Berlino

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Il marciapiede, messo a dura prova dalla storia, si è gonfiato come pasta lievitata. A piedi nudi e con le scarpe, a Berlino Est camminavo sulle tue croste screpolate, o nostro pane quotidiano. O forse, come nelle metafore cristologiche, lo sbriciolarsi dei passi era, in quel luogo, un graduale avvicinamento a un sentire divino, per quanto possa essere divino ciò che si perde nel mondo infantile e in quello dei sogni? Dal parco di Friedrichshain fino a Schönhauser Allee una sensazione di sospensione, il tragitto su marciapiedi larghi e intrecciati come pagnotte, l’inciampare sulle loro superfici arse, là dove la crosta si apre, mantenendo l’equilibrio. Mentre i piedi avanzano nell’ignoto, lo sguardo si alza verso le chiome soavi dei platani in primavera, alle finestre che con le loro tende semichiuse invitano lo sguardo a entrare e a passeggiare su e giù per le librerie e le scrivanie, dai lampadari di cristallo alle pareti nude e piene di crepe. Ma questo vagabondare trasognato perde ben presto l’equilibrio. Un difetto si è insediato di proposito nel senso d’ordine dell’Est di Berlino, un difetto che ne illumina ancor più la bellezza. La fila variopinta delle facciate da poco ristrutturate si compiace apertamente della scabrosità dei marciapiedi, dei fori delle granate di sessant’anni fa nei muri incendiati, dei volti dei passanti che continuano a cercare qualche cosa, anche se hanno ormai ripetuto a se stessi – non so quante volte – che questa volta, sì, questa volta l’hanno davvero trovata. In nessuna città è così evidente la relazione tra camminare e cadere, tra lo slanciarsi in avanti e il vacillare, tra il superamento esitante delle distanze e la disponibilità a riprendere il 67


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