Medio corso Fotografie
La
parola italiana “paesaggio”, in origine, designava un genere di pittura, dove l’ambiente più o meno naturale non era più sullo sfondo, ma diventava il soggetto della rappresentazione. Il paesaggio era sulla tela, non nel mondo, e il termine era sinonimo di veduta, strettamente legato all’atto di guardare. Solo alla fine dell’Ottocento, dopo due secoli di uso artistico, si è passati ad indicare con la stessa parola anche l’aspetto di un luogo, con i suoi particolari estetici e visivi. Sembra allora che la fotografia, molto più della letteratura, sia lo strumento ideale per catturare l’essenza di un paesaggio; se si tratta di educare lo sguardo, la parola scritta può solo arrancare. Tuttavia, già da qualche tempo, nelle discipline a cavallo tra geografia e scienze umane, si è fatta strada un’altra idea di paesaggio, che non solo tiene conto dei sensi diversi dalla vista, ma mette l’accento sulla comprensione, più che sulla percezione. Il paesaggio sta al territorio, come il significato al suono delle parole. Qui la scrittura recupera terreno, vantando la propria capacità di interpretare i segni, di sviscerare i simboli. Cosa significa quel filare di pioppi? Quale storia si nasconde dietro quella pieve? Con quali formule magiche si possono evocare gli spiriti del fiume? Ecco temi che la fotografia, nella sua immediatezza, non può approfondire al pari di un saggio o di un romanzo. Dunque, pari e patta? A chi lavora con la reflex, il privilegio di ritrarre il genius loci, mentre a chi batte sui tasti di un computer, quello di raccontare la sua biografia? Non è così semplice. Anzitutto, perché quando interpretiamo uno scritto, o un quadro, noi lo facciamo sempre dall’esterno, mentre non è possibile capire un paesaggio senza abitarlo, anche soltanto per il tempo di una passeggiata. In quel libro ci siamo anche noi, lettori e personaggi nello stesso momento. In secondo luogo, perché il paesaggio non è un oggetto, un’opera conclusa, ma un organismo che cresce. Capirlo è come capire una persona. Si tratta di vivere insieme, più che di decifrare. Non c’è un codice, una stele di Rosetta
da consultare per tradurre la lingua dei luoghi. Serve empatia, più che interpretazione. Camminare, più che osservare. Se invece di tanti singoli scatti, dedicassimo al paesaggio un intero time-lapse, lo vedremmo danzare, muoversi e cambiare volto di continuo. Con un’etimologia fantastica, si potrebbe dire che la parola “paesaggio” è formata con il suffisso dei nomi d’azione, ovvero quelli che indicano un processo, non un’entità. Al pari di atterraggio, montaggio e riciclaggio, anche il nostro termine sarebbe da intendersi come un atto: il divenire paese di un territorio, simile al diventare casa di un appartamento. È quando abitiamo una stanza che i suoi spazi smettono di essere soltanto metri quadri e pareti. Essi acquistano un significato che consiste nel loro utilizzo. Un significato che è facile vivere, ma molto difficile rappresentare. Come succede con l’arte della ceramica, o del pane, che s’imparano in bottega, non sui manuali. C’è la stessa differenza che passa tra uno spartito di musica e la sua esecuzione al pianoforte. Non a caso esistono tante mappe per un singolo territorio, con scale e simboli diversi, ma nessuna riproduce il paesaggio, le cui molte dimensioni non sembrano riducibili a due soltanto. Di fronte a questo nocciolo ineffabile, che si rivela solo nell’esperienza, letteratura e fotografia si ritrovano mute. La prima, allora, può cercare di raccontare le storie che plasmano ogni zolla, ogni tronco, per immaginare un futuro che non cancelli il senso del territorio. Quel che invece può fare la fotografia ce lo dimostra in queste pagine la masterclass diretta da Davide Monteleone, inseguendo lo spirito dei luoghi tra volti, abitazioni, fabbriche, attività sportive, gesti quotidiani, abbandoni e nebbia.
Wu Ming 2
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