

Wir setzen jeden Ausblick in Szene. In höchster Handwerkskunst und anspruchsvollem Design scha en wir einzigartige Lichtblicke für Ihr Zuhause. www.suedtirol-fenster.com
30 È finito il gas? Evviva le CER!
Una grande vittoria per il clima e un passo avanti verso l’inclusione di tutti i cittadini nella discussione sull’energia.
34 Gen Z sempre più in agricoltura Dal 2017 ad oggi sono nate ogni giorno 21 nuove aziende agricole fondate da giovani imprenditori con meno di 35 anni.
40 Mi faccio un orto nello spazio
La chiamano agricoltura spaziale, o space farming, e l’Italia è tra i Paesi che sta sperimentando di più.
realestate
6 Retrofit off-site, l’efficienza a costo zero
Il costo nazionale del “colmare i buchi” edili non è sostenibile. Però, alla luce della crisi energetica attuale, ci sono soluzioni.
10 Cargotecture, l’habitat in scatole
Da abitazioni a basso costo a case di lusso, da habitat portatili a megaprogetti.
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Architettura nera: negli USA la Black Culture rivendica la città
Gli afroamericani sono stati da sempre gli attori della Reconstruction, come vuole raccontare una recente mostra del MoMA di New York.
18 Brand Stories
LAGO approda oltreoceano. La nuova passive house dall’arredo italiano a Brooklyn.
20 La città ecosolidale in 5 racconti
Ecco alcune perle di attori della città moderna, scrittori, ricercatori o architetti che offrono tramite le loro opere una rinfrescante visione dell’urbanistica.
26 Fortezze e castelli da non perdere per nulla al mondo!
Dall’Europa all’India, ecco alcuni degli edifici più maestosi della storia che possiamo ammirare ancora oggi.
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Già provato il coasteering?
Dall’equipaggiamento necessario ai luoghi più interessanti dove praticarlo, ecco tutto quello che vorresti sapere prima di iniziare.
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Oltre la birra: itinerario tra città, birrifici storici e musei della birra
Spesso attorno ai birrifici si sono sviluppati musei e percorsi esperienziali. Ecco una mappa per scoprire i più interessanti.
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Food waste: sempre più bravi, sempre più giovani
Lotta allo spreco alimentare e nuove generazioni: se questo binomio funziona sempre di più è merito delle numerose startup.
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Venezia val bene un volume. Anzi 8! Una selezione di libri la cui storia ci permette di conoscere la Venezia del presente e del passato.
La carica dei pet influencer: alla scoperta degli animali più simpatici del web Si moltiplicano a vista d’occhio gli animali che hanno un loro account sui Social Network.
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Non la solita lingua “Buttati, non ti vergognare, devi lasciarti andare”. Quante volte abbiamo sentito rivolgere questa frase a chi fatica nell’imparare una lingua straniera.
Realizzazione editoriale e progetto grafico: Edizioni 2.0 s.r.l. - Liscate (MI)
Hanno collaborato a questo numero: Tutti gli autori
Crediti Fotografici: Frank Hanswijk, Energiesprong, Tracey Whitefoot, Frank Hanswijk, Urban Rigger, The Hygge Box Hop, Dineda Nyepan, Affirmation Tower, Homers sbrl, Umberto Rotundo, Bayerische Schloesserverwaltung, Kate Rubins, NASA, Heineken, Too Good To Go, JiffPom, Bundo Kim, Alan Karchmer, Unsplash, Shuttertock, Pexel, The Peebles Corporation
Copyright © 2022 Walliance SpA
Tutti i testi e i contributi grafici di questa opera editoriale sono di proprietà di Walliance e sono tutelati dalle norme sul diritto d’autore. I contenuti di questa opera non possono esserené totalmente, né parzialmente - riprodotti, archiviati, trasmessi o distribuiti in nessuna forma o attraverso alcun tipo di mezzo elettronico, meccanico, di registrazione o di qualsiasi altro genere, senza il permesso di Walliance.
realestate
Dalle torri-dormitori erette in fretta ai soppalchi abusivi, il parco edilizio del bel paese lascia il costoso calore fuoriuscire. Nonostante tutti i superbonus per le ristrutturazioni, il costo nazionale del “colmare i buchi” edili non è sostenibile, nemmeno fattibile. Però, alla luce della crisi energetica attuale, ci sono soluzioni.
Come mai non sappiamo ancora costruire “scatole stagne” che mantengono il calore? Semplicemente perché il calcestruzzo presenta il peggior coefficiente termico di tutti i materiali edilizi: un metro e mezzo di cemento isola quanto due centimetri di sughero! Per di più, tradizionalmente si costruisce con il muro fuori, e l’isolamento dentro. Un metodo sbagliato, secondo gli standard salvaenergia attuali: così facendo la massa inerte del muro è alla mercé delle temperature esterne, e d’inverno trattiene il freddo tutta la notte. Eppure, costruire da zero per raggiungere le certificazioni energetiche attuali costa il 40% in più rispetto al classico lavoro da muratore, e spesso anche la manodopera qualificata manca. Una situazione che più sviluppatori non si possono permettere.
E ancora: il problema in Italia è il parco immobiliare costruito, non quello da sviluppare. Allo stato attuale, secondo Nomisma (su Il Sole 24 ore) anche con i superbonus “ci vorranno 120 anni per colmare tutti i buchi edilizi in Italia”. Come ha spiegato Marco Marcatili di Nomisma: “Il sostegno del Governo messo in campo con il Superbonus 110% è stato pari a circa 35 miliardi di euro e ha consentito, in un anno e mezzo, la riqualificazione energetica di circa 150 mila edifici. Significa, rapportato all’ammontare del patrimonio edilizio italiano censito dall’Istat in circa 12 milioni di immobili, che è stato rigenerato appena lo 0,5% del
totale delle abitazioni. Stando alla produttività attuale, ci vorranno ben 120 anni per riqualificare il parco fabbricati del Paese”.
Il retrofit, economico e veloce Con il retrofit off-site, l’edilizia sceglie l’approccio contrario: si isolano i muri insieme alla casa! E facendo ciò, anche gli edifici di cemento o di metallo possono mantenere il prezioso calore. L’idea è di creare una scatola stagna attorno a tutto il palazzo, un po’ come una borraccia termica. Creati a monte in azienda, i pannelli isolanti di legno sopportano già gli impianti di riscaldamento o elettrici. Tutto ciò si installa in pochi giorni, non disturba i residenti né il traffico, ed è un approccio olistico di riduzione dello spreco e di produzione di energia, se affiancato a pannelli solari o al sistema energetico locale.
Una tale ristrutturazione è molto più fattibile e un’iniziativa olandese ne vuole fare uno standard: Energiesprong. Il collettivo di aziende e fondazioni vuole creare le condizioni di mercato per sviluppare le soluzioni di retrofit edilizio. Energiesprong offre un approccio olistico, lavorando con ditte locali, banche, agenzie di pianificazione urbane e fornitori di energia per proporre una soluzione unica ad ogni progetto. Per ora le case realizzate sono più di 5.000 nei Paesi Bassi, dove il concetto è nato, 26 in Francia, e 5 in Italia. Il progetto però è molto più ambizioso e prevede infatti la costruzione di più di 14.000 case nei Paesi Bassi, 600 in Francia e più di 200 in Italia.
Dopo un intervento di retrofit Energiesprong, una casa è “a energia zero” (ZEB, Zero Energy Building), ovvero genera la quantità totale di energia necessaria per il riscaldamento, l’acqua calda e gli apparecchi elettrici. Inoltre, offre un comfort interno superiore. Questo risultato può essere raggiunto utilizzando nuove tecnologie come facciate prefabbricate, tetti isolanti, pannelli solari, riscaldamento intelligente e impianti di ventilazione e raffreddamento. Una ristrutturazione è accompagnata da una garanzia di lunga durata sia per il clima interno che per le prestazioni energetiche, fino a 40 anni. La ristrutturazione completa di una casa può essere completata in meno di 10 giorni. Nel caso pilota di Corte Franca, in provincia di Brescia, i pannelli di facciata in legno sono stati installati in pochi giorni, con la gru e senza ponteggi.
Il progetto pilota di Corte Franca ha dimostrato come anche in Italia sia possibile disfarsi di tutti quei problemi legati alle tempistiche molto lunghe che di solito si presentano quando si decide di ristrutturare un edificio. Oltre al miglioramento dell’efficienza energetica delle case più “anziane”, che rappresentano una larga maggioranza in Italia, questo progetto è particolarmente adatto anche a risolvere nel modo
più veloce ed efficace i problemi legati ai cataclismi. Nel nostro Paese significherebbe ad esempio riuscire nel modo più celere possibile a mettere in sicurezza tutte quelle zone soggette a sismi e che hanno purtroppo sofferto troppo a lungo delle inefficienze di tipo edilizio.
“Living in a box” sarà stato l’incubo della band inglese, ma anche il sogno di numerosi designer che usano i container marittimi come modulo base per i loro progetti. È come giocare ai Lego: non serve calcolare cariche o troncare dimensioni, basta impilare le scatole. Infatti, le casse di metallo sono incredibilmente versatili: da abitazioni a basso costo a case di lusso, da habitat portatili a megaprogetti. In più, se recuperata come si deve, la cargotecture potrebbe anche essere verde!
Il principale vantaggio dei container navali è la resistenza . Scheletro d’acciaio e pareti corrugate, sono concepiti per resistere come un corpo pieno a tutti i disagi del viaggio in mare, alle tempeste e alla corrosione. Il modulo base, il “20 piedi”, offre uno spazio interno lungo 6 metri, per 2,40 metri di altezza Poi, ce n’è in abbondanza. Ci sarebbero decine di milioni di container in circolazione, tra cui milioni arenati nei porti, perché troppo costosi per essere rimpatriati quando vuoti. Una manna per l’architettura del recupero, a basso costo, perché l’industria navale non vede l’ora di sgombrare i dock. Anche un privato può acquistare un container di seconda mano per 1.000 dollari – trasporto escluso, ovviamente.
Tutto ciò fa del contenitore intermodale la perfetta “unità abitativa”, voluta da Le Corbusier: una casa fatta su misura per l’uomo contiene tutto il necessario e bandisce il superfluo.
Vediamo pochi container recuperati in Italia, e il motivo si ritrova nella legge edilizia, che garantisce una superficie minima a persona per vivere. Questa vieta di fatto di usare i container, con i loro magri 13,4 metri quadri interni, per qualsiasi uso abitativo. Ma le norme, e la creatività dei designer, riusciranno
presto a superare questi limiti. Intanto, come ufficio mobile per siti di costruzione, sono perfetti. Durante la pandemia, una task force guidata dagli architetti Carlo Ratti e Italo Rota ha realizzato il prototipo di un mini ospedale da campo per isolare pazienti in terapia intensiva . Si tratta solo di architettura di emergenza? Come nota Il Sole 24 Ore, uno dei più grandi studi d’architettura dedicato alla cargotecture è di origine italiana. Lot-Ek, di Ada Tolla e Giuseppe Lignano, non costruisce nel Paese, ma edifica con la torcia a plasma numerosi pop-up store (Puma City), design urbanistici (il progetto salvacosta Dunes), padiglioni di biennali e opere d’arte, ove la legge permette e dove bastano parallelepipedi.
Altri Paesi, spesso del Nord Europa, si fanno meno problemi ad accomodare le persone dentro a delle scatole. Una delle limitazioni del container è il volume fisso, ma 33 metri cubi sono comunque il doppio di una normale stanza da studente, fatto che ha ispirato i danesi di Urban Rigger a creare un hotel universitario nel cuore di Copenhagen. Non altro che Bjarke Ingels ha creato l’opportunità immobiliare perfetta, con dei container galleggianti sui canali della capitale danese. Sei zattere ospitano fino a 100 studenti, con spazi per le bici, il co-working, il kayak e
i giardini sul tetto. Oltre al riuso dei container, il progetto è sostenibile grazie a pompe ad acqua marina per il riscaldamento e pannelli solari. Quel progetto futuristico ha ispirato un alloggio più ambizioso, sempre in un porto. Il Crous, l’ente che gestisce gli alloggi studenteschi, aveva preso in gestione per la città di Le Havre in Normandia un modo veloce, economico e sostenibile di ospitare i neolaureati dell’università. Naturalmente, una griglia di 100 container montati su quattro livelli è apparsa come la soluzione ad hoc per un lifestyle senza fronzoli, anche se i box sono stati sfalsati a gradino e dotati di larghe finestre.
La più grande sfida della costruzione in metallo è il calore - l’acciaio è un pessimo isolante - e le vibrazioni. Con pareti di lana di vetro, proprio come per un retrofit off-site e inserti di gomma, il palazzo raggiunge una performance energetica del tutto accettabile. Lungo i 12 metri dei container doppi (i “40 piedi”) si trovano una saletta, un angolo cottura, un bagno completo, una stanza e un ufficio. E tutto ciò, ad un prezzo studentesco ovviamente.
Con un filino più d’impegno, e un confortevole budget, si può anche andare oltre l’equazione “una scatola = una persona”. Se il container base costa poco, trasformarlo per uso abitativo, e a norma, può raggiungere anche il prezzo di una tiny house. Contate anche 10.000 dollari per le fondamenta, l’isolamento, gli allacci, ecc. A questo prezzo, conviene fare dell’immobile un prodotto di lusso, ed alcuni progetti riflettono questa tendenza .
Combinando più container in modo innovativo, si può arrivare ad una superficie soddisfacente, come nella Hygge Box Hop di Columbus, Ohio. Assemblando sette container, con rivestimento di legno per l’isolamento, si possono abbattere alcune pareti ed aprire le finestre sul paesaggio, ospitando fino a 10 persone. La cabina nei boschi è presente su Airbnb, e
punta sulla giocosità degli spazi e la pletora di servizi proposti, dalla sauna allo spazio BBQ. Si può fare di tutto dentro un container. Lot-Ek, sempre dallo studio Design Boom, ha anche ideato una casa di famiglia a Hudson, New York. Allineando sei container arrugginiti, ma ritagliando aperture creative, si dà vita a 178 metri quadri di alloggio su due livelli. La naturale resistenza dei container limita la necessità di pilastri interni, così la zona giorno si estende su tutto il piano di sotto. Giocando con la smerigliatrice, l’architetto londinese James Whitaker ha creato nel deserto del parco di Joshua Tree in America “The Starburst House”, dove i container sono assemblati a fiore, e usati per canalizzare la luce fino a dentro casa. Si crea così una tiny house di lusso, nemmeno tanto piccola come si potrebbe pensare. Si compone infatti di tre stanze per gli ospiti e può quindi essere utilizzata come una casa vacanze con vista mozzafiato sul deserto californiano.
“Purtroppo, per la maggior parte della storia di New York, gli afroamericani e le persone di colore sono stati resi semplici turisti economici che guardano dal basso uno dei più grandi skyline del mondo con la consapevolezza intrinseca che non saranno mai in grado di partecipare a ciò che rende New York davvero unica”.
Lo dice il pastore Charles Curtis a proposito dell’apparente assenza della cultura afroamericana nel paesaggio architettonico dell’America. Ma forse si è solo dimenticato dell’influenza considerabile della popolazione nera sul divenire della città.
Sebbene gli afroamericani costituiscano il 13% della popolazione totale degli Stati Uniti, secondo l’Associazione Nazionale degli Architetti di Minoranza (NOMA) solo il 2% degli architetti abilitati negli Stati Uniti è afroamericano, e peggio ancora: nel 2007, le donne afroamericane costituivano un misero 0,2% degli architetti. L’industria dell’architettura è stata a lungo uno spazio omogeneo, dominato da uomini bianchi. Gli afroamericani sono stati storicamente privati dell’esposizione al mestiere, partendo dalla segregazione legale, o intrinseca delle scuole di architettura. Certo, alcuni nomi hanno comunque segnato la storia, come i fratelli McKissack, primi architetti neri riconosciuti in Tennessee, e fondatori del più venerabile studio ancora in attività, responsabile insieme ad altri del National Museum of African American History and Culture, realizzato da David Adjaye. O ancora Roberta Washington, la prima donna afroamericana ad avviare il suo studio nel 1983: “Per la maggior parte, i dipendenti sono stati persone di colore. Poiché il mio studio si trova ad Harlem, ho avuto problemi a reclutare gente bianca finché il quartiere non è diventata di moda. Questo sottolinea il vero problema di rappresentazione della Black Culture nell’architettura. Come mai?”.
L’urbanismo razzista che ha diviso l’America
Spesso le comunità nere sono state le vittime, non gli attori, dell’architettura e dell’urbanistica. Così accadde dopo la Seconda Guerra Mondiale, quando la potente lobby automobilistica convinse il governo a creare l’Interstate Highway System (il sistema autostradale degli Stati Uniti d’America), dividendo così il Paese. Ma per portare il traffico di milioni di automobili dentro la città, era necessario annientare i distretti della periferia, in maggioranza popolati da persone di colore, oppure separarli fisicamente dal centro città dedicato agli affari e dai suburbs bianchi. Con il senno di poi, si considera oggi che la moderna segregazione delle comunità nere derivi maggiormente da quella ghettizzazione urbanistica . Così per riscrivere la storia dei 70s, l’architetto Walter J. Hood parla del suo progetto Black Towers/ Black Power, del potenziale dell’architettura nel conferire potere alle persone e dei modi per progettare spazi che supportino le esigenze di una comunità. L’architetto immagina quel che sarebbe potuto essere uno sviluppo più dinamico del solito quartiere nero della California, orizzontale, segretato e senza “centro-città”, portando il simbolo dell’architettura da ricchi, ovvero il grattacielo, nel cuore del ghetto. Ma lo spirito socialista dei Black Panthers mette in discussione anche la proprietà, simbolo capitalista
bianco, e reinventa la comunità che prende in mano l’educazione, la sicurezza e i servizi sociali, il tutto attraverso un’architettura variegata, ispirata alla Black Culture e alle sue radici africane.
Il progetto retrospettivo di Hood evoca ovviamente il famoso Harlem Renaissance, che fu disegnato dallo starchitect Richard Buckminster Fuller, seguendo la progettazione dell’attivista e poeta americana June Jordan. Nel cuore di New York, la “capitale dell’America black”, Harlem è un palinsesto della storia afroamericana: tra sfratti, sovraffollamento, e case popolari segregate, divenne negli anni ‘60 un melting-pot della Black Culture, ma anche un quartiere organico e impenetrabile. E soprattutto, con affitti esorbitanti, una costante nella storia dell’immobiliare dei quartieri Black, alla sovrappopolazione si affiancò il degrado. Durante l’insurrezione del 1964, June Jordan fu testimone della violenza delle repressioni, e della necessaria riqualificazione della zona. In puro spirito futuristico con Fuller, si costituì un progetto faraonico con torri da 100 piani installate tramite elicotteri, collegate tra loro con “passerelle volanti” e in grado di ospitare un’intera economia di quartiere. Autostrade larghe quanto una piazza avrebbero portato il traffico direttamente a questi nuovi centri del potere, dove la popolazione del piano terra, maggiormente nera, si sarebbe man mano trasferita e avrebbe potuto accedere all’American Lifestyle. Harlem sarebbe diventata “invitante per tutte le razze e tutti i colori”, diceva il manifesto degli architetti. Troppo ambizioso? Certo, si trattava di un’altra soluzione “eliportata” che ignorava le voci dei residenti, ormai rinvigoriti dal Black Nationalism e dal Black Pride. Ma l’idea ha comunque portato ad una lenta riqualifica tramite la gentrificazione nera, quando negli anni’80 una middle-class afroamericana scelse di reclamare il quartiere. L’urbanista Jane Jacobs diceva: “Non era necessario un approccio ex novo, ma sarebbe bastato sbaraccare la baraccopoli”.
Il fil rouge della Black Architecture di oggi è la volontà di preservare la memoria . Infatti, le comunità marginalizzate durante decenni non sono quelle il cui retaggio è finito nei musei. Per questo, l’architetto newyorkese Sekou Cooke vuole “interrogare la storia dell’architettura con i neri”, in particolare per l’edilizia sociale pubblica. “La nostra prima interazione con questo Paese è stata quella di essere una proprietà. Non abbiamo mai avuto nulla di privato. All’inizio dell’era della ricostruzione (dopo la guerra civile e il movimento dei diritti civili per i neri), il governo era responsabile del nostro benessere”. Nel recente progetto “ We Outchea”, Cooke rimette alla luce i diversi strati di occupazione del quartiere nero di Syracuse: dalle case popolari presto cancellate per lasciare spazio all’autostrada, alla riaffermazione nera negli anni ‘70 fino alla ricerca di un “centro-città”. Oggi, con palazzi ad angolo, l’architetto vuole creare
nuovi spazi comuni, fari di memoria ma anche lotti commerciali e luoghi d’incontro, rivestiti di ritratti dei residenti storici del ghetto.
Ma il nuovo standard dell’affermazione della cultura nera non si ferma a proporre forme ispirate alle Black Culture. Se l’ambizioso progetto vuole affermarsi come la torre più alta di New York, la più inclusiva e lussuosa, il vero cambio di paradigma si trova dietro le quinte. Sarà, si dice, il primo progetto architettonico sviluppato da un finanziatore, un promotore e un architetto neri . Don Peebles, storico imprenditore immobiliare della Big Apple, ha un portfolio di progetti eretti per creare opportunità economiche per le donne e le minoranze, quel che chiama lo “sviluppo affermativo”.
Sir David Adjaye, architetto britannico ghanese, ha proposto l’iconoclasta “torre invertita”, con cubi a mensola rivestiti di “pettini da taglio afro”, torreggiando a 500 metri sopra Manhattan. “Un tale progetto è atteso da tempo a New York. Sarà un faro di diversità per le generazioni a venire.”, osserva Peebles, “Le persone di colore e le donne costituiscono la stragrande maggioranza della popolazione di questa città, ma questa rappresentazione non si riflette nell’attuale panorama architettonico e di sviluppo. È un’opportunità fin troppo rara per noi di rendere lo skyline più iconico del mondo più inclusivo di quanto non sia mai stato prima”.
Nel cuore di Brooklyn, all’interno del frenetico quartiere di Crown Heights, nasce Lexè: un immobile sostenibile, di ultima generazione, di cui LAGO, azienda d’arredo italiana, è partner nell’interior. Un progetto all’avanguardia all’interno di un edificio classificato come Passive House, standard edilizio progettato per risparmiare energia, limitare il rumore e aumentare la qualità complessiva della vita, riducendo il consumo energetico per il riscaldamento e il raffreddamento fino al 90%
Crown Heights è un quartiere vario a soli trenta minuti da Manhattan. Un ambiente dalla vivace scena gastronomica, ricco di negozi, bellezze paesaggistiche e culturali, tra cui i Giardini Botanici di Brooklyn, Prospect Park e il Brooklyn Museum. È proprio dal connubio tra le nuove costruzioni e il forte senso della storia del quartiere che si inseriscono i dieci appartamenti arredati LAGO. Pianificate e progettate con sistemi di costruzione integrati e all’avanguardia , le dimore newyorkesi accolgono l’eccellenza italiana attraverso prodotti timeless capaci di andare oltre ogni moda e garantire un alto standard qualitativo, creando un equilibrio tra natura e persone Per il progetto americano, la divisione contract di LAGO ha progettato soluzioni tailor made dal design modulare in grado di integrarsi perfettamente con i principi dello stabile. All’interno di ciascuno dei dieci appartamenti vivono così cucine 36e8 lineari o ad isola accomunate da un design di alta gamma e sostenibile che vede protagonista il centenario legno wildwood, proveniente da foreste certificate francesi, o l’innovativa tecnologia XGlass, che ripro-
duce su vetro texture di diversa natura come marmo, metallo o legno. La luce naturale proveniente dalle ampie vetrate degli appartamenti, inoltre, si riflette sui trasparenti dettagli in vetro temperato extra-chiaro della linea air di LAGO presente nella zona giorno, creando così un effetto suggestivo che, nel contempo, accresce il valore all’immobile.
Con Lexè LAGO porta oltreoceano la sua esperienza pluriennale nel mondo del contract, caratterizzata da un’offerta di servizi a 360° nata per accompagnare il committente in tutte le fasi di progettazione, coordinando al meglio tutti gli attori coinvolti ed affiancando all’operatività del real estate un piano di comunicazione dedicato per la promozione e diffusione del progetto stesso.
A settembre scorso, la Fondazione Giovanni Michelucci ha organizzato a Fiesole il Festival della Nuova Città, un ciclo di conferenze alla scoperta del “fare architettonico” e le sue sfide di sostenibilità e inclusione, i suoi rapporti con le altre discipline delle scienze umane, e la questione della responsabilità dell’architettura nelle città in costante cambiamento. Tra gli interventi, ecco alcune perle di attori della città moderna, scrittori, ricercatori o architetti che offrono tramite le loro opere una rinfrescante visione dell’urbanistica.
La psicogeografia ci riconnette al territorio
uando cammino faccio architettura”, enuncia Gianni Biondillo in apertura della conferenza. “L’urbanistica si fa a piedi: la città si disegna nello spazio reale.” L’architetto è anche uno specialista della psicogeografia, una disciplina tra performance artistica e approccio architettonico, e questo si riflette nel modo in cui si relaziona con l’urbanistica. Gianni Biondillo continua: “ L’architettura è una forma di comunicazione fatta di silenzi. Ogni edificio è una frase e la città è il libro che le contiene tutte. Solo percorrendo la città si capisce il linguaggio dell’architettura ”, ed ogni città ha un linguaggio, o un dialetto diverso. “Se sono di Firenze ma vado a Bologna riconosco il dialetto locale, le riflessioni, e vi conosco dei punti che si chiamano piazza, corso, parco che appartengono al vocabolario dell’urbanità. Saper riconoscere questo linguaggio è l’oggetto della psicogeografia.“ Seguendo il filo logico dell’avanguardia del situazionismo degli anni ‘50, “per me è diventata una pratica transdisciplinare, tra economia, geografia, urbanistica… anche cinema, letteratura. La geografia è la disciplina che si interessa di definire come l’umanità abbia trasformato il territorio in paesaggio, la psicogeografia è di rimando la disciplina che studia come questo paesaggio da noi trasformato, trasformi a sua volta la nostra psicologia”. Sulla trasformazione della città, aggiunge: “Un paesaggio antropizzato permette di capire l’interazione continua fra una realtà
concreta fattiva… asservita solo a logiche economiche, e il vissuto che ognuno di noi si porta addosso”. Conclude lo scrittore: “ Non esistono luoghi banali, ogni luogo è un pezzo di racconto che noi dobbiamo sapere interpretare.”
tra società e clima “L’architettura ha parlato della sostenibilità in termini sempre un po’ tecnocratici. La questione della transizione ecologica è stata spesso affrontata come un tema economico di tipo energetico. Ma queste ragioni che sono poi la causa della crisi ambientale, in realtà risiedono nell’ingiustizia sociale; maggiore è l’ingiustizia sociale maggiore è il rischio di crisi ambientale”. Così parla Alessandro Melis, architetto e professore al New York Institute of Technology. Per esempio: “Uno studio recente che abbiamo fatto riguarda le conseguenze negative delle isole di calore - le bolle di temperatura che stagnano sopra certi isolati in città. Scopriamo che l’intensità della radiazione solare è maggiore nelle aree della città più fragili dal punto di vista sociale, quelle addirittura dove c’è una criminalità molto più elevata. Esiste una sovrapponibilità quasi perfetta tra effetti negativi ambientali e fragilità sociali. Se riuscissimo a risolvere il problema della giustizia sociale, probabilmente avremo una maggiore facilità per risolvere i problemi ambientali.” L’ecologico e il sociale vanno di pari passo, insomma. Ma è necessario cambiare le mentalità e i modi di fare.
“La parola resilienza è divenuta il nuovo credo dell’architettura, dopo la sostenibilità”. Ma prima di fuorviare la parola: “Non esiste resilienza senza rivoluzione; per essere resilienti le comunità devono essere aperte alle soluzioni, non racchiudersi su loro stesse”. Per essere pronti all’azione, è necessario essere radicali e rivoluzionari, lo status quo non è un’opzione.
Il cohousing salverà l’immobiliare
Matteo Robiglio ha fondato la società “a scopo sociale” Homers , per sviluppare lo schema del cohousing in Italia . Questo nuovo modo di pensare l’abitare si basa sulla “condivisione del processo creativo con i residenti , la shared-tenure, molto importante dal punto di vista economico, e le attività condivise, coliving o coworking.” Praticamente, tramite un’impresa di tipo Benefit, l’architetto toscano “recupera immobili in disuso, costruisce comunità di abitanti e realizza in condivisione un progetto. La co-costruzione del progetto è un modo di rendere le persone capaci di capire come funziona la loro casa”. Sono ormai 250 gli alloggi in Italia ideati insieme ai futuri proprietari o abitanti. Per Robiglio, è il futuro dell’immobiliare a dimensione sociale. “In Italia, sul mercato Real Estate c’è la domanda senza offerta: l’87% degli italiani non trova casa idonea. E invece l’offerta senza la do -
manda: ci sono 50 milioni di immobili inutilizzati in Italia.” Per salvare le grandi città dalla gentrificazione (“il 38% del budget italiano medio va nella casa, affitto o mutuo”), e i piccoli comuni dai palazzi vuoti, il cohousing è la soluzione Riusando strutture vuote, ma ottimizzando spazi e luoghi di vivere, “recuperiamo superfici comuni che sono tre volte superiori alla media di mercato. Inoltre, il rapporto tra superfici esterne come i terrazzi e superfici interne è quattro volte quello che ordinariamente si produce sul mercato torinese.” Senza contare le innovazioni bioclimatiche e salva energia, il vantaggio è che “si tratta di una casa che gli abitanti hanno fatto sostanzialmente diventando promotori, attraverso un processo con dei workshop. Prima di selezionare l’immobile c’è un processo di codesign. Definiamo insieme ai proprietari non solo gli spazi interni, ma anche la parte energetica ovvero, come deve funzionare una casa. Il legame tra comunità ed energia richiama direttamente l’idea delle comunità energetiche. Che impatto avrà una tale architettura sociale? Robiglio aggiunge: “Homers pensa anche all’impatto sociale, alle altre questioni dell’invecchiamento, la solitudine, l’energia ancora, insomma, tutte domande che bisognerebbe porsi quando si tratta dell’abitare.”
Anche ben lontano dalle mirabolanti città, Raul Pantaleo non è di meno un architetto. Grazie alla onlus Emergency si è ritrovato in mezzo alle zone più disastrate del mondo – Sudan, Darfur, Iraq.
”Come progettare opere architettoniche quando non c’è niente? Il segreto è la bellezza. Mi hanno chiesto di fare un ospedale scandalosamente bello, in mezzo al deserto del Sudan”, ricorda Pantaleo. “Lavorare in una condizione di guerra e di povertà implica un approccio chirurgico al progetto, con pochi soldi e poco tempo. Si va assolutamente al punto”. E che significa bello in questo contesto? “Stiamo costruendo degli strumenti nuovi per agire in termine di bellezza, una sorta di cassetta degli attrezzi architettonica, da poter riutilizzare anche qua in Italia.
La bellezza ha a che fare con l’utilità, chiaramente, ma anche con tutta una serie di sfumature sociali. ”Tra gli strumenti portatori di bellezza, c’è il colore, che non costa di più, ma diventa uno strumento straordinario, dal punto di vista climatico, politico, sociale. Nell’ospedale, abbiamo utilizzato una tecnica locale e storica per minimizzare l’uso del cemento, con un soffitto a voltine autoportante. Si sono create queste onde, che semplicemente abbiamo dipinto di toni freschi, con l’idea che il paziente bambino, steso sul letto potesse beneficiare di questa freschezza.” Un abbellimento semplice e ovvio.
Altro aspetto della bellezza, il rapporto con il simbolico. “Nel Salam Centre in Sudan, la torre del vento è uno studio sul raffrescamento adiabatico, con il potere del vento e dei filtri a sabbia che arieggiano 800 metri quadri con un consumo di soli 6 kilowatt. Elemento puramente tecnico, la torre del vento è diventato un elemento simbolico, perché assomiglia ad una sfinge egiziana.” Ovvero, conclude Pantaleo, “la bellezza è un’energia rinnovabile a basso costo”.
Il recupero architettonico passa dalla comunità
“Nei quartieri di periferia”, rivela l’architetta Guendalina Salimei, “c’è un immenso patrimonio di metri cubi”. Sulla carta è una manna per le grandi città sempre al ristretto, ma “pochi sforzi sono dedicati alla ristrutturazione. A parte la manutenzione di base, nessun architetto vi ha operato scelte vere, e nessuna integrazione con il settore privato per portare fondi”.
È il caso del famigerato Corviale, il serpentone di housing popolare lungo un chilometro, nella campagna romana. Al suo interno ha visto strutturarsi forme dell’abitare spontanee in cui l’identità collettiva si è costituita attraverso la condivisione e la riappropriazione degli spazi, da parte degli abitanti. A Corviale, il quarto piano era occupato abusivamente. Gli abitanti si erano appropriati dei cortili e avevano creato spazi verdi dietro cancelli abusivi, persino le scale stavano per essere colonizzate”. Insomma, era tutto da riqualificare, anche dal punto di vista dell’efficienza energetica. Salimei ha appena concluso il progetto per risanare questo famoso quarto piano, che corre lungo tutta la lunghezza del palazzo, e farne una promenade verde e sociale destinata a tutti. “Abbiamo previsto sale condominiali, un asilo nido, un luogo di preghiera, uno spazio associativo, ecc. Il problema era convincere le persone, soprattutto i residenti abusivi, della bontà del progetto”. È stato un processo partecipativo, con tante riunioni difficili, ma alla fine è subentrata accettazione, condivisione e una riappropriazione virtuosa. “Questi tanti metri quadri potrebbero mutare non solo in alloggi, ma in nuovi servizi, anche nuove tipologie di abitare. Non c’è bisogno di costruire nulla di nuovo. Si possono trasformare in città studenti, evitando così la ghettizzazione. Noi architetti dobbiamo prendere posizioni su questi temi, fa parte della nostra responsabilità.”
Testi di Chiara Callegari
Testimoni silenziosi di un passato ormai lontano, frutto dell’ambizione e del genio di uomini potenti e talentuosi: sono gli antichi castelli e fortezze sparsi per il mondo che, a distanza di secoli dalla loro costruzione, dominano la vista e richiamano l’attenzione. Dall’Europa all’India, ecco alcuni degli edifici più maestosi della storia che possiamo ammirare ancora oggi.
Situata sul monte Festungsberg, la fortezza dell’Hohensalzburg domina la vista su Salisburgo. Simbolo della città e del potere arcivescovile, è uno dei complessi fortificati meglio conservati d’Europa. Ad ordinare la costruzione dell’Hohensalzburg fu l’arcivescovo Gebhard I° von Helfenstein nel 1077, ma fu solo attorno al XVII secolo che la fortezza ottenne l’aspetto che ha oggi, grazie all’ampliamento voluto dall’arcivescovo Leonhard von Keutschach. Tra gli elementi di maggior pregio del complesso ci sono le stanze dei Principi, che ospitano gli arredi originali risalenti al 1500, e la magnifica vista sulla città offerta dalla piattaforma del Recturm.
impianto di riscaldamento efficiente - aggiunti successivamente - nel XVIII secolo, lo Château Chambord ha un’architettura di pregio, tanto da essere considerato il più bello dei castelli che popolano la Valle della Loira . Il palazzo ha in tutto e per tutto l’aspetto di un castello medioevale, quasi a richiamare gli ideali cavallereschi a cui si ispirava Francesco I. Cuore della struttura è il mastio, dove sono collocati gli appartamenti padronali, le sale di rappresentanza e la scala a doppia spirale, considerata il suo elemento architettonico di maggior pregio. Anche se non ci sono testimonianze certe, il disegno di questa struttura, in particolare la scala a doppia spirale, è stato spesso attribuito a Leonardo Da Vinci , morto nella vicina Amboise nel 1519. In assenza di documentazione scritta le altre parti, anche se ricordano molto da vicino lo stile leonardesco, sono state attribuite a Donato da Cortona.
“È mia intenzione far ricostruire l’antica rovina del castello di Hohenschwangau, nei pressi della gola di Pöllat, nello stile autentico delle antiche fortezze dei cavalieri tedeschi e devo confessarVi di rallegrarmi molto all’idea di potervi soggiornare un giorno […]”. È con queste parole che Ludovico II di Baviera annuncia, in una lettera del maggio 1868 a Richard Wagner, la costruzione del Castello di Neuschwanstein. Considerato oggi come “il castello medievale” per eccellenza , e conosciuto anche come il castello di Walt Disney, questo imponente edificio in stile romanico è un magistrale esempio di eclettismo, che riprende motivi architettonici della Wartburg e si ispira alle illustrazioni di castelli nella pittura libraria medievale.
Il castello di Chambord è uno dei castelli più visitati di tutta la Francia. Il desiderio di Francesco I , suo committente, era quello di avere un casino di caccia nella Valle della Loira; perciò, il castello non è stato progettato come una vera e propria residenza ed fu usato dal Re di Francia solo durante i mesi estivi. Nonostante la scarsità di arredi e l’assenza di un
L’Alhambra è un complesso fortificato in stile moresco che sovrasta la città di Granada, in Spagna, ed ha per cornice la bellezza drammatica delle cime della Sierra Nevada . Il primo edificio di questo enorme complesso risale all’899 d.C., quando una piccola fortezza venne edificata sui resti delle fortificazioni romane. Nel XVIII secolo, l’emiro Nasrid di Granada, Mohammed Ben Al-Ahmar, la fece ricostruire, ampliandola. Trasformata in palazzo reale durante il regno di Yusuf I, divenne la Corte Reale di Isabella di Castiglia e Ferdinando d’Aragona dopo la riconquista cristiana del 1492 . L’Alhambra, che deve il suo nome al colore rosso tipico delle colline di Granada , è peculiare non solo per la sua imponenza, ma anche per la fusione di stili architettonici che ben rappresentano il passato spagnolo e l’alternanza tra la dominazione moresca e quella cristiana. I palazzi e le corti racchiusi all’interno della fortezza sono caratterizzati da una fusione tra gli stili rinascimentali e medievali , ma sono ricchi anche di dettagli islamici tradizionali: dai motivi geometrici ai portici con colonnati, dalle piastrelle dipinte alle fontane, sono molti gli elementi che richiamano il mondo arabo.
“Quel palazzo che fu edificato alto nel cielo, sulla cui soglia molti re hanno posato lo sguardo, adagiato su quella merlatura su cui ora piangono le colombe, dov’è tutta quella gloria? E dove sono finiti tutti coloro che lo hanno costruito?” (Umar Khayyam)
Situato a circa 11 km da Jaipur, di cui è considerato una delle attrazioni principali, l’Amber Fort è stato inserito tra gli edifici indiani considerati Patrimonio dell’Umanità dall’UNESCO. La costruzione di questa fortezza in cui si fondono elementi indù e moghul è cominciata nel 1100 e ha richiesto più di 100 anni per essere completata. Il risultato è un edificio imponente, che domina la vista dalla collina sulla quale è situato, a imperituro ricordo dei re che hanno contribuito a renderla maestosa e del glorioso passato del Rajasthan. L’architettura dell’Amber Fort è un perfetto esempio dell’antica architettura indiana . All’interno delle mura è racchiuso un complesso sistema di palazzi costruiti con arenaria rossa e marmo bianco, il cui stile architettonico mostra chiare influenze saracene. I templi, invece, sono stati edificati seguendo lo stile tipico del Nord dell’India. Gli edifici sono ulteriormente impreziositi dall’uso di pietre preziose, specchi e intricate incisioni per decorarne le facciate e gli interni.
Con la storia dei castelli e le fortezze sparsi su tutto il territorio italiano si potrebbero facilmente scrivere migliaia di articoli e più di un libro, tanto sono numerosi e ricchi di fascino. In questo contesto internazionale, citiamo una fortezza che rappresenta la storia e la grandezza del nostro passato. La storia di Castel Sant’Angelo, che tutt’ora cattura la vista di chi decide di visitare la Città Eterna, è infatti indissolubilmente legata a quella di Roma. A partire dagli anni gloriosi dell’Impero Romano, quando l’imperatore Adriano fece costruire questo edificio che, fino al 403 d.C. ha avuto la funzione di sepolcro. In seguito, è stato incluso nelle mura aureliane, per volere dell’imperatore Onorio, assumendo la funzione di castellum Nel 1367 le chiavi dell’edificio vengono consegnate a papa Urbano V, con lo scopo di porre termine all’esilio avignonese dei papi e, da allora, le sorti di Castel Sant’Angelo saranno indissolubilmente legate a quelle del papato. L’aspetto odierno di questo castello è dovuto alle modificazioni avvenute nell’arco dei quattro secoli successivi: il corpo centrale dalla caratteristica forma circolare, che tanto affascina il visitatore e ne cattura la vista, è l’elemento più antico di questo organismo complesso, che si dispiega in un intrico di vari ambienti, scale, cortili e passaggi sotterranei
Il suo nome, Castel Sant’Angelo, è invece frutto della leggenda che vuole che, durante il primo anno di pontificato di san Gregorio Magno, l’arcangelo Michele sarebbe apparso al pontefice sulla cima del castello per annunciare la fine dell’epidemia di peste. La statua che ritrae l’angelo non è, però, contemporanea del Papa che lo vide apparire ma è un capolavoro in bronzo realizzato nel 1753 dallo scultore fiammingo Peter Anton von Verschaffelt.
tech
Le comunità energetiche sono cooperative basate sulla produzione e la distribuzione locale dell’energia, in cui il consumatore diventa anche produttore, e di fatto attore del suo consumo. In Italia si sono sviluppati ormai decine di questi progetti locali che sono sbocciati grazie anche ad apposite leggi e il supporto dei grandi della rete, Enel ed ENEA in cima.
In Italia la maggior parte si definisce CER, ovvero Comunità Energetica Rinnovabile, qualcuna persino al 100%. Una grande vittoria per il clima, certo, ma soprattutto un passo avanti verso l’inclusione di tutti i cittadini nella discussione sull’energia.
Una comunità energetica è “un soggetto giuridico, senza scopo di lucro (associazione, cooperativa, impresa commerciale), che ha la possibilità di installare impianti per la produzione di energia da fonte rinnovabile, per poi consumarla stabilendo le tariffe di compravendita ”. I cittadini diventano prosumer, ovvero sono allo stesso tempo produttori e consumatori di energia. Nel 2020 Legambiente contava 41 comuni 100% rinnovabili autosufficienti dal punto di vista energetico, elettrico e termico.
Il dato aumenta a 59 nel 2021 e, con quasi un milione di impianti fotovoltaici in Italia connessi ad unità immobiliari, la promessa di una rete organica, locale e resiliente alla scala del Paese potrebbe avverarsi a breve. Sul sito comunirinnovabili.it la mappa delle iniziative mostra la distribuzione dei progetti con una certa concentrazione al nord, dove si addensano le comunità energetiche storiche, nonché la ricchezza idroelettrica. Ma il Sud si sta difendendo grazie al fotovoltaico, e tante cooperative agricole. Ecco alcuni progetti, recenti e non, rappresentativi del movimento.
In questo comune piemontese, con 20 kWh di fotovoltaico installati sul palazzo comunale, sono la biblioteca, la palestra, le scuole ma anche alcuni dei 2.300 residenti che producono luce “pubblica”. Anziché dover rivendere la corrente alla rete nazionale, il municipio ha aspettato le norme sulle comunità energetiche per poter sfruttare direttamente l’energia prodotta. Ma l’innovazione risiede nel far partecipare tutti gli attori locali al progetto. La pubblica amministrazione, lungi dall’idea di voler controllare la rete, cerca invece di “infondere fiducia ai cittadini per renderli protagonisti consapevoli della transizione energetica”. E per questo, ha attivato i liberi professionisti locali per installare gli impianti, e condivide la sua esperienza con altri comuni per espandere la rete. Ormai, i membri ufficiali della CER sono privati, artigiani e talune amministrazioni, mostrando così il lato bello e intelligente della CER: non è un circuito chiuso per pochi, bensì un progetto organico sempre in sviluppo.
Per le cooperative agricole, che da decenni mettono in comune mezzi di produzione, circuiti di distribuzione e un certo potere di negoziazione, quella di condividere l’energia è quasi una logica evoluzione. Questa iniziativa è promossa da Enel X, la filiale startup innovativa del gigante dell’energia, nella provincia di Ragusa in Sicilia. Quattro piccole o medie aziende agricole, sostenute da una banca locale, hanno installato 200 chilowatt di pannelli solari sui propri tetti, con idealmente 300 kWh da scambiarsi nell’arco di un anno. Così è nata la prima CER agricola italiana nel 2019. Secondo Enel X, è proprio qui che emerge la rilevanza del formato CER, perché la scala del progetto è idonea alla condivisione locale. Il territorio da collegare misura solo 60 ettari, quindi si limitano le perdite elettriche lungo i fili, mentre diversi impianti assicurano una fornitura quasi costante. I soci, proprietari degli impianti, sono anche incentivati ad elettrificare i mezzi di produzione, per un impatto climatico ridotto. Il mantenimento dell’impianto è delegato a Enel X, che si rifà guadagna nella rivendita della corrente alla rete.
Nel 2020, la cooperativa energetica ènostra risponde al progetto del borgo di Biccari per provare a “ridurre la povertà energetica in quartieri dove vi è la presenza di case popolari”. Il gruppo piemontese di fornitura elettrica, a finalità non lucrativa e sempre con un’attenzione al sociale, decide di fare del comune pugliese un progetto pilota. Sarà mai possibile dare luce e riscaldamento ai 2.700 abitanti del posto, e solo con energia a chilometro zero? Oltre alla riduzione delle bollette, quel che interessa l’azienda è “verificare quali impatti, sociali e ambientali, oltre che economici, si potranno determinare, anche con il coinvolgimento della cooperativa di comunità, che già opera efficacemente in altri settori, e con un occhio di riguardo per i consumatori vulnerabili che risiedono nell’area interessata”. Fondamentalmente, la CER vuole essere inclusiva e sociale.
Sempre in Puglia, il progetto pilota di Roseto Valfortore (1.000 abitanti) è in fase di raccolta soci per lanciare una CER fotovoltaica. Grazie alle recenti direttive europee, ormai privati e aziende possono raggiungere la comunità senza dover per forza progettare il proprio impianto elettrico. Ma anche se la potenza installata è ancora poca, la società installatrice FriendlyPower vuole iniziare con il tutto tech. Infatti, contatori smart, cabine di distribuzione e nano-grid intelligenti sono la chiave per dimensionare al meglio l’impianto. Le nano-grid scambiano energia, sia attraverso una micro rete locale sia attraverso quella del distributore. Così si limano le variazioni di produzione e di consumo e infine si assicura una distribuzione democratica dell’energia. La comunità passerà dal 35% di autoconsumo da fonti rinnovabili al 100% grazie all’allaccio della rete ad un impianto eolico da 3 megawatt. La strada è lunga, ma vedere la bolletta ridotta di metà sarà una soddisfazione per tutti.
A Pinerolo si dà il via all’autoconsumo grazie a una CER a misura di palazzo. Un edificio del borgo piemontese ha subito un’operazione di retrofit con un tetto fotovoltaico e 13 sistemi di accumulo elettrico. Questo permette di coprire al 90% i fabbisogni elettrici dei condomini , nonché di fornire acqua calda grazie al sistema solare termico e calore d’inverno tramite una pompa di calore reversibile. Tutte soluzioni hi-tech paradossalmente sviluppate da Acea, il fornitore di gas. Spiega l’amministratore Francesco Carcioffo: “Siamo convinti che [le CER] siano la nuova frontiera dell’economia, nel segno della transizione energetica che parte dal nostro stesso modello di business [gas e luce]”. Gli impianti non bastano però: ci voleva un retrofit totale del palazzo con doppi vetri, isolamento delle facciate, e sistema smart per gestire il tutto. Il progetto dimostra la fattibilità di un concetto che si può estendere ai 1.200.000 condomini d’Italia.
Si chiama GECO, Green Energy COmmunity, e si definisce il più grande progetto energetico dell’Emilia-Romagna . Pensate ad un intero quartiere di Bologna gestito in modo autonomo. A farne parte ben 7.500 cittadini, ma anche 200.000 metri quadri di centro commerciale, un mercato alimentare già solarizzato, e poi ancora una zona industriale bisognosa di energia. Saranno ben 200 i chilowatt sui tetti blu installati a fine progetto, o persino di più se la legge lo permette. Il tutto, al servizio di un quartiere di periferia, il Pilastro, con oltre 1.400 abitanti in alloggi sociali. Il parco energetico sarà gestito dall’ENEA e si spera di raggiungere il 100% di autoconsumo. Una bella promessa, sempre in chiave sociale, prevista per fine 2022.
Basta scrivere AgTech in un qualsiasi motore di ricerca per aprire le porte di un universo stimolante, variegato e in continua crescita, fatto di corsi universitari all’avanguardia, festival dedicati al food science e startup. Anche l’agricoltura, infatti, sta diventando 4.0, è proiettata verso l’innovazione tecnologica ed è sempre più digitalizzata, grazie a veri e propri sistemi di data analytics, software specifici e intelligenza artificiale.
Secondo l’Osservatorio Smart Agrifood 2021 della School of Management del Politecnico di Milano e del Laboratorio Rise dell’Università degli studi di Brescia, nel 2020 il mercato dell’agritech ha toccato il valore di 540 milioni di euro, con una crescita del 20% rispetto all’anno prima. Il 60% delle aziende agricole utilizza almeno una soluzione digitale. Ma gli obiettivi quali sono? Non c’è dubbio: ridurre l’impatto ambientale, contenere i costi e migliorare la resa delle coltivazioni. All’insegna del produrre di più sprecando di meno.
In base ai dati del Registro delle imprese, dal 2017 ad oggi sono nate ogni giorno 21 nuove aziende agricole, fondate da giovani imprenditori con meno di 35 anni. Insomma, alla Generazione Z l’agricoltura piace, eccome. Lo dimostra anche il boom di iscrizioni negli istituti agrari di tutta Italia, che di conseguenza spinge anche gli atenei a scommettere sul verde. Se si vuole prendere una laurea green, il classico corso di studi in Scienze Agrarie ormai si
è specializzato e c’è solo l’imbarazzo della scelta Ad Ancona, all’Università Politecnica delle Marche, si può scegliere tra Sistemi agricoli innovativi e Rischio ambientale, oppure c’è Low carbon Technologies e Viticoltura a Bologna o, ancora, Agricultural Engineering al campus di Cremona. Al Politecnico di Milano è partito addirittura un corso di laurea magistrale in Ambassador in green technologies, dove si studiano materie come Food engineering ma anche Nanotechnology. A Napoli è appena nato il Centro nazionale per lo sviluppo delle nuove tecnologie in agricoltura, promosso dall’Università Federico II: si chiama Agritech e, oltre all’ateneo, sono coinvolti 5 centri di ricerca e 18 imprese, una sinergia che mira a un’industria agroalimentare italiana più sostenibile e competitiva. E non mancano nemmeno bandi, borse di studio e concorsi per incentivare nuove idee. Come la Call4Ideas lanciata da Syngenta Italia, tra i principali player del settore agricolo: si chiama SyngenTalent ed è rivolto ai progetti di business nel settore dell’agricoltura 4.0. Il vincitore riceverà un finanziamento di 50.000 euro, oltre a mentorship e incontri di formazione con i manager dell’azienda.
Ogni anno c’è un evento di riferimento, il World Agri-tech Innovation Summit di Londra , dove le startup del settore presentano le loro idee innovative a investitori e aziende. L’ultima edizione è stata pochi mesi fa, e la prossima si svolgerà dal 19 al 20 settembre 2023. Sostenibilità e lotta al climate change sono state sotto i riflettori, come le tecnologie per rivoluzionare il modo di fare agricoltura. A partire dal carbon farming : l’insieme di quelle tecniche agricole in grado di “sequestrare” il carbonio nel suolo, senza, di conseguenza, immetterlo nell’atmosfera. Un esempio sono le riforestazioni, come la piantumazione di alberi e colture, a favore della biodiversità.
Ma si punta molto anche sulla tecnologia agrivoltaica , all’insegna di una maggiore autonomia energetica: l’installazione di pannelli fotovoltaici a pochi metri dal suolo permette lo svolgimento delle attività agricole e allo stesso tempo garantisce l’ombreggiamento, che riduce la necessità di acqua con un risparmio che può arrivare fino al 30%. In più, la superficie dei moduli fotovoltaici può essere sfruttata anche per la raccolta dell’acqua piovana, così l’azienda agricola può contarci in caso di siccità.
All’ultimo World Agri-tech Innovation Summit si è discusso anche di agrofarmaci bio, per difendere le colture in modo più sostenibile, e robotica, per sopperire la mancanza cronica di manodopera. A tal proposito a maggio 2023 si svolgerà per la prima volta, proprio in Italia, a Cornaredo (MI), la Agrifood Competition for Robot Evaluation (ACRE). Si tratta di una gara, che rientra nel progetto Horizon 2020 Metrics, per incentivare l’utilizzo di robot e intelligenza artificiale anche nelle coltivazioni agricole e colmare così il gap tra l’industria europea del settore e quella americana. La prima edizione è stata a giugno a Montoldre, in Francia, con un focus sui robot agricoli ideati per il diserbo in pieno campo, capaci di riconoscere visivamente le piante infestanti e muoversi in modo autonomo senza rovinare le colture.
Anche al Food & Science Festival di Mantova, che si è svolto l’ottobre scorso, l’agritech è stata al centro di numerosi panel. Tra questi il progetto FENICE: il suo obiettivo è aumentare la produttività agricola attraverso lo sviluppo di nuovi nanomateriali biocompatibili, i Carbon Dots, a partire dagli scarti agroalimentari, che una volta assorbiti dalla pianta e attivati dalla luce del sole, ottimizzano la capacità della stessa di assorbire acqua e sostanze nutritive. Grazie a un sistema di sensori, il benessere della pianta e il fabbisogno di acqua possono essere monitorati in tempo reale. Il risparmio idrico stimato è pari al 30%. Lo studio si focalizzerà sul pomodoro, una specie vegetale che richiede grandi quantità di acqua e la cui filiera ha un forte impatto economico in Italia.
L’innovazione agroalimentare si gioca in 150 (anzi, di più!)
Un altro convincente invito a investire nella agtech arriva anche da Sharon Cittone, founder & CEO della piattaforma Edible Planet Ventures che supporta le aziende lungo il percorso verso l’innovazione agroalimentare. Secondo Forbes, questa donna giocherà un ruolo fondamentale nel plasmare il futuro del cibo. Come? Ha costruito un network internazionale di startup, aziende, investitori, istituzioni e leader tra i più influenti del settore interessati al futuro del pianeta. E qualche mese fa ne ha radunati 150 in Umbria per il primo summit mondiale in tema di cibo “Trovare delle nuove strade e optare per la tecnologia, a partire dalle coltivazioni idroponiche o la fermentazione di precisione, è un grande aiuto anche per gli agricoltori, che oggi sono messi a dura prova
da problemi come la siccità e la desertificazione”. Ne è convinta anche Agricolus, startup di Perugia che offre alle aziende agricole una serie di strumenti digitali per razionalizzare la produzione. Si va dalle mappe satellitari per monitorare gli spazi coltivati ai microsensori per valutare in tempo reale lo stato di salute delle coltivazioni. L’obiettivo è mettere a disposizione dell’imprenditore agricolo un pannello di controllo per massimizzare la resa dei campi e prendere misure immediate in caso di pericolo. Un altro trend è legato alle startup agritech che credono nell’agricoltura idroponica e verticale: si tratta di tecnologie che eliminano il consumo di suolo, riducono la quantità di acqua necessaria e limitano la possibilità di contaminazione batterica e di attacco da parte di insetti nocivi. In Italia, una delle eccellenze del settore è la lombarda Planet Farms che a Cavenago ha realizzato uno dei centri produttivi di agricoltura verticale più grandi d’Europa.
In linea con gli obiettivi del Green Deal Europeo progettiamo e realizziamo edifici a zero emissioni per trasformare l'Europa nel primo continente a impatto climatico zero!
La chiamano agricoltura spaziale, o space farming, e l’Italia è tra i Paesi che sta sperimentando di più. Il merito è dell’ENEA (Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile) e dei ricercatori dei suoi laboratori di biotecnologie che, già da vari anni, guardano agli orti e alle serre spaziali come un traguardo sempre meno lontano grazie allo sviluppo di nuove coltivazioni d’avanguardia.
Tutti i progetti a cui ENEA sta lavorando in questo settore sono raccolti sul sito HortSpace. Oggi, infatti, lo space food può facilitare e allungare la permanenza degli astronauti in orbita durante le missioni , che sono destinate a diventare sempre più lunghe, e, in un futuro non troppo lontano, anche dei viaggiatori interstellari. Basta pensare che la NASA ha avviato il programma Artemis, che mira a portare di nuovo l’uomo sulla Luna con lo scopo di creare una base stabile e allargare gli orizzonti di viaggio fino a Marte, il pianeta rosso. Senza la possibilità di produrre cibo per l’equipaggio direttamente a bordo, è difficile pensare alla prospettiva di gite spaziali di lunga durata. Ma una pianta come può crescere e maturare i suoi frutti al di fuori dell’atmosfera terrestre, in condizioni quindi ostili e totalmente artificiali? A questa e tante altre domande utili per ricostruire il ciclo della vita nello Spazio risponderà GreenCube, il progetto i corso realizzato da una squadra scientifica tutta made in Italy composta da ENEA, le Università Federico II di Napoli e Sapienza di Roma, nel ruolo di coordinatore e titolare di un accordo con l’Agenzia spaziale italiana.
Il satellite GreenCube è decollato il 13 luglio scorso, dalla base di Kourou in Guyana francese, con il volo inaugurale del nuovo vettore VEGA-C dell’Agenzia Spaziale Europea. “ È la prima volta che un satellite nato per lo studio della coltivazione delle piante nello spazio viene lanciato su un orbita a 6.000 chilometri dalla Terra, in un ambiente così estremo e sfidante ” sottolinea Luca Nardi, ricercatore del laboratorio biotecnologie di ENEA che sta seguendo il progetto. Le dimensioni dell’orto sono di 30 centimetri di lunghezza, 10 di larghezza e altrettanti di spessore, è inserito all’interno di un ambiente pressurizzato ed è totalmente automatizzato. Merito di un sistema di coltivazione controllata che è la coltura idroponica (utilizzata a terra per il vertical farming) a ciclo chiuso, che permette quindi di far crescere una pianta in assenza di suolo e di riciclare l’acqua, dove sono state disciolte delle sostanze nutritive ad hoc. Il tipo di vegetale scelto per la sperimentazione è il crescione, una microverdura adatta a sopportare condizioni estreme e che ha qualità nutrizionali elevate, in grado di integrare la dieta degli astronauti, costituita in gran parte da alimenti conservati e preconfezionati, con un alimento fresco e pronto al consumo.
I microgreens (ce ne sono tanti, dal radicchio al cavolo rosso) non vanno confusi con i germogli: anche se l’aspetto è simile, si tratta di superfood naturali con un ciclo di produzione breve, dai 10 ai 15 giorni, che contengono dieci volte più vitamine, minerali e antiossidanti rispetto al pari peso del corrispondente ortaggio adulto. Per questo hanno un sapore molto più intenso e vanno mangiati crudi. La loro coltivazione è sostenibile, richiede solo acqua e luce, non servono pesticidi né fertilizzanti. GreenCube è illuminato da un sistema a LED ed è dotato di sensori high tech , che permettono il monitoraggio da
remoto della crescita e dello stato di salute delle piante. Tutti dati che vengono poi trasmessi ai ricercatori. “I piccoli impianti di coltivazione in assenza di suolo come GreenCube possono svolgere un ruolo chiave per soddisfare le esigenze alimentari dell’equipaggio, minimizzare i tempi operativi ed evitare le contaminazioni, ma non è da sottovalutare anche il beneficio psicologico. La coltivazione e il consumo di verdura fresca richiamano l’ambiente terrestre e una familiarità di abitudini in grado di contrastare lo stress dovuto alle condizioni di isolamento in un ambiente artificiale” continua Luca Nardi. “Poi, gli organismi vegetali sono anche in grado di rigenerare risorse preziose come aria, acqua e nutrienti minerali ”. Una volta terminato il progetto in orbita, è prevista un’ulteriore fase di sperimentazione a terra, che si svolgerà nel Centro di Ricerche ENEA di Casaccia, vicino Roma. “Non essendo possibile analizzare i campioni biologici di un satellite che rimarrà nello spazio verranno scaricati e analizzati i dati ambientali e quelli estratti dalle immagini ottenute dalla telecamera di bordo. L’obiettivo è di ripetere quanto più possibile l’esperimento a terra, in condizioni simili a quanto avvenuto nello spazio - simulando quindi in laboratorio ipobaria, radiazioni e microgravità - per poter verificare e comprendere meglio i risultati ottenuti”.
Che l’uomo possa sopravvivere nello spazio è ormai assodato, ma la sfida è garantire una permanenza sostenibile di lungo periodo, riducendo al minimo l’approvvigionamento dalla Terra. Per questo, un altro tassello importante per favorire lo space farming e supportare la crescita delle piante al di fuori dell’atmosfera terrestre sono i sistemi biogenerativi , al centro di un altro progetto chiamato ReBus, coordinato e finanziato dall’Agenzia Spaziale Italiana (ASI), al quale partecipano ENEA, CNR, Istituto Superiore di Sanità, Thales Alenia Space, Kayser Italia, Telespazio e le Università degli Studi di Tor Vergata, Pavia e Federico II di Napoli. L’obiettivo? Riciclare gli scarti alimentari e fisiologici che derivano dalla presenza umana come fonte di sostanza organica da riutilizzare per la coltivazione. Come? Grazie a sistemi di decomposizione e compostaggio degli scarti, sviluppati nei laboratori di ENEA e basati sull’utilizzo di insetti e consorzi batterici, che, attraverso i loro processi di digestione, restituiscono fertilizzanti.
Sei un amante degli sport avventurosi? Allora sarai curioso di saperne di più sul coasteering, un’attività che può essere considerata un’evoluzione del canyoning, ma che si pratica tra le scogliere marine invece che tra le gole dei torrenti. Dall’equipaggiamento necessario ai luoghi più interessanti dove praticarlo, ecco tutto quello che ti serve sapere per iniziare.
Il coasteering è un’attività sportiva outdoor che si pratica nelle zone di mare, dove sono presenti delle scogliere. Si tratta di un trekking marino che si pratica lungo la costa, spostandosi tra le scogliere talvolta camminando, talvolta tuffandosi e nuotando. In questo modo, si ha la possibilità di esplorare al meglio la fascia intertidale, scoprendo cavità e grotte che, spesso, appaiono nascoste. Nato in Galles negli anni ’80, il coasteering si è ben presto diffuso in tutto il Regno Unito. In Italia, invece, è arrivato da pochi anni , anche se è già possibile praticarlo in diverse regioni, affidandosi a guide esperte e preparate.
Quando si sente parlare di coasteering come di un’attività che si pratica sulle scogliere si può pensare che si tratti di canyoning sul mare. Anche se sono due sport che hanno alcuni tratti in comune, canyoning e coasteering sono, in realtà, molto diversi . Il canyoning , conosciuto anche come torrentismo, è un’attività che si pratica in montagna e consiste nella discesa dei torrenti che scorrono nei canali rocciosi, senza l’impiego di canoe, kayak o gommoni. L’unica attrezzatura prevista sono le corde, che vengono usate per calarsi nei tratti verticali dei canali. Il coasteering , invece, si pratica in mare, su coste rocciose. Può essere considerato come un trekking marino su scogliera. Normalmente non prevede l’utilizzo di corde o imbragature perché si rimane sempre a stretto contatto con l’acqua, senza spingersi troppo in alto sulla scogliera.
Dalla Liguria a Pula, senza dimenticare la Toscana
Se fino a qualche anno fa per praticare il coasteering si doveva necessariamente andare all’estero, oggi è possibile praticarlo anche in Italia . Le tre regioni italiane in cui si ha la possibilità di cimentarsi in questo trekking su scogliera sono la Liguria, la Tosca-
na e la Sardegna. E non preoccupatevi dell’inverno: non c’è un periodo dell’anno in cui non si possa praticare il coasteering. In Italia, infatti, le temperature esterne nelle zone costiere raramente scendono sotto i 10°, così come la temperatura dell’acqua. Partiamo dalla Riviera di Levante: situata a metà tra le località di Portofino e Santa Margherita Ligure, la Baia di Paraggi è famosa in tutto il mondo per le acque cristalline, le bellissime spiagge e il panorama mozzafiato. Paesaggio che, grazie al coasteering, si ha la possibilità di conoscere da un punto di vista del tutto inedito e in totale sicurezza, dal momento che l’ingresso nella baia è interdetto ai natanti a motore. Situata nel territorio di Alghero, all’interno del Parco di Porto Conte, l’area protetta di Capo Caccia è un luogo di straordinaria meraviglia, caratterizzato da falesie a picco sul mare modellate dal tempo e dagli agenti atmosferici, grotte aeree e sommerse e rare forme di vita come il corallo. Proprio la particolarità del territorio rende questa zona perfetta per praticare il coasteering e svelare i suoi tesori più nascosti. Spostandosi verso il sud della Sardegna , invece, si ha la possibilità di ricalcare in modo totalmente inedito l’antica strada romana che collegava le città di Bithia e Nora ed esplorare la zona costiera tra Pula e Chia , in provincia di Cagliari, divertendosi a salire e scendere dalle scogliere ed ammirare le bellezze della macchia mediterranea.
La Toscana è però la prima regione italiana in cui si è iniziato a praticare il coasteering e dove, ancora oggi, si può svolgere questa attività divertendosi ad arrampicarsi su e giù per le scogliere seguendo un percorso totalmente inedito. La zona dove si può sperimentare il coasteering è quella della Riserva naturale di Calafuria , che si trova a sud di Livorno. Il percorso sul quale possono cimentarsi gli appassionati di questo sport, a differenza degli altri presenti in Italia, comprende anche una zip-line, ovvero una teleferica sull’acqua, che rende l’avventura ancora più emozionante.
Se ti piace vivere le tue avventure all’aria aperta anche fuori dall’Italia, in Europa potrai trovare diverse località in cui cimentarti nell’attività del coasteering. Partiamo dal posto dove questo sport è nato, e più precisamente dal Galles sud-occidentale. Il luogo migliore per praticare coasteering in questa zona della Gran Bretagna sono di sicuro le coste del Pembrokeshire, inserite tra le migliori avventure da provare dalla guida Lonely Planet, e con-
siderate uno dei migliori luoghi da visitare dal National Geographic Magazine.
Oltre che in Galles, per praticare coasteering ci si può avventurare anche tra le scogliere dei selvaggi paesaggi delle Ebridi esterne in Scozia, sull’isola di Lewis e Harris.
Per chi ama invece la bellezza un po’ selvaggia della costa del nord della Francia, c’è la possibilità di cimentarsi nel Raid Canyon di Plougonvelin, in Bretagna , a pochi chilometri dalle isole di Jersey e Guernsey. Molto affascinanti sono anche i percorsi della baia di Ecalgrain, in Normandia, nel dipartimento della Manche.
Se il mare del Portogallo è quello dove ami tuffarti appena ne hai l’occasione, avrai la possibilità di esplorarlo in maniera del tutto inedita praticando coasteering sulle scogliere dell’Algarve, ma anche nella zona di Sesimbra, nella regione di Lisbona. Qui potrai trovare dei panorami naturali mozzafiato, con bellissime spiagge e grotte, come la Praia do Meco e la grotta Zambujal. In questa località sono disponibili percorsi per atleti più o meno esperti.
La birra è molto più di una semplice bevanda. È il portale di accesso a un mondo fatto di storie, tradizioni, tecniche affinate dai mastri birrai nel corso di molti secoli. Per questo, un birrificio non è solo un luogo dove viene prodotta una bevanda, ma un microcosmo. Così, spesso, attorno ai birrifici si sono sviluppati musei e percorsi esperienziali talvolta inaspettati ma di sicuro fascino. Ecco una mappa per scoprire i più interessanti.
Un itinerario attraverso le città, i birrifici storici e i musei della birra non può che iniziare a Monaco di Baviera, considerata, da molti, la Capitale della Birra. È in questa città che ogni anno si tiene la manifestazione più famosa al mondo dedicata a questa storica bevanda: l’Oktoberfest .
Durante l’evento, che è stato esportato in tutto il mondo, si possono gustare le birre di sei storici birrifici, chiamati anche le Sei Sorelle, antichi produttori di birra un tempo ammessi alla Corte di Baviera. Uno di essi, Augustiner, non è solo il più antico birrificio della città, ma anche il proprietario di uno degli oltre 100 giardini della birra (Biergärten) presenti in città
Cosa sono i Biergärten?
I Biergärten, letteralmente “giardini della birra” fanno parte di una tradizione tutta bavarese. Si tratta di piccoli birrifici situati all’aperto, all’interno di veri e propri giardini. La loro storia è abbastanza recente. Risale, infatti, al XIX secolo ed ha inizio proprio nella città di Monaco di Baviera.
In quest’epoca, per mantenere al fresco la birra durante i mesi estivi, i birrifici della città scavarono delle profonde fosse lungo le rive del fiume Isar, e piantarono degli alberi di castagno per aumentare la frescura. Queste zone, in seguito, vennero dotate anche di tavoli e sedie, dove le persone potevano sedersi a sorseggiare una birra fresca. A causa di un decreto reale, inizialmente nei Biergärten non era possibile servire cibo. Oggi, invece, nei “giardini della birra” si possono gustare anche i cibi della tradizione. Tra i più famosi Biergärten di Monaco, oltre a quello del birrificio Augustiner, ci sono il Chinesischer Turm , all’interno dell’Englisher Garten, Insel Mühle e Zum Flaucher
Weihenstephaner: il più antico birrificio al mondo
Per la seconda tappa di un viaggio tra i birrifici storici c’è da andare poco distanti. È vicino alla città di Monaco, e precisamente a Freising, dove sorge quello che è considerato il più antico birrificio del mondo, il Weihenstephaner. È nell’abbazia benedettina di Weihenstephan, infatti, che i monaci iniziarono a usare il luppolo per produrre la birra già nel lontano 768, ma l’anno in cui ottennero ufficialmente l’autorizzazione per la produzione di questa bevanda è il 1040. Visitando il birrificio, è possibile fare un viaggio attraverso i suoi mille anni di storia e gustare i diversi tipi di birra che ancora oggi produce.
La birra olandese è di sicuro tra le più famose al mondo e la città di Amsterdam è una delle tappe imprescindibili di un itinerario alla scoperta di tutto ciò che ruota attorno a questa bevanda. È qui, infatti, che sono nati due tra i marchi più famosi al mondo: Amstel e Heineken . Quest’ultimo offre agli appassionati di birra un tour multisensoriale attraverso la vecchia fabbrica del marchio: la Heineken Experience. Il tour inizia dalla sala in cui sono conservate le antiche cisterne in rame, dove si maceravano l’orzo ed il luppolo, e i
grandi bollitori e fermentatori impiegati nella produzione. Qui è anche possibile gustare un assaggio di quella che diventerà la futura birra Heineken. La parte successiva del tour comprende una simulazione in 4D che permette al visitatore di immergersi totalmente nel ciclo di produzione della birra. Il percorso termina nell’area degustazione del bar della fabbrica. Nella capitale dei Paesi Bassi, oltre a questo percorso offerto da Heineken, è possibile scoprire tanti piccoli microbirrifici artigianali , come il birrificio Brouwerij ‘t IJ, situato proprio accanto a uno dei pochi mulini ancora presenti in città.
Situata in Boemia, a circa un’ora e mezza dalla capitale della Repubblica Ceca, la città di Plzeň è il luogo in cui è nata la famosa birra Pilsner, la cui produzione è iniziata nel 1842. All’interno del birrificio, situato nel centro storico della città, si trova il Museo del Birrificio, che percorre la storia della birra e l’evoluzione dei metodi produttivi attraverso i secoli. Particolarmente interessanti sono le cantine di epoca medievale, la ricostruzione degli interni di una birreria di fine ‘800, e il modello funzionante della sala di cottura di un birrificio a vapore.
Biella e il MeBo, il Museo della Birra e del Formaggio
Per la quinta tappa del nostro itinerario ci spostiamo in Italia, e precisamente a Biella, dove ha sede il birrificio più antico d’Italia, quello di Menabrea È qui, nel cuore della città piemontese che, in collaborazione con il caseificio Botalla, è nato il MeBo, il Museo della Birra e del Formaggio. Questo offre ai visitatori la possibilità di conoscere la storia e i segreti del birrificio attraverso i macchinari, gli utensili e gli strumenti usati dai mastri birrai, i documenti e le testimonianze fotografiche qui custodite. Parallelo al percorso di scoperta della storia del birrificio corre quello che porta il visitatore alla scoperta del mondo del formaggio, tra curiosità e aneddoti storici sul processo di produzione, come il motivo per cui il formaggio viene realizzato in forme rotonde.
Anderlecht e il museo della birra della Brasserie Cantillon
Nel comune di Anderlecht, che si trova nella regione di Bruxelles-Capitale, si trova la Brasserie Cantillon, birrificio che è considerato tra i custodi del Lambic, una tipologia di birra a fermentazione spontanea. Qui è possibile visitare uno dei musei della birra più famosi al mondo, perché permette ai visitatori di vedere da vicino i macchinari e gli strumenti che vengono utilizzati ancora oggi per realizzare le ottime birre che portano il marchio Cantillon. Quest’ultimo, dal 2003, utilizza solo cereali biologici per la produzione della sua birra e propone diversi prodotti che possono fregiarsi del marchio Ecocert.
Dal continente ci spostiamo verso le isole britanniche, e precisamente in Irlanda, nota non solo per i suoi pub, ma anche per la birra che viene prodotta proprio nella sua capitale, la Guinness. Chi vuole saperne di più su questa iconica birra, prodotta a Dublino dal 1759, può visitare la Guinness Storehouse, dove i visitatori vengono accompagnati alla scoperta della storia di una delle birre scure più famose al mondo e hanno la possibilità di gustare un boccale di stout con il proprio selfie stampato sulla schiuma.
Concludiamo l’itinerario tornando sul continente per scoprire una curiosità sul mondo della birra che, oltre ad essere una bevanda tra le più apprezzate di sempre, è diventata, in anni recenti, un vero e proprio trattamento di bellezza. Sono diversi i luoghi, in Europa, dove ci si può concedere una giornata alla Spa facendosi coccolare dalla birra. Una delle Spa che offrono trattamenti a base di birra si trova a Budapest, in Ungheria. La Széchenyi Spa offre la possibilità di fare un bagno nelle acque termali mischiate a luppolo secco e lievito. In più, mentre si sta facendo il bagno, ci si può anche far spillare una pinta!
In Repubblica Ceca si trova un’altra celebre Spa della birra, la Chodovar Beer Spa, che offre ai suoi clienti diversi trattamenti a base di birra, compresi bagni e massaggi.
In Austria, invece, si può fare il bagno nella birra tra le mura di un vero castello. La Starkenberger Beer Spa è infatti situata proprio all’interno della dimora di Starkenberger ed ha un’offerta totalmente incentrata sulla birra, dai bagni in un prodotto al 100% naturale fino alle degustazioni.
Lotta allo spreco alimentare e nuove generazioni: se questo binomio funziona sempre di più è merito delle numerose startup, ideate da Millennials e Generazione Z, che combattono il food waste e si impegnano per il recupero di cibi che altrimenti finirebbero nella pattumiera.
Secondo una ricerca dell’Osservatorio Reale Mutua condotta nel 2021, infatti, un italiano su tre è interessato all’utilizzo di applicazioni che permettono di comprare a prezzi inferiori prodotti agroalimentari rimasti invenduti (da Too Good To Go a Squiseat e Phenix), oppure che aiutano nella gestione delle scadenze dei cibi (MyFoody) o che consigliano ricette anti-spreco (come Svuotafrigo).
Ma i giovani startupper non puntano tutto solo sulla tecnologia. C’è anche chi è più tradizionalista, come Camilla e Luca, classe 1988, che hanno scelto di aprire dei punti vendita fisici dove mettere in vendita i prodotti della terra di aziende agricole italiane scartati dalla grande distribuzione a causa di imperfezioni che non alterano in nessun modo la loro bontà (sono troppo grossi, hanno forme inusuali o piccoli difetti della buccia). Da qui il nome Bella Dentro, che oggi ha due negozi a Milano e anche un laboratorio di trasformazione della frutta e verdura imperfetta in succhi, confetture ed essiccati.
Per chi ormai è abituano a fare la spesa online, a sostenere il no-waste ci pensa Babaco Market con le sue box di frutta e verdura stagionale in abbonamento, con consegna a casa ogni settimana o quindici giorni.
Sempre più spesso si sente parlare anche del cosiddetto upcycled food, un fenomeno in esplosione negli USA (tanto da dare vita a un’associazione che lo regolamenta, la Upcycled Food Association) e soprattutto un altro modo intelligente per non sprecare scarti di cibo, che vengono reimmessi in vari modi all’interno della catena produttiva per dare vita a prodotti totalmente nuovi e anche molto diversi da quello originario. Se all’estero va forte Renewal Mill, fondata da due studenti di Yale nel 2016, che recupera lo scarto della lavorazione del tofu (l’okara) per trasformarlo in farine e biscotti, in Italia si parla tanto di Biova Project , un progetto di economia circolare che recupera il pane invenduto per trasformarlo in tre tipi di birra (lager chiara, ambrata e Ipa) e in snack a base di malto d’orzo, portando così a zero gli scarti della produzione.
Sono tanti i fronti su cui si sta muovendo Too Good To Go, forse la prima app che viene in mente quando si parla di food waste. E infatti nel 2021, secondo il Report App Annie, è stata la più scaricata in Italia nel settore Food&Drink. L’idea è semplice quanto geniale, perché mette in contatto i consumatori con esercenti (bar, ristoranti, forni, pasticcerie, supermercati e hotel) che a fine giornata hanno cibo che avanza e che finirebbe nei rifiuti, nonostante sia ancora commestibile, solo perché non può essere rimesso in vendita il giorno dopo (da qui il nome “Troppo buono per essere buttato”). Basta geolocalizzarsi, cercare i locali aderenti, ordinare la propria Magic Box (che viene venduta a un prezzo ridotto), pagarla tramite l’app e andarla a ritirare nella fascia oraria specificata per scoprire cosa c’è dentro.
In Italia Too Good To Go è attiva in oltre 600 comuni , conta più di 6 milioni di utenti e ha permesso di salvare 9 milioni di pasti. Tutto si è concretizzato nel 2015, a Copenaghen, a partire dalle chiacchierate di alcuni studenti di varie nazionalità che, davanti allo spreco di cibo nei bar e nelle mense universitarie, hanno iniziato a ragionare su come poterlo salvare dalla pattumiera. Prima è nato un sito web, e poi l’app, che già nel 2016 inizia a prendere piede al di fuori della Danimarca e oggi ha una fitta rete di sedi in gran parte d’Europa, ma anche negli Stati Uniti e in Canada, e, dal 2019 anche in Italia. Del gruppo di co-fondatori originari ne sono rimasti solo alcuni, tra cui Lucie Basch, che guida il team francese ed è stata premiata anche da Forbes come giovane talento dell’imprenditoria under 30. La CEO attuale invece è Mette Lykke, già famosa per aver lanciato altre startup di successo. Ad accomunare tutti la giovane età, che, come ci conferma anche Ilaria Ricotti, PR & Impact Manager della startup danese in Italia, va dai 25 ai 40 anni al massimo. “Il range di età medio è molto più basso rispetto agli standard italiani, e dipende anche dal fatto che proprio le giovani generazioni sono quelle più coinvolte nell’attivismo ambientale. Sono loro che si stanno impegnando in vari modi per assicurarci un futuro più ecosostenibile possibile”.
L’app è stata l’inizio, ma oggi c’è tanto di più. Quali sono i progetti paralleli che state portando avanti?
“ L’app è sempre il nostro motore e strumento di partenza, ma da quasi due anni ormai il team Impact, di cui faccio parte, sta lavorando a quello che noi chiamiamo Patto contro lo spreco alimentare, che è in espansione e si snoda in varie azioni tutte collegate dalla volontà di ingaggiare più persone possibile. Abbiamo coinvolto quasi 30 aziende partner che si stanno impegnando attivamente per sostenerlo. Tra le new entry, per esempio, ci sono Kellogg’s, Riso Scotti, Eridania e tante altre”.
“Azioni concrete e di sensibilizzazione, in modo graduale, contro lo spreco alimentare, tra i dipendenti ma anche tra i consumatori. A partire dalla cosiddetta etichetta consapevole, che invita a verificare la qualità degli alimenti dopo il termine minimo di conservazione (indicato dalla dicitura “da consumarsi preferibilmente entro”) grazie alla presenza di una frase distintiva “spesso buono oltre” e a una serie di pittogrammi che consigliano di “osservare, annusare, assaggiare” il prodotto prima di buttarlo dopo la data indicata. Pensa che secondo uno studio della Commissione Europea, sono 9 milioni le tonnellate di cibo sprecate ogni anno in Europa a causa di una scorretta interpretazione delle diciture. E poi, le aziende si impegnano anche a organizzare webinar, campagne informative, e limitare gli sprechi legati alle giacenze di magazzino che non hanno altra possibilità di essere utilizzate. Post Covid, davvero in tante si sono rivolte a noi proprio perché avevano prodotti rimasti invenduti a causa della chiusura di bar, negozi e ristoranti, e da lì abbiamo deciso di ampliare il raggio d’azione di recupero di questi prodotti, creando delle box ad hoc (mono e multi brand) acquistabili sempre tramite l’app”.
E in tutto questo, c’è spazio anche per la solidarietà.
“Sì, la Croce Rossa Italiana ha aderito al nostro Patto: così gli utenti possono acquistare tramite l’app una Magic Box da donare (il valore è sempre superiore al costo effettivo del pack) oppure fare una donazione in denaro, che sarà investita in progetti solidali individuati insieme a Too Good To Go. Allo stesso modo, le aziende del Patto possono destinare i prodotti rimasti in giacenza alla CRI”.
In che modo invece state pensando di indirizzare sulla retta via i consumatori del futuro?
“Il nostro impegno per le nuove generazioni si è materializzato proprio pochi mesi fa quando è uscito in libreria Il Manuale antispreco di Too Good To Go (Edizioni Piemme - Il Battello a Vapore), con l’obiettivo di insegnare alle generazioni future come valorizzare e prendersi cura delle nostre risorse. Tra le sue pagine, si possono sfogliare le regole d’oro per combattere lo spreco, ci sono illustrazioni, ricette e trucchi per riutilizzare gli scarti e si fa educazione ai consumi in base alla stagionalità delle materie prime. Insomma, è una guida per diventare un perfetto waste warrior, perché il futuro del nostro pianeta lo stiamo scrivendo già oggi”.
Cosa si impegnano a fare le aziende che aderiscono al Patto?
“Venezia
Si dice spesso che i libri siano portali verso mondi nuovi e sconosciuti. Che ci permettono di volare con la fantasia e di viaggiare anche restando a casa. Non c’è affermazione più vera, specialmente quando si parla di quei libri la cui storia si snoda tra le calli della Serenissima, permettendoci di conoscere la Venezia del presente e del passato (e fino al 2023, senza bisogno di pagare un ticket per visitarla).
Iniziamo il nostro viaggio attraverso i libri che, nel corso dei secoli, hanno avuto per protagonista Venezia proprio da un autore veneziano che nella sua città d’origine ha ambientato molte delle storie che ha scritto. Una di esse, “Stabat Mater”, è stata vincitrice del Premio Strega nel 2009. Il romanzo, ambientato nella Venezia del XVIII secolo catapulta il lettore nelle atmosfere baroccheggianti della città lagunare dell’epoca . Protagonista del racconto è Cecilia, una giovane che vive nell’orfanotrofio femminile del Pio Ospedale della Pietà. Di giorno Cecilia suona il violino nell’orchestra dell’orfanotrofio mentre di notte scrive lettere struggenti alla madre che non ha mai conosciuto. A portare una ventata di novità e di speranza nella vita di questa ragazza invisibile è l’incontro con il nuovo maestro di violino, Antonio Vivaldi.
“La morte a Venezia” è una delle opere più famose di Thomas Mann, una novella ambientata a Venezia divenuta celebre anche per la trasposizione cinematografica di Luchino Visconti, “Morte a Venezia”, del 1971. Il romanzo nasce dopo un viaggio a Venezia dello scrittore, che decide di ambientare tra le
vie del Lido un racconto che ha per protagonista Gustav Aschenbach . Aschenbach è uno scrittore che ha individuato la sua cifra stilistica nella fedeltà ai canoni classici dell’estetica e dell’etica. Preso da una strana irrequietezza, un giorno l’autore decide di intraprendere un viaggio che lo porta a Venezia. Qui, nella città della laguna, Aschenbach si ritroverà a vivere delle esperienze, come l’incontro con il giovane Tadzio, che fanno crollare tutte le sue certezze.
“Il mercante di Venezia” è una commedia in 5 atti scritta da William Shakespeare attorno alla metà del ’500. Le vicende narrate hanno per protagonisti il nobile Bassanio, giovane gentiluomo veneziano, che vorrebbe chiedere in sposa Porzia, ricca ereditiera di Belmonte. Per corteggiarla degnamente, Bassanio chiede al suo carissimo amico Antonio, chiamato il mercante di Venezia, 3.000 ducati in prestito. Antonio, per aiutare il suo amico, garantisce per lui presso Shylock, ricco usuraio ebreo. E sono proprio gli scorci e le atmosfere del quartiere ebreo della città che il celebre drammaturgo descrive tanto magistralmente in questa sua opera, che viene ancora oggi messa in scena in molti teatri d’Italia.
Di un autore che ha saputo raccontare con tanta maestria anche le atmosfere parigine, “Il caffè dei piccoli miracoli” è un libro capace di trasportare il lettore in un viaggio attraverso le calli
veneziane e fargli respirare l’aria densa di storia e magia che permea la città. Un viaggio che il lettore compie assieme a Nelly, la protagonista del romanzo, che dopo una cocente delusione d’amore decide di visitare Venezia, spinta dal segreto che scopre per caso in uno dei diari dell’amata nonna.
5. Corto Sconto. La guida di Corto Maltese alla Venezia nascosta, di Hugo Pratt
Una vera chicca per gli appassionati di una delle graphic novel che hanno fatto la storia . Illustrato da Guido Fuga e Lele Vianello, questo volume conduce il lettore attraverso sette itinerari, uno più affascinante dell’altro, alla scoperta della Venezia nascosta . Quella città lontana dai richiami per turisti, che si cela dietro un alone di mistero, da vivere perdendosi tra calli, campielli, piazzette e fondamenta.
6. Venezia è un pesce.
Una guida nuova, di Tiziano Scarpa
“ Sulla carta geografica, Venezia sembra un pesce e il ponte che la collega alla terraferma somiglia ad una lenza” è così che si presenta “Venezia è un pesce. Una guida nuova” di Tiziano Scarpa, must have nella libreria di chiunque abbia in programma un viaggio nella città lagunare, perché la racconta da una prospettiva inedita, dove non è una mappa a guidare il visitatore ma il cuore, totalmente travolto da questa città che ha orecchie, naso, bocca e occhi. Pubblicato per la prima volta nel 1998, nel 2020 il libro di Tiziano Scarpa dedicato alla sua
Venezia è stato oggetto di una riedizione che comprende anche un racconto di Guy de Maupassant.
7. Gli occhi di Venezia, di Alessandro Barbero
Questa volta a trasportarci nella Venezia cinquecentesca non è un autore dell’epoca, ma lo storico e scrittore Alessandro Barbero. “Gli occhi di Venezia” è un romanzo ambientato alla fine del ‘500, un’epoca in cui nella città, tentacolare e spietata, anche i muri hanno gli occhi e il Doge è noto per infliggere pesanti punizioni. Partendo dal racconto delle vicende del giovane Michele, costretto a lasciare la città e ad imbarcarsi, il libro ricostruisce la vita dei marinai sulle galere dell’epoca
8. Il libraio di Venezia, di Giovanni Montanaro
“Il libraio di Venezia” è un racconto che entra nel vivo di un evento straordinario quanto tragico: quell’acqua alta con cui i veneziani convivono da sempre che, nel 2019, è cresciuta in maniera eccezionale invadendo le strade, le case, i negozi, creando sgomento e dolore nei suoi cittadini.
Protagonisti della storia sono Vittorio e la sua libreria, la Moby Dick. Una di quelle librerie che, proprio come la misteriosa balena diventata ossessione per il capitano Achab, sono sempre lì, ad affrontare la vita con tenacia. Vittorio che vive per i suoi libri. Che si batte per continuare a venderli. E che, quando vede le pagine annegare, pensa che sia tutto perduto ma poi si riprende. Proprio come accade alla città e ai suoi abitanti, che trovano il coraggio di lottare e di rialzarsi, di rinascere.
Internet è uno strumento estremamente democratico che offre a tutti, ma proprio tutti, la possibilità di farsi conoscere e ritagliarsi un momento di celebrità. Compresi i nostri amici pelosi. Che vogliate chiamarli pupinfluencer, come li definisce simpaticamente il New York Times, o pet influencer, si moltiplicano a vista d’occhio gli animali che hanno un loro account sui Social Network e dettano le ultime tendenze nel mondo dei Pet Accessories; o, più semplicemente, riescono a strappare un sorriso, o una lacrimuccia, ai follower.
Quello dei pet influencer è un fenomeno che è nato e si è sviluppato appena una decina d’anni fa . A fare da apripista, come avviene per molte tendenze, a volte curiose, sono stati alcuni Paesi orientali, seguiti poi a ruota dagli Stati Uniti. Oggi non c’è Paese che non abbia almeno una o due pet star nel mondo dei social. Teneri, simpatici, commoventi, gli animali che sono riusciti a sfondare sul web diventando delle vere e proprie celebrità: non solo fanno breccia nei cuori dei loro follower (umani), ma riescono a influenzare le loro scelte, soprattutto per quanto riguarda l’ambito del pet food e dei pet accessories, tanto che sono sempre di più i brand che decidono di sceglierli come testimonial per i loro prodotti . Ma chi sono i pet influencer più amati e seguiti del web?
Jiff Pom, il cagnolino con oltre 10 milioni di follower
Uno tra i primi pet influencer ad essere diventati famosi è Jiff Pom, un simpaticissimo cagnolino di razza Pomerania che ad oggi può contare ben
oltre 10 milioni di follower tra i vari Social Network a cui è iscritto. Oltre ad aver partecipato a diversi film e a un video della cantante Katy Perry, è anche il detentore di un Guinness dei Primati per la sua velocità. Il cagnolino ha addirittura una sua linea di GIF chiamate Jiffmoji.
Juniper the Fox, la volpe salvata da un allevamento di animali da pelliccia
Molti degli animali divenuti famosi sui social sono protagonisti di storie a lieto fine, come nel caso di Juniper the Fox . Questa simpatica volpacchiotta, nata in cattività ed allevata come animale da pelliccia , è stata salvata dalla sua attuale proprietaria, Jessica Coker e vive in Florida. Il suo profilo Instagram, che conta quasi 3 milioni di follower, ospita foto e reel di Juniper e degli altri animali selvatici che la sua padrona ha salvato da morte certa.
Doug the Pug è un simpatico carlino che si definisce “il re della cultura pop ” e può vantare ben 3 milioni di follower su Instagram e addirittura 6 milioni di follower su TikTok. Viene ritratto dai suoi padroni in pose divertenti o vestito con costumi buffi. Doug è uno dei pet influencer che guadagnano di più in assoluto: uno dei suoi post sponsorizzati può arrivare a fruttare una cifra che si aggira attorno ai 17 mila dollari . Nel 2022 il simpatico carlino Doug ha festeggiato il suo decimo compleanno; per celebrare un traguardo così importante, ha anche pubblicato un libro di favole, “ Doug the Pug and the kindness crew ”, che vede il cagnolino protagonista di un’avventurosa missione per portare la gentilezza nel mondo.
Pumba,
Quella di Pumba è una storia commovente e a lieto fine che arriva dall’Italia e ha per protagonista questo simpatico maialino vietnamita nato in una fattoria vicentina. Sin dal momento in cui è nato Charley, il suo padrone, si è accorto che Pumba era più piccolo del normale. Crescendo, veniva emarginato dagli altri maiali e faticava ad adattarsi all’ambiente della fattoria a causa delle sue dimensioni. Quando la mamma di Charley si ammala di tumore, il ragazzo decide di togliere Pumba dal recinto e portarlo in casa, salvandolo da morte certa e offrendo alla sua mamma una ragione per lottare. Oggi Pumba è un maialino sano e felice, che vive in compagnia della cagnolina Laika e della gattina Alaska. Le sue imprese e quelle delle sue compagne di avventura si possono seguire sull’account social della fattoria che, grazie alla simpatia di Pumba ha quadruplicato i suoi follower da 50 mila a più di 200 mila.
Nala è una simpatica gattina che detiene il Guinness dei primati per essere il gatto con più follower in assoluto. Il suo successo social è dovuto ai suoi straordinari occhi azzurri e al leggero strabismo che, oltre alla popolarità, le sono valsi anche l’ingaggio come testimonial di una famosa linea di mangime.
Se frequenti spesso i social ti sarà capitato di imbatterti nella divertente immagine di Grumpy Cat, una simpatica gattina affetta da nanismo felino diventata famosa per la sua espressione perennemente imbronciata . Ancora prima che Instagram e TikTok aprissero la strada della celebrità per molti pet influencer, Grumpy Cat (nome d’arte di Tardar Sauce), era già diventata famosa grazie a una sua foto postata su Reddit . Oggi Tardar non c’è più (è morta nel 2019), ma il suo account Instagram è ancora attivo e continua ad essere seguito da migliaia di follower.
Seppia, il gatto imbronciato di Boccadasse
Anche in Italia abbiamo la nostra celebrità dall’aria imbronciata tra i pet influencer. Una fama, quella del gatto Seppia, che è nata spontaneamente. E che al povero animale ha causato anche qualche fastidio. Ma chi è Seppia? Il corrispettivo italiano di Grumpy Cat è un gatto che vive nel borgo marinaro di Boccadasse, nella città di Genova. La sua fama la deve alla sua espressione perennemente imbronciata, immortalata per caso da un giornalista. Da quando la foto è stata pubblicata, per chiunque passasse da Boccadasse era diventato un rito farsi una foto con il musetto imbronciato di Seppia e portargli qualcosa da mangiare. La sua fama è cresciuta talmente tanto che i creatori del film “Luca” hanno deciso di inserirlo nella pellicola . Peccato che questa fama non abbia giovato molto al nostro amico peloso, che si è ammalato a causa del cibo che gli veniva offerto dai suoi fan.
“Buttati, non ti vergognare, devi lasciarti andare”. Quante volte abbiamo sentito rivolgere questa frase a chi fatica nell’imparare una lingua straniera, come se fosse la chiave del successo.
Eforse lo è, ma non per tutti è così naturale seguire questo consiglio in un contesto un po’ rigido come quello dei classici corsi di gruppo, dove tutti gli occhi sono puntati addosso e l’insegnante incalza una risposta. Le cose cambiano in vacanza all’estero: siamo più rilassati, senza pressione, abbiamo meno paura di sbagliare, e spesso capita, quasi per magia, di ritrovarsi a chiacchierare con la gente del posto come se nulla fosse. Lo hanno capito anche le scuole che organizzano i corsi di lingue, ed è per questo che la loro offerta formativa sta cambiando. O meglio, si sta arricchendo di proposte alternative e divertenti. Certo, le lezioni di grammatica e pronuncia restano importanti e non spariranno mai, ma a queste si affiancano più esperienze culturali e ricreative, dove l’atmosfera è easy, ci si sbottona con più facilità su temi appassionanti, s’imparano modi di dire e ci si immerge davvero nella cultura del Paese.
Dall’aperitivo al corso di cucina, di canto o di teatro
” Per imparare una lingua non bisogna chiudersi in aula ma viverla!”. È così che si presenta su Instagram la scuola Prêt à parler, fondata da Géraldine Macé, insegnante madrelingua di francese che si è trasferita a Milano senza conoscere l’italiano, ma lo ha imparato chiacchierando all’ora dell’aperitivo, guardando la tv e frequentando anche un corso di teatro. Picnic in lingua e lezioni di cucina per imparare a fare i macarons sono stati i primi corsi che ha organizzato per insegnare il francese.
Da qui ne sono nati tanti altri, anche in inglese, spagnolo e italiano per stranieri, sempre sulla stessa lunghezza d’onda e con docenti madrelingua. Come i cine club, che funzionano così: prima si guarda da soli un film in lingua su Netflix e poi ci si incontra online per discuterne. Per chi ha un livello intermedio, Prêt à parler propone anche un corso di teatro in inglese, che vola tra esercizi di improvvisazione per migliorare la pronuncia e fare pratica nel parlare in modo più fluido e scorrevole, sciogliendo blocchi, timidezze e timori.
Tra le ultime novità, c’è anche il laboratorio “Chanter pour parler français”: l’insegnante è anche una cantante e insegna la sua lingua madre attraverso le canzoni di Edith Piaf e altre icone della musica d’oltralpe. Poi chi vuole anche canticchiare è il benvenuto!
Non mancano nemmeno le degustazioni di vini in inglese con un sommelier e gli aperitivi poliglotti, da qualche anno ormai diventati un must per chi vuole fare pratica di conversazione e farsi nuovi amici. Ce ne sono di tutti i tipi: in libreria (come quelli organizzati ogni settimana, sempre da da Prêt à parler, nei bistrot libreria RED La Feltrinelli di Milano), nei caffè, in biblioteca, o nelle associazioni culturali, come da Amaita Intercultura Roma Dopo l’aperitivo, se hai voglia di continuare a fare pratica di inglese anche a cena, la scuola di cucina salentina per stranieri “ The awaiting table” ha dato vita alla community Let’s speak English a tavola: al termine di ogni corso l’appuntamento è davanti a un piatto di orecchiette e la partecipazione è gratuita per chiunque abbia voglia di mettersi alla prova.
Il coreano è tra le lingue più difficili da imparare. Nonostante questo, la sua popolarità sta crescendo e l’offerta di corsi è sempre più ampia. Tanto che anche l’app di Duolingo ha lanciato i suoi corsi per imparare il coreano attraverso mini lezioni divertenti di 5 minuti al giorno. Il merito di quest’attenzione, soprattutto da parte dei più giovani, si deve senza dubbio anche al fenomeno musicale del k-pop (che sta per korean popolar music), un genere che arriva dalla Corea del Sud. Perché allora non cavalcare l’onda e sfruttare proprio i testi delle canzoni k-pop per imparare il coreano? Anche la scuola EF Education First lo inserisce tra le dritte per imparare questa lingua asiatica in modo efficace. Se l’idea vi piace, basta seguire il canale YouTube Fede KTV, dove Federica, una studentessa italiana a Seoul, spiega parola per parola alcuni testi delle canzoni del gruppo dei BTS, tra le band più conosciute. E se il k-pop funziona, allora anche cantare al karaoke può tornare utile. Punta sempre sulla
passione musicale e il coinvolgimento anche l’app Beelinguapp, dove oltre a utilizzare la modalità karaoke per cantare i testi delle tue canzoni preferite, puoi alternare l’ascolto di audiolibri in lingua E la varietà è un altro punto di forza: si va dal giapponese allo svedese fino all’hindi.
È il trend del momento e sui social spopolano: sono gruppi di incontro dove gli appassionati di lettura si confrontano e scambiano pareri sui libri. L’idea di sfruttarli anche per studiare una lingua straniera è di Antonia Mattiello, insegnante e traduttrice freelance che, tra i suoi corsi, ha pensato di proporre l’ English lovers bookclub, un workshop online per librofili su Zoom, strutturato in quattro incontri da 90 minuti l’uno, ognuno dedicato a un volume diverso. Anche la Rete Biblioteche Venezia ha avuto un’idea simile e propone un ciclo di incontri dove un insegnante della scuola Wall Street English racconta un romanzo per poi discuterne in gruppo Si chiama Travelling Book Club e coinvolge cinque biblioteche comunali.
Cassa di Trento si unisce a Cassa Rurale Alta Vallagarina e Lizzana.
La banca custode della comunità.
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