Medio corso Scritti
A titolo di prefazione, una foto di Karim El Maktafi selezionata da Davide Monteleone.
Oscar Biffi
Il custode delle acque
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Stella Riva Uno solo 15 Andrea Sciuto Cassano onora 23 Gabriele Galligani
La macchina sensibile
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Paolo Gravino Hans 43 Annalisa Toscani Tornano sempre 53 Vitalba Piazza Genius loci 61 Danilo Pettinati Ritratto virile 71 Mattia Cefis Nuovo inizio 79 Andrea Migliorini Pensa Natale 89 Wu Ming 2 ReenARTment 97
Il custode delle acque Oscar Biffi
Avevo tredici, no, quattordici anni. Accadde il primo anno di liceo, l’anno in cui conobbi l’Adda. Ora non saprei dire perché, ma sulla via del ritorno dalla nuova scuola avevo preso l’abitudine di fare una deviazione, lungo l’argine e poi giù, fino al gomito del naviglio. Anche se è una bella strada da mangiarsi in bicicletta, ad attirarmi era la Casa del Custode delle Acque. Allora non l’avevano ancora ristrutturata e nessuno in famiglia aveva mai speso due parole a riguardo. Per me, era solo un palazzo antico, con l’intonaco scrostato e un paio di alberi troppo cresciuti a prendere d’assedio la facciata. Mi piaceva passarci e immaginare sagome indistinte dietro alle finestre chiuse, oppure rumori minacciosi oltre il muro di cinta del giardino. Brividi da due soldi, me ne rendo conto, ma chi si accontenta gode, giusto? A fregarmi fu una bicicletta. Non la mia, un’altra accostata alla Casa e mezza nascosta tra i cespugli. Quel lampo bianco nel verde mi saltò subito all’occhio e mi costrinse a frenare, come per un riflesso condizionato. Sembrava vecchia, ma verniciata di fresco, e sulla canna, al posto di una marca che avrei senza dubbio riconosciuto, c’era una scritta in blu: Asfodelo VI. Ricordo che allora, invece di chiedermi cosa fosse un asfodelo, mi colpì l’idea di una bicicletta con un nome, come una barca. Sentivo di essere finalmente incappato in un segreto. 9
Ero ancora piegato a esaminare lo spago che penzolava dal portapacchi, quando un tonfo mi colse alle spalle. Mi voltai di scatto e lo trovai lì, accosciato sull’asfalto. Un ragazzo come me. O almeno è così che lo definirei adesso, in quel momento non mi parve proprio. Era più alto, secco e spigoloso, ma senza dubbio più grande, dell’ultimo o penultimo anno. Al posto dello zaino portava una valigetta di cuoio. Bastò uno sguardo per intenderci: lui era appena evaso dal giardino, io stavo ficcanasando nelle sue cose. E da come strinse la mano libera mentre si avvicinava, mi fu subito chiaro che non me la sarei cavata con una promessa di omertà. – È tua? Non che una domanda stupida fosse un esordio migliore. Infatti la ignorò. – Sei della sponda bergamasca. Lo sono, nato e cresciuto a Canonica d’Adda, ma non pensavo che due parole bastassero a tradirmi. – E ti piace andare a casa dall’argine. Mi fissava, dritto negli occhi. Non sono mai stato bravo con le facce e non conservo sue fotografie, ma quello sguardo torvo e scuro me lo porterò nella tomba. Non esagero. Forse a quel punto avrei dovuto limitarmi ad annuire, invece decisi di osare. – Ma tu chi sei? – Il Custode delle Acque. Non lo disse scherzando, né stringendosi nelle spalle o distogliendo lo sguardo. Lo disse e basta, con quell’assoluta serietà che appartiene solo ai saggi e ai bambini. Mi lasciò interdetto, tanto che gli bastò una mano per scostarmi e riprendersi la bicicletta. La inforcò senza aggiungere altro, salvo ripensarci alla prima pedalata. – A domani. Dopo scuola. Non mancare. Fu così che cominciò il mio apprendistato. Mentre a casa erano convinti che prendessi ripetizioni di matematica, 10
sei giorni su sette io scavalcavo il muro del giardino e mi facevo largo tra i rovi, solo per stare a sentire il Custode. Non ho mai scoperto se fosse figlio di un rigattiere o magari di una guida turistica, fatto sta che aveva la valigetta piena di cimeli e la testa zeppa di storie. Che risalissero a due anni o a quattro secoli prima, andavano tutte a incastrarsi nei luoghi che calpestavo dall’infanzia e in qualche modo l’Adda compariva sempre. Le mie orecchie se le bevevano, con la stessa sete degli occhi che andavano immancabilmente a cercare l’acqua del fiume. Mi aiutava a immaginare. C’era una sola regola: avevo diritto a una domanda al giorno, non di più. Non le ricordo tutte e nemmeno la metà, ma nel giro di due settimane la sapevo lunga sulla Casa e sul ruolo del Custode. O camparo, si dice anche così. Indicando lo stemma spagnolo sotto la volta all’ingresso, mi spiegò che, regnante dopo regnante, il compito restava sempre quello di raccogliere i dazi di chi passava dal naviglio. Esattore delle tasse. Non proprio una figura affascinante, per un quattordicenne, ma la verità è che io non sono capace di raccontarlo come faceva lui. Era dal camparo che i contadini andavano a comprarsi l’acqua per i campi ed era compito suo badare a non venderne troppa, se voleva evitare che le barche s’incagliassero nel naviglio. Ma il bello era risalire il corso del fiume, accompagnato dalle storie di villani che l’acqua volevano rubarsela nottetempo: ai miei occhi si faceva subito buio e insieme diventavamo sentinelle, il Custode con il suo apprendista. La cosa migliore delle sue storie era quello che non dicevano. Come se ci fosse sempre un “E non solo…” implicito da qualche parte. Ricordo che di tanto in tanto citava draghi o spiriti, come sassi pronti a spuntare tra i flutti della storia, soltanto per un momento. Ma erano proprio questi scampoli di leggenda, che forse avrebbero dovuto farmi bollare i nostri incontri come un semplice gioco, a tenermi avvinto. Mi spingevano a credere che lui avesse davvero raccolto un’eredità segreta e che me l’avrebbe tramandata, se solo me ne fossi dimostrato degno. Sì, volevo dimostrare qualcosa a me stesso. Per questo, quando il Custode mi annunciò che ero pronto per la mia prima ronda notturna, urlai 11
esultante. Dimentico dei brutti voti in matematica e di qualunque altra cosa. Ci ritrovammo nel giardino della Casa, all’imbrunire. Credo fosse l’inizio dell’autunno, il cielo non era ancora scuro, ma anche così bastava a trasformare il paesaggio che avevo imparato a conoscere. Ammutoliva gli alberi, incrudeliva i rovi, rimbecilliva i miei passi sull’erba umida. Per la prima volta, il Custode decise di farmi entrare. C’intrufolammo attraverso una porta dai cardini marci, nel piano seminterrato. Appena dentro accese la sua grossa torcia elettrica, mandando il fascio di luce a combattere contro le pareti macchiate di fumo e muffa. Gli bastò sollevarlo, però, per mostrarmi i mattoni di un incredibile soffitto a volte. – Preghiamo. Lo disse proprio come il prete in chiesa, ma era accanto a me, non su un altare lontano. Immagino si accorse subito del mio imbarazzo. – Una volta qui vicino ci arrivava il traghetto. Al posto del ponte, su per la sponda. I barcaioli lo aspettavano bivaccando sotto questo tetto e pregavano la loro Madonna. La nostra Madonna. Capito? Congiunsi le mani, deciso a non spendere la mia unica domanda per chiedere spiegazioni. Non vuol dire che fingessi, anzi, ricordo il timore, la passione. Oggi dubito che ne sarei ancora capace. Mi pare che nessuno aggiunse altro, conservo giusto l’immagine della torcia che illumina lo stipite mentre usciamo. Sul legno gonfio c’erano scritte minutissime che non lessi mai. Fuori invece c’era il buio e d’un tratto mi fu tutto chiaro. Senza una benedizione, non avrei mai trovato il coraggio di salire in bicicletta e seguire l’argine, in direzione opposta rispetto a casa mia. Non s’incontra anima viva tra il naviglio e il fiume, di notte. Anche i lampioni scarseggiavano e i pedali erano duri, tra la dinamo per tenere acceso il fanale e le gambe tremolanti. Nessuno sapeva dove fossi, ai miei avevo raccontato una balla, con la complicità di un amico corrotto a fi12
gurine. E se… Ci misi un po’ ad accorgermi che il Custode aveva frenato. Tornai indietro e smontai di sella, come aveva fatto lui. C’incamminammo per un sentiero sterrato, portando solo la sua torcia. Non avevo idea di dove stessimo andando e all’inizio tutto era silenzio. A mano a mano che il cuore mi scendeva dalla gola, mi accorgevo di fruscii e piccoli suoni sconosciuti. In particolare, uno stridio tremolante mi entrò nelle ossa: oggi saprei riconoscere un allocco, ma allora era un’altra storia. – Guarda. Il fascio di luce scattò sulla destra e io con lui. Sospirai di sollievo, nel vedere solo un albero caduto. Mi sbagliavo. Bastava avvicinarsi di un passo per riconoscere un’incisione profonda sulla corteccia, una specie di spirale. Il Custode l’accarezzò, seguendola con le dita. – Il drago Tarantasio. Lo guardai e lui annuì per darmi il permesso di toccarlo. Ora che ci penso, ho sempre trovato un certo conforto nel legno. Mi chiedo se risalga a quella notte, o se vale così per tutti. Proseguimmo in discesa, con il gorgoglio del fiume che s’insinuava sempre più tra i pensieri. Era come se innaffiasse un terreno assetato, con l’acqua che prima si spandeva in rigagnoli e solo dopo veniva assorbita. Quando infine arrivammo a vederlo, ero pronto, non avevo più paura. L’Adda era buio, vivo, immenso. Mi dava il benvenuto con qualche sbuffo di nebbia. Il tempo di metterci seduti e cominciò la nuova lezione. – È come il naviglio di giorno, tale e quale, non cambia niente. A dimostrazione provò a illuminare i flutti, con scarsissimo successo. Meglio l’immaginazione. – Hai presente le foglie cadute sul pelo dell’acqua? Ecco, il Custode deve stare così, in equilibrio. Tra quello che c’è fuori e quello che sta sul fondo. Tra quello che tutti sanno e quello che nessuno capisce. Perché magari l’acqua del naviglio è bella trasparente, color smeraldo, e ti lascia vedere tutto. Ma l’Adda, be’, l’Adda è un’altra cosa. 13
Stavo per fargli notare che si era appena contraddetto, quando lo vidi saltare in piedi. Mi gettò la torcia, impedendomi d’imitarlo, e frugò nelle tasche. Ne tirò fuori un flauto di Pan. Me l’aveva già mostrato un giorno al giardino, definendolo con orgoglio “Un Quadri originale”. Ora so che si riferiva a un muratore liutaio di Trezzo sull’Adda, forse l’ultimo in assoluto. Mi fece cenno di stare fermo e svanì nell’oscurità. Perciò eccomi lì, da solo in riva al fiume. Fantastico. Passavano i minuti, il Custode non tornava e io cominciavo a pensare. Che ore erano? Quanto sarebbero durate le batterie della torcia? Avrei ritrovato la bicicletta? I miei sarebbero venuti a cercarmi? Il gorgoglio del fiume ormai se ne stava placido sullo sfondo di queste preoccupazioni. Ci voleva qualcosa di diverso per riportarmi al presente. Qualcosa come uno spaventoso ululato. No, non scherzo. L’avevo sentito, ne ero sicuro. Vicino, troppo vicino. Puntai la torcia in quella direzione, la stessa che aveva preso il Custode. La mano tremava e continuavo a sventagliare il fascio di luce, finché vidi qualcosa scintillare di riflesso. Due cose, solo per un attimo. Occhi? Poi venne il latrato. I piedi bruciarono sul tempo le orecchie: al primo tonfo della bestia lanciata verso di me, stavo già correndo. Il cervello entrò in azione più tardi e m’implorò di cercare il Custode. Chissà quante zampe aveva quella cosa, non sarei mai riuscito a sfuggirle fino alla Casa. Per salvarmi dovevo cambiare direzione e superarla. Non poteva certo occupare tutta la riva, giusto? Piantai le suole nella terra umida. Un respiro e via. Non mi prese, altrimenti non sarei qui a raccontarlo, ma ci andò vicino. Ricordo lo scattare di fauci, un alito caldo a sfiorarmi le dita e il rantolo affannoso. Quel respiro, più forte persino del mio, che m’inseguiva. Non era mica finita. Corsi e corsi, mano nella mano con l’Adda. Con la luce incollata davanti ai piedi, il mondo era fatto solo di terra da calpestare e acqua da evitare. Non mi è mai piaciuto correre, ma quella notte avevo per polmoni il terrore del mostro e la fiducia nel Custode. 14
La riva si era fatta irta di sassi, li sentivo sotto le scarpe da ginnastica. Sentivo anche i passi del mostro, uno per uno. Ticchettavano sbilenchi sulla pietra. L’unica cosa che proprio non sentivo era la mia voce gridare aiuto. Non ci riuscivo. Così il mio respiro diventava il suo rantolo che diventava il tic tac sui sassi che diventava il gorgoglio del fiume, in un tutt’uno senza fine. Finché risuonò il flauto. Alla mia destra? – Da questa parte! Fu così che provai a correre sulle acque. L’avevo detto che mi fidavo del Custode, no? – Nuota! Nuota! Se non ci avete mai provato, non avete idea di come sia annaspare in un fiume di notte. Di colpo sembra vasto come un oceano e con le correnti non c’è lezione di nuoto che tenga. È una cosa viva, ma gelida. Liquida, ma inesorabile. Mi bastarono poche bracciate per capirlo, prima di finire a graffiarmi palmi e ginocchia sulla ghiaia. Un’isola? Il Custode mi trascinò in piedi. Senza più l’acqua a tapparle, nelle orecchie mi esplose una cacofonia animalesca. Cercai di trattenerlo, lo giuro, ma il mio amico balzò nel fiume per affrontare il mostro. Avevo ancora la torcia stretta in pugno, fradicia, spenta. Gli unici testimoni della lotta furono i flutti. Infine la luna mi restituì la sagoma del Custode, di ritorno trionfante. Reggeva a fatica qualcosa di grosso, forse un trofeo di caccia. Lo lasciò cadere ai miei piedi e subito si contorse. Era… Un cane? – Si sa, la Madonna delle Acque placa pure le bestie rabbiose. Non c’è da immaginarsi chissà che mastino, direi a stento trenta chili. Un randagio fradicio, ansimante e grato. Uggiolava. Non mi ero mai sentito così umiliato. – Hai capito dove siamo? Scossi la testa, costringendomi a non tirare su con il naso. Avevo freddo. – Be’, allora ti presento il Brembo. Sfocia nell’Adda proprio qui. Lo 15
senti che ha una voce diversa? No, non ero proprio dell’umore adatto, con i vestiti infangati e almeno un mese di punizione ad attendermi. Quel che è peggio, sapevo di aver fallito la mia prova d’iniziazione e c’era solo una domanda che volevo fare al Custode. – Posso tornare a casa? Questa è la storia di come non sono diventato il Custode delle Acque. Quanto a lui, non l’ho più rivisto dopo quella notte. Sì, l’ho incrociato a scuola un paio di volte, prima che si diplomasse, ma non era la stessa cosa e non ci siamo nemmeno rivolti la parola. Immagino che avrei potuto mettere insieme tutte le tessere grazie ai pettegolezzi di paese: indirizzo, mestiere, parentele. Mai voluto, negli altri vent’anni che ho passato in riva all’Adda finora. Cosa ci faccio ancora qui? Perché non mi sono trasferito a Milano come tanti, infliggendomi settanta chilometri al giorno in bicicletta, con la pioggia e con il sole, per l’università? Per non parlare dei posti di lavoro mai presi in considerazione. Colpa di un ragazzo strambo e di un cane a tre zampe, suppongo. Be’, sì, se le avesse avute tutte e quattro, mi avrebbe preso di sicuro. Ma credo siano proprio le cose strane e imperfette, i rimasugli mezzi dimenticati e le debolezze che conosci solo tu, a fare di un posto casa. Le radici non sono soltanto qualcosa di forte, che ti sorregge sempre e comunque. Richiedono non meno cura dei fiori. Io, però, alla mia prova d’iniziazione mica ci ho rinunciato. Arriva solo con un po’ di ritardo. Domani prendo il largo sull’Adda. Sì, su una piccola imbarcazione storica, un guscio di noce. Vogliamo spingerci fino a Venezia, ripercorrendo le rotte di una volta, un minuscolo equipaggio di mezzi matti. Se non posso essere io a custodire le acque, che siano loro a occuparsi di me. E che la Madonna dei barcaioli stavolta ce la mandi buona.
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Uno solo Stella Riva
– Signor Luigi, ci deve mettere il bocchino, per suonarlo! Alla banda di Crespi d’Adda, l’Augusto era uno dei pochi a possedere uno strumento di proprietà. Aveva ereditato la tromba da suo padre, bandista anche lui, che gliel’aveva ceduta con orgoglio, felice che qualcuno portasse avanti la tradizione di famiglia. Io lo strumento non ce l’avevo, ma mi avevano spiegato che lì, in sede, lo si poteva chiedere in prestito. Sono entrato al dopolavoro col cappello in mano, chiedendo di suonare. Chi me lo faceva fare? Tornavo a casa dalla fabbrica stanco e avevo mal di schiena e poi non sapevo mica leggere la musica, non ci avevo mai nemmeno pensato, prima di arrivare al paese. Alla fine mi ha convinto la Luciana, mia moglie, che un giorno mi ha ordinato: – Sbàrbati e vai alla banda, che poi ti diverti. Avrei voluto uno strumento con la voce grossa, ma il Maestro Bussi mi ha detto subito che le tube erano già tante e quindi mi ha dato il genis, il flicorno contralto. – Il genis ti sta a pennello, è uno strumento che canta! – Io al momento ci ho creduto, anche perché, insomma, chi ero io per andare contro al Maestro? Adesso però lo so che in ogni banda i musicisti si buttano su trombe e clarinetti, e quindi c’è sempre bisogno di un poveraccio a cui appioppare quello strumento che non è né trombone, né cor17
no, sembra un giocattolo e non è vero che canta, perché se canta, stona. Stavo lì con quel coso in mano, quando mi ha detto di provare. L’ho rigirato tra le mani per trovargli un dritto e un rovescio, un davanti o un dietro, ho schiacciato i pistoni e capito dove bisognava soffiare, ho soffiato ma niente suono. Solo un sibilo. – Signor Luigi, ci deve mettere il bocchino, per suonarlo! – ha detto allora l’Augusto, e le risate degli altri mi sono arrivate in faccia come una schioppettata. Dovevo essere ben ridicolo, tutto rosso, inchiodato al pavimento, con l’aria smarrita di chi pensava che avrebbe fatto meglio a rimanere in casa. Col passare dei mesi, al genis però mi ci sono affezionato, ho imparato a tirare fuori qualche nota e ho scoperto che non mi dispiaceva per nulla, l’accompagnamento. Col genis stai in seconda fila, non sei esposto come quando suoni la tromba, che se sbagli ti sentono tutti e i signori strizzano gli occhi e tirano le labbra. Stai dietro e devi pensare tum-pa, tum-pa, tum-pa e suonare sul pa, mai sul tum. Della banda, mi piacevano le uscite. Suonavamo per le feste, le inaugurazioni, le occasioni religiose, le gite fuori porta. Com’era bello stare fuori dalla chiesa, ad aspettare la gente che usciva dopo la messa di mezzanotte, alla vigilia di Natale! Sentivo le mani ghiacciate dentro i guanti e intorno a me la nebbia e i fiocchi di neve. Guardavo le signore che ascoltavano rapite e mi veniva il magone, perché finalmente ci stavo bene anch’io, a Crespi. Mi piacevano le inaugurazioni, l’atmosfera festosa, i bambini che correvano e ci indicavano. Dovevamo sembrargli ben strani mentre suonavamo senza sosta, strani esseri mezzi di carne e mezzi di metallo, scoppiettanti di note che facevano ridere e ballare. Ai funerali era diverso, ci mettevamo la fascia nera al braccio e dovevamo suonare le marce funebri. Ce n’erano tante, ma fra tutte mi piaceva quella di Chopin, perché ad un certo punto la malinconia si scioglieva ed entravano quelle note di clarinetto che mi facevano pensare ai discorsi sul paradiso e i verdi pascoli che si sentivano in chiesa. Ci è voluto poco tempo perché la banda diventasse una parte di me. 18
Non era passato un anno che già l’ultima ora di lavoro scorreva, mentre mi immaginavo al caldo, in sede, a suonare e ridere. Era bello tirare tardi in osteria, a discutere del repertorio scelto dal maestro, o del prossimo servizio, delle gite a cui avremmo partecipato. Era bello parlare con tutti, sentire i saluti per strada ed alzare il cappello per rispondere. Poi, però, è arrivata la sera della festa. Eravamo lì per la promozione di un amico, quando mi sono alzato dal tavolo dell’osteria e ho visto tutto nero. Sono riuscito a muovere un passo, uno solo, ma poi mi sono accasciato. – È troppo ubriaco! – ho sentito dire, mentre la vista mi si annebbiava e l’Emilio biascicava – Ma se ne ha bevuto solo uno! Chissà, forse avevo preso freddo, forse ero molto stanco, d’altronde erano tre giorni che mangiavo solo polenta, e poca, perché eravamo alla fine del mese, ma non riuscivo proprio a stare in piedi. Sentivo l’Augusto che diceva – Ma solo un bicchiere per conciarsi così? – Solo uno! Solo uno! – ripetevo io e mi veniva da ridere. Capitomboli su capitomboli, mi alzavo e mi accasciavo, e tutti mi tenevano su a forza. Che situazione strana, io di solito ne dovevo bere tanto, di vino, anche solo per rilassarmi un po’ e adesso ero molle per niente. Mi hanno riportato a casa canticchiando sulle note di una nostra vecchia marcia – So-lo! U-no! So-lo! U-no! – e io ripetevo, ridendo e biascicando. Mi hanno lasciato sul retro, vicino alla latrina, perché non potevano mica rimanere lì ad aspettare che ritornassi al mondo, rischiando di finire nei guai, se qualcuno ci avesse denunciati. Né tantomeno potevano svegliare la Luciana, che se no sai che sbuffi e che prediche, per me e per loro. Così, da solo, al freddo, ho riso fino ad addormentarmi, pensando alle mie gambe molli e alle facce di tutti gli altri, così preoccupati per niente. Quella notte nessuno si è accorto di me. Sono rimasto lì, intorpidito, fino all’alba e quando mi sono svegliato ho avuto giusto il tempo per entrare in casa, pulirmi, sbarbarmi e andare a servizio con la banda, per un funerale. Mentre camminavo verso la chiesa rimuginavo su quanto ero 19
stato fortunato, ad avere passato la notte ubriaco, in giardino, senza che nessuno se ne accorgesse: il padrone lo aveva scritto, nel suo regolamento, che ci sarebbero state gravi conseguenze, per chi non avesse mantenuto un comportamento decoroso. La funzione finì, ci schierammo sul sagrato. Stavamo per intonare la marcia funebre quando, a poca distanza da noi, la vedova aveva concluso il discorso funebre con uno scatto di modestia, dicendo che dopotutto il suo Barzaghi – Era solo uno dei tanti benefattori, motivati dall’amore per il prossimo, che popolano questo paese – A quelle parole l’Augusto, Dio lo fulmini, mi ha dato una piccola gomitata e muovendo le labbra, ha sillabato in silenzio – So-lo! U-no! So-lo! U-no! – E via, il ricordo della sera prima è tornato fuori. Gli scivoloni, i visi preoccupati, la mia voce distorta dalla nausea e quella dell’Emilio già rammollita dal bere: – Solo uno, dài, solo uno ne ha bevuto, ed è già ciucco! – La risata è stata prorompente, di quelle che salgono dai polmoni, e se non le fai uscire ti si spezzano nella trachea. È arrivata a sorpresa, rompendo la diga dei denti e scuotendomi il corpo impettito, in divisa, sempre più forte. Il maestro mi ha richiamato battendo la bacchetta sul leggio, ma io non sono riuscito a smettere, anzi, ho iniziato a tossire, perché l’aria fredda mi era entrata nei polmoni e mi aveva ghiacciato il respiro. Ho tossito e riso, riso e tossito mentre piano piano tutti iniziavano ad agitarsi. Le vecchiette si facevano il segno della croce, i miei compagni mi strattonavano la giacca, le donne scuotevano la testa. I bambini, invece, si sono messi a ridere con me, ma questo ha solo peggiorato la situazione. In poco tempo, il sagrato della chiesa è diventato un guazzabuglio di intenzioni, tutti cercavano di farmi smettere ma io non sono stato più capace. Ridevo di gusto, ridevo tanto che mi faceva male la pancia, e continuavo a dire – Solo uno! Solo uno! – ma le mie parole le capiva solo l’Augusto, che mi guardava preoccupato. 20
Art. 16 CORPO MUSICALE La Ditta provvede all’istruzione, agli strumenti e contribuisce alla spesa del vestiario per il corpo bandistico, composto da operai della Ditta. La Ditta può disporre del corpo musicale ogni volta occorra per speciali servizi. Il corpo musicale potrà prestare servizio altrove, previa autorizzazione della Direzione Tecnica dello Stabilimento. Ai componenti il corpo musicale che, indossando la divisa, tenessero un contegno scorretto, anche in servizio fuori Ditta, saranno tolti gli strumenti e potranno essere anche espulsi dal corpo musicale. Nel pomeriggio di quel giorno il maestro ha bussato alla mia porta. Non ha detto nulla, mi ha mostrato il regolamento di frazione, ha letto l’articolo 14 e alla fine mi ha chiesto: – Tutto chiaro? – Io ho annuito, gli ho dato il genis e ho pensato che non avrei suonato mai più. Mia moglie era fuori di sé, non poteva credere che mi avessero sbattuto fuori per così poco, ma io le ho spiegato che c’era il regolamento, e il signor Crespi ci teneva molto a farlo rispettare. E poi, le ho detto, pensa che figuraccia se questa cosa mi capitasse di nuovo e la voce si spargesse in giro. “Il bandista con la ridarola” sarebbe una macchia sulla reputazione di tutto il villaggio. Il fatto più assurdo è che poi non mi è capitato mai più, ma questo non mi ha impedito di passare gli anni successivi nella paura che potesse ricapitare: la figura dello stupido mi era bastato farla una volta. Sono girate un sacco di storie su di me, dicevano che ero diventato pazzo, che era una cosa di famiglia, mio nonno lo conoscevano tutti in paese per le sue stranezze, andava in giro a raccontare balle e saltellare mezzo nudo sulla passerella. Chi non diceva che ero pazzo diceva che ero un ubriacone, che anche quella famosa mattina in realtà ero già pieno ad inizio servizio e insomma, mi era già andata bene se non mi ero vomitato sulle scarpe. Io, triste per tutto e triste con tutti, continuavo ogni sera a battere il cucchiaio sul tavolo a tempo di marcia in attesa che mi venisse servita la 21
cena, pensando ai passi nel freddo, ai miei amici che erano alle prove. Guardavo fuori dai vetri appannati e perdevo il mio tempo a rileggere il regolamento, affisso sul muro di casa mia, che poi chissà perché lo appendevano in ogni atrio: sul serio pensavano che non fossimo capaci da soli di capire quello che era giusto e quello che era sbagliato? Io lo sapevo bene che ridere al funerale non era una grande idea, ma non ero riuscito a fermarmi. Mi sembrava che se non fossi scoppiato a ridere mi sarebbe esplosa la testa, come quando devi starnutire, lo trattieni, e poi ti rimane il male per giorni. C’è una fotografia che risale a quei tempi scuri: mi ritrae in un angolo, mentre la banda suona. Indosso il mio cappello preferito, tengo la mano destra sul fianco, ho una faccia che anche adesso mica la capisco del tutto. Stavo scrutando il nuovo genis? Stavo sperando che qualcuno sbagliasse, per prorompere in una nuova e più liberatoria risata? Chi lo sa. La Luciana però non ne voleva sapere e continuava a pensare e a discutere, finché una sera, giusto prima che andassi al dopolavoro a berne uno, mi guidò sulla strada giusta. Nessuno si sarebbe accorto se fossi salito al primo piano, in sede, e nemmeno se fossi passato, facendo lo gnorri e con la custodia sottobraccio, fra i tavoli di chi cantava e si strattonava. “Ma sei matta? E se mi vedono?” “Eh, niente, se ti vedono fai finta di essere ciucco, che poi ti viene anche bene, chiedi scusa e lo rimetti a posto!”. Non aveva tutti i torti, mia moglie, e poi, quando mi aveva detto di andare in banda ci aveva visto giusto, cosa mi costava, provare? Neanche un’ora dopo, stavo già correndo verso il cimitero, col genis sotto braccio, verso la nebbia, verso quella cosa lì che ancora non volevo immaginarmela, volevo solo gustarmela dal primo all’ultimo gesto. Prenderlo era stato facilissimo, erano tutti impegnati a litigare per le carte, e se qualcuno mi ha visto, se ne è stato zitto. Il mio flicorno dorme con i barbi in fondo al canale, se ti impegni lo vedi luccicare fra le alghe, quando il sole ci si riflette contro, radente, la sera. Il mio flicorno l’ho sepolto in un angolo di Crespi, lontano da tutti, 22
lo troverà un giorno qualcuno che starà cercando altro, un muratore che costruirà una casa proprio lì. Il mio flicorno l’ho fuso ed è un anello che la Luciana indossa, felice, nei giorni di festa e che io guardo con un amore particolare. Potrei raccontartene mille, da qui in poi, ma nessuna vera. Io non sono come loro, non si prendono le cose agli altri solo per il gusto di farlo. Il flicorno, quella sera, me lo sono stretto al cuore. La prima nota è stata un si bemolle strozzato dalla nebbia, faceva freddo e mi tremavano le labbra, ma quel suono mi è andato dritto al cervello e mi ha dato un tale schiaffo che dopo sono partito e non ho più smesso, ho pure iniziato a camminare avanti e indietro, mentre pensavo – So-lo! U-no! So-lo! U-no! – e l’aria umida si riempiva di suoni, della voce brutta e sgraziata di un genis che, in quel momento, per me era meglio delle trombe del paradiso. Chissà se qualcuno mi ha sentito, quella volta. Chissà se qualcuno l’ha mai saputo, se ha finto di non vedere e di non sentire, o se invece quel paese così addormentato non si è svegliato nemmeno per colpa di un genis, suonato con foga, per una marcia solitaria a mezzanotte. Non mi sono fermato quella sera, sono andato avanti mesi, anni, sempre con lo stesso metodo e la stessa soddisfazione e se devo ringraziare qualcuno, ringrazio tutte le partite a carte, tutte le ciucche all’osteria, tutte le canzoni cantate a voce troppo alta che hanno distratto Crespi da me. Ringrazio l’Augusto, che una sera è uscito dalla nebbia mentre suonavo come un pazzo e ha tirato fuori la tromba per farmi compagnia. Ringrazio il Mario, che la sera dopo si è unito a noi, perché suonare da soli era bello ma ci si annoiava in fretta. Ringrazio chi si è unito a quella banda clandestina, notte dopo notte. Ringrazio anche Paolo, che ad un certo punto ce l’ha detto, di spostarci nel bosco, che il baccano era diventato troppo forte e che le note arrivavano fino alle prime case degli impiegati. Ma soprattutto ringrazio la Luciana, che io, se no, sarei ancora lì a lamentarmi e a battere il cucchiaio aspettando la cena.
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Cassano onora Andrea Sciuto
L’acqua del fiume si increspa sotto il vento d’autunno. La nebbia, oltre alle tenebre, mi favorisce nel muovermi furtivo lungo l’alzaja. Un militante deve saper agire come un ladro. Il secchio, il pennello, ò tutto con me. Ora che ci penso, avrei dovuto portare anche dei fiori. Una vita di propaganda per l’individualismo d’azione, e mi ritrovo a praticarla solo adesso, l’azione, a cinquant’anni, sottratta la vernice in tintoria. Eccomi appiè del castello, la cappella de’ morti del Revellino dovrebbe esser poco avanti. Bisogna scalare questo pochino d’argine. E poi dovrò essere molto bravo a scrivere al bujo, non l’ò mai fatto. Mi scopriranno subito? Oppure nessuno capirà il mio gesto? Ci sarà pure qualche anziano in paese, che ricorda cos’à significato per duecento anni l’ultima domenica di settembre in questa città. Perché dovrebbero incolpare me? Ci fu un certo putiferio, in Cassano, a quel tempo, c’era anche la redazione del giornale, e tutta la gente che partecipò alle celebrazioni. Magari invece si ricorderanno della mia presenza, collegheranno alla mia persona e mi considereranno un fissato, un matto, a ripensare ancora a quella storia. Il maestro delle serali, chissà, non potrebbe riconoscere il tratto? À corretto tanti de’ miei temi! Finivamo sempre per litigare. Quella volta, però, era stato diverso, mi ero davvero convinto che ce 25
l’avesse con me. Finì col darmi a dirittura del buffone. A me? Non era mai arrivato a tanto, e io lasciai l’aula co’ versi del Rigoletto: – Di punirti già l’ora si affretta che fatale per te suonerà! Come un fulmin scagliato da Dio il buffone colpirti saprà! Me ne sono andato tra risate ed applausi, ma non ci ò dormito tutta la notte, ricordo, rivoltandomi a lungo in letto. L’indomani mattina avevo provato anche a parlarne con Giuseppa: – Cosa sai della guerra di successione spagnola? – Devo ammettere che non ne so nulla, – à risposto. – Che cosa ti mando a studiare a fare? – Papà, vado alla scuola media, non sono uno storico. Forse il professore non ci è ancora arrivato. Mi dite con calma che cosa vi serve sapere? Ogni tanto, tra noi due, sembra lei il genitore. Le ò detto (con calma, come ella chiedeva): – Jersera ò litigato con quel pezzo d’asino del maestro Ripamonti! Ed ella: – D’asino? È di certo più preparato di noi. E sempre avete litigato per la sua ideologia filo… com’è che dite, voi… capitalista? – No, mi à chiesto, o per meglio dire à chiesto alla classe, quanto sapevamo de’ morti del Revellino, di cui tra poco si celebrerà la ricorrenza in Paese. E io ò alzato la mano e ripetuto quanto avevo letto sul giornale… – Si tratta di un giornale di partito? Un di que’ fogli, che solo voi leggete? – Si tratta de L’Adda, il foglio locale. Ed egli si è arrabbiato come se avessi insultato le memorie de’ suoi avi, e à tenuto tutta una discorsa sulla Guerra. Per non giocarmi ogni eventualità che mi desse ragione, non le ò riferito della scena seguente, del Rigoletto e degli applausi. Ella però ancora si taceva. – Della quale Guerra io per l’appunto ti domandava lumi, – ò insistito. Nessuna speranza che mi desse corda in alcun modo. À chiesto invece: – Ma si può sapere cosa gli avete detto? – Quello che riportava L’Adda, – ò risposto; – che noi celebreremo il 26
dugentenario, per mantenere, come per due secoli fecero i nostri, sempre vivo il sentimento civile di compianto e d’onore dovuto alla sventura e di protesta contro la barbarie della guerra, contro quella feroce forza, cioè, che spinge i popoli l’un contro l’altro armati a lotte fratricide! Io aveva ripetuto solo quello che diceva il giornale, parola per parola. – Ma la storia di questi morti, la sapete voi? – In generale, sì. À capito subito che ne sapevo un bel niente. – Temo di dover dar ragione al vostro maestro, babbo. Si tratta di soldati italiani, uccisi dalle milizie francesi. – E dunque? – E dunque son patrioti! E voi andate ciarlando di fraternità de’ popoli, quando parlate di eroi caduti per mano dello straniero, dall’invasore! Con ragione, il maestro vi rimprovera, e fa bene. Sì, fa’ la nazionalista, prendimi pure in giro; però ti fa comodo l’averci un padre libertario. Io sarei curioso di vedere quanti miei coetanei, distinti signori vedovi, mandano a studiare le rispettive figlie e si fanno da loro parlare a tal modo. Alla sera, al ritorno da lavoro, volli veder chiaro in questa faccenda. Dici di non essere uno storico? E io vado da uno storico. Il giornale accennava a una conferenza, sull’argomento, di un tal Carlo Bazzi. Pensai subito che potesse essere il figlio del cav. Bazzi, il farmacista, ma che fine aveva fatto? La figlia aveva sposato un militare di carriera, aveva girato l’Italia, ma il maschio? Seppi poi che abitava a Treviglio. Giunto in questa città, però, il problema fu parlargli: – Il padrone non è in casa. – Ma se l’ò visto entrare. – Vi sarete sbagliato. – Se non è in casa, aspetterò. Posso sedere? L’unico sedile in vista era lo sgabello del pianoforte. – Ma potrebbe non tornare, stanotte. – Ragione in più per non aspettarlo in piedi. 27
Sedetti allo sgabello. – Risparmiatemi codeste follie. – Non vorrete mica che aspetto all’impiedi tutta la notte. – Follie, follie, – diceva la serva. – Delirio vano è questo, – mi scappò d’aggiungere. E lei: – Povera donna sola abbandonata in questo popoloso deserto… Le piace il Verdi? – Direi che son qui per causa sua. – Vuole accompagnarmi al piano? – Al piano? Ah, perché son seduto qua… Ma io non so sonarlo. Deve aver pensato che facessi il prezioso: – Via, la prego… – Signora, vi assicuro… – Cosa vuol farmi provare? Pura siccome un angelo? Premetti tasti a casaccio. La signora non s’accorse di nulla, si contentava di tali cacofonie. Cantava a squarciagola. Io, invece, non sapevo nemmeno come funzioni quella macchina che avevo davanti. Ò perfino il sospetto che da alcuni de’tasti non cavassi alcun suono. Meglio, meno frastuono. Sarei stato più a mio agio davanti a una cardatrice Crighton. – Cos’è questo baccano? – Oh, il signor Bazzi? Cercavo proprio lui, ma credevo che non era in casa. A proposito della ricorrenza de’ morti del Revellino… – Siete venuto per contribuire a’ fondi dei festeggiamenti? Bravo, bene, nobile gesto; tuttavia non necessario. Tra poco il comitato verrà a bussare alla vostra porta e alle altre del paese per questuare i cumquibus. – In verità, dottor Bazzi, dovrò ammettere che non era questa la ragione della mia visita. Mi interessava, più che altro, la storia di tali sfortunati. In somma, so che lui dovrà tenere una conferenza su questo disgraziato episodio, e vorrei saperne di più. – Lui cioè io? Cascate male, figliuolo. Il testo della conferenza non è pronto ancora, ma posso indirizzarvi a chi possiede un documento che soddisferà la vostra curiosità. 28
Mi à indirizzato dal Milani. Costui, a quanto il Bazzi mi disse, era il discendente di un prete del secolo scorso, che aveva scritto delle cronache della città di Cassano, documento storico importantissimo… e inedito. E, quindi, chiedere al Milani era l’unico modo di consultarlo. Un’altra giornata in fabbrica ad aprire a ovattare a dividere, ad aprire a ovattare a dividere, e il sabato non arrivava mai. Io la sera cambiavami d’abito, e andava a cercare questo Milani. Ò trovato un signor distinto, di bell’aspetto, che m’à accolto calorosa e garbatamente con vino d’annata, ma che à preso a parlare inoltrandosi in terreni dove non sapevo seguirlo: E il Brunswich… E l’Elettore di Annover… Anjou… Churchill… Il Principe Eugenio… – Deve esser comprensivo, – gli ò detto, – il signor Bazzi mi à soprastimato a mandarmi qua, io non sono che un operajo che frequenta le serali. Mi trovo a parlare con specialisti viepiù eruditi, ma, sciur luu, non mi è stato spiegato nemmeno il livello elementare della vicenda. Tanto l’altro era stato scostante, attento solo ai danée, tanto questo godeva a parlare e non aspettava altro che un ascoltatore. In somma, tra un bicchiere e l’altro, ecco l’idea che ò cavato da un’ora di esposizioni: due candidati, un Francese e uno Austriaco, si contendono il trono di Spagna, rimasto senza eredi. Vittorio Amedeo, Duca di Savoja, è alleato col Re di Francia, ma suo cugino combatte per gli Austriaci; così, a un certo punto, Vittorio Amedeo cambia coalizione e si schiera cogli Austriaci. Quando la notizia arriva in Francia, i soldati Savojardi vengono catturati da’ Francesi, già loro alleati, e rinchiusi nel Revellino a morir d’inedia, dico bene? – All’incirca sì. Ma trattasi di soldati Sabaudi, non Savojardi. La Savoja propriamente detta, badate, è una regione della Francia, mentre que’ soldati provenivan dal Piemonte: appartenevano a’ territori della famiglia Savoja, ma erano italiani quanto me e voi. Guardate voi stesso, guardate. E mi mostrava il famoso memoriale, uno scartafaccio scolorito del secolo scorso: – Si rese molto compassionevole quest’anno ai Cassanesi per la morte numerosa dei poveri soldati piemontesi prigionieri in questo castello. …Pie29
montesi, vedete? Erano questi disgraziati incorporati nell’armata dei Francesi… – Piemontesi: lo diceva, mia figlia. Quindi à ragione il Ripamonti, trattasi di una questione nazionale. – Non sarei affrettato nel dar ragione al vostro maestro, egregio Broggi. Vuotò il bicchiere che aveva davanti e se lo riempì di nuovo; poi continuò. – Resta il fatto che sulla lapide l’epigrafista à scritto: soldati savojardi. E che i nostri vecchi, per due secoli, àn continuato a ripetere: onoriamo i soldati savojardi, la cappella de’ morti savojardi. Percepii solo in quel momento cos’è che mi colpiva del salotto colle stoffe a proteggere divani e poltrone: mancava il rumore, simile a pioggia, de’bachi da seta, che in quel periodo dell’anno assorda ognora le case proletarie. – Crede dunque che il memoriale del suo avo si sbagli?, – gli chiesi dopo aver bagnate le labbra nel vino. – Credo qualcosa di assai più risolutivo, egregio. Credo che, per i cassanesi di dugent’anni fa, Piemontesi o Savojardi facesse lo stesso. – Cioè? – Stranieri tutt’e due. Che il Piemonte sia Italia, che la Lombardia sia Italia, che una patria Italia esistesse, per le genti dell’epoca, era fuor d’ogni logica. La patria Italia, ohibò, è forse un’idea moderna. Internazionalismo, dunque. La storia ci insegna che la Patria non è un’idea eterna, è un’idea come le altre. – Aspetti che lo senta il maestro. – C’è assai di più. È solo un’idea, che andrebbe verificata, ma comincio a pensare un’altra cosa. Posso osare? – Son pronto. – Dopo la guerra de quo, affiora il panorama che noi tutti studiamo a scuola: i Savoja, Re di Sardegna, che si disinteressano dei loro vecchi domini in Francia e cercano l’egemonia in Italia, gli Austriaci a contenderla, a influenzare Napoli. 30
– Certo, è il Risorgimento nazionale. Ognuno lo sa. – E l’atto di nascita della nostra idea di nazione… non ci arriva? Non ci arrivavo. – …è il voltar gabbana d’un sovrano. Sembra di sentire le controstorie del Grido della Folla. Cioè, la storia ufficiale degli storici non solo era pacifista, pure antimonarchica? Troppo bello per esser vero. Pensai di tornare a Treviglio per comunicare al Bazzi quanto era emerso dalla discussione e chiedergli un parere. Altro che soprastimato… l’insigne studioso aveva voluto, in breve, liquidarmi. Anche in quel caso, mi servì un po’ di diplomazia per farmi ricevere: – Oh, me lo ricordo il cavalier suo padre, col pastrano, il cilindro. – Signor Broggi, tutti a quei tempi portavano il pastrano. Il Bazzi era uno che non concedeva un passo. Cercavo di andargli dietro: – Eh, ci à ragione. Non si porta più il pastrano. Oggidì, circoliamo con queste tute, che se le avessero viste i nostri padri, chissà le risate. – Potrebbe esser a causa dalle fabbriche, signor Broggi. Immaginate, caro voi, se si andasse in fabbrica con quegli abiti a falde tanto larghe della generazione passata: s’incepperebbero, s’avvilupperebbero, sareste trascinati dalla macchina, v’impigliereste alla bussola del tramvài. – Quanto ci à ragione! È proprio vero che, a parlar con una persona tanto colta, ci s’apre la mente: quella era una pulce che a me non sarebbe venuta nell’orecchio in cent’anni a pensarci. Eppure è tanto semplice: la struttura è sempre data dal sistema di produzione, e le altre circostanze storiche sono semplice sovrastruttura. Ma il mio ospite stava diventando insofferente e io non era andatogli a casa per farmi ispirare un’applicazione delle teorie di Carlo Marx al mutare della moda. – Non stiamo a parlar della tramvài, l’ò disturbato per tutt’altra faccenda. A proposito de’morti del Revellino… – Il comitato Pro Revellino non è venuto a questua? Da Cassano mi 31
avevano assicurato… – Sì, sì, ò già contribuito, – (mentii); – più tosto, il tizio da cui lui mi à mandato… – …ah, già, il dott. Milani. – Proprio. Mi à comunicato certe faccende che mi preme sottoporci. Quando gli ò comunicato le ipotesi del Milani, egli à mosso mille obiezioni; non però al punto da rifiutar l’idea. – Anzitutto, andrebbe accertato se davvero la lapide è coeva alla morte de’soldati. Certo, sarebbe difficile pensare che la popolazione abbia potuto dar le onoranze funebri proprio sotto il naso de’ Francesi, quasi a sottolineare la loro inumanità nel negarle. Tuttavia, come acutamente vi à fatto osservare il sig. Milani, anche nel caso d’una trasmissione orale… Non si può certo pretendere che il popolino abbia cognizione esatta degli schieramenti in lizza in una guerra del genere, di proporzioni davvero mondiali. Basta, non credo che si possa far menzione della vostra ipotesi nella conferenza, avendo ancora poche o punto prove, ma certo la lettura che il maestro Ripamonti vi à contestato à piena cittadinanza tra le interpretazioni legittime. – È quello che volevo sentirgli dire, molte grazie. Morti, Gesù: morti di fame, e di stenti, al bujo, e solo perché il Duca si è fatto convincere a cambiar casacca. Ma Giuseppa non mi à dato soddisfazione. Gliene ò parlato subito, ed ella: – Ah, padre!, – à detto. – Il vostro partito appoggia il Governo, Sua Maestà promulga leggi per i lavoratori ch’ànno infortuni, in favore degli emigranti, delle donne e de’ fanciulli, malgrado uno de’ vostri gli abbia crudelmente ucciso il babbo, e voi non contento infierite sulla sua famiglia, dandogli del discendente d’un traditore? E sputate così sulla Patria, proponendo simili racconti sul Risorgimento? Ma io non sputavo affatto sulla Patria, e del Risorgimento ò e avevo un’altissima opinione: del Mazzini, dell’Oberdan, del generale Garibaldi. Non sapevo davvero rispondere a mia figlia, se non che il Re non è davvero un del mio partito, e che anzi io non avevo partito e a stento 32
avevo Patria e, que’ pochi diritti che i lavoratori ànno, li ànno conquistati lottando e non per la benevolenza d’un sovrano. Ma circa il Risorgimento non so che dire, amo il luogo dove son nato e amo l’umanità, amo i Padri della Nazione, che di libertà ànno scritto e per essa combattuto, e se mai dovesse, Dio non voglia, venire un’altra guerra, come aveva detto il Bazzi?, mondiale, non vorrei (così pensavo) esser mandato a morire per il candidato francese alla corona di Spagna, e nemmeno uccider altri per lui, che colla mia Patria non à a che spartire. Passarono dieci giorni e mi diede il Bazzi una gran soddisfazione. Son andato alla sua conferenza, e quegli mi à salutato dal palco. Non saprei ridir di cos’à parlato, andava citando poeti dal verso complicato che non riesco a seguire, buoni a scaldar gli animi ma non a far capire la storia a gl’illetterati; ma la sostanza era chiarissima, e ò visto co’ miei occhi il maestro Ripamonti lasciar la sala livido in volto, col capitan cognato dell’oratore: Sì, vendetta tremenda vendetta. La sola macchiolina nella mia gioja, non esser riuscito a portar con me la mia Giuseppa: – Vieni a sentir la conferenza? – Roba di apostati della Patria, verranno ad arrestarvi. – Ma se tutto il paese… – Mai più, papà. La pupilla de’ miei occhi che porta il mio cognome ed è tanto diversa da me. Apostato io? ma è tutta al rovescio! Come que’ soldati, vengo annoverato tra’ misleali per una colpa non mia. È Savoja, il traditore, non loro. È lui che prende le decisioni, è lui che ne è responsabile. Apposta, con Giuseppa, son stato attento a non imporre le mie, di decisioni. Ò fatto l’estremista per finta, ma ò lasciato che fosse lei a scegliere. Almeno fino a stasera. Adesso son passati altri dieci anni, la guerra mondiale è arrivata davvero, e con gravezza che nessuno, in quel momento, immaginava. Giuseppa è fidanzata a uno studente. È bella l’istruzione per tutti, ma non deve farci dimenticare che le 33
differenze esistono ancora. Gli studenti, a quanto ò capito, appoggiano la guerra, e vogliono che l’Italia ci entri, in guerra. Il mio futuro genero partecipa a cortei, dimostrazioni, e non mi lamento: ne ò fatte anch’io, e cosa sto facendo in questo momento? Mi preoccupo, però, perché se davvero il nostro Paese entrerà in questa guerra, i suoi colleghi universitari avranno tutti un qualche parente autorevole, un vescovo, un industriale, un conte che li fa riformare, o li rimanda a casa, o li arruola in un ufficio lontano dal fronte, mentre se sei il genero di nessuno, quando vai in guerra, ti tocca morire in mezzo a’ topi, al freddo, come quelli del Revellino. Raggiunto il muro del bastione, affondo il pennello nella vernice e principio a segnare il muro. Ho appena finito la “C” che… – Che fate, galantuomo? Una voce mi gela. Scappare? Non faccio a tempo. De’ regi carabinieri, l’uno scopre un fanale. – Broggi, siete voi? E scrivete su un muro, tristanzuolo? – E cosa avevate intenzione di scrivere?, – aggiunge l’altro. A questo punto, faccio il martire. Dico la verità: – “Cassano onora i morti del Revellino”. Si guardano tra loro. Se ò da esser condannato, sia con dignità. – Lor signori, – aggiungo, – conoscono, suppongo, la vicenda de’ morti del Revellino. – La conosciamo, – risponde quello che aveva parlato per il primo. E l’altro: – Bravo, patriota. Va’ avanti a scrivere. E s’allontanano verso il paese. Ma che? Io scrivo uno slogan pacifista, e da loro ricevo il plauso? Oppure, a gli orecchi de’ giovani, non suona pacifista. Alla fine il maestro à vinto, la sua versione è l’unica che essi conoscano. Rimango solo, nel bujo, a non scrivere.
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La macchina sensibile Gabriele Galligani
All’alba di quello stesso giorno che vide una madre e una figlia di Trezzo d’Adda annegare nel diluvio di bombe astrungariche, in tutt’altra parte del Regno un camioncino sgangherato si arrestava nei pressi di un edificio dalle imposte sempre serrate, sia d’inverno che d’estate. Come di consueto, il guidatore spinse dentro la carriola arrugginita carica di sacchi di iuta. Il casermone, malgrado le apparenze, non dava rifugio a bande di malfattori e ricercati, ma svolgeva una missione assai delicata per il Regno. Trac, Tsik, Zak! Superati corridoi e porte metalliche, i documenti raggiungevano l’ufficio dalle imposte serrate, dal quale proveniva, fin dal primissimo mattino, la sinfonia sfrenata del trio di impiegati in servizio. Trac, Tsik, Zak! Trac, Tsik, Zak! Ammucchiate nella stanza, le tonnellate di lettere provenienti dal fronte venivano smistate secondo criteri dialettologici, verso l’una o l’altra delle tre scrivanie, di modo che ciascuna missiva potesse venir aperta, analizzata, letta e “aggiustata” con cura maniacale. Tale era l’attitudine del trio di impiegati alle dipendenze del Commendator Saccarosa. Costoro passavano lunghi giorni tutti uguali im35
mersi nella lettura delle accorate richieste d’aiuto provenienti dai soldati al fronte, delle loro rabbiose proteste e delle descrizioni raccapriccianti della guerra. Armati di penna e calamaio, si avventuravano tra le trincee di inchiostro per tagliare, tagliare, tagliare, fino a che, di tutte quelle violenze, non fossero riusciti a eliminare ogni traccia. Va da sé che il Commendator Saccarosa non aveva lasciato al caso le norme di una tale revisione. Aveva ben ammaestrato gli impiegati a non limitarsi solo alle critiche, agli insulti, alle descrizioni orrorifiche e alle informazioni militari utili al nemico, ma a penetrare fin nei più intimi dettagli delle lettere, interrogarne le scelte lessicali, scovarne le più impercettibili allusioni e cacciarne i sottintesi senza fare prigionieri. Nulla che potesse nuocere all’immagine dell’esercito doveva evadere da quell’edificio. Non a caso erano tre gli impiegati alle dipendenze del Commendator Saccarosa, tanti quante erano le zone linguistiche dialettali del Regno, a ciascuna delle quali uno dei dipendenti era preposto, secondo la propria regione di provenienza per poter meglio disinfestare la montagna di corrispondenza scritta a caratteri incerti e lingue tutt’altro che standard. Unica eccezione alla regola fu fatta per l’obliteratore responsabile della “Zona linguistica del Mezzogiorno”, “Calabro” (con l’accento) di cognome ma, ebbene sì, veneto di fatto. Allo scopo di fortificare la dedizione del trio, lo scaltro Saccarosa aveva ideato un Premio annuale di “obliteratore regio” che consisteva nell’onore, concesso ad uno solo dei tre dipendenti, di veder appesa sulla parete settentrionale della stanza la propria fotografia, non distante dal ritratto sempre presente di Sua Maestà. Da quando il Commendator Saccarosa aveva serrato le imposte dell’edificio di via [rimosso dal testo per visto censura] e vi aveva inaugurato l’ufficio censura, una sola – mai sostituita – era stata la fotografia di obliteratore regio appesa sulla gialla parete settentrionale, quella che immortalava il viso concavo e levigato dell’impiegato addetto alla Zona Linguistica Settentrionale. 36
Quella del Porfirio Reverberi. Trac! Un uomo che, si diceva, in anni di servizio non aveva lasciato fuggire dall’ufficio una sola lettera, senza prima marchiarla col suo tratto definito e ben riconoscibile. Tsik! Un uomo che, ogni singolo giorno, riusciva a passare dodici ore di seguito senza mai alzarsi dalla sedia metallica, senza rivolgere parola ad anima viva e senza neanche mai sollevare lo sguardo dall’area trapezoidale della scrivania lignea. Zak! Una macchina. Mai assente per malattia, sempre primo ad arrivare in ufficio all’alba ed ultimo ad allontanarsene la sera (ammesso che se ne andasse per davvero), Porfirio Reverberi suscitava nei due inquilini dell’ufficio un tipo tutto peculiare di risentimento: un’ammirazione carica di invidia mista a odio, che veniva nutrita e rinfocolata settimana dopo settimana dal suo carattere schivo ma sempre cordiale fino al limite della remissività, oltre che dalla vista quotidiana della sua stolida fotografia inchiodata alla parete. Finché un giorno, quello stesso giorno in cui a Trezzo d’Adda madre e figlia vennero sorprese dalla pioggia astrungarica, la Macchina s’inceppò. Non ci volle molto ai due colleghi chini sulle loro carte, per percepire che qualcosa nella loro sinfonia a tre voci si era bloccato. Quando alzarono lo sguardo, lo trovarono cosi, il Reverberi, in piedi davanti alla scrivania, con gli occhi persi nella superficie di una tra le tante cartoline dal fronte, che l’uomo stringeva tra le mani tremanti. Un’inquietante sospensione aleggiò a lungo nella stanza, fino a che Calabrò si decise a proferire la domanda scatenante. – Tutto… tutto in ordine, Reverberi? Malgrado di atrocità ne avessero già lette non poche, i due confermeranno sempre che nulla, nei loro incubi successivi, sarebbe apparso più angosciante dello sguardo inespressivo che la Macchina lanciò in quel momento. 37
– Debbo menarmi a Trezzo! – rispose. E se ne andò. – Debbo menarmi l’attrezzo?! Quando i due impiegati riferirono quanto credevano di aver udito, il viso del Commendator Saccarosa divenne paonazzo. Non poteva credere all’inqualificabile comportamento del Reverberi ma, dopo aver verificato che non si trovasse davvero indaffarato nei gabinetti, si decise a contattare il solerte Maresciallo. – E ha detto qualcosa il disertore, prima di andarsene? – Chiese il Maresciallo. – No…cioè … non propriamente… – rispose Saccarosa. – Ha detto qualcosa o non ha detto nulla? – Qualcosa l’avrebbe anche detto ma… nulla di importante ecco… – Come “nulla di importante”?! Tutto è importante! – Guardi, Maresciallo Solerte, nulla di rilievo, mi creda. E poi… non posso riferirglielo, ecco! – Ma che dice, Commendatore?! Se ha detto qualcosa, lei DEVE riferirmelo, tale e quale! – Tale e quale? – Tale e quale, si capisce! Avanti! – Ma… non è chiaro, ma forse… forse avrebbe detto… con rispetto Signor Maresciallo, di “doversi menar l’attrezzo”. – Co… come? – Eh… l’avevo avvisata… – Lo ha sentito con le sue orecchie? – No, con le mie orecchie no ma, cosa cambia? Lei è sicuro che ha detto “attrezzo” o non ha forse invece detto “Trezzo”? – Tre… Trezzo? – Trezzo! Trezzo sull’Adda! Lo sapete che la città di Trezzo è appena stata bombardata dagli astrungarici? Il vostro uomo deve essere coinvolto. 38
È tradimento questo, Commendator Saccarosa! – È… è gravissimo! – È più che gravissimo, Commendatore. È grave! –… – E ha sottratto qualcosa dall’ufficio, la spia? – La… la spia? – Sì! La spia… il traditore! – No. Cioè… solo… solo una cartolina… – Una cartolina!? Dal fronte? – S-sì… dal fronte. – E si può sapere, cosa ci stava scritto? – strillò il Maresciallo. Fu impossibile per i due obliteratori superstiti, una volta rispediti nel loro ufficio, riprendere la consueta attività. Non tanto per colpa della sedia vuota del Reverberi o dell’idea di aver convissuto con una spia nemica. Qualcos’altro si era insinuato nelle loro teste e scavava in profondità man mano che i due si sforzavano di obliterare lettere e di non sollevare lo sguardo sulla fotografia del traditore. Invidia, gelosia, ma anche ammirazione. Fu un pensiero semplice, in fondo, ma micidiale: uno di loro se ne era andato. Non stava più chiuso in quella stanza ma si era deciso a vivere avventure e partecipare a quel mondo reale di cui loro dovevano cancellare ogni traccia, con i vermi di nero inchiostro striscianti sui fogli. Ogni soldato, ogni autore delle lettere che si sforzarono di correggere assunse, ai loro occhi, i lineamenti goffi e innocui della fotografia sotto il ritratto del Re. In quel buio pomeriggio lo videro ammazzare e venire ammazzato, il Reverberi. Aizzare popoli ed eserciti, pilotare aerei e sorvolare città, sganciare bombe e volantini, sedurre mogli di comandanti e figlie di preti, lo fecero galoppare su cavalli bianchi e assediare quelle stesse finestre serrate con carrarmati nemici, lo fecero santo e lo fecero ladro. Lo crocifissero, ma lui resuscitò. Ne visse davvero tante, il Reverberi, in quelle poche ore trascorse prima che il solerte Maresciallo telefonasse trionfante agli uffici 39
dicendo di averlo acchiappato. – Ma dove… a Trezzo? – No. A due isolati da lì… Prima che il Maresciallo comparisse seguito dalla Macchina, il Commendator Saccarosa pregustava il momento del castigo con gioia infantile. Durò poco, la cosa, giusto il tempo di vedere il volto del funzionario e udire la storia del suo “arresto”. Vagava da ore, Porfirio Reverberi, per le strade di quella stessa città, in cui aveva sempre vissuto e che forse mai aveva visto, alla luce diurna, prima di quel giorno. Segnalazioni dell’aggirarsi di un alienato erano giunte alle orecchie del Maresciallo sin da prima della chiamata del Saccarosa. Che cosa faceva il pazzo? Ostentava una cartolina e senza dire né buongiorno né buonasera, indicava l’indirizzo del destinatario e chiedeva indicazioni su come raggiungere quel posto, quella via, quel civico. Sembrava non realizzare che si trattava di un’altra città, di un posto sconosciuto ai più, distante decine e decine di chilometri. E insisteva, insisteva esprimendo una pena e una sofferenza sempre maggiori. Qualcuno che lo prese sul serio ci fu, e gli suggerì di andare in stazione e prendere un treno. La Macchina seguì il consiglio. Andò in stazione, salì sulla locomotiva di un treno fermo e cercò di metterla in moto. Fu così che lo arrestarono mentre spiegava al macchinista – come se si trattasse di una cosa affatto normale e necessaria – che lui doveva raggiungere quell’indirizzo. Che lui doveva prendere un treno. Che lui doveva menarsi a Trezzo. All’udire l’andamento dei fatti, il Commendatore subito perdonò il fragile Reverberi, capì che sospetti di diserzione e tradimento mai avrebbero potuto essere più infondati. E ancora di più lo pensò quando riuscì a strappargli di mano, con non pochi sforzi, quella cartolina che l’uomo ancora stringeva. – Grazie. – Fu l’inattesa risposta dello sventurato, non appena il commendatore lo liberò della carta. Il Saccarosa lesse il contenuto del foglio, in modo tanto più avido 40
quanto più esso si rivelò carente. Oltre all’indirizzo – una via e un nome nella città di Trezzo – il retro della cartolina era completamente bianco. Immacolato. Quasi intonso. Un solo, impercettibile tratto di inchiostro si distingueva in alto a sinistra, come se il mittente avesse esitato a scrivere qualcosa prima di risolversi a non farlo. Il Commendator Saccarosa non capì. Eppure, guardando il Reverberi e scorgendo l’indicibile sollievo che trasmetteva il suo sguardo equino una volta liberato dal fardello di carta, poté ipotizzare la sua spiegazione dei fatti, la causa dell’inceppamento. Che diavolo avrebbe potuto cancellare, il Reverberi, in quella lettera priva di contenuto? Non certo il numero civico, né tanto meno il nome, seppur sconveniente, di quella città. Il Reverberi doveva per forza aver reagito in quella maniera di fronte all’impossibilità di svolgere il proprio mestiere. Fu così che il Reverberi ottenne il perdono, venne rilasciato all’istante e punito, se cosi si può dire, con un solo giorno di sospensione dal lavoro. O di riposo, se si vuole. L’accaduto era da imputarsi a suggestioni, incomprensioni dettate dal momento critico generale e dalla situazione bellica. E tutto, si direbbe, sarebbe tornato nella norma, perché nulla di grave era davvero ancora accaduto. Non lo capirà mai, il Saccarosa, il motivo dell’inceppamento della macchina. Così come è ricettacolo di tutti i colori, quel bianco aveva sprigionato davanti agli occhi del Reverberi la possibilità di tutte le lettere, tutte le parole, tutte le frasi concepibili e persino inconcepibili. Qualcosa di troppo arduo, per lui, con cui fare i conti. L’indomani, il triciclo a camionetta giunse in maniera non diversa dal solito, con il suo incedere sgangherato e il suo carico di lettere. Anche i due obliteratori entrarono in ufficio come di consueto e ripresero a cancellare con uno zelo piuttosto usuale. Delle avventure sognate il giorno prima non c’era più traccia nei loro cervelli, scalzate da un solo pensiero fisso, quello del ritratto sul muro e della possibilità, mai cosi concreta, di scalzarlo. 41
Tutto era ordinario, insomma, almeno fino al memorabile momento in cui la voce del Maresciallo (quello solerte) irruppe negli uffici scatenando il panico. – Stanno cancellando la città! Con uno slancio rapidissimo i due obliteratori e il Saccarosa si gettarono sotto le scrivanie, convinti che l’allarme li avvertiva dei bombardamenti astrungarici. Si rialzarono presto, e furono ancora più sconvolti quando, nel silenzio di quelle mura, appresero i fatti tragici accaduti in città. Non erano i bombardamenti, a cancellarla. Era Porfirio Reverberi. Impossibilitato a riprendere servizio nel suo ufficio, l’uomo vagava sin dal primissimo mattino e cancellava, lettera su lettera, tutto quanto di scritto potesse scorgere, come spinto da ineludibile dovere interiore. Insegne di commerci, pagine di giornale, targhe di veicoli, nomi di vie e di piazze. Aggirandosi come un invasato per le strade infreddolite, l’impiegato portava avanti la sua missione: obliterare, obliterare, obliterare. Finché venne aggredito dal baffuto marito di una donzella, intenta, prima che il Reverberi la scorgesse, a leggere innocua poesia. Immobilizzato dall’uomo e impossibilitato a cancellare quei versi la cui vista lo straziava, la Macchina si ruppe e, con essa, anche l’uomo. Porfirio Reverberi si gonfiò fino a diventare violaceo e fu sconvolto da convulsioni terrificanti. I testimoni accorsi alle grida della ragazza definiranno lo spettacolo cui assistettero come “insostenibile”: l’uomo – un pover’uomo, un impiegato qualsiasi – sbavava una sostanza densa e nera quanto inchiostro mentre gridava oscenità irripetibili su feriti, cadaveri, organi e membra, infarcite da insulti al Re e alla Patria e addolcite con struggenti frasi d’amore e patetica speranza per quelle centinaia di mogli e figli che mai, in vita sua, l’impiegato aveva conosciuto. Fu chiaro a tutti che non era in sé, perché ad ogni frase che vomitava in preda a quelle sofferenze, i nomi di luoghi, fatti e persone mutavano senza tregua e persino la stessa voce dell’uomo, il suo accento e il suo dialetto, cambiavano di continuo. I testimoni oculari ripeteranno sempre 42
la stessa, fulminante impressione: non uno, ma migliaia di uomini fremevano dentro quel corpo minuto e resistevano fino allo sfinimento al manipolo di agenti che lo sovrastava, per imbrigliarlo nella camicia di forza.
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Hans Paolo Gravino
Apro gli occhi e ci sono assi e una grande trave di legno. Respiro e sento odore di umido. Cerco di muovere le braccia ma non posso. Mi fa male il fianco destro, in bocca sapore del sangue. Sono vivo. Mi riaddormento, riapro gli occhi e sono ancora qui. Non so quanto tempo è passato, ora nella stanza ci sono ombre diverse e un uomo seduto su una sedia. Reagisco alla sua presenza, con uno scatto mi irrigidisco e sento ancora più male. Sono fermo steso su qualcosa di morbido, dev’essere paglia. L’uomo si alza, va verso una porta in fondo alla stanza ed esce. Lo sento scendere le scale. Penso a troppe cose in questo momento, sono confuso. Ecco che rientra, ha portato una coperta e me la stende addosso. L’uomo riscende le scale. Non mi ha ancora rivolto la parola. Ha rughe profonde e porta i pantaloni stretti alla vita da una corda. Cerco di distendere la gamba destra e caccio un urlo, perché le ossa scrocchiano d’improvviso. Vedo di nuovo l’anziano rientrare, ha un piatto in mano. Lo appoggia a terra, mi infila una mano dietro la schiena e mi solleva piano. Mi imbocca, brodo caldo e insipido. Mi ridistende, raccoglie il piatto, aggiusta la coperta e si rialza. – Grazie – gli dico con un filo di voce. Si volta e mi chiede – Come ti chiami? – Ha la voce roca. Aspetto qualche secondo per riprendere fiato mentre lui fa per uscire. 45
– Mi chiamo Hans. L’uomo si ferma. – Di dove sei? – E mi guarda. – Sono austriaco. – Mi aspetto che reagisca male, invece non si scompone e chiede di nuovo il mio nome. – Mi chiamo Hans. – Di dove sei? – Sono austriaco – gli ripeto. – Cosa ci fai qui? – non si è ancora mosso, è lì in piedi, mezzo alla luce e mezzo al buio. – Non lo so. – Cosa non sai? – si avvicina. Che situazione, so perché mi trovo da queste parti ma non so perché mi trovo proprio in questo posto. Ora che gli dico, che non ricordo nulla? – Sono un pilota di aerei. Appoggia il piatto sulla sedia e sta lì fermo. – Aerei come, da guerra? – Sissignore da guerra. – Hans. Austriaco. Aerei da guerra, è corretto? – Sissignore. – E allora perché sei qui in casa mia? – Stavo guidando il mio aereo e sono precipitato. – Ah sì? Mi fissa e accenna un sorriso. Poi si fa serio di colpo. – E perché sei precipitato? – Mi hanno colpito e ho perso il controllo. – Chi ti ha colpito? – Un nemico. – Non potevo usare parola peggiore. Adesso prenderà un bastone e chissà cosa mi farà. Ma niente: – E chi era il tuo nemico? – Signore, chiedo scusa, era un italiano. – E ora perché si è messo la mano in tasca? Sono spacciato. Invece estrae un fazzoletto di stoffa e si pulisce il naso. – Parli bene l’italiano. 46
– Grazie, l’ho studiato prima della missione. – Quale missione? Credo voglia capire se sono lucido: – Attacco ad un obiettivo sensibile, signore. Ho sganciato delle bombe. Mentre rientravamo alla base siamo stati raggiunti da aerei italiani che hanno iniziato a mitragliarci. Ci siamo divisi, poi qualcuno mi ha colpito e così ho cambiato più volte direzione. Il mio Taube ha iniziato a perdere quota, usciva tanto fumo, dal motore. Ho visto il fiume, i campi e così li ho puntati. Poi in qualche modo ho cercato di atterrare e credo di avercela fatta. Sono fiacco e senza fiato, lui scuote la testa. – Ti ho trovato tra i rovi, eri messo male. – E il Taube, dov’è il mio Taube!? – Che ti importa? È vicino al fiume, adesso cerca di riposare – ed esce. Saranno tre giorni che dormo poco e male. Di notte mi ritrovo a guardare il soffitto. Il braccio destro è ben fasciato all’addome, non so se è rotto, ma di certo non concilia il sonno. Il brodo me lo porta sempre Giuseppe, mi ha detto il suo nome ieri. Non mi lavo da un po’, puzzo parecchio, ci sono molte mosche e di sicuro i topi non mancano, di notte li sento far festa tra le travi del soffitto. È mattina e Giuseppe sale a trovarmi. Ora sono più comodo perché ieri mi ha rifatto il letto mentre io claudicavo per la stanza, riesco a stare in equilibrio, qualche passo verso la finestra, ho guardato fuori per la prima volta. Spero di poterlo fare anche oggi. Davanti alla finestra c’è un campo che termina sulla riva di un fiume. Non vedo l’aereo. Fuori fa freddo, dentro è sopportabile perché Giuseppe mi porta delle pietre calde avvolte in un panno e me le mette accanto al letto. Poi lui esce per andare a lavorare in campagna e lo rivedo di sera quando me ne porta altre. – Più tardi passerà la Signora Rosa? – Si chiama così la moglie di Giuseppe. 47
– Sì, ti porta un cambio. Nel pomeriggio Rosa mi porta le pietre calde. Sembra che in casa badi lei a tutto, comprese le mie necessità. Credo abitino da soli. – Buongiorno, come sta? – Buongiorno Signora. Meglio, dopo vorrei alzarmi a fare due passi. – Vada piano e stia attento ad affacciarsi alla finestra, – dice abbassando il tono. – Possono vederla. – Sissignora starò attento. – Fa ancora freddo di notte ma di giorno si inizia a stare bene. – Ma che giorno è oggi? – È il ventun Marzo. – Mi vuole dire che è già passato un mese dalla missione sulla centrale di Trezzo? Rosa si fa seria e scandisce bene – Assassini – con disprezzo. E si congeda così. Non ho più fasciature né bende, le giornate si sono allungate, è metà Aprile e non sono ancora uscito dalla stanza. È lunga cinque passi e larga solo tre, cammino avanti e indietro non so quante volte al giorno. Cerco di tenermi in forma facendo flessioni e piegamenti, mentre la testa pensa a come uscire da qui. In questi giorni, Giuseppe e Rosa mi hanno ripetuto più volte di non affacciarmi alla finestra perché c’è la ronda. Passa a giorni alterni attorno alle quattro del pomeriggio. Sono in due su una macchina, arrivano fino al vecchio casotto, fanno manovra e tornano indietro. Ho deciso di provare ad uscire. Ho bisogno di camminare, di guardarmi attorno, di respirare aria fresca. E soprattutto, devo trovare l’aereo; se la radio funziona posso lanciare un sos, qualcuno mi sentirà e mi porterà via da qui, devo uscire, mi sento impazzire. Calarmi dalla finestra non deve essere difficile, mi appoggerò a quella porzione di tetto che spiove di qualche metro e poi con un balzo dovrei atterrare su quell’erba alta, sperando sia soffice come sembra. Poi per ri48
salire mi aiuterò con la grondaia, che passa qui alla sinistra della finestra. Dovrei farcela, sperando che nessuno mi veda. Non ho calcolato che le mie gambe non reggono ancora gli urti, altro che erba soffice. Zoppico e attraverso il campo, diretto verso il fiume. Aggiro piccoli alberi fino alla riva, dove l’acqua scorre forte, si infrange sulle rocce e genera un rumore che mi rinvigorisce. Non sono un assassino, eseguo gli ordini. Avrei dovuto rispondere così a Rosa. E poi siamo in guerra e non esiste guerra senza vittime innocenti. Un assassino uccide per suo volere. Io ho ucciso perché sono un soldato, ma i soldati non sanno solo uccidere. La luna piena mi aiuta a vedere dove mettere i piedi. Cerco di capire dove posso essere atterrato ormai quasi due mesi fa. Risalendo il fiume si arriva alla centrale, dunque provenivo da quella direzione, dove però adesso non vedo nulla, non ho riferimenti ed è già ora di tornare alla soffitta. Rifarò la stessa strada dell’andata, costeggiando il fosso. Risalgo non senza fatica, chiudo la finestra e dò ancora un’occhiata fuori. Gli alberi si piegano a sud, si è alzato il vento, arriva dalle mie parti. Mi corico nel letto con una promessa; tornerò a Lienz! Giuseppe non sospetta che io sia uscito da qui. Tutti i giorni ci chiediamo quando finirà la guerra. Di altro non parliamo perché non c’è altro di cui parlare. Mi ricorda sempre di non stare alla finestra perché non vuole passare guai. In realtà sono già uscito per dieci sere di seguito. Fuggo sempre alle due di notte, mi regolo con i rintocchi delle campane. Ogni sera vedo sempre la stessa riva, l’acqua che scorre, quel suono che galvanizza ma non basta più. L’Adda non si fa scoprire. È impossibile addentrarsi al buio tra la sua fitta vegetazione. So solo fare avanti e indietro dalla soffitta alla solita riva, così come faccio in stanza, dalla porta al letto. Sono in stallo come il mio Taube due mesi fa. Devo andare al fiume quando c’è luce. Uscire di giorno però compor49
terebbe una serie di rischi. Innanzitutto, non posso saltare dalla finestra, potrei essere visto. Sono obbligato a scendere le scale e ad uscire dalla porta. Ma come farò a non farmi sorprendere da Rosa? E se si spaventa? E se pensa che voglia farle del male? Proprio ieri ho sentito delle voci provenire da qui sotto. Hanno bussato e sono entrati, sentivo i loro passi, temevo salissero a perquisire la soffitta. Cercavano un soldato austriaco, probabilmente ferito e disperato. Mi è mancato il fiato e chissà che faccia ha fatto Rosa quando gli ha risposto di non aver visto nessun sospetto. Al diavolo, mi sono alle costole, quanto tempo mi rimane prima che mi scovino? Scendo lento le scale, non sento alcun rumore provenire dal basso, Rosa deve essere uscita. La scala fa una curva a sinistra, poi, non so cosa mi aspetta. Sono in cucina e c’è silenzio. Ci sono paioli di rame, due mestoli appesi, un tavolo e poco altro. Di fronte a me vedo la porta di uscita e lì accanto, una foto appesa. Ora capisco perché mi trovo qui. È un giovane militare con baffetti ben curati. Mi assomiglia tantissimo. La scoperta mi turba, ma lui sembra che mi sorrida. Sto correndo, devo fare il giro del caseggiato per guadagnare il fosso che mi porta dritto al fiume. Svolto il primo angolo, alzo la testa e non vedo nessuno, saranno tutti in guerra. Allungo il passo, giungo alla riva e mi nascondo dietro a un grande cespuglio. Non credo di essere visibile dall’altra sponda. Continuo in direzione opposta alla corrente. Penso a Rosa, avrà scoperto che sono fuggito? Magari ha già chiamato Giuseppe e sono in giro a cercarmi. Mi spiace e pazienza, capiranno, è in Austria che devo tornare. Ecco i rottami, ci sono vicino, gli vado incontro stando basso. Faccio solo pochi passi e sento chiamare alle mie spalle: – Ehi tu! Mi volto e non rispondo. Sarà a 20 metri di distanza. Mi trovo tra lui e l’aereo, vedo che inizia ad alzare il passo. Noto anche un mezzo militare 50
poco dietro, dannazione, è la ronda! Cammino verso grandi salici, alzo sempre più il passo fino a quando sento urlare dietro di me – Ehi fermati, non scappare, che fai? Figlio di buona donna! –. Mi volto di nuovo e lo vedo montare in macchina. Elaboro un piano al volo; devo raggiungere quel tratto di argine scosceso, mi lancerò giù sperando di guadagnare la riva del fiume dove l’auto di sicuro non può arrivare. Ora devo fare solo una cosa. Correre. Sento un colpo partire, mi si gela il sangue, ma non mi arresto. La macchina mi ha quasi raggiunto, mi giro a mani alzate, vedo uno dei due, sporto dal finestrino, puntarmi l’arma. Mi lancio per la scarpata. Rotolo qualche metro e mi fermo contro un tronco. Riesco ad alzarmi e a perdermi nella vegetazione. Sono nascosto tra due rocce, dove sono cresciute solo piante spinose. Saranno gli stessi rovi dove mi trovò Giuseppe? L’inizio e la fine nello stesso punto. Non mi muovo, quasi non respiro. Non li sento arrivare né gridare, di sicuro staranno chiamando rinforzi. Sto rannicchiato e scruto la situazione tra la fitta ragnatela di rami che mi circonda, non mi importa dei graffi, ho sopportato di peggio. Da qui controllo anche una piccola porzione di fiume, nel caso dovesse arrivare qualcuno via acqua. Sulla sponda opposta ci sono dei bambini che giocano, li sento schiamazzare, sembrano divertirsi, incuranti di quello che accade intorno. Vedo soldati farsi largo tra le piante, sono in tre, io devo solo stare fermo e sperare che vadano oltre. Controllano la zona palmo a palmo, tranne tra i rovi. Non posso tuffarmi nel fiume e non posso nemmeno pensare di tornare verso l’aereo perché ci sarà di sicuro un picchetto, l’unica cosa che posso fare è tentare di tornare alla soffitta. Percentuale di riuscita della missione, un per cento. Forse. Devo aspettare che cali il buio. Ad un tratto sento le voci dei bambini chiedere aiuto. Sento le donne 51
animarsi. Le grida si fanno insistenti e qualcuno urla – Sta annegando – , lo ripete più volte. Esco dal nascondiglio e prestando attenzione mi dirigo verso l’acqua. Sull’altra sponda vedo un bambino tendere un ramo ad un altro, in preda alla corrente. Il bambino con il ramo è a sua volta aggrappato ad una donna che lo tira a sè. È una situazione confusa. Di quelle che possono precipitare in un istante. Pochi attimi e ti ritrovi nel baratro, a dover lottare tra vita e morte, a dover decidere se lasciarti andare o se giocarti tutto. Forse anch’io ho fatto così sul mio Taube in avaria e così sto facendo ora scappando. O forse è da folli pensare che possiamo cambiare il corso delle cose. È tutto scritto, se è la tua ora te ne vai, altrimenti resti. Il bambino si lascia andare in balia della corrente, prova a dare qualche bracciata ma comincia ad allontanarsi dalla riva. Tutto davanti ai miei occhi. Sono un soldato. I soldati non sanno solo uccidere. Poche bracciate e guadagno il centro del fiume. Il bambino mi guarda, alza la mano e poi va sotto. L’acqua limpida mi permette di vederlo in preda ad un mulinello. Ancora poco, arrivo, dai, arrivo. Preso! Ed ora risaliamo. Esco con in braccio il bambino, è stremato ma sta bene, respira e sputa fuori l’acqua. I militari mi aspettano, hanno assistito a tutta la scena. Le donne poco lontano elogiano il mio gesto. Un militare mi dice: – Ti abbiamo trovato finalmente. Sapevamo che prima o poi saresti tornato al tuo aereo. – Ora dove mi portate? – Non hai diritto a saperlo. Vedo le facce delle donne sorprese dall’atteggiamento dei militari. Anche uno di loro lo nota ed esclama: – È l’austriaco. È uno di quelli che lancia le bombe sopra le nostre teste. Sono arrivati anche degli uomini, tra loro scorgo Giuseppe. I nostri 52
sguardi si incrociano. Nel suo c’è tanta malinconia. Non può salvarmi. – Non ammazzatelo, ha salvato mio figlio. In due mi prendono sotto braccio e mi conducono alla camionetta. Osservo Giuseppe e tutta quella gente da dietro il telone del mezzo. Guardo il fiume e lo ringrazio per avermi nascosto, protetto e per avermi dato l’opportunità di tornare a casa. Così come Giuseppe e Rosa che mi hanno coperto per mesi, rischiando notevolmente per me. Avrebbero forse preferito trattenermi in quella soffitta, accontentandosi di rivedere in me il ricordo del figlio. Un tentativo di riavere chi non c’è più, per non sentirti morire. – Sei libero, non farti vedere mai più rivedere in Italia, austriaco! – mi sento dire dopo tre giorni di cella. Fine Giugno 1916, c’è uno scambio di ostaggi al confine. Torno a rivedere Lienz, tornerò a guidare un Taube. Con una nuova promessa. Non voglio più rivedere l’Adda dall’alto. Mai più una bomba su quelle teste, mai più soldato in quel cielo.
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Tornano sempre Annalisa Toscani
È il 5 dicembre 1928. Il cielo notturno sulla Martesana è gonfio di neve. I fiocchi virano su toni arancio nel bagliore delle lucerne e solo il naviglio appare ancora praticabile, nel suo incedere lento e distante. Da una taverna nella piazza di Cassano riecheggiano calde voci e una in particolare le sovrasta, più bevuta e più carica delle altre. Sovrasta e zittisce, di sdegno e d’orrore, e le sue parole traversano il centro città. Canta la ballata di una ragazza trovata morta a inizio anno sulle rive dell’Adda. È una storia che non conviene, e ai Carabinieri non resta che trascinare il colpevole in una cella del castello, ancora alticcio e barcollante. Sui muri umidi della prigione, appena rischiarati dalla luce esterna, l’uomo traccia il profilo di un antico incubo dai denti aguzzi. Un incubo ingentilito dal nodo di una cravatta. Il 25 luglio 1878 è san Cristoforo. Un fitto gruppo di persone sosta lungo un caseggiato dalle finestre a bifora. La presenza di una banda rende tutto più ufficiale e allegro, la gente si diverte e bisogna alzare la voce per farsi sentire. Quasi tutti gli uomini portano il cappello, chi non l’ha si sente inappropriato. Sono vestiti bene, soprattutto quelli che danno le spalle all’edificio, con la tuba e il fazzoletto bianco a impreziosire la giacca. 55
È san Cristoforo ma qui si festeggia un altro Cristoforo, uno degli uomini sul palco adorno di coccarde. Quello che tiene per mano un bambino vestito da piccolo uomo d’affari. Il bambino ha un’aria pensierosa. Quando la musica si interrompe, si fermano anche le chiacchiere. Centinaia di paia di occhi tutti insieme si voltano verso Cristoforo, il quale sembra esitare. Arretra di qualche passo. Osserva, dall’alto della privilegiata posizione di uomo in cima a un palco, la moltitudine di volti che presenzia alla cerimonia d’inaugurazione del suo cotonificio. Pochi mesi prima non c’era nulla in riva alla pùncia. Era tutto bosco improduttivo, superficie inerte e selvatica. Cristoforo pensa che le persone che gli stanno davanti siano fatte dello stesso materiale grezzo che ha plasmato per forgiare la sua fabbrica. Ha davanti un popolo analfabeta di contadini bergamaschi e lui è la modernità. Tiene un lungo discorso, nel quale spiega in cosa consista il progresso e come esso cambierà le loro vite. Durante l’arringa non perde mai di vista il bambino vestito da uomo, che ora è sceso dal palco e afferra un’altra mano, quella della madre. Il bambino è fondamentale. Quella stessa mano, che ha stretto prima la mano del padre e poi quella della madre, getterà la prima manciata di cotone grezzo nella nuovissima cardatrice Crighton, per dare ufficialmente inizio alle attività della Ditta Crespi. Ci saranno tanti applausi. Con questo gesto, il gesto del suo primogenito, Cristoforo darà vita alla sua fortuna. Il 12 gennaio 1928 piove. Da una finestra della stireria Bambina vede la strada principale farsi fango. Lavora ormai da dodici anni al trambai ed è stata una fortuna per la sua famiglia, che abita a Trezzo. Sono orfani da tempo e c’è sempre bisogno di denaro. – Divina, – dice la capo stiratrice alle compagne. Stanno mangiando la polenta preparata da Bambina. Aggiunge: – Se dici cosa ti hanno detto, forse riusciamo a capire se puoi non andare. La stireria è vicina alla fortezza neomedievale che il compianto pa56
dron Cristoforo ha voluto per dimora. Nel tempo, il trambai è diventato un vero villaggio, molto più ricco degli antichi borghi della zona. Più ricco degli altri anche in tempi di crisi. L’industria è in declino ma il villaggio resiste e con lui gli abitanti. – Se non vuoi andarci, sarò felice di andare io. Non capisco perché proprio tu che non vuoi, quando ci sono io che vorrei. Tutte vorremmo entrare nella villa. Se sarai fortunata, ti capiterà di incontrare padron Silvio nel salotto. – Non ho potuto dire no. È venuto Carlo e mi ha detto di farlo, farlo e basta. Ritirare la biancheria dei padroni nello stanzino di servizio e sostituirla con quella pulita. Farlo ogni sera. Non parlare con nessuno, fare ciò che devo e sparire. Il padrone ha dovuto licenziare il garzone che gli sbrigava queste cose perché l’hanno sorpreso a rubare in villa. – Hai paura che ti licenzino, se rifiuti? Sei brava, precisa e puntuale. Non lo farebbero mai. Qualcuna delle altre dice che è per questo che non hanno scelto la capo stiratrice. Scoppiano tutte a ridere. Scoppiano tutte, tranne Bambina. In realtà, per lei si tratta di un incarico gravoso. Di ritorno a casa, prima del tramonto, è solita fermarsi al fiume e pregare la Signora delle Acque, ma coi nuovi ordini verrà troppo tardi. Da qualche tempo si trattiene sulle sponde dell’Adda più del consueto. Succede da quando le hanno spiegato che l’energia del cotonificio è generata da tre turbine idrauliche, ottenute ingabbiando il corso della dea liquida lungo un canale di mille metri. Non ha idea di cosa siano i cavalli dinamici, ma sono 700 quelli che la centrale idroelettrica ruba alla sua Signora. Il lavoro, però, anche quello è importante. Almeno finché Bambina non troverà un altro posto. Sono già passati tre anni da quando ha conosciuto Emilio all’opificio, e con lui progetta di trasferirsi. Gli altri operai si sono presi le case, gli orti e le scuole. Il cibo non manca. Tanti benefici nel rispetto delle regole, regole che hanno sempre a che vedere con il denaro. Sono dipendenti di nome e di fatto. Hanno un medico ma non hanno la salute, perché 57
umidità e calore all’interno dei capannoni li rendono sciancati. Per non parlare dei fumi che respirano. Finiranno nel cimitero in fondo al viale, in una lapide omologata e funzionale, nel generoso posto contrassegnato dal padrone. Né lei né Emilio vogliono farsi comprare. Quella sera la nebbia è densa e dalla strada non si scorge la torretta di casa Crespi che si erge vicino alla derivazione dell’Adda. La villa è circondata da un alto muro di cinta oltre il quale Bambina riesce a scorgere soltanto la ricca vegetazione e le merlature a coda di rondine. Agli operai è proibito entrare. Un maggiordomo la invita a seguirlo attraverso le pareti foderate e le collezioni di ceramiche. Un dipinto a olio incombe all’ingresso: mostra un uomo di età fiorente, la folta capigliatura cinta da una corona. Ai margini del ritratto è iscritto un nome: Aripertvs. – Un re longobardo, il suo dominio si estese anche alle nostre terre, – dice l’uomo. C’è qualcosa di sbagliato in quel ritratto, più opaco del fumo dei caminoni: un travestimento che nasconde un animo vorace. Dietro al naso aquilino e al mento volitivo, Ariperto sembra pronto a piombare su di lei. Solo il richiamo del maggiordomo la distrae dalla figura. Egli le indica il locale adibito a biancheria, dopodichè si dilegua. Nel silenzio, Bambina sente il cigolìo dei propri passi sulle assi del parquet. Ha l’impressione di doversi affrettare e si inoltra nell’anticamera, quando una voce la fa arrestare. Dice: – Avanti. La voce proviene da una porta socchiusa, attraversata da uno spiraglio di luce. Bambina si affaccia all’apertura e un uomo pallido e baffuto le fa cenno di entrare. Siede in poltrona e sta leggendo un giornale. Nell’aria, odore di pipa. – Fatti osservare, – dice l’uomo. – Ho saputo che vi sposerete, tu e il figlio del carpentiere. – Siete il padrone? L’uomo ride. – Non lo sono. Possiedo banche e presiedo governi, ma 58
non sono il padrone. Io sono Silvio Crespi e tu sei Bambina, e siamo entrambi fedeli servitori del padrone. Bambina arretra. – Non capisco. – Non è desiderabile che i dipendenti capiscano. Piuttosto, sai perché ti ho scelta? Ho voluto che fossi tu a servire alla villa. Desideravo parlarti, so che il villaggio non ti piace. – Non so chi ve l’abbia riferito ma avrà capito male. – Affatto. Il padrone e io sappiamo tutto dei nostri dipendenti. – Se non siete voi, chi è il padrone? – A tempo debito. Piuttosto, hai già cenato? Bambina scuote la testa. Crespi fa un cenno al maggiordomo, che nel frattempo è scivolato nella stanza. Le viene offerto un vassoio contenente un pezzo di carne bruciata ricoperto da uno strato di gelatina color senape. – Assaggia, è stufato di maiale. Bambina ingurgita un boccone: insapore e inodore. – Già –, riprende Silvio, – il sapore del piatto originale è stato rimosso. Del resto, al pari di quello olfattivo e sessuale, il piacere gustativo è solo un inutile spreco di energia. Bambina seguita a mangiare. Prima finirà, prima potrà porre termine allo strano incontro. – Vorrei che mi spiegassi con le tue parole cosa non ti piace. Bambina esita. – Non lo sai? Eppure hai una buona paga, – dice Crespi. – Tra qualche tempo potrai avere anche tu una casa operaia all’interno del villaggio. Avrai una vecchiaia serena e i tuoi figli, se mi soddisferanno, potrebbero diventare impiegati. – Il villaggio è una gabbia dalle sbarre d’oro. Voi dite di non essere il padrone, ma tutto ciò che vi sta intorno afferma l’esatto contrario. Crespi si gingilla la cravatta, fa per dire qualcosa ma non lo dice. Prosegue infine, in maniera meccanica, come stesse recitando un discorso a lungo ripetuto. – Aiuto a conoscere i veri bisogni della manodopera e li 59
soddisfo, – dice. – Per esempio, il regolamento prevede che chi possiede un orto nel villaggio è tenuto a prendersene cura, perché un’adeguata esposizione alla luce solare previene le malattie e garantisce la capacità produttiva. – Tutto per voi ha a che fare con la produzione, – dice Bambina. – Noi stessi non siamo altro che un vostro prodotto, il risultato dei vostri esperimenti. – Parli come una sciocca. Anche mio padre Cristoforo era di quest’avviso. Lo avete definito un geniale idealista. Gli avete eretto un busto di bronzo, ma cos’erano il suo sentimentalismo verso l’arte e la sua generosità verso la gente, se non una debolezza? Ci stava riducendo sul lastrico. Fui costretto a svuotare la pinacoteca di famiglia. Lui tentò addirittura di opporsi alla volontà del padrone. Il giorno dell’inaugurazione della fabbrica indugiò, ma alla fine eseguì. Eseguiamo sempre tutti, e anche tu lo farai. – Non c’è nulla che possa anche solo avvicinarsi a ciò che io ho da offrirti. – Per un attimo Crespi vacilla, porta le mani al volto. Bambina è tentata di soccorrerlo. – È un sistema al quale non vogliamo appartenere, né io né Emilio. – Dici? Non è mio compito trattenervi. Siete liberi di andarvene, se lo volete. – Egli dirompe in una lunga risata, amplificata dalle spesse murature. – Il padrone? – dice Bambina. – Voglio vederlo. – Oh, ma l’hai sempre visto. Dietro i tendoni vermigli alle spalle di Crespi, la luce perde di intensità e si fa notte, come quell’unica volta in cui il teatro del villaggio venne aperto anche ai non residenti, e lei partecipò insieme ai fratelli. Una ventata gelida le sfiora il viso, come se qualcuno avesse di colpo spalancato una finestra. Quell’aria ghiacciata reca lo stesso odore dei fiori nel camposanto in fondo alla strada. Mentre Silvio Crespi pare farsi piccolo e infine sparire, nella montante oscurità Bambina distingue chiaramente un naso aquilino e un mento volitivo. Ed è come se il Sole non fosse mai esistito. 60
– Uno, ne ho bevuto uno solo, – dice Luigi della banda a Emilio. Il dopolavoro è affollato e festoso. Appoggiato al bancone, egli regge una bottiglia vuota e fatica a tenersi in piedi. È in quel momento che Bambina si ritrova in loro compagnia. Si era dileguata dalla fortezza e lungo la strada aveva corso senza guardarsi indietro. Si era infine ritrovata fra le braccia di Emilio, in debito di ossigeno. Stavano tenendo un brindisi. Emilio dice che è una sera perfetta per festeggiare. Dice: – Indovina? Sarai la moglie di un caporeparto, e non è l’unica sorpresa. Vedi quella casa? – La accompagna alla finestra. – Là in fondo, dietro lo spaccio. Lei, però, vede solo la notte. – Sono lieto di presentarle la sua nuova casa, signorina. Se ne parlava da un po’, ma prima di dirtelo volevo esserne sicuro. Bambina avverte le ginocchia cedere e pensa di nuovo al padrone. La voce le si è abbassata di qualche nota. – Hai dunque cambiato idea? Hai deciso che i nostri sogni non bastavano? – Tesoro, in questo caso è diverso. Avrò delle responsabilità. – Parli come gli altri. – Non sei contenta? – Emilio, è peggio di come credessimo. Sta accadendo qualcosa in questo luogo. Il signor Crespi è… O meglio: non è. Gli ho appena parlato e mi ha detto di non essere lui il padrone. – Bambina gli si aggrappa. – Non sono riuscita a vederlo ma, qualunque cosa sia, è un padrone oscuro. Non farti sedurre anche tu dalle sue promesse. Emilio la osserva, mentre le voci della festa appaiono distanti. – Mi sono impegnato a offrire un futuro ai nostri figli, ed è quello che intendo fare. – Il suo volto assume un’aria preoccupata. Le chiede di guardarsi intorno e di osservare la felicità degli altri. – Smettila di supplicarmi. Prega piuttosto la tua Signora delle Acque di toglierti dalla testa certe assurde idee. – Lo farò, Emilio. – Bambina asciuga le lacrime e nel suo sguardo appaiono gli occhi umidi e coraggiosi che aveva anche la madre. Accarezza 61
il viso del ragazzo, pietosa, poi scappa via. I compagni trattengono Emilio dall’inseguirla. – Tornerà, tornano sempre, – dicono. La mattina del 13 gennaio del ’28 Bambina è in ritardo. Un ritardo può capitare, però mai sul lavoro. Ha trascorso la notte in preghiera e ora conosce il suo destino. Ora sa quello che deve fare. La prospettiva non è piacevole. Taglia la casta chioma e ripone il delicato fardello ai margini del selciato. Discende quindi le sponde dell’Adda e il suo corpo si perde nei vortici liquidi. I suoi occhi scintillano di una luce vittoriosa mentre vagano nei flutti e, infine, vengono inghiottiti. I capelli di Bambina, deposti a terra ancora intrecciati, resteranno il suo muto messaggio d’addio. Solo tre cose sono certe al trambai, nei primi mesi degli anni ‘30. La prima: fallimento. Colpito dal crollo delle borse e infine atterrato senza appello, il cotonificio Crespi passa di proprietà. L’omonimo Silvio è costretto a liquidare l’intero villaggio per pagare i debiti. Uno dei pochi valori di cui cerca di non privarsi è la tela di Ariperto. Il dipinto, però, viene trafugato sul finire di quello stesso anno. La seconda. Anche se a nessuno piace ammetterlo, nelle notti accompagnate dalla nebbia sono in molti ad aver udito una voce provenire dalle acque scure del fiume e le note di una tragica ballata risuonare nell’oscurità. Terza e ultima cosa: da qualche parte, nel ricco salotto di un altro signore, un naso aquilino osserva, superbo, i suoi sedicenti padroni.
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Genius Loci Vitalba Piazza
– Pronto Anna? La mamma sono. – Sì mamma, lo so, ti ho chiamato io. Mi è arrivata una raccomandata dal cimitero di Trezzo, si parla della scadenza del loculo di un tale Vittorio Piazza, tu ne sai niente? – Mah, non saprei, chi conosciamo ad Acitrezza? Chi è che te la manda? – Mamma, è una notifica da TREZZO sull’Adda, un comune vicino Milano. È un atto ufficiale del camposanto e si parla della tumulazione di Vittorio Piazza. Ma come hanno fatto ad avere il mio indirizzo? Gliel’hai dato tu? E soprattutto, chi è Vittorio Piazza? – Ma sì, può darsi che ce ne parlava il nonno, potrebbe essere un qualche fratello di suo padre? – Senti mamma, adesso devo scappare al lavoro. Prova a far mente locale e poi ci riaggiorniamo. Baci. Udite anche voi? La fretta è mania dei giovani, e questa gioventù moderna sembra avere pochissima creanza nell’onorare i vivi, figuriamoci i morti. Sovente il sentimento di appartenenza si manifesta solo quando ci si separa dal luogo che si considera casa. Le radici, per loro stessa natura, non possono essere mobili, e il distacco dalla terra natia è un atto violento 63
e irreversibile. Nell’allontanarsi può sorgere la tentazione di immaginare che la vita affettiva prosegua come soleva. Si può ritenere che l’amore dei cari verso un congiunto distante non vada perduto e possa restare immutato, nei pensieri e nell’animo. Anna non sembra curarsi di queste noie. Già sette anni or sono, quando decise di traferirsi a Milano, non ebbe troppe ansie per la nuova vita che si apprestava ad iniziare, né nostalgie per il distacco dalla famiglia e dalle abitudini. La sua fu una scelta di testa più che di cuore, di natura impiegatizia più che sociale, e non se ne fece un cruccio. Ritrovò amici che vivevano in zona e con i compagni di lavoro creò un bel rapporto. Nessun legame di sangue però, o quantomeno, non prima di ricevere quella missiva. Dalla sua scrivania Anna rilegge la raccomandata del cimitero e fissa un punto in meditazione. Quel nome, “Vittorio”, le suona familiare benché non riesca ad associarlo ad alcun volto o ricordo. Il nonno di Anna, quel galantuomo, aveva un aneddoto su tutto e una memoria d’elefante. Mi immagino quel vecchietto ricurvo nei suoi ultimi giorni, offuscati dalla senilità avanzata, tenere ancora a mente dettagli della sua prigionia, della guerra e dei compagni. Avere ancora lacrime per luoghi e persone lontanissimi. Chissà se ad un passo dal sonno eterno, non pronunciò anche il nome “Vittorio”. Anna si sforza di scavare nella mente per trovare un accenno, ma niente. L’idea che le spoglie di un parente ignoto giacciano così vicino a dove risiede la incuriosisce. Un’ombra, però, vela il suo cogitare. Un congiunto lontano, che nessuno ricorda. E se la famiglia lo avesse allontanato? E se si fosse esiliato per una qualche colpa o vergogna? Magari si trattava di un poco di buono, o forse era stato discriminato per qualche motivo. E se fosse stato omosessuale? Ma no, magari si trattava soltanto di un caso di omonimia, di un fraintendimento burocratico privo di retroscena piccanti. Oppure di un’anima buona e dimenticata. È il calar del giorno del venerdì e Anna non riprenderà a lavorare che dal lunedì; il suo fine settimana sta ufficialmente per avviarsi con una 64
nuova telefonata. Decide di sentire la zia Rina, la più anziana delle sorelle della madre e la più incline ai racconti di intrighi familiari, alimentati dalla visione di anni e anni di sceneggiati televisivi. Speriamo che almeno lei rammenti qualcosa. – Lo zio Vittorio? Certo che me lo ricordo! Che bell’uomo, sembrava un attore! Pare fosse medico, sai? Era uno zio del nonno e se ne parlava di tanto in tanto. – Ma come mai aveva lasciato la Sicilia? – Era partito per la guerra, mi pare nel ’17, dalle parti di Venezia e poi si era ferito e l’avevano portato a curarsi nei dintorni di Milano. – Ma era rimasto sempre là? Si era fatto una famiglia? – Non credo, so che era rimasto per amore, aveva conosciuto una ragazza ma quelle volte che è tornato a trovarci non era accompagnato. Poi sai, io e tua madre eravamo bambine, non è che mi ricordo molto, so che abbiamo saputo della sua morte all’improvviso intorno agli anni ‘60, o ’70, ma nessuno andò mai a trovarlo. Anzi, se vai al camposanto fai una fotografia alla lapide della buonanima, che la mettiamo nell’album di famiglia! Che idea bislacca quella di conservare una foto del sepolcro. Perlomeno, adesso, Anna può mettere insieme alcun tasselli: lo zio Vittorio era un rispettabile signore, un medico vissuto, o quantomeno sepolto a Trezzo. Un po’ poco, ma è pur sempre un inizio. La ragazza si avvicina a una specie di televisore ripetendo a voce alta parole confuse: “dott. Piazza Trezzo sull’Adda anni ‘20”. Dallo schermo salta fuori un elenco a colori, vedo che appaiono titoli di notizie, e dopo aver scorso i risultati si sofferma su un articolo del 1928. Parla della morte di una ragazza, Bambina, ed effettivamente si fa riferimento ad un medico, il dott. Piazza, che si sarebbe occupato dell’autopsia, o con i termini di allora della “necroscopia”. Dalla sua dimora alla periferia nord-est di Milano, nel quartiere Adriano, in questo sabato fresco di inizio novembre, Anna si concede una 65
biciclettata e si spinge più in là del solito, giungendo fin a quella riva della Martesana che si affaccia sull’Adda. Il verde scosceso degli argini sta lasciando il posto ai colori ambrati dell’autunno. Costeggiando il naviglio per una ventina di chilometri, ci si ritrova in un paesaggio bucolico, che la ragazza non sapeva di avere così a portata di pedale. Scopre allora che anche le rive del fiume hanno un loro fascino, seppur diverso da quelle di mare, a lei più familiari. Superata Groppello, si decide per una breve pausa, ad abbeverar la sete e ristorar i pensieri. Riconosco là accanto la cappellina della Madonna dell’Acqua, i frati carmelitani l’hanno sempre curata con la stessa premura della più nota raffigurazione esposta nel Santuario di Concesa. Ogni tanto mi accompagnavo a loro su questa riva, per una passeggiata votiva, più per diletto che per sentita vocazione. Riprendendo il viaggio, subito dopo un ripido curvone, il dislivello tra i corsi di Adda e Martesana pone la ciclista in bilico tra le acque, restituendo allo sguardo un’immagine mutevole e irregolare ad ogni scorcio di paesaggio. All’altezza di Vaprio, le gambe cominciano a farsi pesanti e Anna decide di sostare nei pressi di un palazzo. “Casa del Custode delle Acque” recita la targa fuori dalla villa. Scorge un signore all’interno e decide di entrare. – Buongiorno, posso chiederle un’informazione? – Buongiorno, se posso esser d’aiuto, con piacere. – Dovrei arrivare a Trezzo, sono in bici ma preferirei prendere un bus, è tutta la mattina che pedalo. – Non son molto ferrato sui mezzi pubblici, se aspetta mezzora stacco di lavorare e le do io un passaggio. – Sarebbe davvero molo gentile! L’attendo volentieri. – Se nel frattempo vuole farsi un giro, nella sala accanto c’è una mostra fotografica su Vàvar. La ragazza approfitta della sosta per affacciarsi sugli stessi luoghi appena attraversati in bici, ma da una diversa angolatura. Le vedute in bianco e nero e le pose retrò dei soggetti immortalati cristallizzano momenti di quotidianità remota. Trovarsi allo stesso tempo nel presente fisico e 66
nella visione storica del medesimo luogo le trasmette un’affascinante sensazione di ubiquità. Chissà se tra quei volti vi è anche lo zio Vittorio. In auto, Anna si accorge che certi luoghi perdono di seduzione se attraversati dall’asfalto. Tra Vaprio e Trezzo, l’Adda è solo un appellativo visibile sui cartelli stradali. Una presenza più evocata che tangibile. Il corso d’acqua proclama la propria millenaria identità, nonostante l’addomesticamento. La periferia si slabbra, tra i comuni dell’Adda, con il tratto impersonale dei centri commerciali, emblemi di ciò che la modernità chiama “globalizzazione”. L’uomo al volante la distoglie dal suo ragionare. – Lei non suona di queste parti, cosa la porta qui? – Sto cercando notizie su uno zio defunto, sepolto proprio a Trezzo. Vorrei provare ad aver qualche informazione dal cimitero. – Se al camposanto vede dei carmelitani potrebbe chiedere loro, sono spesso a curar le lapidi e ne sanno più loro dei morti che gli angeli nel cielo. La lascio qui sotto al campanile, in fondo al viale di cipressi c’è il cimitero. Sotto al porticato della Chiesa dei SS. Gervasio e Protasio, la ragazza si lascia incuriosire da alcune incisioni narrative che ritraggono un asino. Le didascalie sono in un dialetto non comprensibile ad una forestiera come lei. Indugia su una frase in particolare “A vorè cuntentà tutta la gent, se creppa stracch e se conclud mai nient”. Fa il sorrisino di chi pensa di aver captato un minimo significato. Le campane suonano i rintocchi di mezzogiorno e decide di incamminarsi verso il viale. Il camposanto ha un linguaggio universale, fatto di silenzi e piccoli rituali di dolore. Nel tentativo di trovare un custode o la lapide dello zio, la giovane s’imbatte in un monaco e decide di chiedere a lui. L’uomo di Dio ha gli anni di Barabba e un piglio risoluto, poco incline al dialogo. Il suo tono di voce non mi è nuovo: – Il custode è ammalato. Il nome “Vittorio Piazza” mi dice qualcosa, ma non saprei dirle di più. 67
Il religioso persuade la giovine a seguirlo al Santuario di Concesa, con la promessa che un confratello ancora più vetusto, tale Fra Giacomino, potrebbe darle qualche notizia. Questo gioco dell’oca investigativo comincia a trasformarsi in una via crucis. Anna si trova centrifugata in scenari sconosciuti, con un fardello da esploratrice di genealogie familiari. – Lei mi pare una brava ragazza, non sembra affatto nipote di suo zio. Fra Giacomino la squadra, sentenziando al primo sguardo. Non ha perso le vecchie abitudini, quell’impiccione di un religioso. Ha voglia di parlare, ma non di argomenti a lui avversi, come il ricordo lontano di un nome che parrebbe non aver dimenticato. – Suo zio lo lasci riposare in pace. Quel pover’uomo, si fa per dire, visse una vita di eccessi, con la sola compagnia delle sue paturnie. Mi parli della sua vocazione, piuttosto. I tentativi di Anna di riportare il discorso nella propria area d’interesse non sembrano andare a buon fine. Il monaco lascia intuire di aver notizie, ma per qualche ragione preferisce non addentrarsi. – Ma si tratta di decenni fa, anzi che dico, cinquantenni fa! Ero novizio e da queste parti un volto nuovo salta subito all’occhio. Alla gente del posto piace costruire storie sui volti nuovi, non so se m’intende. Sapesse quante confessioni inconfessabili ho raccolto in questi anni! Storie di amanti, di brigantaggi. E poi in camera caritatis si può dir tutto ad un uomo di Chiesa, senza il timore che venga riferito. Mica posso ripetere a lei quanto ho raccolto nel segreto delle mie funzioni! Anna prova ad incalzare la conversazione, mascherando la trepidazione con la gentilezza. – Padre, nessuno in famiglia conosce la storia di mio zio e avrei piacere di sapere qualcosa sulla sua vita. Lei che lo ha conosciuto, mi racconti qualche aneddoto sul suo conto. – Figliola cara, che vuole che le dica? Forse che suo zio calamitava i sospetti per qualunque oltraggio avvenisse in paese? Avrà certamente sentito la storia della ragazza uccisa negli anni venti, qui a Trezzo. Ebbene, 68
c’è chi dice che avesse per amante un medico forestiero e chi sostiene che fosse stata uccisa da uno spasimante di origini meridionali. In entrambi i casi potrei mai farle credere che suo zio fosse sospettato dell’assassinio? – Ma c’erano solo voci negative sul conto di zio Vittorio? Era un poco di buono? – Questo lo dice lei… dopotutto era un cristiano di compagnia, qualche bicchiere per scaldarsi e sapeva bene come far festa in giro per il paese. Belle donne, qualche giocata, con moderazione s’intende. Dicono che suo zio si fosse tenuto lontano dalla famiglia d’origine così da non rovinarsi l’ottima reputazione costruita a distanza. Aveva anche una buona disponibilità economica e poteva permettersi certe spese. A memoria però non ricordo nessuna offerta di rilievo qui per i confratelli. Non era di certo un fedele praticante… La ragazza si allontana esausta, abbandonando il monaco al suo inconcludente soliloquio: – E ogni mistero ha pur il suo fondo di verità sa! Mi ricordo ad esempio di quel pio uomo sul punto di prendere i voti… Sembra aver trascorso le ore a parlare del nulla. Cosa vuole insinuare, quel cantastorie di Fra Giacomino? Parlare così di un suo affezionato parrocchiano e citare le voci di popolo, quante congetture! Ricamare trame e orpelli solo perché un uomo ha piacere di viversi un’esistenza appieno. Mi sembra il minimo dopo aver vissuto gli orrori della guerra! “A vorè contentà tutta la gent, se creppa stracch e se conclud mai nient”. È l’unica frase del dialetto locale che mi sia mai rimasta in mente. Avrei dovuto chiedere che mi venisse incisa sulla lapide, a futura memoria della progenie che fosse mai venuta a farmi visita. Le malelingue e le dinamiche di provincia pensavo di abbandonarle trasferendomi al nord, e questa convinzione mi spinse a trovare più motivazioni nell’andare che nel restare. Tuttavia, lontano dal vigore della gioventù, concedetti alla malinconia di prender non di rado il sopravvento. Riflettendo sui legami affettivi, pensai spesso ai miei congiunti e alle loro vite disgiunte dalla mia. Perché 69
la famiglia sì che è sacra e non ti dimentica! Ti porta nel cuore di generazione in generazione. Adesso però avverto l’imbarazzo di una nomea che non mi rende grazia. Cosa penserà di me, mia nipote? Che sono stato uno zio screanzato senza fortuna e onorabilità? Ma no, mi sembra una ragazza intelligente, eccola di nuovo al telefono, sentiamo cosa riferisce: – Mamma, sono Anna, non sai in che giri mi sono messa… – Tesoro che è successo? Hai scoperto qualcosa sullo zio Vittorio? – È tutta la mattina che vago nelle campagne lombarde senza trovare informazioni util … ma come mai adesso parli di uno “zio Vittorio”? Hai ritrovato la memoria? Ho capito che aveva dei suoi giri, pare che fosse molto attivo in paese. Mi resta solo da chiarire come sbrigare le pratiche del camposanto. Tutto qui? È forse questa la reverenza che merito? Va bene che ai morti non resta che il riposo eterno, ma queste burocrazie cimiteriali sembravano aver risvegliato il sangue del mio sangue per riavvicinarlo a me. In fondo, chiedo soltanto un pensiero affettuoso, mi accontenterei di un fiore, basti anche un requiem! – Ma sei riuscita a trovare la tomba dello zio? – Non ancora, ma ci sono andata vicina. E non appena la troverò, di tanto in tanto passerò in zona a fargli un salutino. Vorrei saperne di più sul suo conto, dev’essere stato un bel personaggione lo zio! Orbene, allora sì che abbiamo ricongiunto una minima quota di famiglia! Io e mia nipote, qui al nord, sapremo come farci compagnia. Abbiamo tutta un’eternità per conoscerci meglio. Dall’aldilà le comunicazioni non sono semplici, si interagisce tramite le missive che ancora portano il nostro nome e i racconti di chi ci tiene a mente. Gli archivi, le fotografie, quelli pure sono mezzi che risvegliano il sentimento del tempo. Il viaggio di Anna non è stato solo uno spostamento nello spazio, dal noto della metropoli all’ignoto della selva di provincia: questa gita l’ha trasportata in una dimensione di scoperta del territorio e riscoperta delle origini. La fermezza del suo isolato di vita e dei suoi affetti lontani, l’ipnotico ripeter70
si dei suoi spostamenti routinari, hanno lasciato il posto a un’imprevista avventura. Perché anche camminare gli stessi luoghi è una maniera di sentire l’essenza di chi vi ha vissuto, in un’altra epoca, con il proprio passo, nel respiro mutabile e immortale del genius loci.
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Ritratto virile Danilo Pettinati
Se c’era lui, tutti ‘sti napuli senza biglietto, sapete la fine che facevano! E di tanti debosciati che ci abbiamo in giro, si raddrizzava qualche schiena, invece che fanno i loro comodi, come fossero i padroni… Ma sono sempre gli arditi a pagare caro, i vili è facile che la fanno franca, e al compaesano Adolfo Guerra gli è toccata una fine grama. Per questo, nel darvi il suo ritratto, ho premura di contarvi la storia per intero, e giudicate voi se dico menzogne! L’Adolfo, che per via della statura tutta Trezzo diceva Guerino, era persona laboriosa e rispettato controllore di tranvia. I fatti che vado a riferire e che, come saprete, mi han visto testimone, son corsi in Busnago, nota per essere luogo di contadini, dai modi rozzi e con poca voglia di lavorare. Qui, prima della guerra, nell’anno nove dell’era fascista, l’amico Guerino presiedeva la Cooperativa Agricola. E ne trattava gli affari con le giuste cure, ma da qualche tempo le vendite erano scese, e il bilancio lamentava un buco di cinquemila lire. Quel pomeriggio aveva da tenersi l’assemblea dei soci, e dato che a Busnago ce l’han sempre con noi trezzesi, a Guerino era corsa voce che tra loro c’era chi puntava a farlo fuori. Sapete come sono le cooperative: covo di rossi, piene di sfaccendati e piantagrane… Per cui, temendo 73
qualche mala sortita, mi viene chiesto, con un paio di compaesani, di far presenza alla riunione, per tenere a bada i sobillatori e scoraggiare i disordini. Arriviamo al paese verso la mezza e, in attesa dell’assemblea, andiamo a farci un boccone all’osteria che dà sulla piazza. Dove si vede che eravamo tenuti in spregio, ma noialtri siamo soliti non far caso alle provocazioni. L’oste era un tipo sulla cinquantina, rosso di barba, tutto nervi e asciutto come un calzino. Era conosciuto perché aveva fatta la grande guerra, dove per salvare un commilitone ci ha rimesso un piede, tornando al paese decorato e con le stampelle. Infatti, nonostante certe sue simpatie a noi poco gradite, gli portavamo rispetto. E tutti lo chiamavano Gambadalegn, ma guai a dirglielo in faccia, che quello, le stampelle, era capace di rompertene una sulla schiena! Gestiva l’osteria con la moglie Giovanna, dieci anni più giovane, che come ci sediamo viene a prendere la comanda. Era questa un donnone in carne, ma molto soda, e si muoveva con quel fare lascivo che han certe campagnole, ben diverso dalle nostre donne… Son come degli animalini, quelle, abituate coi bifolchi, e noi, uomini fieri, gli facciamo bollire il sangue! Insomma, alla Giovanna, si vede che le girava la testa per Guerino, infatti, davanti al marito, gli mandava dei sguardi che si capiva subito cosa cercava. E quando uno è occhiato a quel modo… Allora Guerino, che come tutti è fatto di carne, si alza e le fa segno, dicendoci di finire con calma e poi raggiungerlo alla cooperativa. E la Giovanna, come ci aspettavamo, toglie il grembiule e lo segue. Quel povero del Gamba fa l’indiano, ma si vede che ha fiutato tutto, e la cosa gli brucia! Infatti, inizia a fare confusione con le comande, tarda a lungo di servirci e porta pure una fiasca di troppo, che poi dimentica di segnarci. Un po’ abbiamo pena di quello sciancato, ma cosa volete, è la vita! E così, quando il mio socio fa il gesto delle corna, tutti e tre ce la sghigniamo e alziamo i calici: – Onore a Guerino! A noi! 74
A fine pranzo ci alziamo, che per il tanto ridere ci gira la testa, e vedendo che tra una cosa e l’altra ha finito a farsi tardi, partiamo celeri verso la cooperativa. Dove è chiaro che si trama qualcosa! Infatti, durante la nostra assenza, quei farabutti hanno approfittato per fare l’assemblea e di Guerino non c’è traccia. Ma c’è sul tavolo la sua cartella, con tutti i fogli e i verbali, e la Giovanna è li con loro. Quindi, non vedendolo, ci prende il dubbio che stavano combinando qualche pasticcio. – Dov’è Guerino? – Chiediamo, e quelli fanno orecchi da mercante. Allora diciamo che siam pronti a mettere tutto sottosopra, per trovarlo. In quel momento lo sentiamo urlare e i suoi gridi arrivano da basso, dallo scantinato, dove le canaglie lo avevan rinchiuso a forza, portandogli via le carte. Come c’era da aspettarsi, per non ammettere la loro mala gestione, quei pelandroni gli han dato colpa dell’ammanco, e, senza di lui, han votato per cacciarlo dai soci. Quando lo tiriamo fuori, dovevate vederlo, il Guerino! Era furioso, e si capisce, e noi eravamo compatti al suo fianco, nel pretendere giustizia. Ma non c’era verso di ragionare con quei bifolchi, che hanno avuto la presunzione di dirci furestee, urlando che era meglio andarcene. Tanto che noi, per evitare di menare le mani con tale plebaglia, alla fine abbiam preferito dileguarci. Tornati a Trezzo in tutta furia, andiamo filati alla Casa del Fascio, chiamando gli amici a raccolta. Gli si dice come ci han trattati, e loro ci dan ragione, che l’affronto è grave, e fan correre la voce chiamando altri amici. Tutti d’accordo che il troppo è troppo! E qui, conviene parlare d’un fatto: già da tempo, per via del lavoro di controllore, Guerino era offeso e preso di mira da ignoti, che ne facevano vile satira, mettendo in giro cartoline sconce e dicerie volgari. Ma si sapeva dove uscivano quelle voci: dalle stesse bocche di chi poi lamentava il fare burbero dei nostri, e che la gente perbene ci riferiva. Non era più tempo di lasciar correre! C’era di mezzo l’ordine pubblico, si capisce… E con quei ceffi in giro non si può mica stare tranquilli! Ci andava una risposta degna e tempestiva, 75
alla maniera ardita di cui siam capaci. E ci pareva più opportuno, per tale risposta, di aspettare la sera, quando la cooperativa è vicina alla serrata e c’è tempo per discutere con calma. Prima della partenza, brindiamo ancora a noi, buttando giù d’un fiato la grappa alla maniera dei veri uomini, come i nostri militi sul Carso. E mentre si andava là, dentro le macchine, scherzavamo sulla faccia che faranno nel vederci arrivare, dopo che erano stati in vena di ribalderie. Ben inteso che l’idea era di rivedere le carte e rifare l’assemblea senza imbrogli. Di certo non s’aveva intenzione che succedesse quello che poi invece capitò. Anzi! Oggi è facile giudicare, ma immaginate un giovanotto di ventiquattr’anni, com’era io allora, e pensate che mondo vuole dare ai suoi figli. E infatti, in quell’automobile, io pensavo più che altro alla mia donna, la Cate, che stava a casa a sbrigar le faccende e che, come uomo, avevo il dovere di proteggere. Una volta a Busnago, entriamo alla Cooperativa, dove quelli si atteggiano come fossero i padroni. Dovevate vederli, quei debosciati! Giocare a carte e bestemmiare Dio, ciucchi da fare vergogna! Chi oggi critica i modi che ci è toccato di usare, di sicuro non gli è mai capitata di affrontare degli incivili. E questo, nei libri, ci andrebbe da scriverlo in maiuscolo: abbiamo frenato noi, le pretese dei rossi, o finiva per essere un’invasione! Ad ogni modo, il nostro arrivo li prende di sorpresa, che pensavano di farla franca, con la loro bravata… Ma da come veniamo accolti, si capisce subito che tirava una brutta aria! – Andate a prendere i registri, che c’è da rivedere i verbali. – Gli facciamo, e quelli si metton di traverso. Dicono che i registri sono al sicuro e nessuno li aveva manomessi. Anzi, accusano Guerino di aversi intascato i soldi dell’ammanco e di ingrassarsi alle spalle loro. Figuratevi! Che le loro cooperative non andrebbero avanti, se qualcuno, di senso pratico e buona voglia, non ci mettesse mano, per aggiustare le cose. Quei contadini avrebbero da ringraziare, invece di fare le pulci per qualche ricevuta smarrita! Ma chi lo spiega a quei prepotenti? A quel punto, capita di 76
alzare la voce e un po’ si perde la calma. A spronarci era Guerino, col tormento che lo agitava fin nei visceri: – Mettete tutto sottosopra! Uscite fuori quelle carte! E quelli attaccano a dircene di ogni: canaglie, bruti! Qualcuno addirittura “squadraccia”. Mai vista tanta intolleranza! E quando si è provocati, non siamo certo il tipo di gente che si tirano indietro! Così, per difendere l’onore, qualcuno mette mano al bastone. Che avevamo appresso, per non farci trovare impreparati, ma se tutto andava come doveva, non c’era bisogno di usarlo. Finché la situazione ha degenerato e i disordini han preso a cominciare. E come si può ben capire, finisce tutto in baraonda, con tavoli e sedie ribaltati e cocci di stoviglie lungo il pavimento. Ci lanciavano di tutto, quei codardi, per cacciarci via. Ma con fierezza li abbiamo tenuti a bada e alla fine han dovuto andarsene loro! Giustizia era fatta, ora toccava fare pulizia. Ma anche frugando tutto, le carte ancora non saltano fuori. Allora Guerino mi fa segno, coi soci che eravamo a pranzo, di seguirlo all’osteria, per vedere se la Giovanna ne sapeva qualcosa. Vista l’ora, troviamo la saracinesca giù, ma da una finestra vediamo lei e il Gamba, dentro a rassettare. Ci tocca passare dalla porta dietro, e senza far rumore, che sopra nelle camere la gente dormiva. Così, appena ci vede, lei caccia un urlo e Guerino le mette la mano sulla bocca. Che non c’era intenzione di spaventarla, solo di non fare chiasso, per il vicinato. Il Gamba si irrigidisce pensando chissà che, ma poi capisce e si calma. – La cucina è chiusa. – Dice, in vena di fare dello spirito. Ma noi non ci troviamo niente da ridere. – Non siamo qui per mangiare, Gambadalegn, la nostra è una visita di piacere… Perché non versi del vino? Quello fa il muso brutto, e ribatte spavaldo: – Perché coi porci non sono solito alzare il bicchiere! Non ditemi che non se l’è andata a cercare! Infatti Guerino, toccato 77
nell’onore, gli si para davanti, affrontandolo da uomo. E fa per caricare un manrovescio, ma la Giovanna si mette in mezzo e finisce per pigliarsi lei, lo schiaffo, col sangue che le esce dal naso e tutto quello che segue. Apriti cielo! Il Gamba perde le staffe, dovevate vederlo, viene del colore dei suoi capelli, e attacca a gridare: – Porco, infame, codardo! E ora, certamente, sapendo già com’e andata mi chiederete del pugnale. Che, come disse il giudice, le cose cambiano, se uno si porta la lama dentro lo stivale. Ebbene, come già dissi a lui, il tutto è stato un grosso malinteso. Un incidente. Il pugnale che quella sera mi toccò poi di seppellire, lo teneva il Gamba, chiuso in chissà quale cassetto. E lo tira fuori, quella testa calda, pronto a ferire, ma subito gli cade e finisce tra i piedi di Guerino. Allora, per calmarlo e scongiurare la mala intenzione, ci tocca di afferrarlo e tenerlo stretto per le braccia. Ma non era facile! Ed è in quel momento, che Guerino fa la leggerezza, e per uno sciagurato istinto, in quella baraonda di botte e strattoni, si china a raccogliere il coltello. E lo alza, si capisce, come si fa per tenere a bada uno scalmanato. Quel sciancato, infatti, era fuori di sé, menava le stampelle come bastonate, e continuava a scagliarsi con tutta forza sull’amico nostro e tanto ci aveva il fuoco dentro che a noi per un attimo ci sfugge la presa… Il resto lo sapete, che ve lo dico a fare? Quando i Carabinieri son venuti il mattino dopo, sebbene che c’eravam tutti noi presenti, Guerino li ha seguiti senza fare storie. Che un uomo in pace con la coscienza non ha da temere la giustizia. E un trattamento così, dal tribunale, nessuno l’aspettava. Era stata la Giovanna a denunciare il suo nome, e il giudice ha bevuto la storia di quella svergognata: che Guerino ha provocato per primo, con intenzione, e ha cacciato fuori l’arma, che aveva dietro per regolare chissà quale conto. E i suoi han retto il gioco, dicendo che lo stesso pugnale, lui, era solito sventolarlo sul tram, come se non bastava la divisa a farsi 78
rispettare. Si capisce che erano in combutta, fin dall’inizio. Ma tanto ha fatto la vittima, con le lacrime e i singhiozzi, che al giudice deve avergli fatto pena. E chissà che altro, quella cagna! Che poi anche i giudici son fatti di carne, e sai cosa gli avrà fatto annusare… E così, ingiustamente, Guerino finisce in prigione, dove non uscirà più per via della tubercolosi, che allora ne faceva fuori più di Stalin. E come non bastasse viene conosciuto colpevole di furto e frode, ai danni della cooperativa, dopo che quelli gli han pasticciato bene le carte. Tutte infamie che si porta nella tomba! Ma c’è una cosa che va detta: è morto senza mai cambiare idea, Guerino! Come un martire… Per questo mi premeva parlare di lui e salvarne a buon conto la memoria. E ora mi scuso, signor Prefetto, se mi sono dilungato, ma questa storia andava contata per intero. Per difendere l’onore d’un uomo giusto che, come ho detto, si avrebbe da tenere in esempio! E, qui, vengo infine a me… E aggiungo: prima di strapparmela da dosso, guardate i sacrifici che ho fatto, per vestire la divisa! A me! Che a quarant’anni suonati e senza raccomandazioni, mi è toccato di prender la licenza media, per fare il concorso da vigile. E mi rincresce se, tra i cari, che ho i ritratti sulla scrivania, quello di Guerino ha portato imbarazzo alla caserma… Ma cosa volete? Non si può mettere in croce un bravo Cristo che tiene al ricordo di un amico! E non si può certo biasimarne un altro se, com’era usanza al tempo, salutava al fotografo con la destra alzata.
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Nuovo inizio Mattia Cefis
− Signorina, mi serve Buonomo. − disse Savastano tambureggiando le dita sulla busta gialla, il cui contenuto era riverso sulla scrivania: tre fogli di tracciati recanti valori di longitudine, latitudine e declinazione degli astri. Il tre era un buon numero, per Savastano, il loro contenuto non lo era affatto. Malgrado le fisime ossessivo-compulsive, aveva il vago sospetto che questa storia dell’astrologia finanziaria fosse una “cazzata”, come non mancava di dichiarare la sua ex-moglie. Tuttavia, la sua consulente ci aveva sempre preso e lui non si sarebbe arrischiato ad invertire questa tendenza positiva. − Dottore, Buonomo ha il cellulare staccato. Lo richiamo più tardi? − fece la voce dall’interfono. − No, mandi qualcuno a ripescarlo dall’archivio: lo voglio qui entro le 12. Puntuale! Savastano aveva la ferma intenzione di far volare la sua Maybach 62, fresca di rodaggio, sulla Tangenziale Nord e poi oltre, sulla SS38, fino alla suite in legno di cirmolo vista-valle che lo aspettava in quel di Bormio; non voleva ritardare per colpa di Galileo Buonomo. E poi ci mancava solo che arrivasse alle 13, il più sfigato di tutti i numeri. I grafici pronosticavano ottimi guadagni tuttavia Venere in Gemelli, in dissonanza con Marte e opposta a Plutone e tutta una serie di aspetti nefasti preannunciavano 81
uno scenario di immane pericolo. Memore delle esortazioni della sua analista non poteva però consentire alle sue ubbie di farsi troppo pervasive interferendo con gli affari, benchè non avesse gran considerazione per le competenze della sua strizzacervelli ventiseienne, eccetto che in tema di fellatio. − Benissimo, dottore. Le ricordo che martedì ha quell’appuntamento a Treviso e, nel pomeriggio, l’incontro “Amoris Laetitia” presso la Commissione Diocesana Famiglia. C’è altro? − Sì: dica alla receptionist di approfittare dell’ora di pranzo per cambiarsi d’abito, o di non tornare affatto. La nuova addetta al ricevimento si era presentata in un tailleur viola e l’imprenditore considerava questa un’oltraggiosa mancanza di giudizio: quello era decisamente un cattivo colore, per lui. “…il nefasto sepolcro d’Aureolo, che si avea usurpata la porpora e poscia vinto ov’era collocato il ponte, donde il nome Pons Aureoli e di poi corruttamente Pontirolo. Codesto tiranno massimamente eccellevansi in crudeltà già pria che insorse contro il Romano Imperio e solea pretender da’ suoi schiavi sacrifizi humani che offeria ei stesso. Eppur temea le legioni e mandò ben esso messi a l’imperatore esibendosi di far lega con lui; ma Claudio con gravità rispuose che queste eran preposizioni da farsi non già ad un par suo. A contesa ultimata le spoglie d’Aureolo fuor arse e poscia tradotte in uno sepolcro nel mezzo d’un saliceto e ciò non fortuitamente, che nel convincimento de’ pagani proprio il salice posto a ripa d’Acheronte segna i margini dell’Averno…” La vecchierella mi squadrava con aria scettica. − Ta sét al bagai dal Piero Bonomi, al furestee? − Buongiorno signora… sì, sono il figlio, Galileo. L’aria tirava forte da via Valverde e non capivo come quei trenta chili di donna non volassero via. − T’é lasaa ché ’na cà che fa pagura, parò ta sérat un brau bagai, cum82
pagn dal tò nonu. Sa ragordi ca l’era un dasferlu, quant che da piscinìn ’l vigniva a rubam i nùs e mé ga curivi adree col bastun! – Stava ovviamente vaneggiando: mio nonno era morto a novant’anni, lei non poteva certo essere già così vecchia da necessitare del bastone, per redarguirlo delle sue marachelle! − Conosceva anche mio padre? − I a cugnusivi töcc. Che pianc c’ho faa quant ca l’è mòrt… ’scoltum mé, vöri dét un ropp pulitu: va’ menga al trambai − il trambai, il nome localmente attribuito a Crespi!, − STAGA LUNTAA! − urlò, attirando l’attenzione di un’ottuagenaria alla finestra di fronte, e se ne andò spedita. Ero sbalordito: mi aveva appena ingiunto di stare lontano dal villaggio industriale, ma come sapeva del mio incarico? − Non vuol saperne di assistenti sociali. Fa qualche soldo togliendo il malocchio e leggendo le carte – disse la vedetta alla finestra battendosi le tempie, riscuotendomi. Non male come comitato di benvenuto: ci mancava giusto una sibilla. Per qualche masochistica ragione ero andato alla casa di Trezzo, con il cortiletto di ghiaia sormontato dall’altorilievo matronale romano di una divinità fluviale; la trovai più ghiaccia e dimessa di quanto non fosse tre anni prima. Non che allora fosse stata una vera e propria visita, giusto il tempo di sbrigare il distacco delle utenze luce, acqua e gas. E chissà per quanto altro tempo non vi sarei tornato se non fosse stato per Savastano, il quale intendeva spostare la sede delle sue attività manifatturiere a Crespi d’Adda, il villaggio operaio risalente alla seconda metà dell’800 e ormai annoverato nel patrimonio UNESCO. Potrei definirmi un professionista dell’imputazione dati, nella ricerca e nella conservazione di pratiche doganali, valutarie, edilizie o anagrafiche e degli atti in genere. Per questo ero stato spedito qui, a sondare la solidità dell’acquisizione, nelle terre avite; almeno, lo erano vent’anni fa. − Non lo vede il cartello? È proprietà privata! − disse la riccioluta mastina che mi sbarrava l’accesso con il telefono all’orecchio. Dall’espres83
sione facciale la chiamata poteva benissimo essere diretta alla NATO ma la voce dall’altro capo sembrò ricondurla a più miti consigli. Mi trovavo su una stradicciola sterrata sotto al Castello, alla fine della quale avevo un appuntamento con un ex-sacrestano di Vaprio. − È l’incaricato di Savastano? Entri. − Non era la prima volta che quel nome scardinava la tipica, provinciale ritrosia; i preamboli della trattativa dovevano già essere nell’aria e persino gli archivi parrocchiali, di solito fortilizi inespugnabili, mi erano stati aperti. Da qualche giorno mi trovavo sepolto sotto atti notarili e catasti dall’alto-medioevo in giù, lettere e memoriali e volevo vederci meglio su alcuni episodi dai tratti oscuri. L’ex-sacrestano si rivelò del tutto inutile in questo senso ma fu lui ad indirizzarmi alla “…vecchia eretica” che, con grande sorpresa, scoprii la stessa che mi aveva accolto a Trezzo. “…Ariperto II nel cui tempo rampollaron que’mali che furon non molto da poi cagion della translazione del Regno d’Italia da’ Longobardi a’ Franzesi. Diede all’armi e uinseli quanti li contendeuan corona, facendo lor cauar li occhi e mostrando vieppiù indegnità d’animo agendo crudamente soura innocenti i quali fè mutilar e poscia caminare per le publiche istrade in presenza d’ogniuno. Ciò che più d’ogn’altro lo rese inhumano fù la morte inferta all’innocente pupillo che per auer ragione al Regno restò come fior di campo dal crudo aratro reciso, carnificina compianta amaramente da’ popoli i quali, con l’aiuto del Re di Bauiera mosser contro di lui vicino a Pauia donde Ariperto fu poi fugato et apparentemente morto da Asprando, il quale occupò il Regno. E perrocchè il corpo del tiranno non potevansi inumare in terra consecrata, spogliato di tutto fuorchè dell’anello effigiato da serpe a guidrigildo de la sua infamitade, fu tradotto in positura di uno antico loco di cui ignoriamo perfin il nome ma vociferansi adiacente a Trezzo…” Ero riuscito ad isolare, dai documenti di storia locale, diversi episodi che sembravano legare tiranni da un remoto passato al più recente trascorso industriale. Un filo rosso che comprendeva un isolotto in mezzo 84
all’Adda, sommerso agli inizi del ‘900 a causa dei lavori di sbarramento al fiume, e una ragazza che le cronache dell’epoca avevano salutato come suicida. Eppure su questo la vecchia sembrava di tutt’altro avviso. Scoprii che faceva quotidiana visita alla sperduta cappella dei morti di peste di sant’Agostino; la trovai poco fuori dall’abitato ma il colloquio si stava rivelando difficoltoso. − Le posso dare un passaggio, se vuole andare a pregare. − Sé, voo a pregà da scua e barnasc! − disse ridendo, mostrando uno scopettino di saggina. − Mi faccia capire: Bambina si è offerta alla madonna? − La Sciura da l’Aqua la gh’era prima e la ga sarà dopu da la tua madóna. La s’é sg’acada dént per faga vadè che le gent l’è buna ancamò da cascià via al diàl dal trambai – affermò con estrema gravità. Secondo lei quella ragazza si era dunque gettata in sacrificio nell’Adda per spronare una non meglio entità ad intervenire. L’espressione “diabolico capitalismo” non mi era nuova, ma da qui a considerarla in senso letterale ce ne passava; se poi si aggiungevano divinità pagane sullo sfondo… eppure mi scoprii a riflettere se non fosse rischioso andare avanti. Certo tornare indietro significava ammettere la remota possibilità che fosse tutto reale: non potevo permettermi di farlo, lo dovevo alla mia sanità mentale; ricondussi quella morsa sinistra al ricordo dei miei timori infantili, poiché quelle convinzioni sembravano profondamente radicate in quei luoghi e non solo nella mente di quella derelitta. “…avendo ei Borromeo trovato in sua diocesi, presso San Iovanni Evangelista, molti sconvolgimenti ne riprese gravemente il volgo, esibendo la grave onta quando si trascura debita riverenza a’ costumanze sacre. In tal Pieve, costretta a’ ridotto di fuoriusciti per esser situata tra’ confini di due stati, i canonici macchiansi di idolatria in ragion di guarigioni miracolari ottenute al fonte di Concesa e in Calolziocorte. Codeste pratiche pagane erano volte 85
alla domna de l’acque, così appellata in preiuditio della dignità ecclesiastica; empietà vieppiù aggravatansi dall’aver essi gittato la veneranda effigie della Vergine in Adda. Perciò egli tosto fatto abbattere il diruto edificio levò ogne prebenda da Pontirolo. Ed acciò se ne conservasse perpetua memoria istituì una publica processione a’ detti luoghi nel giorno della Visitatione…” − Non siamo autorizzati a farla accedere. Inoltri una richiesta scritta. − Abbia pazienza, prima mi spedisce a Ponte, loro mi rimbalzano qui e ora salta fuori che gli incartamenti non sono accessibili? − dissi, spazientito. − Son di proprietà della Legler Spa. Peraltro, ci chiedevamo l’opportunità di rimestare nel torbido di una storia vecchia e sepolta. − chiosò l’impiegato estroflettendosi sul banco prestiti come un tumido insetto in atto di pungere, lo sguardo di colpo meno appannato. Ne avevo abbastanza. − Questo non la riguarda, mi servono solo gli atti d’indagine del Comandante Minella. − È storia morta e sepolta. E noi non abbiamo l’autorizzazione. Buongiorno. Ero infuriato: da giorni ormai sbattevo contro un muro di gomma; il clima di trepidante accoglienza della settimana precedente era mutato in una montante ostilità. Ogni richiesta veniva respinta, lamentele erano giunte a Savastano ma il culmine si era avuto la sera prima, fuori dal dopolavoro, con un crespese a farmi presente come il mio principale fosse un treno che il villaggio intendeva prendere, affinchè tutto tornasse “… apposto”; iniziavo a capire il ben poco lusinghiero aggettivo di “bùsa” così spesso attribuito a Crespi. La bruma di mezzo Novembre ottundeva il suono del mio calpestio smussando i profili delle ville dirigenziali al punto da farmi sembrare altrove, in un’altra epoca; i tetti spioventi in legno sembravano parapetti di vascelli fluttuanti su un mare iperboreo e gli abeti, nella loro incombenza indefinita, degli erosi scogli dall’infido appiglio. In questa pastosa oblivione avevo la sensazione che la nebbia, sempre qualche passo indietro, incalzasse e guidasse il mio cammino; perce86
zione che divenne consapevolezza quando, sbucato su via Filzi, qualcosa di esterno a tutto ciò che conosco, ma implacabile quanto l’istinto che ci porta ad accogliere aria e a rigettarla via, fece sì che voltassi a sinistra anziché a destra, ritrovandomi su via Garibaldi. Si intravedevano appena, ad un centinaio di metri, i rosoni a stella ottagonale alla sommità dei capannoni ma frapposto in essi si stendeva il prato. In apparenza un prato normalissimo, eppure non lo era. La foschia si attestava ai suoi margini come l’ombra ad un palcoscenico: c’era qualcosa di sbagliato lì, ogni fibra del mio essere me lo stava gridando, il silenzio stesso lo urlava. C’era solo erba, ciuffi del tutto ordinari ma che al tempo stesso sembravano più duri di quelli che potrebbero crescere in un deserto dei Tartari, ritorti quanto le regge di ferro che racchiudevano le abitazioni e le esistenze degli operai del villaggio. Un vento mulinava l’erba dal centro della distesa e la soffiava nella mia direzione, lasciando i ciuffi del tutto inerti oltre quello stretto corridoio. − Cosa cazzo… Un naso adunco iniziò a delinearsi all’altezza di quello che poteva dirsi un volto umano, eppure più fasullo di quel prato, un volto che mi fissava con occhi di buio, occhi che sapevano. Di me, da dove venissi e cosa ci facessi lì. Contro ogni logica e sentire mi stavo avviando verso quella… cosa… quando un suono fece breccia nella caligine: un rumore di acqua e gera che scorrono tra le corne, veicolando con sé l’odore della mia infanzia: quello torrido delle biciclettate sull’argine; quello smaccato delle robinie in fiore; quello fragrante del forno su in Valverde. Un flusso di coscienza che impedì alla mia individualità di andare in frantumi e che mi portò a fuggire da lì, risalendo a gambe levate la corrente del fiume e con essa i volti, i suoni e i colori della mia infanzia fino a ritrovarmi alla casa di Trezzo, sotto l’augusto sguardo della Signora delle Acque, dai capelli fluenti e ondulati quanto i gorghi dell’Adda. “Nel giorno della Visitatione una brigata di trezzesi rencasando da Cerro su di uno sdruscito navicchio fecevi improvvido trattenimento su di Salugia, 87
isola d’Adda la qual lunghezza è stimata in pertiche quaranta e quattro a pascolo de’ Conti Cavenago, alienata dalle fandonie del volgo che volevansi l’isola luogo diabolico. Presso noi ancor in vigore cosiffatta mal intesa, originata io penso che l’isola, attorneggiata da que’ ridottevoli massi aguti che gli fan delittuoso steccato, fè già nocumento a molti e ancor trasse disgrazia dè tutti e diciassette pellegrini fuorchè Giuseppe Bonomi, per la qual incolumitate ei affermò meritorio soccorso de’ la sovrana de le acque. Sibbene stimato quale homo franco andò affermando ch’essi giunser affatto incolumi alla Salugia allorquando pervenne da’ salici latebra assai più negra di quel del vespro che calando grifagn sovra quanti detter di piglio à la barca ratta li fece a brani e di poi attestarsi qual contro sua brama a pel dell’acqua, onde il Bonomi salvossi a nuoto. Di egual meschino valore debbesi pur riputare lo scoprimento giorni appresso de’ corpi di alcuni sventurati recavansi segni come di morsi ma troppo equivoci per decider di un fatto già esplicabile per istesso…” Ho consegnato tutto a Savastano, con la lucidità che son riuscito a simulare: credo di essere comunque passato per uno squilibrato, perché si è preso la briga di invitarmi a prendermi una vacanza. La bella notizia è che pare che il Comune abbia sparato troppo alto con gli oneri di urbanizzazione: credo che sarà questo, più delle mie disamine, a rappresentare l’ago della bilancia in una vicenda che oltre a me ha, come unica testimone, la Sibilla dell’Adda, ultima superstite di tempi remoti. Spero davvero che il ginepraio di vincoli di salvaguardia e destinazione d’uso da sito UNESCO possa scongiurare altre cordate imprenditoriali. L’avidità industriale aveva scoperchiato un grande male che il sacrificio di una ragazza aveva arrestato solo in parte ma so che una qualche entità benevola con voce d’acqua mi stava spronando a fuggire da quel prato ferrigno. Non oso pensare a cosa sarebbe successo se avessi semplicemente ignorato quello sciabordio; ma forse non avrei nemmeno potuto, poiché quel lento e inesorabile fluire è come voce di madre.
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“GRAZIE ALLA MEDIAZIONE DELLA REGIONE È FINALMENTE INTESA SUL PROGETTO CHE RILANCERÀ IL COMPLESSO INDUSTRIALE. IL GRUPPO TARANTASSI AVEVA ACQUISTATO NEL 2015 CRESPI D’ADDA CON LA VOLONTÀ DI RENDERLA SEDE DELLA PROPRIA HOLDING. L’UFFICIALITÀ NELLA MATTINATA DI VENERDI 13 OTTOBRE…” Le decorazioni floreali in ferro battuto, opera di Mazzucotelli, riaprono dopo lunghi anni sotto la spinta di un elegante, allampanato personaggio; il sorriso giulivo dell’assessorato tutto è abbagliante, ma non quanto la vera d’oro, a motivo serpentiforme, che spicca dalla mano posata sulla cancellata di Crespi. È un nuovo inizio.
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Pensa Natale Andrea Migliorini
Il volto della solitudine deve essere diverso dal volto della morte: una morte non può essere dolce mentre la solitudine… sì, pensa Natale, chiudendo la serratura dell’appartamento, perché è simile a un recinto, diventa un problema se si perde la chiave per uscire. Ma Natale esce, è una domenica autunnale di medio Novembre, di ore grigie e di pochi colori, la nebbia comincia a calare con leggera pressione e le nuvole si confondono nel cielo. Come ogni domenica da ormai dieci anni, alle nove in punto, Natale Mandelli va al cimitero per portare due fiori sulla tomba di sua moglie, l’amatissima Maria Beatrice Corti. Si dirige verso il fiorista all’angolo, che ormai lo conosce e prevede la richiesta, un garofano rosso e una rosa bianca, li ha già preparati e incartati a nome Mandelli. Natale paga, prende il mazzo, comincia a camminare e annusa i fiori soddisfatto, convinto che a Maria sarebbero piaciuti più del solito. La strada da casa al cimitero è breve, e Natale può anche non sforzarsi per ritrovare il percorso, nonostante i primi acciacchi della memoria. In pochi minuti è già al parcheggio, e avrebbe proprio voglia che Maria fosse lì con lui, a posare i fiori sulla loro stessa tomba. Entra dal cortile secondario, dietro il viale di cipressi, dove i visitatori abbandonano l’auto. È il luogo più tranquillo e meno affollato della zona 91
e a Natale piace il silenzio che lo domina, più duro, meno rarefatto. Percorre il viale di ghiaia con i fiori in mano, cammina lento e pensa, Natale, che i cimiteri si assomigliano tra loro. Si chiede se sia dovuto alla struttura, ai mattoni a vista, al terreno, alle candele, alle fotografie sbiadite, o se sia soltanto l’omogenea forma del dolore umano. Si ferma, tra i pensieri e i passi, dove iniziano le lapidi della famiglia Mandelli, dove anche la moglie aveva scelto di riposare: Giuseppe, Carolina, Elisabetta, Germana, lo zio Emilio e la zia Artemisia, e di seguito qualche altro nome che non era mai riuscito a collocare sull’albero genealogico. Arriva nel luogo in cui, su due lastre, sta iscritto il nome dell’amatissima Maria Beatrice Corti, nata il 3 di Novembre dell’anno 1928, morta nell’anno 1984. Dalla parte sinistra vi è uno spazio uguale, vuoto, dove qualcuno leggerà il suo nome: Natale Mandelli, nato il 9 Giugno 1927, morto … chissà … pensa Natale, forse fra poco. Eppure non vede, dopo la tomba di Emilio e Artemisia, quella di sua moglie. Si accorge di un buco ed emergono segni di graffi, si avvicina e nota il nome, a metà fra la cancellatura e la raschiatura: non si legge nemmeno la M di Maria. Non vi sono coperchi, vasi, bare, non vi sono segni di pesi trascinati. Natale è attonito e spaventato, non capisce, si chiede cosa possa essere successo di tanto strano durante la notte: si domanda se abbia commesso qualche errore nel tragitto, se siano passati dei teppisti a rovinare il sito, se sia scappato un cane o se forse … ma intorno, le persone e le cose sono normali, serene. Allora ripercorre la strada più volte, dall’entrata alla tomba di Germana, passando per quella di Giuseppe, poi per quella di Carolina e quella di Elisabetta. Nulla, pensa Natale, non c’è spiegazione, il percorso è quello di ogni domenica mattina; la tomba, invece, non c’è. Tuttavia, dopo essersi seduto sulla ghiaia, nota che i petali dei fiori della scorsa settimana, appassiti e stanchi, formano un disegno per terra, fa spazio intorno con le mani, graffia e gratta con forza, cerca di fretta gli occhiali nella tasca, nella foga sta per farli cadere, gli rimbalzano tra le mani tremanti ma riesce a impugnarli, li indossa e legge, con gli occhi avidi e ancora impazienti: cercami. Senza bisogno di ulteriori domande si alza in piedi: cercami, pensa Natale. 92
Esce dal cancello e cammina a passi lenti fino alla chiesa. Se un’anima desiderasse di fuggire, il primo luogo dove si rifugerebbe potrebbe essere una chiesa, pensa Natale, e pensa in particolare all’anima di una buona cristiana com’era quella di sua moglie. Lui avrebbe preferito vagare per le strade di Trezzo e fingersi fantasma nella torre del castello, ma Maria no, non lo avrebbe mai fatto. Convinto della validità dell’ipotesi, va in cerca dell’entrata principale, ma la trova chiusa e non riesce ad aprire la porta, sebbene tenti di forzare la maniglia con entrambe le mani. Gira attorno all’edificio, ma anche gli altri cancelli non danno segno di apertura. Buffo, pensa Natale, l’unico giorno in cui ci sarebbe voluto entrare, in una chiesa, di sua spontanea volontà, senza nessuno a urlargli addosso, proprio non ci riesce. Si interroga sul luogo dove sia giusto dirigersi e sorride, dimenticando. Dove le gambe lo portano va, come ogni Domenica quando si dirige verso il cimitero, senza pensarci e senza difficoltà. L’eccitazione e la voglia di riabbracciare Maria crescono, ma, come si fa, pensa Natale, ad abbracciare un’anima con il corpo? Cammina senza una meta fino a Piazza Libertà, dove si ferma come un bambino davanti a un quadro pieno di colori. Il bar dove andavano sempre insieme a fare colazione: ecco dove si sarebbe potuta rifugiare, pensa Natale. Entra felice, contento, esultante, convintissimo, sbatte la porta con vigore inaudito, cerca con gli occhi il volto dell’amata tra i tavoli e le sedie, sta per urlare “Maria, Maria!”. Ma rimane in silenzio. Trova solo lo sguardo smarrito della cameriera nuova, che non l’ha mai visto prima. L’uomo anziano con due fiori in mano deve sembrarle soltanto uno di quei vecchi che ogni tanto cercano di non pagare e si fingono smemorati, recitando. Passata l’euforia e capito che l’anima di Maria non si trova nel locale, Natale si siede comunque, per raccogliere il fiato, ormai corto. Chiama la cameriera e ordina un caffè. − Vuole dello zucchero? − La domanda della donna lo paralizza, Natale non risponde e comincia a fissare il cucchiaino. “Zucchero” pensa Natale, da quanto non metteva lo zucchero nel caffè? “Zucchero”. Da 93
ragazzo odiava il caffè amaro, ma ora è l’unico che riesce a bere. “Zucchero”, pensa Natale: era stata Maria, già, Maria. In una delle prime uscite si erano rifugiati in un bar, ricorda, non quello dove si trova ora, no, era in via Castello, o forse in via Bergamo, anzi, ricorda bene, benissimo: era in Via Dante, ed era un giorno che fuori pioveva a dirotto e loro non avevano un ombrello, perché quello verde che aveva comprato poco prima si era già rotto, quindi erano entrati in un locale e Maria aveva ordinato un caffè senza mettervi lo zucchero e aveva consigliato a Natale di non zuccherare il proprio. Da quel giorno Natale non lo aveva più fatto, senza sapere se gli piacesse davvero il caffè amaro, o soltanto il pensiero della simmetria d’amore. Ricorda che dopo, come lei, aveva ordinato anche un bicchiere di acqua frizzante, proprio lui che beveva solo acqua naturale e aveva convinto suo padre, sua madre e sua sorella che l’acqua frizzante non andava bevuta mai, a tavola, perché non favoriva la digestione e faceva venire i calcoli… ma nemmeno lui ci credeva alle storie che aveva sentito dire. Credeva soltanto a Maria, credo soltanto a Maria, pensa Natale, scostando gli occhi dal riflesso nel cucchiaino. − No − risponde − no, grazie. − Desidera altro? − Un bicchiere di acqua frizzante, per cortesia. Esce dal locale di fretta e ricomincia a camminare. Ha perso anche troppo tempo secondo i suoi calcoli, l’anima della moglie potrebbe essersi già rarefatta nell’aria, oppure potrebbe essere diventata una nuvola, o una foglia, o un fiore, o una fetta di torta, ma basta, pensa Natale, basta impazzire su queste leggere fantasie. Mentre beveva il suo bicchiere d’acqua frizzante si era detto che l’anima della moglie poteva essersi nascosta in Via Marocco, magari sotto il bassorilievo romano della “donnona”, come la chiamavano loro da ragazzi, dove si erano scambiati il loro primo bacio. È talmente convinto dell’idea che corre senza soste fino al civico 22. Non vi era mai tornato. La parete è la stessa dove si era appoggiato, tanti anni prima, aspettando che lei lo baciasse. All’epoca era un ragazzo 94
troppo timido per fare il primo passo, ma era anche troppo voglioso di sapere se lei gli avrebbe concesso un amore, e rimaneva a metà fra il tentativo e il pudore, indeciso e deciso. Ricorda che dopo il bacio gli venne da piangere, lui che non piangeva mai. Ricorda che fu costretto a inventare una scusa e a dire che sua madre aveva bisogno di lui per… per… tagliare le code dei broccoli. “Le code dei broccoli?” si era ripetuto mentre se ne andava “Davvero?” si ripete ancora e sorride: che stupido, pensa Natale, che ero. Ricorda di essere andato dal Mallo, subito dopo, e di aver pianto davanti a lui senza spiegargli perché, tanto che l’altro s’era preoccupato e credeva fosse successo qualcosa di grave, voleva portarlo all’ospedale. Natale non aveva più pianto dopo il primo incontro con l’amore, neanche il giorno della morte di Maria, e lo realizza soltanto ora: perché non aveva pianto al funerale di Maria? Solo chi piange è vivo… pensa Natale, o era forse chi non piangeva? Vede una fronda muoversi, poco più avanti. I sensi travalicano i pensieri. Crede sia un segno, una voce, una svolta, la svolta che sta aspettando. Si avvicina e comincia ad urlare: “Maria, Maria!” “Maria! Maria!”. Nel silenzio, si accorge che era solo una folata di vento dal basso fiume. “Maria…” ripete a se stesso sconsolato, “Maria” ripete fissando la parete arancione del civico 22 di via Marocco. “Maria…” pensa Natale. Pensa Natale che non la troverà mai, Maria, che forse le anime non si possono né vedere né toccare, tantomeno abbracciare. Pensa Natale che la vita è un circuito chiuso. Si sente sconfitto, arreso, ma non vuole ancora tornare, convinto che lo travolgerebbe un’onda troppo alta di nostalgia. Decide di camminare, sebbene ormai, pensa Natale, non ci sia più nulla da fare. Percorre tutta via Marocco e poi passa per Valverde, davanti al panettiere Pino e all’Hotel Trezzo. Va a passi malinconici, giunge al crocicchio dove due poltrone abbandonate non sono ancora state rimosse, vede un uomo che parla da solo e continua a camminare. Prosegue fino al Castello e davanti alla torre si ferma, il peso degli anni si fa sentire nelle ossa, nei polmoni, nella velocità del cuore, nei pensieri sempre più secchi. 95
Una panchina in legno nei giardini, la stessa di quand’era bambino, accoglie la sua spossata speranza. Davanti a lui il silenzio e la torre, unica sopravvissuta allo scorrere dei giorni, gli rammentano il bisogno del senno nella vita del mondo: il sonno della ragione genera… cos’è che generava? Pensa Natale che la memoria è un’amica beffarda, che la solitudine ha un volto beffardo. E se si fosse immaginato tutto, se Maria non fosse mai scappata dalla tomba? Forse era stato un brivido di pazzia a portarlo lì, a fargli correre tutta Trezzo come un ragazzino innamorato per la prima volta. Era stata solo un’illusione, ma lasciarsi trascinare gli era piaciuto, tanto, anzi moltissimo: cosa importa che siano illusioni, pensa Natale, se sono la felicità? Ormai non ci crede neanche lui, si arrende come il castello, quando fu smantellato perché i mattoni servivano a formare edifici nella nuova metropoli di Milano. Pensa Natale che anche a lui è rimasta solo una torre: tutto ciò che il tempo gli ha lasciato è il ricordo di Maria. E pensa che qualcosa rimane, nonostante l’invidia del tempo. Ammira l’albero che cresce sulla torre, come nello stemma della divisa che usava da bambino quando giocava a pallone, vede il padre fiero di lui, la madre che lo attende a casa per pulirlo dal fango. Quante persone, pensa Natale, abitano nel ricordo di Maria. Gli occhi ritornano alle fondamenta di mattoni: anche le città hanno le loro lapidi e memorie, pensa Natale. Si alza dalla panchina e decide di andare al fiume, prima di tornare indietro. Imbocca la strada curva e lenta che dal castello porta alla centrale idroelettrica, proprio davanti alle labbra del fiume. Vi aveva lavorato per trent’anni, da operaio, mentre ancora studiava, poi da capo reparto, fino ad arrivare, con gli anni, negli uffici alti. E per trent’anni, tornato a casa, era stato contento di ritrovare il calore di sua moglie, anche lei stanca dopo il lavoro, ma desiderosa di essere amata e di amare. Giunge davanti al lavatoio, ormai inutilizzato da anni: la nebbia occupa gli spazi vuoti e a Natale sembra che non vi sia nessuno nei dintorni. Si avvicina al fiume, fino a toccarlo coi piedi. Nonostante la foschia, a destra s’intravedono le colonne della centrale e si confondono meglio con le rocce alla sinistra. 96
Ogni particolare sembra avere una collocazione simmetrica e perfetta. La prua di qualche barca buca la monotonia delle ore grigie e di pochi colori. Natale avverte l’acqua sfiorargli la punta dei piedi, bagnargli le scarpe. Fa un passo indietro, a evitare le piccole onde generate dalla corrente. Alza lo sguardo e nella nebbia vede una donna che danza sull’acqua. È mia moglie, pensa Natale, è Maria Beatrice Corti che danza sull’acqua. La vede e sente lacrime scorrere lungo le guance, impigliarsi fra le rughe e le ciglia. Il tempo scivola verso il basso, come una palpebra assonnata. Natale Mandelli lascia cadere i due fiori che ancora porta con sè, si spoglia, inspira riempiendo i polmoni, trattiene l’aria, chiude gli occhi e sprofonda con naturale grazia nelle acque del fiume. I canottieri mattutini trovarono i suoi vestiti a riva, i fiori già appassiti sopra i panni. Del suo corpo nessuno seppe più nulla. Il volto della morte è diverso dal volto della solitudine: non pensava, Natale, che potesse essere tanto simile al volto dell’amore.
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ReenARTment Wu Ming 2
L’assessore alla cultura lesse la lettera sul cellulare, mentre scendeva le scale a chiocciola della passerella in ferro, che collegava il centro di Vaprio con l’alzaia del naviglio. Il mittente era la Fondazione Blissett e l’oggetto, una proposta di installazione temporanea, che il grande artista britannico di origine serba Darko Maver si proponeva di realizzare sulle rive dell’Adda. Maver? Il nome non mi è nuovo. Ma non era un musicista? Vabbe’, dopo controllo su Wikipedia. Vediamo che dice. Il progetto consisteva nella “ricostruzione effimera” di una delle quattro vedute di Vaprio e Canonica – il borgo dirimpetto, sulla riva bergamasca – dipinte dal Bellotto nel 1744. Per la precisione, quella rivolta a sud, con la luce del primo pomeriggio. L’artista intendeva rivestire con appositi camuffamenti in materiale riciclabile ognuna delle opere intervenute nel frattempo a modificare il paesaggio, prima fra tutte il ponte sull’Adda; avrebbe poi ricostruito o restaurato in maniera provvisoria tutti gli elementi ormai scomparsi, per poi animare la scena con le stesse figure umane ritratte sulla tela, utilizzando allo scopo gli abitanti del luogo, truccati e vestiti per l’occasione. L’assessore alzò gli occhi dallo schermo, quasi volesse chiedere al fiume che ne pensava. Sai che m’intriga? Una specie di presepe vivente, 99
però più raffinato, non come certe sceneggiate da terroni. Una grande sfida architettonica, di quelle che tutti si domandano come diavolo sta in piedi. E in effetti, chissà come pensa di camuffarlo, il ponte. Cosa fai, lo avvolgi col mantello dell’invisibilità? Altro che i monumenti impacchettati da Christo o le passerelle di plastica sul Lago d’Iseo. Con una roba del genere li surclassiamo. Bresciani ignoranti, montanari. Com’è che si chiamava? Digitò sulla tastiera virtuale “Iseo Christo installazione”. Ah sì, The floating piers. L’evento artistico più visitato del 2016. Sticazzi. Digitò “Darko Maver” e atterrò sulla pagina dedicata all’artista dall’enciclopedia libera in italiano. La voce era presente anche in altre sedici lingue. Pure in esperanto! Seguì i collegamenti proposti a varie riviste di settore, con recensioni entusiaste delle sue opere più famose, definite “re-enARTments”: dalla battaglia di Lepanto – minchia, roba grossa! – alla prima esecuzione del concerto brandeburghese n° 5 di J.S.Bach, dalla decapitazione di Luigi XVI al “Bacio all’Hotel de Ville” di Robert Doisneau, – ma non era di Cartier-Bresson? – da Hiroshima prima e dopo l’atomica, entrambe ricostruite nella steppa siberiana, al salotto di cinquecento famiglie francesi mentre guardano in televisione lo sbarco sulla Luna. Figo! Sincronicità junghiana, come in quel disco dei Police. Questo tipo mi piace. Due righe in particolare ravvivarono la sua espressione, mentre percorreva l’alzaia, attento a non finire sotto le auto che sfrecciavano in doppio senso. “Le installazioni di Maver vengono sempre finanziate grazie all’esposizione e alla vendita dei disegni preparatori, dei modellini in scala e dei materiali promozionali, realizzati dall’artista stesso.” Cioè, mi vuoi dire che sarebbe a costo zero? Un marketing territoriale della Madonna senza sborsare un euro? Qua bisogna approfondire. Arrivato a casa, trangugiato un cuscus monoporzione da scongelare in microonde, l’assessore spostò il piatto sporco e apparecchiò al suo posto il computer portatile, per rispondere con calma alla Fondazione Blissett, chiedendo ulteriori ragguagli. Meno male che mi hanno scritto in ita100
liano, altrimenti mi toccava tradurmi con Google e poi passare mezza giornata a controllare una per una tutte le parole. Schiacciò invia, chiuse l’applicazione per la posta e andò a leggere cosa scrivevano i giornali on–line sulla partita più attesa, in quelle terre di confine: Atalanta-Milan. La risposta della Fondazione Blissett arrivò il mattino seguente, mentre l’assessore guidava la sua monovolume, proprio a metà strada tra Vaprio e Canonica, sul ponte che le unisce da più di sessant’anni. Ligio al codice della strada, il conducente gettò una rapida occhiata allo schermo del telefono, prima di lanciarlo sul sedile del passeggero e accostare l’auto, nel piccolo parcheggio tra la Martesana e l’Adda, sulla sponda milanese. Saltò i convenevoli, scorse rapido i riepiloghi e si concentrò sull’allegato in PDF con le caratteristiche tecniche del progetto. Un malloppo di centottanta pagine, dove ogni singolo intervento sul paesaggio veniva approfondito e sviscerato nei particolari. C’erano decine di immagini e disegni tecnici, nonché una foto in altissima definizione, scattata con un’inquadratura pressoché identitica alla tela di Bellotto, dove tutte le “trasformAzioni artistiche” venivano indicate e localizzate. Per concludere, gli immancabili rendering anticipavano l’aspetto finale dell’opera, con l’inquietante perfezione della grafica digitale. L’assessore uscì dall’abitacolo e si accese una sigaretta. Giornata radiosa, tipo quella ritratta dal famoso pittore. Il punto esatto non dev’essere lontano. Potrei anche cercarlo. La veduta sembra dipinta da una posizione più elevata rispetto al fiume. Più o meno dal curvone della statale o da Villa Castelbarco. O magari non è nemmeno un luogo fisico, come nelle mappe a volo d’uccello. Hai voglia cercare il punto esatto, finisce che ti ritrovi in groppa a un piccione. Però insomma, il luogo fisico bisogna che lo troviamo, altrimenti i visitatori, dove li piazzo? D’accordo, qua dice che tra il quadro e la realtà c’erano di sicuro delle discrepanze, e che l’obiettivo di Maver non è dare vita al dipinto, ma simulare quel che Bellotto 101
aveva di fronte a sé. Lo spirito del luogo di quel particolare pomeriggio di duecento e passa anni fa. Mica scemo. Così non gli tocca rifare tutto preciso preciso. Può sempre dire che quella certa casa non era davvero bianca, è il pittore che l’ha rappresentata in quel modo, perché gli piaceva di più. Meglio così, meno problemi. Non è che si possono ridipingere tutte le facciate di due paesi! Anche se puoi star sicuro che gli storici locali e i topi d’archivio saranno subito pronti a tirar fuori il documento X del faldone Z, per dire che ci sono le prove, e che la casa pi greco era davvero bianca. Massì, ben vengano le polemiche. Ben vengano Sgarbi, Daverio e gli ambientalisti. Figurati se quelli non avranno da ridire. Tutta pubblicità. Che poi, questi della Fondazione sembrano gente coi controcazzi. Guarda qua che accuratezza, c’è pure il numero esatto di bulloni che verranno utilizzati, i metri di cavo d’acciaio e lo schema completo per il riciclaggio dei materiali, compresa la carta stagnola per impacchettare i panini delle maestranze. Seee, altro che raccolta differenziata. Vabbe’, invece di star qua a cercare il punto esatto, tanto vale che volo dal sindaco a parlargli di tutto l’ambaradan, altrimenti, coi tempi che c’ha quello per decidere anche solo che cravatta mettersi, va a finire che il merito della grande istallazione se lo prende l’assessore Solcazzo nel 2068. Con tutto che poi ci toccherà convincere l’amministrazione di Canonica. Te li raccomando. Bergamaschi ignoranti coi laterizi nel cervello. Coraggio. Quella sarà la vera impresa. Una pellicola sottile avvolgeva la capriata del ponte di Canonica, come un avanzo di torta nel cellophane. Il rivestimento era in un metamateriale studiato apposta dall’Università di Tokyo, capace di riprodurre filmati in 3D. Lo schermo malleabile era collegato a una telecamera che riprendeva il paesaggio dietro il ponte, dov’era stato ricreato il traghetto a fune protagonista del quadro di Bellotto. – Strabiliante! – esclamò il sindaco, con in faccia un’espressione da pupo – Sembra davvero che non ci sia più. L’assessore si rivolse a Maver nel suo inglese zoppicante e gli domandò 102
se i lavori fossero allineati al cronoprogramma. – Per la scadenza prevista sarà tutto finito. – rispose l’artista con tono seccato. È inutile che te la tiri, bello. Andare lunghi sarebbe un casino. Va bene che sei riuscito a non bloccare il traffico sul ponte, ma i disagi si sentono lo stesso, altro che. Tre mesi di cantiere, più due settimane di apertura al pubblico. Fosse una nuova autostrada, una roba che resta, la gente sarebbe più tranquilla, ma un’installazione temporanea è dura da far digerire. Gli dici che arriveranno frotte di turisti, ma per il cittadino è solo un’altra rottura di coglioni. I soldi dell’incasso e il ritorno d’immagine sono vantaggi che non li puoi toccare subito. Giusto un po’ d’orgoglio nel vedere il nome del paese su tutti i giornali, una rassegna stampa che finora ce l’eravamo guadagnata solo con la cronaca nera. Per non parlare del New Yorker e delle riviste specializzate di tutto il mondo. Peccato solo dover dividere la gloria con quelli di Canonica. Atalantini maledetti. Maver bofonchiò qualcosa a proposito di un impegno urgente e invitò i due amministratori a raggiungere la tensostruttura dove i suoi collaboratori avevano iniziato i provini, per scegliere le comparse che avrebbero preso parte alla rappresentazione. – Toglimi una curiosità – chiese il sindaco mentre s’incamminava a fianco dell’assessore. – Ma questa cosa dei figuranti, come funziona di preciso? Devono essere disponibili per tutto il tempo? Che orari d’apertura abbiamo deciso, alla fine? – Due settimane, dalle 9 alle 19. – E come fanno, scusa? Non era meglio metterci delle statue? L’assessore strabuzzò gli occhi, come terrorizzato da uno spettro. – Non dirlo neanche per scherzo. – sussurrò – Ho letto che a Cracovia, non so per quale opera, il committente gli ha fatto una proposta del genere, per sveltire i lavori, e quello ha preso su, baracca e burattini, e ha mollato tutto. Dice che l’essenza della sua arte sta nel ridare vita a istanti del passato e per questo le persone, in carne ed ossa, sono fondamentali. – Se lo dice lui – commentò il sindaco – Comunque ségnatela, ‘sta sto103
ria della disponibilità, non vorrei venissero fuori delle magagne, caso mai non fosse chiaro che i selezionati devono star lì dieci ore per quattordici giorni. E altrimenti, dei turni? Non si potrebbero fare dei turni? In piedi su una roccia a pelo d’acqua, la lavandaia si chinò sul fiume per immergere un panno bianco. – Stop! – gridò una voce da megafono, appena l’orlo della stoffa sfiorò la superficie. – Ferma, per favore – aggiunse un’altra voce, più vicina e gentile. La donna si bloccò, in una posizione che non sembrava affatto comoda per la sua schiena. Maver impugnò la ricetrasmittente che portava al collo e ordinò che gli uomini vestiti di blu, nel gruppo del traghetto, si spostassero di un metro verso sinistra. Sullo schermo del tablet, suddiviso in sei diverse inquadrature, scelse quella relativa al traghetto e verificò che la sua richiesta venisse soddisfatta. Quindi cambiò canale sullo walkie–talkie è ordinò alla donna con l’abito rosso e la gonna a campana di non tenere il braccio destro sul fianco. La comparsa eseguì, ma il grande artista scrollò la testa deluso. – Qualcosa non va? – domandò l’assessore, prima di un ultimo tiro di sigaretta. Il mozzicone prese il volo e atterrò sulla ghiaia. – Anzitutto quello – rispose l’artista indicandolo e il fumatore si vide costretto a raccattarlo. Se continua così, tocca rimandare l’inaugurazione. Una figura di merda colossale. Sono tre giorni che tortura i figuranti. Tutto il resto è in ordine, nulla da eccepire. I comignoli di cartapesta, l’arco sul naviglio, il fondale col bosco e l’Appennino all’orizzonte. Perfino la cupola sul campanile di Canonica. Si è inventato un sistema di specchi semitrasparenti ed è riuscito a trasformarla in un tetto, tale quale a quello che si vede nella tela. Idem l’orologio, sostituito da una bifora. Un vero mago. Però con le comparse, troppe pretese. Non gli basta che tengano la posizione, che rimangano fermi come baccalà. A quelli che non sono ritratti in volto, ha assegnato delle battute in dialetto, ispirate alle Rimm 104
milanes de Meneghin Balestrieri. Per entrare nella parte ed evocare meglio lo spirito dell’opera. A quelli che non possono muovere le labbra, ha chiesto di pensare alcune frasi in hochdeutsch austriaco del Settecento. E passa le ore a controllarli, a girare da uno all’altro, a ripetere che non sente lo spirito della tela, l’attimo del Bellotto, come lo chiama lui, e questo significa che qualcuno non si sta impegnando abbastanza, distratto magari da un rumore che non c’entra o dall’assillo di una telefonata urgente. Quasi a illustrare quel pensiero, Maver prese ad aggirarsi lungo la riva del fiume, raggiunse la lavandaia e restò a fissarla per un quarto d’ora, come un tempista che verifichi i ritmi di lavoro di un operaio. Quindi si spostò davanti ai due uomini sulla barca a remi, e dopo una lunga osservazione saltò a bordo e scolpì i loro corpi nella giusta postura. A un tratto, preso da una fregola improvvisa, si lanciò di corsa sull’alzaia camuffata e trafelato ritornò alla sua postazione. Una scrivania di metallo ingombra di schermi, cavi e disegni, piantata sotto una veranda di plexiglass e legno, di fianco al traliccio alto quindici metri sul quale era montata la piattaforma video-fotografica da cui si godeva l’inquadratura X. Quella originale, by Bernardo Bellotto. L’artista chiese silenzio. Fissò il monitor davanti a sé. Annusò l’aria. Afferrò un binocolo e perlustrò la scena. Destra, sinistra; sinistra, destra. Più volte. Con i movimenti circospetti di chi non vuole svegliare una sentinella addormentata, raggiunse la base del traliccio e si arrampicò fino alla piattaforma. L’assessore lo vide armeggiare con il treppiede della fotocamera, poi con la macchina. E adesso che fa? Scende di nuovo? E perché mi guarda con quel sorriso da frocio? Vuole mostrarmi qualcosa. La macchina fotografica, ochei, ha fatto qualche scatto. Vediamo. – Perfetto – disse l’artista, mettendo il monitor dell’apparecchio sotto il naso dell’assessore. Perfetto? Vuol dire che ci siamo? Con tre giorni d’anticipo? Non sarò certo io a dirti che non va bene. Cazzo, sì, la foto è davvero identica al quadro. C’è perfino la stessa luce, le stesse ombre. Magnifico. Bravo Maver. E comunque, se anche ci fosse qualche differenza, qualche stron105
zo che non tiene la mano nel punto giusto, chissenefrega, è l’evento che conta, non il contenuto. Come quei concerti che tutti ci vanno perché ci devono andare, ma poi della musica gl’importa una sega, stanno al bar a chiacchierare, fuori a fumare e dentro a girare video da postare su Istagram. Dopo l’inaugurazione avremo due settimane di pienone, decine di migliaia di turisti e giornalisti, chi vuoi che stia lì a guardare se la tipa vestita di rosso ha le mutande del colore giusto. Maver estrasse dalla fotocamera la scheda di memoria e la innestò nell’apposita fessura sul bordo dello schermo più grande che aveva a disposizione. Ammirò l’immagine con occhi rapiti. Studiò i dettagli. Ingrandì al massimo ogni centimetro quadrato. – Ringraziate tutti, possono andare – ordinò alla fine nella ricetrasmittente. Quindi strinse la mano all’assessore e si congedò, vinto da un’enorme stanchezza. L’indomani, il telefono dell’assessore cinguettò di buon mattino. Poco buono e troppo mattino. Prima delle otto, solo rotture di coglioni. E infatti. Un messaggio di Rinaldi, il giornalista. Che ne penso delle dichiarazioni di Maver. Quali dichiarazioni? Vediamo il link. Dai, su, apriti. Ecco, il sito della fondazione Blissett. La foto che Maver ha scattato ieri. Titolo: “Great success for the last Darko Maver’s reenARTment in Vaprio d’Adda, near Milan.” Tre mesi di lavoro, materiali prodotti apposta per l’opera, le solite robe. No, aspetta. Qua dice che non appena ha catturato in fotografia l’attimo del Bellotto, l’artista ha ordinato l’immediata rimozione dell’opera, come sempre accade per i suoi lavori. “«Il reenARTment è la ripetizione di un istante irripetibile», ha dichiarato al momento di lasciare l’Italia.”. Lasciare l’Italia? Come “Lasciare l’Italia”? Ma che cazzo dice? 106
“Quando si raggiunge la perfezione dell’istante, non ha senso tentare di preservarla, con il risultato di mostrare al pubblico qualcosa di meno esatto. Sarebbe una truffa.” L’assessore si precipitò alla finestra, ancora chiusa dagli scuri di legno. La spalancò e si sporse fuori, per avvistare il ponte di Canonica. La foschia del mattino non gli permise di distinguere granché. Lo schermo ultrapiatto in metamateriale, una volta spento, era difficile da riconoscere a distanza. Ma in effetti… “La vera opera d’arte sono i preparativi, l’aspettativa che si crea e infine la fotografia che immortala l’attimo sublime. Tutto il resto è banale, come dopo il coito. Meglio separarsi senza un saluto.” Volò in camera e si infilò i primi vestiti che trovò sulla sedia. Di corsa, giù per le scale, le chiavi dell’auto già in mano. Driiin. Chi cazzo… Il sindaco, va bene. – Pronto? – Giorgio, ma che succede? – domandò la voce con il solito tono da nobile decaduto – Perché hanno sgomberato tutto? C’è qualche problema? La verità, che altro? : – Non lo so. L’ho imparato anch’io stamattina. Sul sito della fondazione dice che l’opera è riuscita, che i disegni preparatori e i prototipi sono già in vendita e presto allestiranno una mostra a New York. – A New York? Ma sei scemo? Abbiamo centocinquanta giornalisti accreditati per l’inaugurazione e gli ingressi prenotati e pagati per due settimane. Mica possiamo dirgli che l’opera è riuscitissima, ma potranno vederla solo in foto. – Qualcosa ci inventiamo, tranquillo. L’opera in assenza. L’attimo ricostruito per sottrazione. La sfida di cogliere le tracce psicogeografiche lasciate dalla pittura di Bellotto e dal reenARTment di Maver. È l’evento che conta, non il contenuto. – Bracci, ma che cazzo dici? Sei scemo? Quelli ci scuoiano vivi. Ci 107
rimetto la carriera. Capito, Bracci? Oh, Bracci, mi senti? Mi senti, Bracci? L’ultimo punto interrogativo uscì dal telefono e rimase appeso all’orecchio dell’assessore, mentre chiudeva la comunicazione e ingranava la prima. Come sempre ligio al codice della strada.
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Zone a Traffico Culturale
Andrea Biffi Project manager Walter Carrera Visual designer Sara Vavassori Direzione generale Marianna Caprotti Produzione esecutiva Cristian Bonomi Ricerca storica e redazione Susanna Riva Social media manager Mauro Redaelli Redazione social Si ringraziano la Direzione e i funzionari del Parco Adda Nord per il supporto operativo.
Un progetto
Sponsor tecnici
Partner
Con il contributo
M E D I O C O R S O Il volume raccoglie fotografie e scritti sul paesaggio naturale e umano del fiume Adda prodotti dagli allievi delle Masterclass di Davide Monteleone e Wu Ming 2 durante la seconda edizione del progetto ZTC. a cura di Davide Monteleone, Wu Ming 2, Andrea Biffi design Walter Carrera in copertina .................................................................................. Stampato nel mese di giugno 2018 presso Arti Grafiche Meroni, Lissone (MB) Fotografie su carta Fedrigoni Arco Design White 140 g/m² Scritti su carta Favini Shiro Tree Free Cream 90 g/m² Copertina su carta Fedrigoni Materica Clay 250 g/m² Edizione 1.000 copie
Ringraziamenti Per le fotografie a Trezzo sull'Adda (MI) Centrale ENEL “A. Taccani” Candeggio Fratelli Zaccaria Best Western Villa Appiani Padri del Santuario Carmelitano "Diviana Maternità" Equipaggi dei Raid discesa fluviale Trezzo-Venezia ASDP Tritium Pesca Biblioteca civica “A. Manzoni” Pasticceria Cerliani è Musica nuova Bitter Ink Bar Ruel Cascina San Benedetto Tipografia Crespi Soffieria Villa Officina Orafa Antonio Migliozzi Giuseppe Baghetti Ferruccio Ratti Scuderia Valfregia Rino Tinelli Per le fotografie a Capriate San Gervasio, Crespi d'Adda e Brembate (BG) Direzione e personale della Centrale Adda Energi “Crespi” Associazione Crespi d’Adda Bar Carissimi Ristorante Al dopolavoro Bar La Gabbia Ettore Maria Bar e famiglia Francesco Bonfanti e famiglia Luigi Cortesi Roberto Pruneti e famiglia Centro Ippico Adda Nord
Per le fotografie a Vaprio d'Adda (MI) Pro Loco Vaprio d’Adda Associazione Vaprio Verde Canoa Club Vaprio Protezione Civile ASD Vaprio Pesca Gruppo di cammino Centro Diurno Bar Speranza Per le fotografie a Cassano d'Adda e Fara Gera d'Adda (MI) Hotel Castello Visconteo Gruppo Guide Cassano d’Adda Staff ristorante Lungoladda Angelo Cernuschi Per il supporto operativo e gli spazi della Casa del Custode delle Acque Comune di Vaprio d’Adda Andrea Beretta, Sindaco Evelina Cavenago, Assessore alla Cultura Luigi della Vedova, Responsabile Area Servizi alla Persona Per i documenti d’archivio Raccolta Rino Tinelli, Trezzo sull'Adda, Archivio Storico Crespi d'Adda Legler, in copia presso Associazione Crespi d'Adda (www.crespidadda.it) Io Prima di Me - Ricerche d'archivio, genealogie e storia d'impresa (www.ioprimadime.com)