera sponda. Bruno esita a staccarsi da quel lago. Ma lo aiuta il desiderio di aggiornare l’identikit dei due. Vuole provarci. Perché non provarci? Immagina che basterà ricordare com’erano e poi invecchiarli un po’. Non lo ha mai fatto, forse per non dover usare se stesso come specchio. Fruga in fretta nella memoria e raccatta quanto gli serve. Il primo che riaffiora è Massimo, brevilineo e piuttosto tozzo, con capelli neri e corti, destinati, c’era da scommetterlo, a resistere. Il viso secco e scuro gli sembra di averlo ancora sufficientemente inciso nella memoria. Gli getta un po’ di cenere tra i capelli, fa spazio alla cicatrice che gli marchiava la cute come una griffe d’autore, gli disegna un po’ di rughe qua e là e se lo ritrova davanti neppure tanto mutato. Almeno così crede. Sandro invece concede tracce vaghe: statura medio-alta, fronte in espansione, corporatura atletica, appartiene a quei tipi che una volta smessa la pratica sportiva approdano alla mezza età appesantiti se non addirittura gonfi come gli omini Michelin. Bruno pensa alla loro età ma non ha bisogno di aggrapparsi a date o conteggi. È vicina alla sua, che sta già volando verso i sessanta. La Stazione Centrale, massiccia e invadente com’è, lo distoglie dai suoi intarsi nel tempo. Vi entra spedito. L’orologio del salone segnala cha manca una decina di minuti. Ne consuma qualcuno osservando i cartelloni pubblicitari, poi prende la scala mobile che porta al piazzale interno che immette ai binari. Mentre sale prova sensazioni neppure tanto inattese: nostalgia, disagio, curiosità. Bruno Girolami ora è sotto la tabella che indica il binario 14


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numero 7 del Monaco - Milano. Si sente inquieto. Fissa le rotaie. Le vede nere, gelide, di una rigidità cupa. Come se non potessero portare più nulla e in nessun luogo. Ma si accorge che basta muovere un passo, di qua o di là, perché le rotaie si rimettano prodigiosamente a vivere, quasi a danzare in un frenetico rincorrersi di luci, un turbinio di riflessi abbaglianti, che insegne pubblicitarie, giganteschi lucernari e serpenti al neon fanno piovere dall’alto. Gli sfugge un sorriso. Bruno arretra di un passo, avanza, si sposta. Il gioco lo diverte ma si interrompe subito. L’altoparlante annuncia che il rapido sta entrando in stazione. Bruno si guarda attorno e si vede lì, immobile, accanto a un gruppo di persone, anch’esse in attesa di qualcuno. Sarebbe quasi tentato di studiarsi quelle facce, una per una, immaginarne la storia. Ma non c’è tempo. Due grandi occhi gialli gli stanno venendo incontro. Del treno che scivola adagio sulle rotaie, senza far rumore, non si notano che loro. Poi i fari si spengono, lentamente, come stremati dalla fatica e il convoglio, prima invisibile, prende ora vigorosamente forma. Bruno comincia a scrutare i passeggeri che via via scendono dalle carrozze e si affrettano all’uscita. Non si sofferma sui singoli, privilegia le coppie, i piccoli gruppi. Fissa lo sguardo su gente di mezza età, ripensa al fresco identikit ma non trova indizi. In pochi secondi gli sfilano attorno almeno un centinaio di persone e, deve ammettere, neppure un tipo “sospetto”. Man mano che il marciapiede si svuota, gli si accende dentro una spia. Si chiede se quei due non abbiano per caso voluto giocarlo, metterlo alla prova. Ripensando ai precedenti, sa che potrebbero esserne ancora capaci. È una supposizione un po’ fragile, se ne rende conto, da scaccia15


re. Ma Bruno se la rigira addosso come fosse un’idea fissa. Pochi istanti, poi lascia che si sciolga per sparire in quel sorriso, estraneo agli occhi, con cui solitamente reagisce ai fastidi di giornata, alle delusioni improvvise. Ma ogni pensiero si arresta. Qualcosa è accaduto. Sente una mano posarsi sul braccio, una presa lieve ma sicura, non di una mano sconosciuta. È pronto a scommettere che sarebbe in grado di riconoscerne l’autore senza bisogno di voltarsi. Un attimo e la conferma gli arriva dal tono di una voce che porta una domanda di poche parole. “Scusi buon uomo, che mezzi consiglia per via San Quirino?” Bruno si gira di scatto e sbatte sugli occhi di Massimo. Non vede nient’altro. Gli basta. È lui, non ha dubbi. E poi quel “buon uomo” vale più di una parola d’ordine. Prima di rispondere riesce in un lampo persino a compiacersi del suo identikit. E senza esitare, accetta pure di stare al gioco.”Ha detto San Quirino? Impossibile. Mai sentito un nome così a Milano.” “Strano, ci abitava un amico.” “Temo abbia sbagliato città.” “Può essere. Ricordo che ci si arrivava dal centro svoltando a sinistra appena passato il ponte.” “Oppure, come succede nelle città di fiume, girando a destra, dopo il ponte successivo.” “Certo, proprio così. Non ci avevo mai pensato.” “Mi spiace. Questa è Milano, dove gli unici ponti sono quelli del Naviglio, un fiume morto, buono per i pittori e per i mercanti.” “Lei abita forse da quelle parti?” “Perché, ho forse l’aria del mercante?” Sandro a pochi metri, proprio sotto il tabellone delle 16


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partenze, due borse ai piedi, li sta osservando immobile come fosse davanti a un monumento che improvvisamente si anima. È così stupefatto di quel faccia a faccia, che non può udire ma di cui intuisce le stravaganze, da volerselo godere ancora un po’. A distanza. Prima di invitarli a smettere, come spesso gli toccava fare. Non era forse lui l’arbitro designato a scandire i tempi dei loro scherzi? Bruno e Massimo erano bravissimi a manipolare gli umori di una serata fra amici, ovunque si trovassero. A un segnale convenuto cominciavano con l’ignorarsi, poi a comportarsi da perfetti sconosciuti. Quindi, con un pretesto qualsiasi procedevano alle formali presentazioni. Maniere e toni erano adeguati al personaggio e al mestiere che si erano lì per lì inventati. Nessun problema per il botta e risposta che ne nasceva. Bruno e Massimo divagavano in scioltezza, pronti a superarsi se al finto stupore degli amici si aggiungeva quello reale degli estranei. Mai prevedibili, offrivano il meglio nei reciproci abbandoni, nel confidarsi le loro esperienze. Fortunate o amare, a seconda dell’estro e della circostanza. Erano capaci di improvvisarsi suore di clausura per dialogare trepidanti sui tormenti della tentazione, oppure lerci boss, rivali nel racket della prostituzione. Spacciatori inesauribili di parole e situazioni. Sandro li ha visti sfidarsi da usurai, psichiatri, modiste, allevatori di conigli, piloti, corniciai, gestori di night, vinaioli tirolesi, leader politici, mercenari quasi sempre in versione vigliacchi. E soprattutto da nemici miliardari pazzi, con l’hobby del collezionismo. Era questo il pezzo forte del loro cabaret, gradito agli amici e ancor più agli attori. Tesori sparsi lungo notti che non morivano nemmeno all’alba. 17


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