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Il sacrificio delle corti agricole

Dai cambiamenti socio-economici e territoriali alla conseguente dispersione dei beni intrinsecamente legati ai rapporti tra architettura e fondi agricoli e condizionata al fondo agricolo in un rapporto che valorizza l’insieme di corte e fondo conferendogli una aurea di (quasi sacralità) assoluta dignità. Se mal sopportiamo quanto sta avvenendo, nel nostro territorio, per le corti e i fondi agricoli (separati e venduti, le une a immobiliaristi per trasformarle in appartamenti di pregio, trattorie di lusso e spa, gli altri per aggregarli ai poderi confinanti o ai Consorzi vinicoli, piantandovi sopra vigneti), pensate quale può essere il nostro giudizio nei confronti di quanto è avvenuto nel territorio veneto per le ville, quasi tutte

Il sacrificio delle corti agricole quando subiscono le trasformazioni, ambiziosamente chiamate restauro, che le fanno diventare altro rispetto a quello che sono state per secoli, è una delle minori, seppur gravi, “sviste” delle normative edilizie nostrane. Nemmeno ovviate dai numerosi vincoli previsti nel caso siano incluse nell’elenco delle corti di pregio. Ciò in quanto queste norme aggiuntive intendono tutelare il bene architettonico, piuttosto di quello storico e sociale. Come sembrerebbe più corretto e più comprensibile. In effetti la tutela architettonica può salvare un arco o una colonna, difficilmente la tipologia e il valore di testimonianza storica di quel sito umano. La piscina, poi, inevitabilmente affiancata alla corte per dare il segno del cambio di ceto, è la clamorosa denuncia dell’avvenuta dispersione di un bene storico architettonico, proprio in quanto sconfessa il significato intrinseco di unità agricolo-produttiva strettamente connessa del Palladio o dello Scamozzi, disseminate tra Verona, Vicenza, Padova e Treviso, anch’esse separate dalla secolare unione con i fondi agricoli con i quali formavano una fondamentale rete di presenza qualificata per esercitare una sorta di “monitoraggio” del territorio della Repubblica di Venezia che in tal modo custodiva/controllava/ gestiva il suo vitale retroterra. E a coloro che mi fanno osservare che le ville sono tuttora in piedi e per lo più restaurate, e le campagne producono e che perciò nulla è andato perduto del nostro patrimonio, obbietto che a quella organizzazione agricolo/politico/sociale/economica, dobbiamo quanto rimane dello straordinario paesaggio veneto che ancor oggi resiste malgrado le frequenti manomissioni volte a disgregare gli ingredienti della sua specificità. Inevitabilmente, infatti, gli effetti della separazione dei fondi dalle ville, così come dalle corti, si faranno pesantemente sentire e vedere nel tempo. Niente è infatti più incisivo sul territorio degli effetti prodotti dai cambiamenti funzionali: basterà contare il numero dei posti auto richiesti per la nuova popolazione che occuperà quei volumi, l’annessa trattoria ristorante e la eventuale spa con piscina; il numero di alberi tolti per dar loro posto; il traffico che viene generato e la CO2 rilasciata; la perdita di una connessione vitale, ecc. per rendersene conto. Tuttavia se mi si domanda che atteggiamento assumere nei confronti dei cambiamenti socioeconomici della nostra società, cambiamenti a cui abbiamo sempre risposto con soluzioni spicce, quasi automatiche, rispondo come farebbe uno scacchista, prendendomi qualche minuto di tempo per mettere insieme il seguente suggerimento non banale: fare ricorso a normative incentivanti il mantenimento di una congrua superficie del fondo alla corte (villa) in modo da costringere a conservare le corrispondenti tipologie abitative e funzionali.

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Come si vede la soluzione non risolve il problema in toto, ma solo in parte. Piuttosto di niente! Ma sono certo che si potrebbero trovare soluzioni più efficaci e non vessatorie se in molti ci applicassimo a cercarle. •

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