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A.R.M.I. ADATTAMENTO. RESILIENZA. METABOLISMO. INTELLIGENZA di Michele MANIGRASSO e Luciana MASTROLONARDO Prefazione di Bruno CICOLANI Postfazione di Stefano Maria CIANCIOTTA ISBN 978-88-96386-38-5

Euro 20,00

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Architetto, Ph.D in Cultura Tecnologica e Progettazione Ambientale (Università di Chieti Pescara) nel 2011, sui temi dell’ecologia industriale e lo sviluppo di materiali low-tech, relatore prof. Maria Cristina Forlani. Visiting Research Student nel 2010 presso l’IPETH dell’Unil a Losanna (CH), con il prof. S. Erkman. Vincitrice nel 2011 di un assegno di ricerca post-doc biennale su innovazioni di prodotto e di processo per l’uso del legno locale. Svolge attività di ricerca e partecipa attivamente a convegni nazionali e internazionali, pubblicando i risultati delle sue ricerche. Cultrice della materia presso il Dipartimento di Architettura di Pescara ai corsi di Progettazione ambientale, titolare del modulo “Metabolismo Urbano“, nel corso di Ecologia Urbana (Laurea Magistrale in Urbanistica Sostenibile). Ha partecipato a diversi concorsi di Architettura, risultando vincitrice di alcuni premi: Premio Portus sezione Molise 2006, Biblioteca di Maranello 2009, AAA Giovani Architetti Cercasi 2010. Svolge l’attività di architetto e di consulente per diagnosi energetiche strumentali.

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Luciana MASTROLONARDO_

Adattamento. Resilienza. Metabolismo. Intelligenza M. Manigrasso & L. Mastrolonardo

Architetto, Ph.D in Architettura e Urbanistica. Svolge attività di ricerca e didattica nel Dipartimento di Architettura di Pescara, prestando specifica attenzione ai temi ambientali orientati al progetto, in particolare nei corsi del prof. Valter Fabietti. Nel 2009 è stato Visiting Research presso la Faculté de l’Amanegement, Université de Montréal. Dal 2008 collabora con Legambiente Nazionale sui temi del consumo di suolo, clima ed energia, ed è membro del comitato scientifico dell’Osservatorio Nazionale sui cambiamenti climatici nelle città e nei territori. Co-fondatore, di Studio [OPS!], ha partecipato a diversi concorsi di progettazione, ottenendo importanti riconoscimenti tra cui il primo premio per la ‘Sistemazione di Piazza Dante’ a Teramo (2009); il premio ‘Eco_Luoghi 2013, Progetti di Rigenerazione Urbana Sostenibile’, per architetti under 35; il terzo premio al concorso ‘Riuso 03’; il secondo premio all’International Design Award 2013’. Ha pubblicato ‘Città e clima. Verso una nuova cultura del progetto’, e recentemente ha curato, insieme a Paola Misino, ‘Orditure del Terzo Spazio. Dal consumo di suolo al riciclo delle aree produttive agricole’.

architettura sostenibile / documenti

A.R.M.I.

Michele MANIGRASSO_

A.R.M.I.

ADATTAMENTO. RESILIENZA. METABOLISMO. INTELLIGENZA Michele MANIGRASSO & Luciana MASTROLONARDO

I cambiamenti climatici e il depauperamento delle risorse hanno acceso i riflettori sulla capacità dei sistemi urbani di reagire ai crescenti problemi ambientali, e di rispondere, ai diversi livelli decisionali e progettuali, alle nuove emergenze globali. Quali sono le A.R.M.I. che abbiamo nel campo di battaglia, planetario ma locale, che è il territorio urbanizzato, e come dobbiamo usarle? A questi interrogativi provano a dare risposta i due autori, con la necessità di adattamento dei nostri territori ai mutamenti del clima, riducendone la vulnerabilità in favore della resilienza, rinnovando il loro metabolismo urbano, attraverso una intelligenza collettiva, capace di generare risposte progettuali che migliorano la qualità della vita. Un’intelligenza che parte dall’uomo e usa consapevolmente la conoscenza condivisa e la tecnologia, concertando e condividendo l’innovazione. È l’intelligenza l’arma più importante, che lavora sul presente con una visione sostenibile orientata al futuro, per restituire la grande bellezza, che è il nostro immenso patrimonio, condiviso, ammirato, troppo spesso visibile solo in filigrana.


Il volume è stato pubblicato con il contributo del Dipartimento di Architettura del’Università “G. D’Annunzio” di Chieti-Pescara.

EdicomEdizioni Monfalcone (Gorizia) tel. 0481/484488 fax 0481/485721 e-mail: info@edicomedizioni.com www.edicomedizioni.com I testi e le foto sono stati forniti dagli autori © Copyright EdicomEdizioni Vietata la riproduzione anche parziale di testi, disegni e foto se non espressamente autorizzata. Tutti i diritti sono riservati a norma di legge e delle convenzioni internazionali. ISBN 978-88-96386-38-5 Questo libro è stampato interamente su carta con alto contenuto di fibre riciclate selezionate Stampa Press Up Roma Prima edizione novembre 2014


Desideriamo ringraziare

Il prof. Bruno Cicolani per aver condiviso con noi l’esperienza di didattica

all’interno del corso di Ecologia Urbana, e per aver scritto la prefazione di questo libro; il prof. Stefano Maria Cianciotta, per l’interesse dimostrato rispetto ai temi trattati, le stimolanti esperienze condivise e per aver scritto la postfazione; il prof. Roberto Mascarucci, per la possibilità offerta all’interno del corso di Ecologia Urbana.

Un ringraziamento speciale va alla prof.ssa Maria Cristina Forlani per gli

stimoli continui e le indicazioni ricevute, per gli scenari aperti grazie alla condivisione di riferimenti ed esperienze di ricerca; al prof. Valter Fabietti, riferimento culturale importante in merito al tema della Resilienza, e non solo; a Edoardo Zanchini sempre presente e disponibile al confronto sui temi ambientali e dell’adattamento ai cambiamenti climatici. Ringraziamo l’arch. Michele Boccia, per le foto ai ‘bordi urbani’ che aprono i capitoli del libro, il prof. Romano Molesti per i riferimenti bioeconomici.

Un ulteriore ringraziamento ai proff. Maria Cristina Forlani e Valter Fabietti,

per aver reso possibile questa pubblicazione.

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INDICE Prefazione di Bruno Cicolani Introduzione di Michele Manigrasso e Luciana Mastrolonardo

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PARTE PRIMA di Michele Manigrasso L’ADATTAMENTO AI CAMBIAMENTI CLIMATICI. Necessità e opportunità per la resilienza delle città e dei territori

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Cap 01_ Un problema d’interesse planetario

17

01.1_ Cambio climatico. Dalle Cause naturali alle cause antropiche

19

01.2_ Responsabilità e conseguenze delle emissioni climalteranti

22

01.3_ Il Quinto Rapporto dell’Ipcc

26

01.4_ Le guerre del clima

28

01.5_ Un campo di battaglia a scala planetaria. Le città in prima linea

30

Cap 02_ Mitigazione e Adattamento...obiettivo Resilienza

35

02.1_ Origine e nomadismo del termine ‘Adattamento’

37

02.2_ L’adattamento nella politica di protezione del clima

38

02.3_ L’adattamento autonomo e l’adattamento programmato

42

02.4_ Trasmigranza del termine ‘Resilienza’

44

02.5_ Piani di adattamento nazionali e urbani. Un aggiornamento

48

Cap 03_ Il riciclo della città esistente secondo requisiti di adattamento

63

03.1_ Eventi climatici estremi e morfologie urbane sostenibili

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03.2_ Riusa/Riduci/Ricicla. Risignificare ruderi del presente, aree vuote, tessuti consolidati

68

03.3_ L’abitare compatto e il riciclo di suoli attivi. Nuova centralità adriatica a Giulianova

71

03.4_ Rigenerare Siviglia. Un nuovo ciclo di vita per l’expo, fiume e città

84

03.5_ Flessibilità e comfort microclimatico nel riuso del parcheggio multipiano a S. Salvo (CH)

94

03.6_ Cambio di clima (culturale)

106

Bibliografia e Sitografia

108


PARTE SECONDA di Luciana Mastrolonardo SCENARI DI LETTURA ATTRAVERSO IL METABOLISMO URBANO. La città come organismo in evoluzione

113

Cap 01_ Il metabolismo: dalla biologia alla città

115

01.1_ Economia, Ambiente, Urbanizzazione, Globalizzazione

117

01.2_ Derivazioni dal termine Metabolismo

124

01.3_ L’approdo del Metabolismo allo studio della città

131

01.4_ Metabolismo e storia di un metodo

133

Cap 02_ I sistemi sostenibili: un’arma per l’evoluzione urbana

139

02.1_ Metabolismo come risposta ecosistemica ai problemi del territorio

141

02.2_ L’ecosistema urbano e la chiusura dei cicli

146

02.3_ Lo studio dei flussi urbani nel metabolismo

150

02.4_ Le modalità di governo dei flussi

155

02.5_ Le strategie di regolazione dei flussi di input e output

158

02.6_ Obiettivi, metodo, ricerca: come affinare le armi

162

Cap 03_ Applicazione e ricerca per affinare le armi

167

03.1_ Il campo di battaglia: il territorio antropizzato

169

03.2_ Modello metodologico trasmigrato dall’Ecologia industriale: MFA e IS

171

03.3_ Rigenerazione urbana e chiusura dei cicli: prove di sostenibilità forte

175

03.4_ Definizione di nuove produttività e filiere per il paesaggio urbano: esercitazioni sul campo

186

03.5_ Criticità e scenari per la scelta delle armi migliori

204

Bibliografia e Sitografia

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NOTE CONCLUSIVE di Michele Manigrasso e Luciana Mastrolonardo L’arma dell’Intelligenza per uscire dalla crisi?

211

Postfazione di Stefano Maria Cianciotta

217

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PREFAZIONE di

Bruno Cicolani

Il libro rappresenta la realizzazione di un progetto che Michele Manigrasso e Luciana Mastrolonardo mi avevano esposto due anni fa, in occasione degli incontri tenuti per organizzare il corso di Ecologia Urbana – presso il Dipartimento di Architettura dell’Università ‘G. D’Annunzio’ di Chieti – Pescara (Corso di Laurea in Urbanistica Sostenibile). Ricordo ancora con piacere l’entusiasmo con il quale i nostri studenti, ‘futuri urbanisti’, hanno seguito le lezioni, nonché la loro partecipazione alle attività laboratoriali organizzate, con competenza, dagli autori di questo libro dalla cui gradevole lettura traspare anche la necessità di una rifondazione di discipline coinvolte nella pianificazione e gestione del territorio. La richiesta di chiudere i cerchi tra urbanistica, ecologia ed economia, viene dall’esaurirsi delle risorse e dall’emergenza climatica che porta ad affrontare i problemi ambientali partendo dagli insediamenti urbani, i contesti più vulnerabili del territorio, in termini di popolazione e patrimonio costruito.

Le città e le aree di sviluppo industriale, i cosiddetti ‘tecno-ecosistemi’, nell’insieme dei paesaggi naturali e rurali, non rappresentano più delle piccole isole, e le previsioni indicano che una quota compresa tra il 50% e 80% della popolazione mondiale vivrà, nel 2020, nelle aree urbane. Le città sono responsabili dell’80% delle emissioni di gas a effetto serra e del 75% dei consumi energetici mondiali, e non è necessario essere esperti futurologi per essere in linea con gli autori del libro ed affermare che le città (i governi locali), dopo aver contribuito fortemente all’emergenza ambientale, dovranno svolgere ‘un ruolo rilevante come laboratori di sperimentazione della politica di protezione del clima’ attuando strategie che gli autori ben evidenziano nel testo. I cambiamenti climatici si sono sempre verificati ed hanno determinato la scomparsa di specie, specialmente della megafauna, ma hanno anche consentito all’Homo sapiens di occupare, circa 14.000 anni fa, numerosi habitat e di arrivare nel Nuovo Mondo attraverso lo stretto di Bering e l’Alaska. La fine del periodo glaciale, inoltre, ha avuto qualcosa a che fare con l’invenzione dell’agricoltura. Il riscaldamento post-glaciale ha favorito il rifornimento di cibo consentendo l’accrescimento delle popolazioni umane. Con l’agricoltura, le diete degli uomini cacciatori-raccoglitori sono divenute ampie in quanto l’uomo ha imparato ad allevare e coltivare quello che prima cacciava e raccoglieva. L’uomo ha modificato nel tempo la sua nicchia ma anche il suo habitat. Grazie alla sua evoluzione culturale ha realizzato questi cambiamenti vivendo una storia di coevoluzioni con le altre specie, come dimostrano, appunto, l’agricoltura e la domesticazione degli animali, da ritenersi chiari esempi di

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mutualismo. Oggi l’uomo modifica l’ambiente a velocità folle (inumana?) e vive sempre più l’ambiente urbano; forse ha scelto la città come unico habitat ma contribuisce scarsamente alla qualità della vita in essa, trascurando gli effetti diretti e indiretti sulla sua salute e i danni determinati soprattutto da emissioni climalteranti e consumo di risorse. L’approccio alla gestione della città è stato sempre ‘poco naturalistico ed ecologico’ ed il volume vuole ampliare la conoscenza ecologica del sistema urbano. Alcune tendenze sviluppatesi nell’ambito dell’ecologia, si sono evolute in vere e proprie discipline come l’ecologia del paesaggio e l’ecologia dei ripristini, fornendo un contributo all’ingegneria e alla pianificazione e gestione del territorio. L’ecologia del paesaggio, che considera come un continuum l’ambiente urbano, l’ambiente rurale e l’ambiente naturale, riconosce addirittura che il paesaggio è un sistema vivente con una struttura complessa in grado di svolgere funzioni vitali quali quelle di riprodursi, assumere materia ed energia, eliminare energia e cataboliti. In questo contesto si può parlare di ‘salute della città’ e di città come ecosistema, in quanto il sistema ha la capacità di raccogliere l’energia disponibile dall’ambiente circostante (ambiente rurale), di immagazzinarla e di usarla per la sua stessa esistenza. L’impostazione data dagli autori consente, come precedentemente auspicato, di chiudere i cicli tra urbanistica, ecologia ed economia e spero che non trovi ‘resistenza’ da parte di specialisti che si sono formati con paradigmi disciplinari solo parzialmente comunicanti, in quanto le chiavi metodologiche proprie dell’approccio sistemico sono estendibili a tutte le aree che affrontano l’ambiente. Nel libro sono trattati i concetti di ecosistema, di metabolismo, di adattamento, di resilienza, di vulnerabilità, di simbiosi, ampiamente riportati nei classici testi di ecologia di Eugene P. Odum (Ecology, 1963; Principi di Ecologia, 1971, Basic Ecology, 1983) e, quindi, non ci sarà da meravigliarsi se su alcune delle definizioni riportate nella prima e seconda parte del libro ci sarà pieno consenso e su altre no. Il testo, nel suo complesso, risulta di facile consultazione e ricco di una selezionata bibliografia. La prima parte del testo, di Michele Manigrasso, evidenzia un’accurata ricostruzione degli aspetti concettuali che hanno contribuito a dare vigore allo studio dell’ambiente urbano come ecosistema. I campi di ricerca sono quelli dell’adattamento del sistema urbano ai cambiamenti climatici, della vulnerabilità e della resilienza degli ecosistemi città. La resilienza degli ecosistemi naturali è la capacità di ritornare allo stato iniziale dopo aver subito una pressione di origine esterna: questo ritorno può essere più o meno veloce e questa caratteristica è l’elasticità del sistema. Come sottolinea l’autore, anche la città deve essere progettata in modo tale da avere la capacità complessiva di mitigare il più possibile gli impatti di pressione esterne e presentare elasticità. Dopo aver chiarito lo scenario in cui si opera, aver affrontato gli aspetti teorici centrali, nonché lo stato di ‘avanzamento’ in Italia e nel resto del mondo nella redazione di piani, programmi e progetti mirati all’adattamento alle diverse scale, la prima parte si conclude con una serie di esperienze progettuali in ambito accademico e non solo, che chiariscono alcune modalità operative, di progetto urbano e puntuali, che hanno introiettato questi nuovi paradigmi.


Prefazione

La seconda parte, di Luciana Mastrolonardo, si focalizza sul tema del metabolismo urbano e richiama le notevoli potenzialità innovative di tale approccio che prevede l’integrazione tra campi di indagini ambientale e analisi delle realtà territoriali sotto profili socio-economici. Il punto di partenza è la determinazione dell’ecosistema urbano, e delle sue caratteristiche e peculiarità da cui si declinano metodi di indagine che permettono di operare una Rigenerazione della città interpretata nelle sue differenti fasi del ciclo di vita. Dettagliati sono i capitoli sulla valutazione ambientale del ciclo di vita (LCA) per indagare l’impatto ambientale dei prodotti durante tutta la loro vita utile, e i casi di Rigenerazione Urbana realizzati in alcune città, che si avvalgono, in prima istanza, del metodo della valutazione dei flussi di materiali ed energia (MFA). Dalla lettura emerge la necessità di riconnettere la città all’ambiente rurale che la sostiene e di realizzare una strategia della gestione degli input riducendo le entrate, con un’attenzione particolare alla quantità e qualità degli output, che diventano invece protagonisti di nuovi cicli produttivi, nell’attuazione più coerente di una metafora che vede l’ambiente antropizzato, imitare il comportamento virtuoso della natura. Per fare solo un esempio di tale gestione, conosciuta come ‘top-down management’, possiamo dire che la riduzione dei rifiuti deve avere la precedenza sullo smaltimento dei rifiuti. I campi di provenienza dei due autori sono diversi: Michele Manigrasso è un Architetto Urbanista, Luciana Mastrolonardo è un Architetto Tecnologo, e queste differenze formative e di approccio, forniscono uno sguardo che attraversa le diverse scale del progetto, e si presenta ricco di interpretazioni e suggestioni. Ecco, il libro rappresenta, fin dalle caratteristiche formative degli autori, l’incontro e l’integrazione di saperi, presupposti necessari per guardare in maniera nuova il territorio e la città da questa interessante prospettiva, che sembra dover dichiarare una guerra, di evidente riappacificazione, con il nostro patrimonio ambientale. Il libro si chiude con un messaggio secondo cui la scienza e la ricerca possono diventare strumenti utili per vivere in un mondo più fruibile per tutti i suoi abitanti. Al riguardo gli autori richiamano ‘l’arma dell’intelligenza’ che sottende le precedenti, di questo interessante acronimo A.R.M.I., vista come ‘l’intelligenza del progetto senza scala, come integrazione delle discipline, come visione olistica’. È un messaggio forte e bello che si può cogliere in quanto l’uomo, come sostengono i sociobiologi, tende ad aspettare che una situazione diventi molto grave per poi prenderne atto in modo razionale e correttivo. Un plauso agli autori, anche come docente di Ecologia, in quanto il libro fornisce un buon contributo per rispondere ai quesiti posti all’inizio del corso di Ecologia urbana precedentemente richiamato: 1) La pianificazione urbanistica richiede un contributo dell’Ecologia?; 2) È necessario un rinnovamento nell’ambito dell’urbanistica, dell’architettura e dell’Ingegneria civile?; 3) L’Urbanistica come progetto urbano o Governo del Territorio? Concludo augurandomi che intorno a questo testo nasca un interesse da parte di chi si avvia ad operare, o già opera nel settore, ma anche degli studenti di architettura, urbanistica ed ingegneria civile ed ambientale.

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A.R.M.I. Adattamento. Resilienza. Metabolismo. Intelligenza Michele Manigrasso e Luciana Mastrolonardo pp. 220 - Euro 20,00 ISBN 978-88-96386-38-5 formato 14,8x21 cm


INTRODUZIONE di

Michele Manigrasso e Luciana Mastrolonardo

Quella in cui viviamo è un’epoca di cambiamenti veloci, in cui il pericolo sta nel non accorgersi della complessità delle problematiche ambientali che ci circondano, e nel perseguire, quindi, l’utilizzo di soluzioni parziali, o di semplice diversa allocazione delle risorse. La necessità di adattare i nostri territori ai mutamenti del clima e alla consistenza delle loro risorse locali, riducendone la vulnerabilità in favore della ‘resilienza’, sono temi molto discussi negli ultimi decenni, e interessano tutte le competenze che si occupano di territorio, alle diverse scale, dall’urbanistica alla tecnologia. Rappresentano la necessaria maturazione del concetto, molto dibattuto ed inflazionato, dopo la perdita della sua carica innovativa, di sostenibilità urbana. Sottendono il confronto con un futuro non sempre prevedibile, che mette sotto accusa il tradizionale bagaglio di analisi e di strumenti progettuali. Si avverte ormai in maniera diffusa la necessità di incrementare la resilienza urbana e territoriale, rinunciando alla visione impositiva e deterministica dell’urbanistica moderna, adeguando il metabolismo locale alla realtà dinamica del territorio, attraverso interventi simbiotici rilevanti, portatori di nuova economia, per ricontestualizzare un benessere sociale, individuale e condiviso, in una più profonda consapevolezza collettiva. Da qui la necessità di utilizzare lo strumento più importante che abbiamo, ossia l’intelligenza, che determina consapevolezza e accelera le riflessioni sulle metodologie, sensibilizzando il progetto urbano ad una programmazione economica e sociale, attraverso nuove simbiosi urbane. Sullo sfondo, la messa in scena di una nuova cultura che investe programmazione e progetto, un’evoluzione consapevole dei comportamenti sociali, nei territori che abitiamo, nei quali i cittadini sono abitanti attivi. Le strategie di Adattamento rappresentano uno degli assi della ‘politica di protezione del clima’. Il termine sta conoscendo sempre più larga diffusione, assorbito dalle discipline che si occupano di territorio e della sua trasformazione, attraverso il filone ecologico, diventa strumento per ridurre la vulnerabilità urbana a favore della Resilienza. Il termine adattamento proviene dalla biologia e in essa intende la correlazione fra le strutture, le funzioni degli organismi e le condizioni dell’ambiente in cui essi vivono. La concezione evoluzionistica scorge nell’adattamento un ‘processo attivo’, per cui gli organismi si sono andati modificando a seconda delle esigenze determinate dalle variazioni dell’ambiente.

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Il campo di sperimentazione è la città; l’adattamento è un processo attraverso il quale la città può incorporare le abilità necessarie per anticipare gli scenari in divenire e/o riorganizzarsi in conseguenza delle sollecitazioni imprevedibili. Due sono gli atteggiamenti principali, differenti anche per le tempistiche attraverso cui si realizzano, ma che in parallelo mirano all’adeguamento della città stessa: da un lato, l’adattamento si realizza nella riattivazione di quei ‘processi ecologici’ che in un sistema artificiale come la città sono messi fortemente in discussione; dall’altro, si governa la ‘nuova geografia del rischio’ attraverso assetti spaziali adeguati, che fanno del rischio occasione di mutazione e di risignificazione dei rapporti tra gli elementi depositati, secondo un’idea chiara di provvisorietà dei contesti. Perseguire la flessibilità, introiettando l’incertezza, sembra una direzione possibile per ridurre la vulnerabilità (biofisica e sociale) in ambito urbano (Brooks, 2003; Fussel, 2007). Da questa prospettiva, l’adattamento si fa arma per aumentare la resilienza urbana di fronte alle mutazioni del clima. Preso in prestito dalla meccanica, il termine ‘resilienza’ risale al Settecento – intesa come la capacità di un materiale di resistere agli urti senza spezzarsi. Negli ultimi anni il concetto di ‘resilienza ecosistemica’ è stato proposto quale concetto delle strategie istituzionali in tema di sostenibilità: viene utilizzato nelle ricerche e nelle esperienze più innovative mirate alla mitigazione dei rischi territoriali, ove gli obiettivi della riduzione dei rischi e della pericolosità vengono integrati in una visione orientata alla qualità territoriale. ‘La resilienza è la capacità di continuare ad esistere, incorporando il cambiamento’ (Folke, Colding and Berkes, 2003). Il metabolismo, termine trasmigrato dall’ambito biologico, a quello urbano, ha una radice greca che indica uno stato non stazionario, in mutazione. Lo studio metabolico trasferisce, allo studio della città, la consapevolezza della mutazione degli insediamenti nei territori antropizzati, in cui lo sfruttamento di risorse produce degradazione e impoverimento, e i flussi di sostanze possono essere qualificati per produrre simbiosi capaci di integrare tra loro i sistemi dissipativi (insediamenti, industrie, strade, servizi, etc.). Il metabolismo urbano, come metafora del considerare la città, un organismo vivente, è nato a metà degli ‘60 (Wolman, 1965), ma solo negli ultimi anni è riuscito ad esprimere una risposta alle esigenze di ridisegno di un modello evolutivo del territorio. La città può essere definita come un incompleto sistema eterotrofo, e cioè dipendente da ampie aree limitrofe per l’ottenimento di energia, cibo, suolo, acqua e degli altri materiali (materie prime). Si puntualizza l’accento sulla necessità dei sistemi urbani, globalizzati, continui e in crescita costante, di ritrovare il rapporto interdipendente con il territorio che li circonda, che la presunta onnipotenza tecnologica della società contemporanea ha perso. Si declina il filone di ricerca sul metabolismo urbano e il suo studio attraverso gli input, gli output, gli stock urbani e le possibili simbiosi attivabili per migliorare e chiudere i cicli di risorse (Forlani, 2010). Le simbiosi nascono dall’analogia metaforica tra sistemi antropici e naturali, propria dell’ecologia industriale che definisce l’approccio metodologico del metabolismo urbano, secondo cui le industrie e gli insediamenti possono imitare il sistema perfetto di utilizzo di risorse della natura, che non crea rifiuti, convertendo tutto ciò che consuma in energia o nutrimento, con un approccio ciclico invece che lineare.


Introduzione

Le simbiosi impegnano sistemi tradizionalmente separati, ad un approccio collettivo a vantaggio competitivo, che coinvolge scambi fisici di materiali, energia, acqua e sottoprodotti (tra industrie, insediamenti e servizi). L’obiettivo dell’applicazione del metodo, è quello di definire uno sviluppo locale sostenibile, attraverso la diminuzione del consumo di risorse, e rifiuti, migliorando la vivibilità, per un migliore inserimento nell’ecosistema locale, regionale e globale, specificando le basi fisiche e biologiche della città, nonché i rapporti fisici e tra individui (Magnaghi, 2000). I temi dell’adattamento, della resilienza e del metabolismo urbano, sono stati affrontati da un punto di vista teorico e metodologico, con approfondimenti sul loro utilizzo nell’esercizio progettuale, in casi studio sviluppati a scopo didattico e non solo. I temi, fortemente correlati tra loro, godono di grande attenzione nello scenario della ricerca scientifica e di settore e introducono nuovi parametri nello studio e nella rigenerazione delle città. In particolare l’integrazione tra le discipline urbanistiche e tecnologiche, background degli autori e legate allo studio del territorio, filtrano lo sguardo con lenti inedite, più attente alla necessità di sicurezza nei territori, diffusi, abitati, consumati, e spesso troppo poco riciclati, e che dovranno porre rimedio alla miopia dell’occupazione del territorio, rivolgendo nuovi interrogativi ai saperi coinvolti. Una nuova coscienza progettuale invita ad affinare metodi e obiettivi, secondo nuovi paradigmi del progetto, con ampie ricadute anche a livello didattico e di formazione, perché gli insegnamenti accademici ne sono coinvolti in maniera profonda. In particolare, il carattere di evidente transcalarità sembra essere quello che più di ogni altro invita ad approfondimenti molteplici, dall’oggetto sedimentato ai sistemi territoriali nella loro complessità; dal singolo manufatto urbano, vittima dell’obsolescenza delle tecnologie degli ultimi cinquanta anni, agli insediamenti, dal singolo individuo alla collettività, identificata a livello locale. È in gioco la città, con le proprie specificità patrimoniali e ambientali, nel suo significato riconosciuto e condiviso, come ecosistema e organismo, come luogo dell’artificio antropizzato dalla società liquida, massimamente vulnerabile a causa della sua fragilità, ma soprattutto nella sua dipendenza dal territorio che lo circonda e che gli restituisce, a vario titolo, le risorse necessarie alla sua stessa vita. Questo libro racconta una ‘strategia di guerra’ in un campo di battaglia difficile, planetario ma locale, che è il territorio urbanizzato. È il momento di scendere in campo, di dichiarare guerra e di combattere, affinando le giuste A.R.M.I., per non perdere la cosa più preziosa che abbiamo: il nostro territorio, e quindi noi stessi. Per ritrovare il senso di una geografia di cui abbiamo dimenticato di essere gli autori (Perec, 1989).

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PARTE PRIMA L’ADATTAMENTO AI CAMBIAMENTI CLIMATICI. Necessità e opportunità per la resilienza delle città e dei territori

A.R.M.I. ADATTAMENTO. RESILIENZA. METABOLISMO. INTELLIGENZA


‘Una delle cose che mi hanno colpito il mio primo giorno nello spazio, è che non c’è nessun cielo azzurro. È qualcosa con cui tutti gli esseri umani convivono sulla Terra, ma quando sei nello spazio, non lo vedi. Sembra che non ci sia nulla fra te e la Terra. E al di là, è come se fosse mezzanotte, solo nero profondo e stelle. Ma quando guardi verso la Terra, all’orizzonte, vedi una linea incredibilmente bella ma molto, molto sottile. Riesci a scorgere un minuscolo arcobaleno colorato. Quella linea sottile è la nostra atmosfera. E la vera fragilità dell’atmosfera è che ce n’è così poca’.

Viceammiraglio Richard H. Truly, Marina degli Stati Uniti (in congedo), ex astronauta e comandante del Naval Space Command, Sicurezza nazionale e minaccia del cambiamento climatico, aprile 2007


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Un problema d’interesse planetario

01.1_ Cambio climatico. Dalle Cause naturali alle cause antropiche 01.2_ Responsabilità e conseguenze delle emissioni climalteranti 01.3_ Il Quinto Rapporto dell’Ipcc 01.4_ Le guerre del clima 01.5_ Un campo di battaglia a scala planetaria. Le città in prima linea

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PARTE PRIMA di Michele Manigrasso


01_ Un problema d’interesse planetario

01.1_ Cambio climatico. Dalle cause naturali alle cause antropiche

Il problema dei cambiamenti climatici, osservati e previsti, è oggi al centro di un acceso dibattito, sia nell’ambito della comunità scientifica, sia della più vasta opinione pubblica per le tante implicazioni sull’ambiente, gli ecosistemi e la vita in generale. È divenuto problema d’interesse politico, economico e sociale almeno da quando le Nazioni Unite e l’Organizzazione meteorologica mondiale nel 1988 hanno costituito l’Intergovernmental Panel on Climate Change, noto con la sigla Ipcc1, con il compito di vagliare tutte le pubblicazioni scientifiche via via prodotte sul cambiamento climatico, le sue cause, le sue conseguenze, i possibili modi di attenuarlo. Ogni cinque anni, l’Ipcc produce dunque un dettagliato rapporto scientifico, accompagnato da un sommario per i decisori politici, nel quale vengono registrate le conoscenze acquisite sul cambiamento climatico in corso, gli aspetti ancora incerti e gli scenari della sua possibile evoluzione. È largamente riconosciuto che ai ciclici mutamenti naturali, storicamente rilevati nei millenni scorsi, si è sovrapposto il contributo, decisivo e specifico, delle attività umane, connesse ad un modello di sviluppo socio-economico, evidentemente non sostenibile e non replicabile. Se in passato le attività umane sul territorio sono state progettate e dimensionate con il presupposto implicito, o esplicito, che la situazione e le condizioni ambientali e territoriali rimanessero costanti e non mutassero col passare del tempo, oggi non è più possibile, e il problema del climate change ci 1_ L’IPCC è un organo intergovernativo, istituito nel 1988 dalla World Meteorological Organization (WMO) e dallo United Nations Environment Programme (UNEP) allo scopo di fornire ai decisori politici una valutazione scientifica della letteratura tecnico-scientifica e socio-economica disponibile in materia di cambiamenti climatici, impatti, adattamento, mitigazione. L’IPCC non fa ricerca diretta, ma analizza tutto quello che la ricerca scientifica ha espresso a livello mondiale, dando un peso diverso a seconda dell’autorevolezza dell’istituto, università o centro di ricerca preso in considerazione. Il 4° rapporto è una sintesi di quanto rilevato da tutta la comunità scientifica internazionale. Ogni governo ha un Focal Point IPCC che coordina le attività relative all’IPCC nel proprio paese. Partecipano al lavoro dell’IPCC anche rilevanti organizzazioni internazionali, intergovernative e non-governative.

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PARTE PRIMA di Michele Manigrasso invita a riflettere con urgenza su tutto ciò. Le conoscenze geologiche e storiche ci documentano i cambiamenti climatici verificatisi nel passato, per cause unicamente naturali, alle quali si ritiene si siano aggiunte cause connesse alle attività umane. Trascurando in questa sede la sua lunga storia evolutiva (4 miliardi e mezzo di anni), risulta chiaro che la Terra, negli ultimi milioni di anni, da quando cioè ha una configurazione geografica delle terre emerse e degli oceani sostanzialmente simile all’attuale, ha subito continue variazioni climatiche di diversa entità, durata e distribuzione geografica, imputabili a differenti cause. La variabilità climatica2 è quindi un fenomeno che ha accompagnato, e sicuramente influenzato, l’alba e l’evoluzione dell’uomo, la sua preistoria e la storia (Fagan, 2005). Lo studio delle variazioni climatiche nel passato ci aiuta a comprendere il funzionamento del sistema climatico, le modalità e i tempi con i quali si producono le sue variazioni; ci fornisce termini di confronto a cui comparare la situazione e i cambiamenti attuali. L’analisi degli archivi climatici naturali3 ci ha consegnato la documentazione delle alterazioni prodotte dalle attività umane nell’atmosfera, negli ultimi millenni e in particolare negli ultimi secoli, dallo sviluppo della civiltà industriale (Migliavacca, 2010). Contemporaneamente a quest’analisi, figlia della rivoluzione scientifica, sono iniziate le misurazioni strumentali delle grandezze metereologiche (pressione atmosferica, temperatura, umidità, precipitazioni, ecc...) al suolo e, successivamente in quota; ma una rete di stazioni di misura attendibili e distribuite su tutto il pianeta, tale da poter essere utilizzate per estrarne dati statistici validi di significato climatico, esiste solamente dalla metà del XIX secolo. Conosciamo pertanto, con adeguata attendibilità solamente poco più di un secolo e mezzo di storia del clima sulla Terra, desunta da misure strumentali. Le elaborazioni prodotte da diverse istituzioni scientifiche convergono nell’indicare una fase di generale riscaldamento della Terra negli ultimi decenni, che ha portato la temperatura media annua globale a valori superiori a quelli registrati dal 1850 e molto probabilmente, sulla base di confronti con dati indiretti ottenuti dagli archivi climatici naturali, a quelli dell’ultimo millennio. All’aumento della temperatura globale si sono accompagnate variazioni di altri aspetti del clima, in particolare la distribuzione spaziale e temporale delle precipitazioni, nonché di eventi estremi spesso catastrofici. Poiché negli ultimi secoli, e in particolare, dalla metà del secolo scorso è aumentata la concentrazione di CO2 e di altri gas serra, immessi in atmosfera dalle attività umane, e poiché le altre cause note e possibili non 2_ La variabilità climatica in climatologia indica l’alternarsi di situazioni climatiche differenti e contrastanti tra loro (variabili) su un dato territorio (a livello locale, regionale, continentale, emisferico o globale) dal punto di vista di uno o più parametri climatici di riferimento (temperatura dell’aria, precipitazioni etc.) e che invertono, più o meno rapidamente, il loro trend caratteristico in un susseguirsi pseudo-casuale di condizioni climatiche al di sopra di medie climatiche calcolate oltre il periodo classico di riferimento (30 anni) proprio della definizione di clima. In genere dunque ci si riferisce alla variabilità climatica per evidenziare un fluttuazione casuale di origine naturale intorno ad una media e distinguerla nettamente da un trend medio in ascesa o in declino come può essere invece nel caso di veri e propri mutamenti climatici. 3_ Si intendono gli anelli degli alberi, le larve, le carote di ghiaccio, etc...


01_ Un problema d’interesse planetario

risultano, negli ultimi decenni, aver avuto particolare rilevanza, si ritiene che alle cause naturali si siano aggiunte le cause umane nel determinare l’attuale tendenza al riscaldamento e al cambiamento climatico. In effetti il riscaldamento medio dell’atmosfera e degli oceani, la diffusa fusione di neve e ghiaccio e l’incremento del livello medio del mare sono ampiamente riportati in letteratura e vengono descritti nella sintesi per i policy maker del rapporto IPCC 2007 (Wgi) in cui si afferma che ‘il cambiamento del clima è inequivocabile ed è il risultato dei gas serra emessi in seguito all’attività antropica’, concetto ripreso e riaffermato nell’ultimo e recentissimo rapporto, il quinto, di cui si parlerà a breve. Risultano molto interessanti le ricerche realizzate da un gruppo di studiosi americani ed inglesi, che hanno pubblicato sul numero di Nature4 del febbraio 2011, due articoli riguardanti le responsabilità delle emissioni sulle precipitazioni (la questione rispetto alla quale rimanevano le più profonde incertezze). In essi, viene detto chiaramente che esiste una relazione diretta (anche se non lineare) fra i gas serra immessi in atmosfera dall’uomo, il riscaldamento climatico e l’intensificazione dei fenomeni meteorologici estremi, quali piogge ed alluvioni. Dei due articoli, di cui uno riferito alla situazione climatica nell’emisfero nord del Pianeta nella seconda metà del XX° secolo mentre il secondo riferito alle inondazioni che hanno colpito l’Inghilterra ed il Galles nell’anno 2000, il primo confronta la mappa delle piogge cadute in cinquant’anni con la simulazione delle precipitazioni ottenuta da otto modelli climatici. La conclusione è che tale aumento dell’intensità delle piogge non è spiegabile con la semplice variabilità naturale degli eventi meteorologici, ma può essere compreso solo tenendo conto dei gas serra immessi nell’atmosfera in seguito alle attività umane. Il medesimo procedimento di analisi è stato operato nel secondo articolo, in riferimento alle inondazioni che hanno colpito Inghilterra e Galles nell’anno 2000: in questa seconda ricerca sono stati paragonati i dati meteorologici misurati con le simulazioni computerizzate degli eventi atmosferici, con e senza gli effetti dei gas serra: il risultato è l’evidenza che i cambiamenti climatici antropogenici hanno quasi raddoppiato l’eventualità di precipitazioni tanto intense come quelle che hanno causato le inondazioni. Due nuovi articoli pubblicati sulla rivista Journal of Climate5 indagano sugli eventi di intensa precipitazione associati con i cicloni tropicali, in un clima più caldo e per aumenti crescenti di CO2. Entrando nel dettaglio, nel primo studio i ricercatori (fra cui Enrico Scoccimarro della Divisione SERC del CMCC) hanno realizzato una serie di esperimenti con modelli atmosferici ad alta risoluzione (ideati e sviluppati dallo U.S. CLIVAR Hurricane Working Group) per esaminare la risposta dei cicloni tropicali a perturbazioni idealizzate su scala globale, quali il raddoppiamento dei livelli di CO2, gli aumenti uniformi della temperatura superficiale globale del mare, e il loro impatto combinato. Nel secondo articolo, gli autori (fra questi, i ricercatori Enrico Scoccimarro, Silvio Gualdi e Antonio Navarra della Divisione SERC del CMCC) hanno 4_ Il numero di nature può essere consultato sul sito http://www.nature.com/nature/journal/v443/ n7108/edsumm/e060914-06.html 5_ Villarini G., Lavers D. A., Scoccimarro E., Zhao M., Wehner M. F., Vecchi G.A., Knutson T., Reed K. A. Sensitivity of Tropical Cyclone Rainfall to Idealized Global Scale Forcings, 2014, Journal of Climate, in press, DOI: 10.1175/JCLI-D-13-00780.1

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PARTE PRIMA di Michele Manigrasso preso in esame le possibili variazioni di intensità delle piogge associate ai cicloni tropicali, per scenari idealizzati di forzante e in un clima più caldo, con un focus speciale sulle tempeste che si abbattono sulla terraferma. Un nuovo set di esperimenti ideati nell’ambito delle attività dello U.S. CLIVAR Hurricane Working Group ha reso possibile identificare e isolare il ruolo giocato rispettivamente dalle variazioni di anidride carbonica atmosferica e dai cambiamenti della temperatura superficiale del mare nel determinare una variazione dell’ammontare delle precipitazioni associate ai cicloni tropicali, in un clima più caldo. I risultati dello studio hanno evidenziato il contributo dei cicloni tropicali che raggiungono la terraferma all’aumento previsto delle variazioni di precipitazione nelle regioni tropicali costiere.

01.2_ Responsabilità e conseguenze delle emissioni climalteranti

‘I paesi più vulnerabili hanno meno capacità di proteggersi. Sono anche quelli che meno contribuiscono alle emissioni globali di gas serra. Saranno loro a pagare un alto prezzo per le azioni altrui’ Kofi Annan

I cambiamenti nell’atmosfera delle quantità di gas e aerosol a effetto serra, della radiazione solare e delle proprietà della superficie terrestre alterano il bilancio energetico del sistema climatico. Questi cambiamenti sono espressi in termini di forzante radiativo, che viene usato per valutare come i fattori antropici e naturali influenzino la tendenza al riscaldamento o al raffreddamento del clima globale. Rispetto al Terzo Rapporto di Valutazione (TAR), il Quarto Rapporto dell’IPCC, del 2007, aveva già presentato nuove osservazione e modelli che includono gas ad effetto serra, attività solare, proprietà della superficie terrestre e in parte l’effetto degli aerosol; elementi che hanno portato a miglioramenti nella stima quantitativa del forzante radiativo. Le concentrazioni globali in atmosfera del biossido di carbonio, del metano e dell’ossido di azoto sono notevolmente aumentate e ciò è principalmente dovuto all’uso di combustibile fossile e ai cambiamenti nell’utilizzo dei suoli, mentre gli incrementi di metano e ossido di azoto sono principalmente dovuti all’agricoltura. Ai fini della contabilità globale del carbonio, il mondo è un unico paese. L’atmosfera terrestre è una risorsa comune senza frontiere. Le emissioni di gas serra si mescolano liberamente nell’atmosfera nel tempo e nello spazio. Ai fini dei cambiamenti climatici, non fa alcuna differenza se la tonnellata marginale di CO2 provenga da una centrale elettrica a carbone, da un’automobile o da una perdita di pozzi di assorbimento nelle foreste pluviali tropicali. Analogamente, quando entrano nell’atmosfera terrestre, i gas serra non sono suddivisi per paese di origine: una tonnellata di CO2 proveniente dal Mozambico ha lo stesso peso di una tonnellata di CO2 proveniente dagli Stati Uniti. Se ogni tonnellata di CO2 ha identico peso, il conto globale maschera ampie variazioni nei contributi alle emissioni complessive derivanti


01_ Un problema d’interesse planetario

anidride carbonica (CO2) protossido di azoto (N2O) metano (CH4)

Figura 1.1_ Andamento della concentrazione atmosferica di tre importanti gas serra durevoli negli ultimi 200 anni. L’aumento, evidente a partire dal 1750, è attribuito alle attività umane sviluppatesi dall’era industriale.

da fonti diverse. Negli ultimi tre decenni, le emissioni di gas serra legate all’approvvigionamento energetico e ai trasporti sono aumentate rispettivamente del 145 e del 120% e anche i cambiamenti di destinazione d’uso dei suoli hanno svolto un ruolo importante. In questo contesto, la deforestazione è di gran lunga la maggiore fonte di emissioni di CO2, in quanto rilascia il carbonio sequestrato nell’atmosfera in conseguenza della combustione e della perdita di biomassa. I dati in materia sono più incerti che in altri settori, ma le stime indicano emissioni annuali pari a circa 6 gtCO2; secondo l’Ipcc, la percentuale di emissioni di CO2 derivanti dalla deforestazione è compresa tra l’11 e il 28% delle emissioni totali. Se l’impronta ecologica complessiva dei paesi in via di sviluppo sta diventando più profonda, la responsabilità storica delle emissioni grava pesantemente sul mondo industrializzato. I paesi ricchi dominano il conto globale delle emissioni: collettivamente, rappresentano circa il 70% della CO2 emessa dall’inizio dell’era industriale. Le emissioni storiche ammontano a circa 1100 tonnellate di CO2 (tCO2) pro capite nel Regno Unito e negli Stati Uniti, rispetto a 66 tCO2 pro capite in Cina e 23 tCO2 pro capite in India. Queste emissioni storiche sono importanti sotto due aspetti: in primo luogo, come già rilevato, le emissioni cumulative pregresse determinano i cambiamenti climatici di oggi; in secondo luogo, i margini

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PARTE PRIMA di Michele Manigrasso


01_ Un problema d’interesse planetario

Figura 1.2_ Emissione globali per settori e per tipo di gas. Fonte: Ipcc 2012. 25


PARTE PRIMA di Michele Manigrasso di assorbimento delle emissioni future sono una funzione residua delle emissioni pregresse. Le enormi disuguaglianze tra una nazione e l’altra, in questo ambito, riflettono le disparità nelle emissioni pro capite, e la distribuzione delle emissioni attuali rivela un rapporto inverso tra rischio di cambiamenti climatici e responsabilità. Le persone più povere del mondo lasciano un’impronta ecologica molto leggera sul pianeta. Si stima che l’impronta ecologica del miliardo di persone più povere sul pianeta rappresenti circa il 3% del totale.

Figura 1.3_ Mappa rappresentante il livello della vulnerabilità umana al cambiamento climatico prodotta da un dottorando della McGill University, Jason Samson (2011).

01.3_ Il Quinto Rapporto dell’Ipcc

La direzione è quella sbagliata e ci sono solo 17 anni di tempo per cambiare rotta. Nonostante gli sforzi e gli impegni dei governi, le emissioni di gas serra continuano ad aumentare e ogni anno toccano nuovi massimi. L’allarme emerge dal nuovo rapporto dell’Ipcc, pubblicato lo scorso 31 marzo. Il documento, elaborato dopo una settimana di lavori a Yokohama, in Giappone, è la seconda parte del quinto rapporto di valutazione, che sarà completato a ottobre e servirà da base per la conferenza di Parigi del 2015, che dovrebbe produrre un nuovo accordo internazionale sulle misure per contrastare il cambiamento climatico. Sulla base delle conclusioni della prima parte del rapporto pubblicata a settembre, che per la prima volta aveva definito ‘scientificamente incontestabile’ il riscaldamento globale, l’Ipcc avverte che i suoi effetti saranno vasti e potenzialmente irreversibili. Gli eventi climatici estremi aumenteranno, l’acidificazione degli oceani continuerà e l’innalzamento del livello dei mari minaccerà le regioni costiere. Gli effetti negativi per gli ecosistemi sono già tangibili, ma nei prossimi decenni anche le conseguenze sugli esseri umani diver-


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ranno evidenti. Nelle aree temperate e tropicali secche le riserve di acqua potabile declineranno. La siccità e le inondazioni ridurranno la produttività dell’agricoltura in molte regioni del pianeta, mentre in quelle più fredde l’aumento della temperatura produrrà l’effetto opposto. Oltre ai rischi legati agli eventi climatici estremi, le conseguenze per la salute comprenderanno anche la diffusione delle malattie tropicali e l’aumento delle malattie respiratorie dovute alla maggiore concentrazione di ozono nella parte bassa dell’atmosfera. Inoltre ‘il riscaldamento globale può aumentare i rischi di guerre civili e scontri tra gruppi amplificando i ben documentati fattori che determinano questi conflitti, come la povertà e gli shock economici’. ‘Nessuno su questo pianeta sarà risparmiato dagli effetti del cambiamento climatico’, ha dichiarato il direttore dell’Ipcc Rajendra Pachauri. Il rapporto sottolinea la necessità di investire nell’adattamento dell’agricoltura e dell’economia alle conseguenze del riscaldamento, ma su pressione degli Stati Uniti e degli altri paesi ricchi è stato eliminato l’invito a istituire un fondo da cento miliardi di euro all’anno per finanziare questi sforzi nei paesi più poveri, nota Eric Holthaus su Slate. Per quanto allarmanti, scrive Graham Readfearn sul Guardian, le conclusioni del documento non si discostano molto da quelle degli altri quattro rapporti pubblicati dall’Ipcc negli ultimi 24 anni. La differenza principale sta nella quantità di prove scientifiche raccolte, nonostante alcuni scienziati continuino a trovare troppo allarmistiche le previsioni. Dal 1990, anno di pubblicazione del primo rapporto dell’Ipcc, le emissioni di gas serra sono aumentate del 60%. Secondo gli scienziati tra il 2000 e il 2010 le emissioni sono aumentate più rapidamente dei tre decenni precedenti: ogni anno abbiamo immesso nell’atmosfera un miliardo di tonnellate di gas serra in più rispetto all’anno precedente. Altro che tagliare: secondo gli esperti, per contenere l’aumento della temperatura globale entro i due gradi, il massimo considerato sostenibile, le emissioni dovrebbero essere ridotte da qui al 2050 almeno del 40% (meglio se del 70%). Un livello altissimo e se continua così difficilmente raggiungibile. Il rapporto sollecita un ‘trasferimento massiccio’ dall’uso intensivo dei combustibili fossili alle energie rinnovabili entro i prossimi 16 anni per poter ancora invertire il riscaldamento globale in atto. Altrimenti, entro il 2100 le temperature medie globali aumenteranno fra 3,7 e 4,8 gradi. Per arrivare al risultato presentato, gli esperti hanno analizzato oltre 1200 scenari possibili, elaborati da 31 team internazionali. Quello che manca nel rapporto finale dell’Ipcc è un’analisi attenta delle cause del continuo aumento delle emissioni: nelle 33 pagine diffuse, che serviranno come guida per un nuovo round di negoziati sul clima nel 2015, manca infatti una parte che era presente nelle versioni trapelate nei mesi passati. In quelle pagine si considerava responsabile dell’aumento delle emissioni la crescente richiesta energetica dei paesi emergenti, sia per la crescita della popolazione che per l’espansione economica. Insomma si puntava principalmente il dito contro la Cina e altri grandi paesi emergenti. I grafici relativi a questa parte sono stati cancellati dalla versione finale.

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PARTE PRIMA di Michele Manigrasso

01.4_ Le guerre del clima

‘Recenti prove scientifiche ci hanno fornito un quadro degli impatti fisici sul nostro mondo che possiamo aspettarci a mano a mano che il clima cambia. E tali impatti vanno ben oltre l’aspetto ambientale. Le loro conseguenze arrivano fino al cuore stesso della questione sicurezza’. Margaret Beckett, ex ministro degli Esteri britannico

Esistono ormai molti testi che affrontano la scienza del cambiamento climatico, e alcuni propongono possibili approcci tesi a mantenere sotto controllo il problema, ma pochissimi illustrano nei macabri dettagli come paesi realmente esistenti che sperimentano svariate e, in alcuni casi, schiaccianti pressioni con il procedere del riscaldamento globale, potranno reagire ai mutamenti. Il libro di Gwynne Dyer6, ‘Le guerre del clima. La lotta per la sopravvivenza mentre il pianeta si surriscalda’, pubblicato nel 2008 in America e recentemente tradotto in lingua italiana da Maria Barbara Piccioli e pubblicato da Tropea, è completamente diverso dalle pubblicazioni che conosciamo sui cambiamenti climatici. È un libro di facile lettura e comprensione anche ai non addetti ai lavori, con un punto di vista chiaro, critico...fazioso. Già la copertina è emblematica perché sintetizza la visione che l’autore ha del futuro, se il problema del global warming non verrà affrontato e risolto con serietà: un mondo con popolazione umana fortemente ridotta, rifugiatasi ai margini dove in passato era quasi impensabile vivere, ‘negli unici posti dove ancora è possibile respirare’. L’autore, sulla base dei rapporti IPCC e Stern, di interviste a scienziati, militari e burocrati, ci presenta le conseguenze geopolitiche causate dagli impatti ambientali legati alle mutazioni del clima, di cui né il mondo scientifico né la stampa si sono mai occupati in modo esaustivo. Questo perché l’argomento tocca i temi della sicurezza delle nazioni: per molti paesi, gli scenari legati al cambiamento climatico stanno già giocando un ruolo preponderante nella pianificazione militare. Sarà la politica, nazionale e internazionale, secondo l’autore, a decretare gli esiti di questa crisi. Gwynne Dyer ci introduce ai mezzi, per lui ‘concreti’, che a oggi possediamo per affrontare e cambiare la situazione: tecnologia, regolamentazione e cooperazione internazionale. Il testo presenta i diversi scenari di un futuro vicino, ovvero capitoli monografici dedicati ai paesi più influenti del pianeta, che illustrano quali saranno le situazioni e le emergenze che si troveranno ad affrontare nei prossimi anni: la Russia del 2019, gli Stati Uniti dell’anno 2029, l’India del Nord nel 2036, la Cina del 2042 e ancora gli Stati Uniti e il Regno Unito fra una quarantina d’anni. 8 scenari fra il 2018 e il 2175. Queste le sue parole per descrivere l’ultimo scenario (2175) che chiama ‘annientamento’: ‘Quella attuale era una società globale molto più semplice: 300 milioni 6_ Gwynne Dyer è giornalista, editorialista e conferenziere, si occupa di affari internazionali. Collabora con la rivista Internazionale, e ha una rubrica settimanale pubblicata in 175 giornali di 45 paesi.


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di individui che parlavano solo due lingue principali, l’inglese e il russo, radunati sulle coste dell’Oceano Artico (anche se quelle coste, dopo un aumento del livello del mare pari a 70 metri sarebbero risultate irriconoscibili ai loro bisnonni). Più a sud c’erano aree abitabili sparse, come l’arcipelago Britannico, Terranova e l’entroterra montuoso della Colombia Britannica, perfino alcuni agglomerati nei tropici dove cadevano ancora precipitazioni sufficienti a permettere la vita umana; ma l’interno di tutti i continenti era un deserto incandescente. Nell’Emisfero Sud, gran parte della Nuova Zelanda era ancora densamente popolata, e così la Patagonia, ed erano in corso tentativi per creare insediamenti sulle cose dell’Antartide, ma questo era tutto. Alcuni sognavano massicci progetti di geoingegneria che tornassero a far abbassare la temperatura e consentissero all’umanità di ricolonizzare il pianeta, ma la nuova società non disponeva delle risorse di un tempo, e inoltre avevo un problema più urgente. Gli oceani stavano andando a male. Nel senso che puzzavano come uova marce’.

Nelle conclusioni, l’autore scrive: ‘[...] Il nostro compito per ciò che rimane del secolo sarà di rimediare ai danni causati negli ultimi due secoli di industrializzazione ai sistemi omeostatici di Gaia da cui, fino a tempi relativamente recenti, non ci rendevamo neppure conto di dipendere. Questo non implica una de-industrializzazione: la nostra società globale vivrà o morirà come un’impresa a elevato consumo energetico ma per cominciare dobbiamo de-carbonizzare completamente le nostre fonti di energia, i trasporti e l’industria. Dovranno essere ripopolate le foreste che abbiamo abbattuto negli ultimi 200 anni, andranno ricreate enormi riserve dove la pesca sarà proibita per consentire il ripopolamento degli oceani, e la superficie di terra che abbiamo sottratto ai cicli naturali per adibirla alla coltivazione dovrà scendere dall’attuale 40% al 30% o meno. Non è troppo tardi per rimediare, se avremo tempo a sufficienza e non saremo fatalmente distratti da eventuali catastrofi. [...] Non c’era alternativa ai combustibili fossili per far decollare una civiltà industriale scientifica, perché nessun’altra risorsa energetica era disponibile in una società a bassa tecnologia. Abbiamo continuato a bruciare spensieratamente carbone, petrolio e gas per quasi due secoli, senza sospettare che, alla lunga, la dipendenza da questi combustibili equivaleva a una sorta di patto suicida. Ed ecco il piccolo miracolo che dimostra che abbiamo tuttavia più fortuna di quanta ce ne spetterebbe di diritto: esattamente nello stesso momento in cui è diventato evidente che dobbiamo smettere di bruciare combustibili fossili, si sono rese disponibili svariate tecnologie in grado di generare energia. È un’autentica benedizione. Quindi ora dobbiamo gestire la transizione, e abbiamo più o meno mezzo secolo per farlo. Gran parte della trasformazione dovrà avere luogo nei prossimi vent’anni, ed è necessario decarbonizzare completamente le nostre economie entro il 2050. Nel frattempo, dobbiamo impedire che la temperatura globale media superi il tetto di 2 gradi Celsius, a prescindere da come si sviluppa la concentrazione di anidride carbonica nell’atmosfera: e, guardando ancora più avanti, è indispensabile che riduciamo l’anidride carbonica a 350 parti per milione. Non sarà facile, ma è il genere di sfida in cui eccellono le società industriali.

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PARTE PRIMA di Michele Manigrasso Nel secolo scorso abbiamo superato per un soffio l’esame di metà trimestre: abbiamo acquisito la capacità di distruggere la civiltà una volta per tutte, attraverso la guerra, e non lo abbiamo fatto. Adesso ci aspetta l’esame finale, dove è in gioco l’intero ambiente da cui dipende la nostra civiltà. Non è questione soltanto di conoscenza e capacità tecniche, ma anche di autocontrollo e capacità di cooperazione. Valori da adulti, se volete. Che fortuna essere chiamati a un simile test in un momento della nostra storia in cui abbiamo almeno qualche possibilità di superarlo. E come sarà interessante il futuro che ci si profila, se davvero riusciremo ad arrivarci’. Questo libro, interessante e affascinante trama di una serie di futuri possibili, quanto tristi e preoccupanti, ha centrato il problema climatico, la sua gravità, ipotizzando possibili soluzioni, basando tutto su tecnologia e geo ingegneria. Denuncia l’incapacità/volontà strategica, dei governi nazionali e dei vertici planetari, di mettere in campo mezzi già esistenti (per esempio la possibilità di una rete elettrica sotto il Mediterraneo). Fermo restando la ovvia necessità di continuare ad investire in sistemi di produzione energetica da fonti rinnovabili per invertire la rotta, allontanandoci sempre più dall’uso e consumo di risorse non rinnovabili, (anche questo rientra tra le ‘strategie di adattamento’ al cambio climatico) in questo testo si parla troppo poco di città e mai di spazio. Sembra che alcun ruolo o dovere, o ancora, alcuna utilità, siano lasciati agli urbanisti, agli architetti, figure completamente assenti, che non giocano alcun ruolo rispetto alle condizioni della società, alle sorti del pianeta. Il contesto è aspaziale e globale. La proposta è sempre il risultato di accordi nazionali o planetari, è ‘strategica’ e programmatica... non è mai progetto. Tutto è politico e, probabilmente, politicamente risolvibile. Un libro originale dunque, intrigante, a tratti spaventoso come un libro di Stephen King (G. Magazine), che racconta un punto di vista inedito su un tema scottante; ma è uno sguardo miope quello di Dyer, fin troppo fazioso e politico. Una fotografia futuribile immortalata senza domandare nulla all’urbanistica e al progetto di territorio; troppi gli interrogativi mancati, utili alla sopravvivenza, indispensabili per parlare di futuro con atteggiamento attivo, costruttivo, progettuale. Parlare di tecnologia, fisica e climatologia, e soprattutto di geo ingegneria, non basterà; non sarà sufficiente per cambiare le sorti del pianeta. La vera ‘guerra’ si combatterà nelle città; l’esercito sarà composto dai cittadini, dagli urbanisti, dagli architetti e da tutti coloro che hanno competenze sul territorio, per preparare il futuro, fin troppo previsto e immaginato, troppo poco progettato.

01.5_ Un campo di battaglia a scala planetaria. Le città in prima linea Il clima è già cambiato e muterà ancora. Le città, i territori, il paesaggio, ritardano ad adeguarsi ai mutamenti. Svelano tutta la loro vulnerabilità, impotenti di fronte ad eventi estremi, calamitosi, che ci consegnano ingenti danni, dolore e vittime. Condizione che ci invita a guardare in maniera nuova e più critica il territorio; risvegliando le coscienze, recuperando significati etici, gli obiettivi sociali del


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progetto di territorio; interpretando tale condizione di emergenza, come occasione per aumentare di un valore aggiunto gli effetti delle nostre discipline sul territorio. Per riaffermare in maniera inedita il ruolo del progetto nei territori che abitiamo. Il surriscaldamento globale, l’innalzamento del livello d’acqua degli oceani, il rischio esondazioni, l’inasprirsi dell’effetto isola di calore ed altro ancora, hanno accelerato il passo delle ricerche specialistiche e di settore ed allo stesso tempo hanno lanciato un allarme a tutte le competenze che si interessano di territorio, dalla sua manutenzione alla sua modifica attraverso l’azione integrata del progetto (Andriani, 2013). La condizione dell’oggi è una condizione inedita. L’emergenza climatica è una circostanza nuova da affrontare e gli strumenti per farlo non possono essere più gli stessi. Questo nuovo scenario, caratterizzato da forte incertezza, mette in crisi un apparato di paradigmi consolidati, ormai inadeguati a dare risposte utili di fronte a rischi che spesso valicano l’immaginabile. Diminuisce la necessità del territorio, inteso come spazio in cui muoversi e comunicare, aumenta la domanda di ‘sicurezza’ rispetto alla dimensione del rischio ambientale (Ricci, 2012). L’urbanistica tradizionale ha fatto in modo che le attività umane sul territorio fossero progettate e dimensionate con il presupposto implicito o esplicito, che la situazione e le condizioni ambientali e territoriali rimanessero costanti e non mutassero nel tempo. Assunti teorici, e governo del territorio, unitamente alle modalità ormai obsolete di costruzione della città, ci consegnano un territorio, specialmente in riferimento al nostro Paese, inerte e inflessibile, impreparato ai possibili cambiamenti, e incapace di attutirne i colpi, anche per l’abusivismo edilizio e la scellerata e incontrollata tendenza al consumo di suolo. Un territorio fortemente vulnerabile, in cui le città subiscono impatti, spesso e purtroppo catastrofici. L’urbanistica contemporanea è sollecitata a rimettere in discussione i propri quadri cognitivi ed è spinta alla ricerca di nuovi paradigmi più adeguati allo scenario di profonda incertezza in cui viviamo. L’individuazione dei rischi ai quali sono esposti popolazioni e beni, la valutazione della loro vulnerabilità, e la formulazione di strategie atte a contrastare il problema, sono, di conseguenza, un banco di prova importante, per operare a favore della qualità della vita della maggior parte della popolazione mondiale. Il problema è globale, e ciò è chiaro; con la stessa evidenza, le maggiori preoccupazioni, rispetto ai cambiamenti del clima, riguardano i rischi per l’uomo e le sue città, perché è in esse che si espletano le attività umane principali e si addensa la popolazione. Molti studiosi dei fenomeni urbani, urbanisti, pianificatori, oltre agli esperti delle varie discipline economiche, sociali e ambientali, tendono a considerare la città come un ecosistema poiché questo concetto sembra essere quello più adeguato per definire un insediamento urbano. L’ambiente urbano viene visto in una prospettiva dinamica e processuale nella quale assumono un ruolo centrale, da una parte, i processi di trasformazione indotti dall’uomo nell’ambiente stesso e, dall’altra, le reazioni dell’ambiente naturale, biotico e abiotico, alle azioni umane per cui l’uomo urbano viene minacciato da danni, malattie e malessere. L’approccio ecosistemico sembra offrire una base concettuale per comprendere i meccanismi che regolano l’organizzazione e la dinamica evolutiva delle città, i conflitti e i problemi che ne conseguono, e per individuare i correttivi necessari al fine di migliorarne la qualità ambientale (Gisotti, 2006). I cosiddetti ecosistemi urbani presentano peral-

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PARTE PRIMA di Michele Manigrasso tro delle peculiarità differenti rispetto a quelli naturali, decisamente più stabili e con comportamenti maggiormente prevedibili: questi ultimi, in assenza di perturbazioni esterne, tendono verso un ‘climax’ ottimale e fondamentalmente stabile, almeno sul breve periodo (Pignatti, 1995). Invece, negli ecosistemi urbani, l’intervento dell’uomo, amplificato dalla tecnologia, modifica le regole del gioco, alterando i rapporti fra le componenti dell’ecosistema, e fa sì che l’evoluzione di questo sia alterato da una miriade di decisioni umane mosse da interessi diversi e spesso conflittuali, capaci di suscitare grandi trasformazioni in tempi molto rapidi. E poi, un’altra differenza fra i processi che si svolgono nei sistemi naturali e quelli dei processi antropici è nella lentezza dei primi e nella rapidità dei secondi. La qualità dell’ecosistema urbano è tanto migliore quanto più queste trasformazioni concorrono a realizzare condizioni generali di superiore vivibilità per gli abitanti e di maggiore efficienza per lo sviluppo socio-economico (Gisotti, 2006). Gli insediamenti urbani sono drivers fondamentali dei cambiamenti climatici e nel contempo i luoghi ove gli effetti si presentano più severi per la specie umana. Gli insediamenti urbani sono quelli dove è minore la naturalità, e dunque dove la resilienza7 deve essere assicurata in misura quasi esclusiva dall’uomo. La valutazione della loro vulnerabilità, la considerazione dei rischi cui sono esposti popolazioni e beni, la formulazione di consapevoli strategie atte a contrastare il problema, sono, di conseguenza, un banco di prova importante, suscettibile di incidere sulla qualità della vita della porzione largamente maggioritaria della popolazione mondiale. La gente della città vive in un ambiente spesso reso spiacevole dagli effetti collaterali dell’attività umane, frequentemente pieno di problemi derivanti dall’inquinamento, dall’affollamento, dalle abitazioni inadeguate e dalla insoddisfacente situazione sanitaria, inoltre, non immune da pericoli naturali quali le inondazioni, le invasioni marine dovute agli eccessi climatici e/o alla subsidenza artificiale, le frane, i terremoti, i maremoti, le eruzioni vulcaniche, etc.. Poiché il fenomeno al quale si assiste è la crescita inarrestabile della popolazione globale ma ancor più di quella urbana, bisognerà fare i conti anche con tale fattore per cercare di vivere meglio nelle città. Attualmente, quasi la metà della popolazione mondiale risiede in ambito urbano e si prevede che durante i prossimi anni la popolazione continuerà a salire costantemente. Le città, pur interessando delle porzioni ridotte della superficie terrestre (fra il 2 e il 4%), consumano i 3/4 delle risorse energetiche e dei materiali mondiali producendo una equivalente quantità di rifiuti (Unep, 2005). Città immense, complesse, differenti e più grandi di quelle attuali, diventeranno l’ambiente nel quale vivrà moltissima gente. Varie città, quali Città del Messico, Tokyo, San Paolo, Shanghai, Mumbai e Lagos probabilmente supereranno i 20 milioni di abitanti. Se la città costituisce l’habitat in cui l’uomo trova le migliori condizioni per i propri sviluppo ed evoluzione e ed in cui tende a riprodurre con continuità l’insediamento, contemporaneamente, l’attuale tasso di urbanizzazione sta portando numerose città del mondo a una crescita abnorme che può originare la perdita di quei caratteri che non solo rendono appetibile la città, ma che sono alla base della vita umana (Indovina et al., 2005). A livello globale si calcola che il 75% dei consumi energetici mondiali 7_ Si rimanda alla seconda parte del capitolo successivo per il chiarimento del significato del termine ‘resilienza’.


01_ Un problema d’interesse planetario

sia dovuto alle città, e che queste siano responsabili allo stesso tempo dell’80% delle emissioni di gas a effetto serra. Dunque la città stessa è fonte di produzione di calore ed energia, che si va a sommare a quella della radiazione solare incidente. L’illuminazione, i trasporti, il riscaldamento e il raffrescamento degli edifici hanno impatti non trascurabili sul clima urbano sia direttamente, a causa del calore che deriva dalla produzione di energia e che si va a sommare a quello naturale, sia indirettamente, a causa delle emissioni di gas serra e di inquinanti. Alla luce di questi ragionamenti, risulta evidente come la città abbia un ruolo fondamentale sull’evoluzione del clima, sia a livello globale, sia a livello locale, contribuendo fortemente alla ‘qualità’ del proprio microclima, più in generale, del proprio ambiente. Se da un lato hanno contribuito fortemente al cambiamento climatico, con i loro consumi, le esternalità, le emissioni di gas serra, dall’altro, le città e i governi locali in senso più ampio, possono svolgere un ruolo rilevante come laboratori di sperimentazione della ‘politica di protezione del clima’, definibile come ‘l’insieme delle politiche indirette di adattamento e mitigazione finalizzate alla riduzione dell’impatto dei cambiamenti climatici sui sistemi naturali e antropizzati da un lato, e alla riduzione delle esternalità ambientali che possono favorire le mutazioni climatiche nel medio e lungo periodo’ (Musco, 2008). Risulta chiaro come essa faccia riferimento ad un insieme di politiche definite nei sistemi di governo internazionali e locali e che preveda l’applicazione congiunta di politiche per l’adattamento e la mitigazione, con un approccio di valenza strategica che sia in grado di tenere insieme, diversi livelli di gestione, di settori di intervento e di attori. Il primo asse strategico riguarda la ‘mitigazione’, cioè quelle misure atte alla progressiva riduzione delle emissioni di gas ad effetto serra; dunque una tipologia d’intervento, che agisce sulle causa e non sull’effetto, su quelli che sono i settori maggiormente responsabili dell’aumento delle emissioni (settori produttivi, della mobilità, energia, uso dei suoli) (IPCC 2007). Essa viene proposta attraverso precisi target di riduzione delle emissioni di anidride carbonica rispetto al 1990 (l’anno di riferimento per il Protocollo di Kyoto): da Amsterdam che prevede una riduzione del 40% entro il 2025 a Berlino (-40% entro il 2020), da Copenaghen (-40% entro il 2015) a Barcellona (-50% entro il 2030) o a New York (-30% al 2030): queste città sono accomunate dalla scelta di individuare nella riduzione delle emissioni di CO2 prodotte dalle attività urbane, l’obiettivo che tiene assieme le scelte di sviluppo. È una novità senza precedenti che così tante città scelgano come riferimento delle proprie politiche uno stesso parametro quantitativo proiettato in un arco di tempo preciso (Zanchini, 2011). Il secondo asse riguarda le strategie di “adattamento”, attuabili in modo preventivo o reattivo, volti a ridurre l’entità dei danni, qualora l’evento dannoso si manifesti (a ciò si aggiunga l’adattamento autonomo, dei sistemi naturali).

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A.R.M.I. Adattamento. Resilienza. Metabolismo. Intelligenza Michele Manigrasso e Luciana Mastrolonardo pp. 220 - Euro 20,00 ISBN 978-88-96386-38-5 formato 14,8x21 cm


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